I giorni delle bacche acerbe

 

 

Racconto autobiografico

 

 

di

 

Bruno Agosti

 

 

 

DEDICA

 

Alle mie amate donne, vive e morte, vicine e lontane, reali e virtuali, per la sincera e profonda amicizia che ho avuto da loro.

Dal loro esempio e dal loro coraggio ho imparato ad essere migliore.

 

 

INFORMAZIONE AI LETTORI

 

Ogni singolo brano di questo testo è separato da questo simbolo ***    ***

 

 

 

 

 

PROLOGO

 

 

I motivi che mi hanno spinto a raccontare, passo, passo, tutta la mia vita sin dalla nascita sono molti, ma soprattutto è un mio bisogno, un mio desiderio innato di voler raccontare tante storie e fatti di vita vissuta che ricordo , che mi sono stati cari o che comunque mi hanno accompagnato, fino a qui in questa mia vita tormentata dai miei tanti problemi.

I ricordi, a me restano solo i ricordi sbiaditi dalla luce, dal tempo che mi ha consumato gli occhi rendendomi quasi cieco, eppure quei ricordi di infanzia sono per me una fonte inesauribile di dolcezza, di puro confronto con la realtà bella di quando ero fanciullo e , spesso, la triste e tragica situazione del mio vivere attuale.

Ora io sono pensionato da due anni, ho lavorato una vita da disgraziato, ora verrei definito con il termine molto più elegante di diversamente abile,ma , credetemi non cambia nulle nella sostanza e per essere fascista fino in fondo, preferisco il termine

disgraziato “ che rendo meglio il mio stato .

Ho anche il braccio destro afflitto dalla “ sindrome extrapiramidale “ che tradotto in parole povere sono dei tremori involontari ed incontrollabili al braccio.

Scrivo da sempre con la mano sinistra ed ora faccio fatica anche con quella, per fortuna che c’è il pcc che mi da una grande mano, a scrivere ed a leggere in quanto ingrandisce tutto fino a farmi leggere senza grossi problemi, poi c’è l E. book che mi legge tutti gli scritti in pdf.

A dare il giusto peso alle mie potenzialità hanno contribuito la pubblicazione nel 2010 del mio primo libro di poesie dal titolo A CHI che a dato in pasto al grande pubblico i miei scritti, poi un grande aiuto l’ ho trovato su internet dove posso disporre di due pagine fb ed un Blog personali che uso solo per la pubblicazione della mie poesie e dei miei racconti.

Qui desidero aprire una parentesi per ringraziare pubblicamente mio nipote Lorenzo per la fattiva ed intelligente collaborazione che mi ha dato nella gestione della parte informatica dedicata al mio hobbyes.

Non appena messe in rete alcune mie pubblicazioni, ho avuto la netta sensazione e percezione che i miei scritti erano graditi al pubblico dei navigatori e questo per me è stato uno stimolo determinante per incentivare e proseguire questa mia grande passione che coltivo fin da ragazzino e che ora mi permette di presentare al pubblico del web il mio modo di osservare, amare, ricordare la mia vita e di descriverla come potrebbe fare un pittore in un suo quadro ma usando al posto del pennello una composizione di parole affiancate tra di loro che possono trasmettere colori, musica gioia e dolore.

E ritrovo la gioia di vivere, descrivendo le piccole cose, le emozioni, i pensieri d una vita di dolore, e mi prendo anche il tempo e la soddisfazione di ritrovare e riscoprire oggi quei piccoli piaceri che la vita e le condizioni sociali mi avevano negato a suo tempo, quando agli occhi della gente benpensante del mio borgo natio altro non ero che un povero illuso ed anche disgraziato, ora ho trovato, altrove, delle persone straordinarie che mi hanno saputo dare il giusto peso, mi hanno creduto ed hanno saputo leggere nei miei scritti tutto il dramma di una vita fatta di solitudine e di sconfitte. A queste persone, che non nomino una per una per non scordarne nessuna, a questi angeli virtuali e no, và il mio eterno ringraziamento, ed è a loro che voglio dedicare questo mio scritto.

 

 

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LA MIA FAMIGLIA

 

 

 

Mio padre

 

 

Ricordare mio padre per me vuol dire entrare tutto trafelato come dopo una corsa tra i prati, in un mondo incantato fatto di favole vere, di gradi esperienze di vita vissuta raccontate con dovizia di particolari, con una grande fede nei confronti di Dio e della nostra Patria, nonostante tutto…

Quando avevo modo di stare da solo con mio padre, ero il ragazzo più felice del mondo, lui mi sapeva raccontare le sue avventure di vita vissuta con grande senso di responsabilità, in ogni suo racconto lui sapeva farmi trovare il lato giusto e buono della vicenda e me lo indicava come esempio da seguire nella vita che mi attendeva. Era giusto negli elogi come nelle punizione, sapeva capire i problemi e le opinioni degli altri con grande saggezza e senza mai giudicare o condannare.

