S T O R I E R O M A N E

 
Nel II secolo d.C. l'impero romano raggiunge la sua massima estensione sotto #Traiano. Gran parte delle legioni sono dislocate lungo il Danubio e il confine orientale, considerati i più a rischio. Non è un caso che nel III secolo, durante l'anarchia militare gran parte degli imperatori saranno o senatori o militari danubiani, considerando che quest'ultimi componevano metà dell'esercito romano e in quel periodo erano fortemente sotto pressione da parte dei barbari, specialmente i Goti. D'altra parte invece la Britannia da sola ospitava 3 legioni, un decimo del totale e quasi lo stesso numero di uomini che presidiavano il Reno. La Spagna manteneva una legione nonostante la pacificazione Augustea (unica legione rimasta molto all'interno del limes) e l'Africa aveva la sola III Augusta. L'Egitto infine presentava una situazione particolare perché era l'unica provincia ad avere un prefetto equestre e non un senatore e anche le legioni erano comandate da cavalieri: tale scelta fu un preludio al III secolo, momento in cui i cavalieri assumono totalmente il comando degli eserciti, mentre i senatori finiscono per dedicarsi alla politica e ai loro latifondi.
 
«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Arminio con gli altri capi si fermò su la riva e domandò se Cesare era giunto. Gli fu risposto che era già lì; allora pregò che gli fosse consentito un colloquio con il fratello. Questi, di nome Flavio, militava nel nostro esercito ed era noto per la sua lealtà. Pochi anni prima, mentre combatteva agli ordini di Tiberio, per una ferita aveva perduto un occhio. Ricevuta l’autorizzazione, si fa avanti e Arminio lo saluta; poi fa allontanare la scorta e chiede che vadano via anche gli arcieri, schierati lungo la riva. Non appena se ne furono andati, Arminio domanda al fratello come mai ha uno sfregio sul volto. Questi allora gli riferisce il luogo e la battaglia dove è avvenuto e Arminio gli chiede quale compenso abbia ricevuto; Flavio gli comunica l’aumento di stipendio, il bracciale, la corona e le altre decorazioni militari ottenute; e Arminio schernisce la grama mercede avuta per essere schiavo. A questo punto si mettono ad altercare uno contro l’altro: uno esalta la grandezza di Roma, la potenza dell’imperatore, le gravi pene inflitte ai vinti, la clemenza accordata agli arresi; e gli assicura che sua moglie e suo figlio non sono trattati da nemici. L’altro ricorda la santità della patria, la libertà avita, gli dèi tutelari della Germania e la madre, che si unisce alle sue preghiere; e lo ammonisce a non disertare, a non tradire i suoi. Poco a poco scesero alle ingiurie e poco mancò che si azzuffassero e neppure il fiume che scorreva tra loro avrebbe costituito un ostacolo, se non fosse accorso Stertinio a calmare Flavio, il quale, infuriato, chiedeva armi e un cavallo. Sull’altra riva si scorgeva Arminio che in atteggiamento minaccioso ci sfidava a battaglia; nel suo parlare frammischiava parecchi vocaboli in latino, poiché aveva militato negli accampamenti romani come comandante dei suoi connazionali.»
(TACITO, ANNALES II, 9-10)
⁣La ritirata di Antonio dalla Partia fu un continuo di scaramucce e imboscate. Il comandante romano infine decise di avanzare in una formazione a quadrato, con ai lati gli armati alla leggera e la cavalleria, che attaccavano i parti e poi tornavano indietro quando si allontanavano troppo. L’eccesso di fiducia portò però Flavio Gallo a perdere contatto con l’esercito, mentre altri comandanti, forse per ripicca, gli mandavano rinforzi alla spicciolata. Dovette intervenire Antonio stesso ma fu troppo tardi. Gallo morì di lì a poco con quattro frecce nel petto, 3.000 erano i morti e 5.000 i feriti.⠀
Antonio passava il campo romano distrutto, mentre gli uomini nonostante tutto erano ancora legati a lui e lo salutavano imperator. Decise infine di fare un discorso a tutti i soldati, esortandoli a resistere. Ripresa la marcia, i parti attaccarono ancora. Ormai credevano che i romani fossero allo sbando. Antonio invece aveva dato l’ordine di formare una sorta di testuggine, con i legionari della prima fila in ginocchio e quelli dietro a coprire la testa con lo scudo e dietro di loro le truppe leggere, in modo da respingere le frecce partiche. Quest’ultimi interpretarono il gesto come un segnale di affaticamento e di un esercito prossimo alla resa, pertanto si avvicinarono incautamente credendo di dover soltanto finire i romani. Questi si lanciarono di gran foga contro i parti, che si diedero alla fuga.⠀
I parti continuavano però a inseguire Antonio, che pare recitasse in continuazione “o diecimila”, un chiaro riferimento all’Anabasi di Senofonte. Alla fine i romani riuscirono a salvarsi, ma le perdite furono terribili.⠀
 