Per capire quanto mio padre mi volesse bene, anche in considerazione del mio handicapp al braccio destro e della mia vista debole, ricordo un episodio, era il primo Natale che frequentavo la scuola e la maestra ci aveva insegnato a fare un lavoretto per gli auguri ai genitori. Era un semplice rametto di abete con attaccata una pigna che al quale tutti avevamo attaccato un bigliettino con il nostro nome. Lo portai a casa e lo consegnai ai miei genitori, mio padre si commosse molto e mia madre mi disse che quella notte pianse molto…

Per capire quanto io volessi bene a mio padre e quanto grande fosse la paura di perderlo, racconto ora un mio pensiero, una mia assillante preoccupazione che nutrivo nella mia mente ancora fanciulla e priva di qualsiasi esperienza di vita vissuta.

In località Zura, sui ripidi costoni che fanno da sponda sinistra la lago artificiale di Santa Giustina, avevamo un vigneto di circa due ettari che mio padre lavorava con tanta passione ed esperienza.

La vigna finiva proprio dove ora passa la strada interpoderale, più sotto il sito prosegue fino alle profonde rocce che fanno da spenda al lago una cinquantina di metri di strapiombo sull’ acqua.

Dal lato opposto scendono ripidi i boschi di conifere del none Faé che a loro volta finiscono a strapiombo sul lago. Mio padre era anche boscaiolo e per guadagnare una lira in più, assieme ad altri boscaioli del luogo, molto di frequente prendevano un lotto di legname da tagliare e fatturare, bene io ero terrorizzato dal fatto che mio padre potesse un giorno andare a tagliare del legname nelle zone ripide sopra il lago e potesse cadere dentro l’ acqua… Piccole fantasie della mia mente fanciulla che era tanto affezionata a mio padre.

Mio padre si chiamava Arturo, era nato il 21 maggio del 1921 e faceva parte della grande famiglia di Bortolo e Teodora e quando penso alle marachelle ed ai dispetti che diceva aver compiuto nella sua gioventù, mi torna alla mente il mio comportamento ed il mio animo ribelle ed anticonformista che devo aver ereditato da lui, così come da lui ho ereditato duella dolcezza e quello spirito di osservazione verso le natura e verso tutto quello che profuma di novità ed ancora da scoprire.

All’ età di venti anni mio padre fu mandato in guerra in Libia con la divisione di fanteria Brescia con le batterie di cannoni anticarro da 75/13 da Marsa Matruk a Tobruk fino ad El Alamein che vide solamente passando su un autolettiga per essere rimpatriato perché gravemente malato di dissenteria provocata dalla colite per aver bevuto acqua inquinata.

Venne sbarcato a Napoli dalla nave ospedale e venne curato nel vicino ospedale civile di Cles dove guarì, venne allora richiamato ed inviato in Sicilia, combatté nella battaglia di Gela arruolato nella Divisione di fanteria Livorno, a contrastare lo sbarco degli Alleati sotto il fuoco dei loro cannoni, impari lotta fino alla resa quando fino a quando lo fecero prigioniero e gli proposero di combattere con loro contro i tedeschi. Mio padre si rifiutò dicendo loro che lui la sua guerra l’ aveva fatta in Libia e che quella che gli veniva proposta non era la sua, allora lo adibirono a polizia militare con il compito di controllare un tratto di strada, la sera però doveva rientrare in un campo addetto ai prigionieri di guerra. Mi diceva che con gli americani di stava bene si mangiava bene che gli americani erano un esercito bene organizzato, bene armato e senza troppa burocrazia militare.

La voglia di libertà però era sempre forte ed una notte prese il sopravvento, così assieme ad un gruppo di altri prigionieri dopo aver immobilizzato una sentinella se ne scapparono dal campo.

A nulla valsero le incessanti e rabbiose raffiche delle mitragliatrici e lo sciabolare delle potenti fotoelettriche, il gruppetto riuscì a fuggire ed a guadagnare la libertà.

Tornato a casa dopo poco tempo vennero i carabinieri a cercarlo per arruolarlo di nuovo questa volta nelle file della Repubblica sociale italiana, ma mio padre stanco della guerra si rifiutò di partire e si nascose e fu così che oltre al danno ebbe anche la beffa di vedersi trattare come renitente alla leva e disertore. Quando a guerra finita fece richiesta di porto d’ armi per la caccia, non gli venne concesso perché risultava avere precedenti penali gravi. Così per pulire la fedina penale da questo “ reato “ dopo la guerra dovette rivolgersi ad un legale e spendere del denaro.

Sarebbe stato molto più facile entrare in uno dei tanti gruppi partigiani, imboscarsi fino alla fine del conflitto e poi uscire da trionfatore per aver “ liberato la patria dal nemico invasore nazista e fascista “, mio padre non odiava neppure i tedeschi con i quali aveva condiviso pane e morte in Africa e per i quali nutriva molta stima ed ammirazione.

Della sua avventura bellica in Africa, mi resta un agendina, il suo diario di guerra scritto a matita con una grafica sottile e piccolissima, dove annotava giorno per giorno tutto quello che gli accadeva attorno tra una battaglia e l’ altra nel rovente deserto africano.

Mio padre era un uomo molto attivo nel sociale era stato consigliere nelle ASUC, presidente della società del caseificio, consigliere alla SCAF ad famiglia cooperativa ed era anche direttore del coro parrocchiale di Livo. Era anche un accanito cacciatore, allora si andava a caccia con la doppietta ed i cani che dei quali riusciva a riconoscere tutti i vari stadi dei latrati quando inseguiva una lepre od una volpe , era un tipo di caccia più povero dove erano determinanti la fortuna e la grande abilità nel tiro in movimento e mio padre in questo era un campione.

Mio padre si ammalò di cancro nel 1967, una cancro allo stomaco provocato dai residui di quella grave infezione intestinale contratta in Africa, venne curato a Cles e poi su consiglio del prof. Enrico Nardelli venne operato a Padova presso la clinica universitaria. Si provò mentre era ancora in vita,a fargli ottenere una pensione di invalidità per cause di guerra che alla sua morte sarebbe stata reversibile a mia madre, fu tutto inutile e come ultima amara beffa alcuni giorni dopo la sua morte si presentarono a casa i carabinieri per notificargli che la pensione gli era stata assegnata ma era troppo tardi.

Lascio ai lettori ogni commento su questa italica vicenda.

Mio padre morì il 27 febbraio del 1969 all’ età di 48 anni.

 

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Mia madre

 

 

Mia madre si chiamava Elena Zanotelli nata il 23 agosto 1924 era figlia di Martino e Sparapani Maria una donna che proveniva dal vicino paese di Preghena, era della famiglia dei “ Lassi “ ma non sono mai riuscito a capire l’ esatto grado di parentela.

Parlare di mia madre per me non è affatto facile, è quasi parlare di una persona che la mia mente tende a rimuovere quasi fosse un corpo estraneo che viene rigettato sull’ organismo come una cosa che non gli appartiene. Era della famiglia dei “ tripoi “ e come tutti loro era un tipo con la testa dura, quasi insensibile al mondo che la circondava, lei vedeva solo se stessa e le sue ragioni, tutto il resto sembrava non appartenere alla sue sfera di interessi e di affetti. Con questo non voglio dire che era cattiva ma che difettava molto nella sensibilità. Inutile dire che il rapporto tra mia madre e mia nonna era molto difficile e le liti abbondavano e bastava poco per accenderle visto che anche mia nonna era un tipo molto orgoglioso ed autoritario.

Attribuisco a mia madre il merito di avermi messo al mondo, no le attribuisco colpa alcuna per i miei handicap, è madre natura che si sbizzarrisce allora come succede oggi nonostante si disponga di maggiori controlli prenatali e post natali.

A mia madre non perdonerò mai il fatto di essersi intrufolata nella mia vita, dapprima costringendomi a subire delle cure psichiatriche stupide quanto inutili nel tentativo fallito di recuperare il braccio malato, e qui posso assolverla con il dubbio della buona fede. Ma per avermi rovinato tutte le scelte che io stavo per compiere a livello affettivo in modo rozzo, egoista ed invadente non ci sono attenuanti.

Mia madre morì l’ 8 maggio 2007

Riposa in pace.

 

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Mia nonna

 

La mia nonna paterna si chiamava Teodora Stanchina e veniva da Varollo, lei diceva che era lontana parente della famiglia nobile dei de Stanchina ma questo non ho voluto mai appurarlo in quanto attribuisco a questo stato un importanza quasi nulla.

Mia nonna era nata nel 1888 ed aveva sposato mio nonno Bortolo all’ età di 19 anni, erano poi emigrati in America agli inizi del 1900 in cerca di lavoro che trovarono a Lafferty in Ohio in una selle tante miniere di carbone della zona.