 
Il 3 ottobre del 42 a.C. si svolgeva la prima battaglia di #Filippi: nel primo scontro Bruto ottenne la vittoria contro Ottaviano, irrompendo nel suo accampamento, mentre Antonio ebbe la meglio con Cassio. Il quale tuttavia, credendo che anche Bruto fosse sconfitto, si suicidò. La successiva battaglia del 23 ottobre vide la completa vittoria dei Cesariani. Ne uscì particolarmente rafforzata la figura di Antonio, vero vincitore della battaglia, ma che tuttavia non ne seppe approfittare del tutto, cadendo di lì a poco nella seduzione di #Cleopatra, mentre Ottaviano si riprendeva alcune province occidentali tenute da Antonio come la Gallia e stabiliva il suo dominio, dopo il rinnovo del triumvirato nel 37 a.C. e la vittoria su Sesto Pompeo l'anno successivo, su tutto l'occidente romano.
 
 
3-23 OTTOBRE 42 a.C: la battaglia di Filippi
In una piana della Macedonia poco distante dal Mar Egeo, alle pendici del monte Pangeo, si è combattuta una delle battaglie più importanti della storia romana: la battaglia di Filippi, che vide Antonio e Ottaviano trionfare contro Bruto e Cassio.
Due furono le fasi dello scontro, combattute rispettivamente il 3 e il 23 ottobre del 42 a.C. Decisiva fu l'esperienza tattica e militare di Antonio, mentre Ottaviano, in precarie condizioni di salute e privo di grandi doti militari, ebbe un ruolo minore.
Nella prima battaglia, Bruto ottenne un brillante successo irrompendo dentro gli accampamenti di Ottaviano, ma contemporaneamente Antonio ebbe la meglio su Cassio che, sconvolto dalla sconfitta e non informato del successo di Bruto, si suicidò con la stessa daga con cui aveva pugnalato Giulio Cesare.
Il 23 ottobre si consumò l'atto finale. Racconta Plutarco che la notte prima della battaglia, Bruto ricevette la visita dello spirito di Cesare. Quando Bruto chiese all'ombra: «Chi sei tu?» egli rispose: «Sono il tuo cattivo demone, Bruto, ci rivedremo a Filippi.» Bruto, senza perdersi d'animo, rispose: «Ti rivedrò»
Antonio diresse con grande energia il suo attacco, mettendo in rotta l'esercito dei Cesaricidi, mentre Ottaviano dispose le sue truppe in maniera strategica per impedire la fuga del nemico. Vedendosi perduto, Bruto si tolse la vita trafiggendosi con la sua spada.

 