Mia nonna lavorava in casa ed era un ottima cuoca ed in America preparava il pranzo per un gruppo di minatori colleghi di mio nonno.

Era una donna dalla morale rigida ed inflessibile, dotata di una grande ed indiscussa fede in Dio, dove trovava il coraggio per una vita di stenti e la sintesi e la soluzione a tutti i suoi problemi .

Durante gli anni di permanenza in America, ebbe tre dei nove suoi figli, Rosy, Mary, e Nik. Tornarono in Tirolo nel 1913 giusto in tempo per mio nonno di essere arruolato nell’ esercito imperiale di Francesco Giuseppe e venire spedito a combattere su uno dei numerosi fronti di battaglia verso est. Ritornò dopo quattro anni con una nuova patria che lo attendeva ma con i problemi di sempre nella vita quotidiana.

Mia nonna ebbe altri sei figli, Lino, Arturo, Mario, Lina, Sandra e Ada.

Per tutto il mese di maggio , ogni sera mia nonna pretendeva ed imponeva e tutti la recita del S. Rosario, allora si recitava in latino perché non c’ era ancora stato il rinnovamento del Concilio vaticano ll°, poi quando io tornavo a casa dal collegio dei frati dove mi veniva insegnato anche il latino, ero in grado di distinguere l’ aberrante interpretazione e distorsione che mia nonna aveva elaborato nel tempo con la lingua latina, roba da purgatorio !

Nonna morì sorretta dalla sua incrollabile fede nel dicembre del 1969 volando dritta in cielo tra i suoi figli che l’ avevano preceduta da poco.

 

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Mio fratello Paolo

 

 

Mio fratello Paolo è nato il 08. 10. 1953 quindi ha ora 60 anni, il rapporto che ho avuto e che tutt’ ora ho con mio fratello, lo si può paragonare con quello acido e distante che ho avuto con mia madre.

Mio fratello infatti assomiglia caratterialmente a mia madre, ma vorrei dire alla famiglia di provenienza di lei: i Tripoi. Gente ottusa egoista ed arrogante nella maggior parte dei casi.

Era infatti fin da ragazzino il figlio privilegiato, prima di tutto perché nato sano e senza i gravi handicapp che io mi porto appreso, poi perché la sua indole menefreghista, arrogante e strafottente lo collocavano di diritto al primo posto nella categoria dei “ furbi “ ai quali tutto era concesso in nome e per conto della sua superiore astuzia.

Da ragazzino i rapporti erano tendenti dimostrare la sua indiscussa superiorità nei lavori e nello studio, perché madre natura non lo aveva penalizzato e riusciva a fare tutte quelle cose che il mio handivapp non mi permetteva di fare e per questo lui è sempre stato visto con un occhio di riguardo specie da mia madre.

Anche dopo la morte di mio padre gli fu concesso di continuare gli studi professionali per diventare congegnatore meccanico, con grandi sacrifici anche da parte mia che allora avevo iniziato a lavorare se pur saltuariamente, la mancanza di mio padre si rivelò in tutta la sua drammaticità, mancava quella persona che aveva sempre saputo tenere un giusto equilibrio in famiglia dando il giusto peso a tutti senza privilegiare o penalizzare nessuno. Noi alla morte di mio padre eravamo entrambi ancora minorenni e la gestione della famiglia passò a mia madre che era negata per questo tipo di incarico, mio fratello in questa fase se ne avvantaggiò moltissimo, approfittò dell’ incapacità di mia madre di gestire con equità la famiglia ed appena trovato un lavoro che gli dava un indipendenza economica e garantiva a mia madre un flusso di denaro contante, si mise a fare il bullo del paese forte del silenzio assenso che mia madre gli dava pur di poter accedere al suo portafoglio, e cominciò giovanissimo a bere ed a sperperare il denaro per se e per gli altri compari di merende.

Quando entrò in ferrovia le cose peggiorarono di brutto, perché lui prendeva degli stipendi molto elevati. Visto che lavorava a Bolzano in trasferta da Verona.

In quella fase inizio e fu evidente a tutti la “ sua superiorità “ si era fatto una cerchia di “amici” giovani e meno giovani, ai quali il “ferroviere” pagava da bere , tornava poi a casa completamente ubriaco ed iniziava a comandare a tutti, ma soprattutto a mia madre che era stata la fonte e l’ ispirazione di tutte le sue virtù.