"[Dopo la fuga di Pompeo da Roma, Cesare] Trovò la città più ordinata di quanto si aspettava, con un gran numero di senatori, ai quali fece un discorso benevolo e conciliante, esortandoli a mandar messi a Pompeo per un ragionevole accordo. Ma tutti si rifiutarono, vuoi perché temevano che Pompeo potesse vendicarsi per essere stato abbandonato, vuoi perché credevano che Cesare la pensasse diversamente e si servisse di quelle belle parole per nascondere le sue reali intenzioni. Fatto sta che quando Metello, tribuno della plebe, cercò d’impedirgli di attingere denaro dalle casse dello Stato, citando alcune norme in proposito, esclamò: «In tempo di guerra leggi di guerra. Se quel che faccio non ti sta bene, fuori dai piedi!». E aggiunse: «La guerra non consente libertà di parola: quando saremo giunti ad un accordo e avrò deposto le armi, allora potrai fare il demagogo. E bada che così facendo rinuncio ai miei diritti, in quanto tu e tutti gli altri siete nelle mie mani». Ciò detto, si avviò verso la porta della stanza in cui giaceva il tesoro, ma le chiavi le avevano i consoli, e allora, chiamati dei fabbri, ordinò di spezzare i battenti. Ancora una volta Metello, spalleggiato da alcuni, cercò di opporsi, al che Cesare, alzando la voce: «Ragazzino, se non la smetti d’infastidirmi ti ammazzo! E tu sai che mi è più facile farlo che dirlo». Metello, spaventato, si tirò indietro e lasciò che fosse dato subito e agevolmente a Cesare ciò che gli bisognava per la guerra." (Plutarco, Cesare, 35)
______"[Dopo la fuga di Pompeo da Roma, Cesare] Trovò la città più ordinata di quanto si aspettava, con un gran numero di senatori, ai quali fece un discorso benevolo e conciliante, esortandoli a mandar messi a Pompeo per un ragionevole accordo. Ma tutti si rifiutarono, vuoi perché temevano che Pompeo potesse vendicarsi per essere stato abbandonato, vuoi perché credevano che Cesare la pensasse diversamente e si servisse di quelle belle parole per nascondere le sue reali intenzioni. Fatto sta che quando Metello, tribuno della plebe, cercò d’impedirgli di attingere denaro dalle casse dello Stato, citando alcune norme in proposito, esclamò: «In tempo di guerra leggi di guerra. Se quel che faccio non ti sta bene, fuori dai piedi!». E aggiunse: «La guerra non consente libertà di parola: quando saremo giunti ad un accordo e avrò deposto le armi, allora potrai fare il demagogo. E bada che così facendo rinuncio ai miei diritti, in quanto tu e tutti gli altri siete nelle mie mani». Ciò detto, si avviò verso la porta della stanza in cui giaceva il tesoro, ma le chiavi le avevano i consoli, e allora, chiamati dei fabbri, ordinò di spezzare i battenti. Ancora una volta Metello, spalleggiato da alcuni, cercò di opporsi, al che Cesare, alzando la voce: «Ragazzino, se non la smetti d’infastidirmi ti ammazzo! E tu sai che mi è più facile farlo che dirlo». Metello, spaventato, si tirò indietro e lasciò che fosse dato subito e agevolmente a Cesare ciò che gli bisognava per la guerra." (Plutarco, Cesare, 35)
«#Cesare, riunite le insegne della XII #legione, i soldati accalcati erano d’impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta #coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch’egli, dopo aver perduto l’insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti […] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i #Romani […] Cesare vide che la situazione era critica […] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file […] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l’arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d’animo […] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l’attacco nemico fu in parte respinto. Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità […] Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un’altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.»
CESARE, DE BELLO GALLICO, II, 25-26
 
 
  «C’erano in quella legione due centurioni, due uomini coraggiosissimi, che già si avviavano a raggiungere i gradi più alti, Tito Pullone e Lucio Voreno. Erano in continua competizione tra di loro, per chi dei due sarebbe stato anteposto all’altro, e ogni anno lottavano con accesa rivalità per far carriera. Mentre si combatteva con grande accanimento sulle fortificazioni, Pullone disse: «Che aspetti Voreno? Che promozione vuoi avere come premio per il tuo coraggio? Questa è la giornata che deciderà delle nostre controversie». Detto questo, esce allo scoperto e irrompe dove più fitto è lo schieramento nemico. Neppure Voreno, allora, resta al coperto ma, temendo il giudizio degli altri, lo segue. Quasi addosso al nemico, Pullone lancia il giavellotto e trapassa uno dei loro che, staccatosi dal gruppo, correva ad affrontarlo. I nemici lo soccorrono esanime, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti lanciano frecce contro di lui, bloccandolo. Un’asta trapassa lo scudo di Pullone e si conficca nel balteo, spostando il fodero della spada e, mentre egli si trova impacciato e perde tempo nel tentativo di estrarre l’arma, viene circondato dai nemici. Il suo avversario, Voreno, si precipita a soccorrerlo nella difficile situazione. Tutta la massa dei nemici si volge allora contro Voreno, ritenendo l’altro trafitto dall’asta. Voreno si batte corpo a corpo con la spada e, ucciso un nemico, respinge gli altri di poco, ma mentre incalza con foga, cade scivolando in una buca. Circondato a sua volta, viene aiutato da Pullone e ambedue, dopo aver ucciso molti nemici e acquistato grande onore, riparano incolumi all’interno delle fortificazioni. Così la fortuna volle, nella contesa e nel combattimento, che, sebbene avversari, si recassero reciproco aiuto e si salvassero l’un l’altro la vita, e non si potesse stabilire quale dei due fosse il più coraggioso.»
CESARE, DE BELLO GALLICO, V, 44
 
Il 9 aprile 193 Settimio Severo diventava #imperatore: «Severo ordinò che i #pretoriani gli andassero incontro indossando solo la tunica. E così inermi li convocò presso il palco, dopo aver dislocato tutt’intorno soldati armati. Poi, entrato in Roma, sempre armato e scortato da soldati armati, salì al #Campidoglio. Di là, con lo stesso apparato, si recò a Palazzo, preceduto dalle insegne che aveva tolto ai pretoriani, tenute con le punte non erette, ma rivolte verso il basso. Quindi, per tutta la città, i soldati si installarono nei templi, nei portici, nei palazzi del #Palatino come se fossero alberghi, e l’ingresso di Severo risultò quindi odioso e spaventevole, ché i soldati facevano razzia di tutto senza pagare, minacciando di mettere a sacco l’intera città. Il giorno successivo si recò in senato, scortato non solo da soldati, ma anche da una schiera di amici armati. In quel consesso diede ragione della sua iniziativa di assumere il potere, e addusse a giustificazione il fatto che Giuliano aveva mandato per farlo uccidere dei sicari noti per aver già ucciso dei generali. Fece inoltre promulgare un decreto senatorio in base al quale non fosse consentito all’imperatore mettere a morte un senatore, senza aver consultato il senato stesso. Ma mentre si trovava ancora nella curia, i soldati tumultuando richiesero al senato diecimila sesterzi a testa, appellandosi all’esempio di quelli che avevano scortato in Roma #Ottaviano #Augusto, e avevano ricevuto appunto tale somma. E, dopo aver tentato di metterli a tacere senza riuscirvi, Severo poté tuttavia farli ritirare placandoli con la concessione di un donativo. Poi rese all’immagine di Pertinace onori funebri di rango censorio, e lo consacrò dio, decretandogli un flamine e una confraternita di sacerdoti Elviani – quelli che prima erano stati i Marciani. Volle pur egli essere chiamato #Pertinace, anche se in seguito decise di deporre questo nome, considerandolo di cattivo augurio. Quindi pagò tutti i debiti degli amici.» (Historia Augusta, Settimio Severo, 6, 11 - 7,9)
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Potrebbe essere un'immagine raffigurante una o più persone e persone in piedi
 
 
 