Qui si nota tragicamente la mancanza di mio padre che da uomo saggio e parsimonioso avrebbe impedito di imperio questo stato di cose. Incapace di gestire da solo la sua vita economica e lavorativa, si dimostrò altrettanto incapace e subalterno ad altre persone nella vita sentimentale e nella scelta di una donna, al punto che fu costretto ad accettare un meschino compromesso ordito da un suo collega di lavoro napoletano Antonio Capasso, che gli “ scelse e gli presentò “ la futura moglie proveniente dai bassi fondi della cultura napoletana che lui in tre mesi conobbe e sposò.

Quante matrici di assegno della locale Cassa rurale ho distrutto con la causale “ 100 mila lire Alessandri Antonio bar “, quando finalmente se ne andò ad abitare a Cles in affitto, lui che aveva soldi per tutti non era riuscito a farsi una propria abitazione.

Andato ad abitare a Cles le cose peggiorarono rapidamente per via della continua assunzione di alcool e della sudditanza finanziaria impostagli dalla moglie una vera e propria sanguisuga finanziaria.

Un giorno venne ricoverato in preda ed una crisi di coma etilico ed i medici gli indicarono la via del trattamento in un centro di recupero per alcool dipendenti dove si trovo in buona compagnia con gli ex compagni di merende.

Parve per un po’ di tempo che le cose si fossero messe per il verso giusto, riuscì a smettere di bere ed iniziò a ristrutturare la sua parte di casa la soffitta e gli stabli, per far questo ricevette un piccolo contributo conto capitale da C6 che logicamente non bastò, si iniziarono a vendere allora gli immobili di famiglia i terreni agricoli uno alla volta per potersi pagare i lavori e le spese pazze della signora Maiello, così se ne andarono tutti i terreni lasciati da mio padre e poi anche quelli di mia madre re credo che a tutt’ oggi non sia ancora riuscito ad estinguere il mutuo ipotecario che grava ancora sulla sua porzione di casa.

Ora è semicieco ed è ancora dipendente dall’ alcool che gli viene somministrato un bicchiere ai pasti e poi il rimanente viene nascosto per non consentirgli l’ abuso.

Dal matrimonio sono nati tre figli, Erika, Lorenzo e Jonathan, ma di loro ne parlerò più in dettaglio.

Scrivere questo pezzo devo ammettere che mi è costato molto…

 

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Zia Ada

 

Tra le numerose donne che porto a vario titolo, nel mio cuore, zia Ada occupa un posto in prima fila. E mi viene naturale quasi spontaneo parlare di lei, della mia vera madre, si è vero io ho avuto come tutti la mia che si chiamava Elena Zanotelli, era una donna di media cultura e forse per questo non siamo mai riusciti a capirci, forse per quel suo rifiuto nei miei confronti, per quel suo senso di colpa per non essere riuscita a farmi come tutti gli altri…

Riposa in pace mamma, io non te ne voglio, non è stata colpa tua ne di Dio, è madre natura che a volte ci gioca con la vita e fa piccoli esperimenti, ti rovina un braccio, ti abbassa la vista per farti vedere più da vicino le piccole cose della vita, quelle che contano, che non costano ma che sanno renderti uomo maturo, consapevole e felice. Riposa in pace mamma.

Zia Ada è stata per me la figura di donna che ha sostituito mia madre in tutto, fatta l’ eccezione del parto, ancora bambino lei mi ha accudito come una madre nutrendomi con infinita pazienza, quella pazienza che mancava a mia madre, all’ età di pochi anni mi venne una piaga sul collo forse per una piccola infezione non curata in modo adeguato e mia zia mi medicava tutti i santi giorni cambiando ogni volta le garze infette e pulendo la piaga con acqua ossigenata e disinfettante, ci vollero molte settimane per ottenere la completa guarigione.

Al momento di andare a scuola ho avuto nella zia Ada un formidabile apporto didattico, in quanto lei era molto giovane ed aveva da poco smesso di frequentare la scuola ed aveva ancora ben chiari i metodi di insegnamento e di apprendimento scolastico. Appena iniziato a frequentare la scuola ci si era resi subito conto del grave handicap al braccio destro di cui ero evidente portatore e subito lei si premurò di aiutarmi tenendomi la manina malata per fare con la matita le prime aste e linee, i primi rudimenti della scrittura. Ancora oggi ho nella mente quei momenti di serenità e di dolcezza che zia Ada mi sapeva trasmettere, con la sua infinita pazienza e rispetto per i miei gravi problemi fisici.