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La schiavitù nella Roma imperiale
La propensione romana all’assimilazione di genti straniere (e della popolazione schiavile) si perde nella leggenda, secondo cui fu lo stesso Romolo ad istituire un asylum per attrarre uomini dalle zone circostanti. Per quanto riguarda la schiavitù la legislazione romana arcaica prevedeva anche una perdita della libertà come pagamento; infatti si potevano dare in schiavitù i propri figli per pagare i debiti. Essi poi, nel caso le cose si fossero messe bene, sarebbero stati “riacquistati” dal padre, che li avrebbe manomessi e reintegrati nella loro condizione di figli, trasmettendo loro i suoi beni.
Ciò spiega in parte la facilità con cui gli schiavi non solo venivano frequentemente liberati, in particolare quelli domestici, ma anche perché, se il loro ex padrone, ora patrono, era cittadino romano essi acquisivano la cittadinanza romana. Erano certo legati al loro patrono da alcuni vincoli, e avevano diritti politici limitati, ma i loro figli sarebbero stati “ingenui“, cioè nati liberi, come qualsiasi altro cittadino romano. I nati liberi potevano diventare cittadini in molti modi, di cui il più diffuso era il servizio nell’esercito. Generalmente i notabili delle province ricevevano la cittadinanza. In tal modo essi erano meno propensi a creare disordini e, allo stesso tempo, diffondevano un modello di vita romano-ellenistico; altro modo (più raro) era farne richiesta.
La schiavitù a Roma
La percentuale di schiavi nella società è sconosciuta, sebbene le stime oscillino tra il 10 e il 30%. Considerando il caso limite di Sparta e che il rapporti iloti/Spartani secondo Erodoto era di 7 a 1, si può dire che l’uso di schiavi a Roma era in linea con quello di tutti i popoli mediterranei antichi. Le funzioni degli schiavi invece erano le più disparate: braccianti agricoli, lavori forzati nelle miniere, schiavi domestici, prostitute, gladiatori, commercianti, maestri fino a salire la scala sociale dove troviamo schiavi che amministrano le enormi ricchezze del proprio padrone e gli schiavi imperiali.
Una mansione particolare di molti schiavi fu quella di gladiatori. Questi erano una passione dei Romani; i gladiatori non erano tutti schiavi, c’erano anche liberti e liberi (i depugnandi auctorati causa). Si può dire che per uno schiavo essere scelto come gladiatore era quasi una fortuna: i combattimenti erano pochi, ma ricevevano una buona sistemazione, un’ alimentazione di discreta qualità (dovevano allenarsi e combattere) e cure mediche, possibilità precluse alla maggior parte della popolazione. Se erano bravi a combattere potevano ricevere in premio la libertà, e a meno che non fossero stati damnati ad ludum, ricevevano anche la cittadinanza romana o latina.
Le pene erano l’elemento più pericoloso per gli schiavi, visto che in quanto oggetti erano a quasi totale discrezione del padrone. Potevano essere torturati in molti modi, ed erano riservate loro le pene peggiori, compresa la crocefissione. Tuttavia a partire da Silla gli schiavi non potevano essere uccisi senza giusto motivo (Lex Cornelia dell’ 82 a.C.); La Lex Petronia del 32 d.C. proibiva invece al padrone di imporre allo schiavo di combattere dell’ arena senza la sentenza di un giudice. All’ aumentare del prestigio della loro funzione aumentano le possibilità di essere liberati; gli schiavi imperiali possono essere considerati quasi una classe a metà tra quella degli schiavi e quella dei liberti vista la loro importanza e posizione.
Legislazione imperiale
La Lex Fufia Caninia del 2 a.C. stabiliva in modo rigoroso quanti schiavi potessero essere manomessi dal padrone tramite testamento. Il numero diminuiva all’aumentare degli schiavi posseduti. Questa norma cercò di contenere l’ aumento incontrollato della popolazione libertina avvenuto durante la tarda Repubblica. Pochi anni dopo, nel 4 d.C., la Lex Aelia Sentia regolamentava e restringeva la possibilità dei liberti di diventare cittadini romani. Infatti, se si erano macchiati di gravi reati o se avevano combattuto contro Roma, sarebbero diventati peregrini dediticii, ovvero il più basso gradino della scala sociale per quanto riguarda la popolazione libera. Inoltre la legge conteneva una serie di disposizioni, piuttosto precise, per acquisire legittimamente la cittadinanza romana.
Il Senatus Consultum Silanianum, nel 10 d.C., in controtendenza con la legislazione imperiale, inaspriva la situazione degli schiavi, i quali sarebbero stati ritenuti tutti colpevoli nel caso uno di loro avesse ucciso il padrone. Ulteriori disposizioni furono prese nella Lex Iunia Norbana, del 19 d.C., che regolava la liberazione di schiavi in via informale. Essa prevedeva che i liberti sarebbero stati Latini Iuniani, ossia cittadini latini con diritti limitati. Possedevano soltanto lo ius commerci, il diritto a commerciare. Infine il loro patrimonio veniva ereditato dal patrono (o dai suoi discendenti).