Era molto brava nelle materie letterarie ma anche in tutte le altre materie, era andata alla scuola del Duce, quella scuola dove regnava la meritocrazia, dove chi era capace emergeva di luce propria, dove alle femmine venivano insegnate materie come l’ economia domestica , il cucito, l cucina ecc. e non come ora che viene insegnato loro ad applicare il profilattico …

Mia zia Ada alla sera mi leggeva dei racconti o delle storie vere che prendeva dalle riviste di allora ed io stavo in silenzio ad ascoltare quelle storie mentre la mia mente fanciulla era tutta un turbinare di fantasia creativa che dava un volto ai personaggi ed a tutt’ oggi rimango ancora affascinato come un bambino davanti ad un racconto o ad una favola e quando cerco di raccontare qualche fatto o qualche personaggio, ancora adesso mi sembra di sentire la buona zia Ada che con la sua voce dolce ed espressiva mi suggerisce delle frasi o dei commenti particolari che danno più vita ai miei scritti.

Ricordo la grane tristezza per me quando zia Ada è partita per il Belgio a raggiungere e sposare il suo amore Tullio, un minatore nostro compaesano partito molti anni prima a cercare lavoro in Belgio.

Ero troppo piccolo per capire il gioco dell’ amore che si intrufola tra un uomo ed una donna e li lega per sempre , un gioco che non si impara a scuola, che non ha bisogno di essere cercato ma che ti avvolge come il vento della primavera e ti trascina con se per la vita. Non capivo ed ero molto amareggiato nel vedere partire una persona tanto cara ed utile per me, ma quel vento del destino se l’ è portata a nord in quella terra pianeggiante e dal sole malto.

Con zia Ada c’è sempre stato un grande rapporto di sincera amicizia e stima reciproca che và oltre il comune rapporto di parentela che ci lega, sono stato più volte in Belgio suo ospite sempre trattato come un principe, ci sentiamo spesso al telefono e ci raccontiamo i nostri vecchi ricordi.

Nel suo primo viaggio di ritorno in Italia dopo sposata, mia zia mi portò una macchinina rossa decapottabile che si muove con un movimento meccanico, ci ho giocato per tutta la mia infanzia ed ora che sono adulto la conservo come una reliquia come il ricordo più bello di mia zia Ada.

Dalla zia Ada ho imparato i primi rudimenti della scuola assieme ad una continua e reale lezione di vita, ho imparato ad amare con dolcezza, ad apprezzare quel poco che allora c’ era, a rispettare tutti specie i vecchi ed i più deboli, perché non ero ancora cosciente di far parte di una di quelle categorie, i deboli, i disabili, che più di tutti necessitano di amore, amore gratuito senza altre finalità e che sanno poi ricambiare l’ amore ricevuto rovesciandolo verso tutte quelle persone che il disabile sente di dover aiutare, così semplicemente, come fosse la cosa più naturale che si possa fare, per perpetuare così un gioco d’ amore.

Sono certo che dalla buona ed amata zia Ada, io abbia imparato quella dolcezza che ora mi consente di esprimere in versi che raccontano con dolcezza e realtà un tempo che è ormai passato, ma che resta vivo nella mia memoria come il tempo più felice della mia infanzia, nonostante tutti i miei problemi.

Sono arrivato così ben disposto e preparato al mio primo giorno di scuola. Quando fui più grandicello da poter capire, mia zia mi leggeva delle favole e dei racconti da riviste e giornali, ricordo un racconto di mare che mi commosse alle lacrime, si intitolava “ Mare forza nove “,, era il racconto di una donna che aspettava invano il suo uomo pescatore durante una tempesta, mentre la radio trasmetteva il bollettino dei naviganti.

Quando zia Ada scriveva al suo amore in Belgio, finita la lettera la rileggeva ad alta voce, come se io potessi fare da tramite o da ambasciatore per rendere più gradita la missiva, forse , per certi versi, è stato così perché mia zia ebbe una vita coniugale felice, ha amato ed ha avuto ricambiato tutto l’ amore che ha saputo dare a me, dall’ uomo che ha sposato, per lunghi anni, fino alla fine, con un termine che adesso và tanto di moda, tante volte a sproposito, “ per sempre “ .

 

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Zio Tullio

 

L’ amore che ho descritto al quale zia Ada scriveva le sue lettere a me tanto incomprensibili quanto assurde per la mia menta fanciulla, ma come la zia se ne vuole andare e per giunta lontano in un paese dove dicono piove sempre e non esce mai il sole a riscaldarti, ma come non stavi bene qui tra noi ? che cosa ti manca qui che guardi con insistenza il portalettere per vedere se ti porta una qualche missiva da quel lontano e freddo paese…

Già cosa ti manca, e che cos’è quella strana malattia che ti spinge a verso quella creatura lontana, che se non risponde per un ritardo della posta sembra che ti manchi il fiato e nulla ha più senso,poi arriva quella benedetta lettera e tutto passa il sogno riprende, come quando ti svegli la notte dopo un bel sogno e non vedi l’ ora di riprendere sonno con la speranza che il sogno continui.