La Lex Visellia de libertinis, nel 24 d.C., proibiva ai liberti di accedere alle cariche municipali, ma lasciava loro la possibilità di accedere al sevirato augustale. Inoltre potevano ottenere come onorificenza dai senati locali gli ornamenta decurionalia. Tuttavia è possibile che questa legge venisse aggirata dai liberti facendosi adottare da cittadini romani ingenui. Il Senatus Consultum Claudianum, nel 52 d.C. prevedeva che se una donna intratteneva relazioni sessuali con uno schiavo, nel caso avesse continuato dopo tre diffide, sarebbe diventata essa stessa schiava del padrone (secondo il diritto romano i figli illegittimi seguivano la condizione giuridica della madre).
La libertà
Gli schiavi erano frequentemente liberati a Roma. Ma ciò che contraddistingue meglio i Romani da tutti gli altri popoli antichi era che una volta liberati essi diventavano cittadini romani. Ad Atene uno schiavo liberato era un meteco: la stessa condizione di un greco immigrato nell’ Attica. I Greci, o meglio alcuni di loro, si accorsero quando era troppo tardi che la politica romana riguardo gli schiavi era vincente. Diceva infatti Filippo V di Macedonia, mentre era in guerra con Roma nel 214 a.C., ai cittadini di Larissa:
” Se i cittadini di pieno diritto saranno nel numero più alto possibile, la vostra polis sarà forte e i vostri campi non rimarranno incolti, come sono ora per vostra vergogna. Questa è la meta cui dovete mirare, e io penso che nemmeno fra voi si udirà una sola voce contraria. Voi avete avuto modo di osservare altre comunità che seguono una politica liberale nell’ estensione della cittadinanza. Un buon esempio è quello di Roma: quando i Romani affrancano i loro schiavi li ammettono in seno alla loro cittadinanza e consentono loro di accedere alle cariche pubbliche. Grazie a questa politica, essi non hanno soltanto reso più grande la patria, ma sono anche riusciti a inviare colonie in poco meno di settanta località.”
In questo caso Filippo però sbaglia palesemente quando dice che i liberti possono accedere alle cariche pubbliche. Forse ha nascosto la verità per ignoranza o perché non voleva indebolire il suo discorso. Quel che è vero è che i liberti potevano comunque partecipare ai comizi; la Lex Visellia del 24 d.C. fu però un duro colpo dato che proibì loro non solo le magistrature di Roma ma anche l’accesso alle cariche municipali.
Esistevano due modi perché uno schiavo ottenesse la libertà: essere liberato dal proprio padrone o comprandosela. Ogni schiavo (almeno quelli che vivevano in città) infatti possedeva un proprio peculium, ovvero una somma (denaro, schiavi o immobili) data dal padrone allo schiavo per farli fruttare. Se lo schiavo era bravo poteva far fruttare la somma; questo peculium accresciuto sebbene fosse di proprietà del padrone, il quale poteva (nella teoria, smentita dalla prassi, in cui era il più delle volte una specie di usufrutto) toglierlo allo schiavo in qualsiasi momento, era utilizzato dallo schiavo per acquistare la libertà. Ciò conveniva ad entrambi: lo schiavo otteneva la libertà, il padrone con il denaro guadagnato poteva comprarsi uno schiavo più giovane ed efficiente. L’altro metodo per ottenere la libertà era la liberazione per volontà del padrone (manumissio). Questo metodo fu il più diffuso in tutta la storia romana fin dalle origini: nella storia romana arcaica gli schiavi erano considerati come parte della familia. Sia perché essi erano numericamente pochi, sia perché, essendo consentita la schiavitù per debiti fino alla Lex Poetelia Papiria, avveniva spesso che dopo aver venduto i propri figli essi venissero riacquistati nel caso si disponesse della somma necessaria.
Il massimo delle manomissioni consentite fu regolato dalla Lex Fufia Canina, nel 2 a.C. Essa prevedeva che all’ aumentare degli schiavi posseduti diminuisse il numero di schiavi che era possibile liberare; nella tarda Repubblica avvennero molte manomissioni, spesso in modo incontrollato. I modi di manomettere gli schiavi possono essere raggruppati in due categorie: i modi formali, più favorevoli per i nuovi liberti, e i modi informali, decisamente più restrittivi.
I principali modi formali di liberare uno schiavo erano:
Manumissio vindicta, davanti un magistrato. Quando lo schiavo era toccato da una verga (vindicta), simbolo del potere, veniva liberato.
Manumissio testamento. Il padrone concedeva la libertà ad uno o più schiavi nel proprio testamento.
Manumissio censu. Durante il censimento il padrone faceva registrare lo schiavo come cittadino romano nelle liste di cittadini.
I modi informali invece erano:
Manumissio inter amicos. Il padrone dichiarava di voler concedere la libertà allo schiavo, in presenza di amici.
Manumissio per epistulam. Il padrone, tramite una lettera, comunicava allo schiavo la volontà di liberarlo.
Manumissio per mensam. Lo schiavo era invitato al pasto del padrone, gesto che significava l’ affrancamento.
Gli schiavi liberati in modo informale erano soggetti alla Lex Iunia Norbana; essi erano Latini Iuniani, ma alla loro morte il patrimonio accumulato tornava all’ex padrone, sebbene potessero comunque ereditare in vita (ma con delle limitazioni). Una volta liberato lo schiavo diventava liberto e il padrone diventava patrono. Il vincolo della schiavitù era sciolto, ma il liberto doveva comunque rispetto al patrono (obsequium et reverentia). Insomma si creava un vero e proprio vincolo clientelare (ma non nel caso lo schiavo avesse acquistato con il suo peculium la libertà). Era anche possibile che un liberto non si comportasse con il dovuto rispetto nei confronti del proprio patrono. In tal caso era possibile revocare la libertà e ricondurre il liberto in condizione di schiavitù.
Il passaggio dalla schiavitù alla condizione di liberto fu dunque regolamentato, riepilogando, da una serie di provvedimenti durante il Principato:
1) La Lex Aelia Sentia nel 4 d.C. Il requisito principale era avere 30 anni; si voleva infatti evitare un’ immissione generalizzata di schiavi nel corpo civico che destabilizzasse la società romana, ma non c’erano motivi di risentimento contro i liberti.
2) Il Senatus Consultum Silanianum, nel 10 d.C. stabiliva che gli schiavi di un padrone assassinato sarebbero stati ritenuti tutti colpevoli.
3) La Lex Iunia Norbana, del 19 d.C., regolava la liberazione di schiavi in via informale. Essa prevedeva che i liberti sarebbero stati Latini Iuniani, ossia cittadini latini con diritti limitati.
4) La Lex Visellia nel 24 d.C. che vietava ai liberti di ricoprire cariche municipali. Probabilmente questa disposizione venne aggirata spesso attraverso le adozioni; infatti forse facendosi adottare da una famiglia ingenua tale restrizione decadeva.
5) Il Senatus Consultum Claudianum, nel 52 d.C. prevedeva la schiavitù per una donna che scoperta ad intrattenere relazioni sessuali con uno schiavo avesse continuato la relazione.
La cosa peggiore che potesse capitare ad un liberto era di essere un dediticius Aelianus, in base alla Lex Aelia Sentia; quest’ ultima prevedeva che le persone condannate alla schiavitù per gravi reati una volta manomesse avrebbero conseguito questa condizione che non dava nessuna possibilità di accesso né al diritto latino né a quello romano.
Liberti
Molto rilevanti erano i liberti imperiali che, in particolare sotto i Giulio-Claudi, aumentarono a dismisura il loro potere, tanto che furono tenuti in altissima considerazione da Claudio e Nerone. I liberti, se cittadini romani, godevano dei diritti civili spettanti loro in quanto cittadini, ma non di quelli politici: infatti per partecipare alla vita politica era necessaria l’ingenuitas, ovvero la nascita da libero; ma i figli degli schiavi lo erano, così come i figli dei liberi, per cui la cittadinanza piena si raggiungeva in modo differito. Ciò inoltre faceva sì che non ci fossero eccessive diffidenze nei confronti dei liberti, visto che molti ne erano discendenti. L’unica limitazione che avevano i figli dei liberti era l’impossibilità di entrare in Senato. Era infatti necessario essere ingenui da almeno 3 generazioni.
I liberti erano in qualche modo tenuti a delle corvées per i loro patroni se questi lo volevano, in numero di pochi giorni l’anno e solo nel caso in cui fossero stati manomessi (non nel caso avessero acquistato la libertà con il proprio peculium). Da Augusto erano legittimi i matrimoni tra liberti ed ingenui, purché non fossero senatori. Tiberio con la Lex Visellia concesse la cittadinanza a quanti militavano per un certo periodo nel corpo dei vigiles, che veniva reclutato fra i liberti. Claudio concesse la cittadinanza ai liberti che avessero armato navi commerciali; agli schiavi malati che erano stati abbandonati concesse la libertà. Nerone stabilì che il liberto che avesse investito il proprio patrimonio per costruire una casa a Roma avrebbe conseguito la cittadinanza. Traiano diede la cittadinanza ai liberti che avessero aperto dei forni. Per far capire quanto i liberti che avevano la cittadinanza romana fossero vicini agli ingenui Romani, basti dire che il poeta Orazio era figlio di un liberto. Lo stesso papa Callisto, divenuto tale nel 217 d.C., era un liberto.
 