Il sogno di zia Ada si chiamava Tullio era un uomo del paese emigrato in Belgio per lavorare in una miniera di carbone nella zona francofona del paese in un borgo che si chiamava Maurage.

Si conobbero un estate che zio Tullio era tornato in Italia per le ferie estive, zia lo vide e se ne innamorò.

Seguì una fitta corrispondenza epistolare che durò per tutto il tempo che furono fidanzati, zia mi dice ch conserva gelosamente tutte le lettere della loro relazione e che a espresso il desideri che vengano messe dentro il cofano funebre alla sua morte perché l’ amore è un segreto imperscrutabie e che non trova spiegazione nella mente umana, l’ amore và solo accettato, condiviso e vissuto.

Fu un grande amore quello tra zia Ada e zio Tullio, un amore di quelli che sanno colmarsi a vicenda che non manca niente per essere felici perché l’ amore vero è perse un modo di felicità, tutto il resto che ti circonda sono piccoli ed insignificanti dettagli.

Io ho avuto l’ onore ed il grande piacere di conoscere zio Tullio, un uomo dalle rare doti umane di una onestà ed integrità morali uniche, un lavoratore modello dotato di uno spiccato senso del dovere e sostenitore dei diritti dei lavoratori in ogni sede.

Dal matrimonio nacquero due figli Jean Luc e Beatrice che furono i gioielli di famiglia di zia Ada e zio Tullio, sono stati il loro orgoglio e la loro legittima soddisfazione per il lusinghiero risultato degli studi prima e la invidiabile carriera lavorativa poi.

Poche famiglie furono così legate tra loro come è stata l famiglia di zio Tullio e zia Ada, unita in tutto nella gioia e nel dolore, che ha colpito duramente la famiglia quando zio si è ammalato di cancro all’ inizio degli anni ’90.

La malattia se lo è portato via il 13 aprile 1997 era nato il 9 agosto 1923.

 

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ZIO PACIFICO

 

 

Pacifico Sparapani originario di Preghena aveva sposato una sorella di mio padre, Sandra ed erano subito andati ad abitare a Cles. Pacifico era un uomo saggio e giusto, era pacifico di nome e di fatto. Ha lavorato dopo essere tornato dalla guerra, per la Ditta Ossana di Cles come commesso nel negozio di ferramenta, prima nel vecchio negozio in corso Dante all’ angolo della stradina che porta alla farmacia e poi nel nuovo negozio in viale Degasperi.

Ancora oggi molti ricordano la sua cordialità e la sua grande competenza nel suo lavoro. All’ avvento della seconda guerra mondiale, Pacifico arruolato nel corpo degli alpini, venne mandato dapprima sul fronte francese per un breve periodo fino all’ armistizio con la Francia , venne poi mandato in Jugoslavia dove venne ferito. Alla data dell’ 8 settembre venne fatto prigioniero dalle truppe d’ occupazione tedesche e mandato come tanti militari italiani, in Germania in un campo di concentramento con lo stato di internato militare quindi senza le tutele della Croce rossa internazionale e trattati come schiavi e traditori .

Quel periodo trascorso nei lager tedeschi segnò profondamente la vita di zio Pacifico, l’ esperienza tragica e traumatica della prigionia resterà per sempre nella sua mente, come un incubo notturno che lo ha accompagnato fino alla sua morte.

Nel campo di prigionia zio Pacifico si mise ad incidere una scritta sul gavettino che tutti i soldati usavano per bere e portavano con se : “ IN RICORDO DI MIA PRIGIONIA “. Tornò a casa portando con se solo dei miseri stracci ed il gavettino che ricordava quei suoi terribili giorni trascorsi nei lager nazisti.

Le violenze subite e viste nei campi di prigionia tedeschi, le privazioni e gli stenti forgiarono e temprarono però il carattere di Pacifico, come se dopo quella tragica esperienza nulla di più negativo gli potesse accadere nella vita e tutto il tempo che gli rimase lo dedicò alla sua famiglia ai sui figli ed ai suo hobby dell’ intaglio del legno e del mosaico. Era un uomo dall’ ingegno e dalla fantasia senza pari, sapeva ricavare dalle piccole cose dei grandi capolavori di artigianato.

Faceva parte attiva della Sezione Alpini di Cles e quando giunto alla meritata pensione aveva maggior tempo a disposizione lo prestava la nel volontariato degli alpini e il periodo di Natale collaborava attivamente alla realizzazione del presepio alpino una tradizione ormai consolidata in quel di Cles.