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Al felice excursus di Anselmo Pagani sul "Corpus iuris civilis " aggiungo alcune mie riflessioni.

Certamente all'imperatore bizantino Giustiniano va la legittima denominazione di "basilèus tòn Romàion", in ragione del progetto di riportare alla luce la grandezza dell'impero universale nello spirito della restaurazione della tradizione e della legislazione romana.

Il "Corpus iuris civilis " , quale momento culminante della sua intensa attività politica e civile, sarà destinato a permanere non solo come fondamento di tutta la legislazione bizantina successiva, ma ad influenzare significatamente la produzione giuridica dell' Europa nei secoli a venire.

Indiscusso il contributo politico e culturale che Giustiniano seppe conferire alla "Nuova Roma", quale potenza ricca di energie militari e finanziarie , che appariva in grado di sostenere il confronto con i sassanidi ad Est , di arrestare l'avanzata barbara lungo il Danubio e di riaffermare la sua presenza attiva nel Mediterraneo.

L'imperatore bizantino con la sua opera di governo intese soprattutto realizzare quella restaurazione della romanità, quale ultima stagione della grande tradizione augustea.

Se pur diversi e contrastanti i giudizi degli storici sull'opera giustinianea, esiste una concordanza di fondo nel vedere in essa proprio l'estremo tentativo di restaurare l'impero universale romano non limitatamente all'ambito politico - militare, ma di estenderlo anche a quello ideale.

Ciò spiega perché per la stesura del monumentale " Corpus iuris" sia stato preferito l'impiego della lingua latina, nonostante a Costantinopoli fosse in uso il greco.

Se il grande sogno politico giustinianeo alla fine si infranse per l'impossibilità di contrastare le innumerevoli forze interne ed esterne che minavano l'edificio imperiale, di certo durevole fu il risultato che riuscì a conseguire nell' ambito della cultura giuridica con le immense ripercussioni che il "Corpus iuris civilis" avrà nella storia posteriore d'Europa e del mondo moderno, imponendosi cone uno dei fondamenti essenziali della successiva storia sociale e giuridica d'Europa.

Di particolare rilevanza il complesso di regolazione dei diritti , dei rapporti e delle procedure relative soprattutto al campo del diritto privato, con particolare riferimento ai rapporti familiari e alla proprietà.

Da tener comunque presente, che ,se l'allora cultura giuridica e l'organizzazione scolastica dell'Occidente risultavano in sensibile decadenza, in Oriente primeggiavano scuole del calibro di quella di Alessandria d'Egitto, o di Atene, Antiochia, Costantinopoli e Berito (Beirut). In esse si conservava il grandioso patrimonio giuridico della romanità e nelle ultime due, in particolare, emergevano l'insegnamento di Triboniano, che diresse la commissione di giureconsulti promotrice della prima redazione del "Codex", nonché di Teofilo, e Doroteo, prossimi all' imperatore e visibilmente impegnati nell' opera di recupero del diritto romano classico.

L'intera compilazione legislativa comprensiva di "Institutiones", "Digestum" o "Pandectae" , "Codex" , "Novellae Constitutiones" e con successiva denominazione di "Corpus iuris civilis" andò in vigore in Italia con la "Prammatica sanzione " del 554. ( Le prammatiche sanzioni erano costituzioni imperiali finalizzate a provvedimenti eccezionali , come, ad esempio sancire privilegi relativi a particolari categorie di persone o a disposizioni riguardanti il governo di una provincia. Si ricordi come con la "Prammatica sanzione "del 1713 Carlo VI d'Asburgo modificherà, a favore della figlia Maria Teresa, le tradizionali regole di successione della casa d'Austria ).

Anche la penisola italiana, in virtù dell'estensione della legislazione romana, sapientemente coordinata nel "Corpus iuris civilis", ricevette un'organica sistemazione sia sul piano giuridico che su quello politico-amministrativo.

Per quanto concerne poi l'ambito religioso, l'intento di Giustiniano fu rivolto al rafforzamento del rapporto Impero - Chiesa sulla linea del " cesaropapismo" che ,infine, lo indusse allo scontro con lo stesso Papato ( papa Silverio fu arrestato ed esiliato e papa Vigilio preso con la forza e portato a Costantinopoli ). La lotta contro le eresie si esplicitò attraverso la dispersione delle comunità monofisitiche , la persecuzione degli ariani e la distruzione degli ultimi residui della cultura pagana che facevano capo alla scuola neoplatonica di Atene e ai filosofi Proclo e Giamblico. Su ordine di Giustiniano tale scuola fu fatta chiudere nel 529 e l'immenso patrimonio culturale fu confiscato: ormai il pensiero platonico perdeva la sua tradizione indipendente e veniva assimilato dal pensiero cristiano.

In allegato al presente post, il frontespizio di una edizione settecentesca del "Corpus juris civilis".

 

Assedio di Siracusa, 212 a.C. Polibio racconta che: «I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. [...] Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati navali. [...] Quando i Romani tentavano di sollevare le loro sambuche, Archimede ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si levavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli. Queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra. Ne seguiva che, non soltanto la sambuca veniva colpita, ma pure che la nave, che la trasportava, e i marinai correvano estremo pericolo.» (Polibio, Storie, VIII, 5)