Era anche molto impegnato nel sociale era componente il coro parrocchiale di Cles, membro del Gruppo alpini di Cles e responsabile di zona per gli ex internati nei lager nazisti.

Zio Pacifico era molto amico di mio padre, si aiutavano a vicenda , quando mio padre si ammalò di cancro nel 1967 zio Pacifico gli fu sempre vicino e quando nel 1968 mio padre venne mandato a Padova per tentare un operazione chirurgica per asportare la neoplasia zio Pacifico si prese un permesso dalla ditta Ossana dove lavorava e seguì mia madre all’ ospedale per alcuni giorni fino a quando mio padre non venne dichiarato fuori pericolo.

Non abbiamo mai dimenticato tutto questo e lo abbiamo additato come esempio ai nostri amici , parenti, ma soprattutto ai miei nipoti che hanno avuto il piacere e l’ onore di aver conosciuto lo zio ed aver apprezzato la bontà cristallina di un uomo di altri tempi, un uomo capace di grandi sacrifici personali per aiutare un amico, con il sorriso sulle labbra, senza mai chiedere nulla in cambio. Dopo mangiato zio Pacifico tirava fuori dalla tasca la sua cara e vecchia pipa con il tabacco profumato ed era bello ammirare quel suo armeggiare nel caricare e comprimere il tabacco nella pipa, era un vero e proprio rito poi accendeva un fiammifero di quelli di legno che sono più lunghi ed hanno più durate , lo avvicinava alla pipa ed aspirava ed il fuoco sembrava piegarsi alla su volontà e spariva nella pipa mentre un fumo profumato e denso usciva dalla bocca formando delle piccole nuvolette o dei cerchietti che poi svanivano nell’ ambiente lasciando il caratteristico profumo del Clan.

Il solo guardare questa scena mi provocava una grande sensazione di serenità e di pace nell’ anima, ed ancora adesso quando mi prede la tristezza penso a zio Pacifico, alla sua umiltà, alla sua innata bontà d’ animo al suo eterno sorriso di uomo buono e giusto e mi ritorna la serenità nel cuore.

Grazie di tutto zio e goditi il meritato premio eterno dove non ci sono ne bombe ne reticolati, ma solo un infinito prato verde con tanti fiori.

 

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Zia Rosy

 

 

Credo che zia Rosy fosse la figlia maggiore dei nove che ebbero i miei nonni paterni, era nata in America nell’ Ohio a Lafferty quando i miei nonni erano emigrati lì alla fine dell’ 800.

Zia Rosy era nata il 10 maggio 1907 e si era sposata con Agosti Basilio, + 10. 01. 1903 * 12. 01. 1983, un agricoltore di Scanna.

Basilio era un uomo pieno di complessi, un timido per natura nonostante la sua grossa mole, era un uomo all’ antica, rimasto ancorato saldamente ai vecchi concetti conservatori dell’ ‘800 dove tutto doveva andar bene così come era e niente si doveva cambiare per nessuna ragione al mondo. Col trascorrere degli anni e l’ avanzare inesorabile di nuove tecnologie e nuove innovazioni in tutti i settori della vita, anche lui si dovette adeguare al mutare dei tempi e giocoforza adattarsi ai nuovi ritrovati, ricordo che anche le più piccole innovazioni tecnologiche erano vissute da lui come un dramma, una tragedia che sconvolgeva la sua esistenza fatta di ricordi del passato che non riusciva a cancellare per far posto al vivere presente.

Tutto in casa di zia Rosy era vecchio ed obsoleto, ricordo la cucina con la “ cjaudera “ per bollire il pasto per il maiale, il vecchio focolare a legna con l’ enorme camino che occupava un terzo della stanza di sopra, la “ stua “ stube con l’ antico fornello a “olle” verde con sfumature bianche con disegni in bassorilievo molto simile a quello che si può ammirare nell’ Agritur Mirella Rumo, quella era la stanza migliore che aveva e nelle lunghe sere d’ inverno assieme a mio padre, mia madre e mio fratello minore molte volte ci recavamo da zia Rosy a giocare a tombola o a carte nella stua al caldo della vecchia stufa ad olle.

Zia Rosy non ebbe figli, fu l’ unica sorella a non averne e questo per lei fu come un peccato originale che si portò dolorosamente con se per tutta la vita, assieme alla colpa di essere una donna sterile come recitava allora il copione per ogni donna che non era in grado di procreare. Quanta ignoranza e quanti preconcetti c’ erano a quei tempi nei confronti della fecondazione e del ruolo del maschio all’ interno della coppia. A quei tempi non esistevano dei test atti a verificare la fecondità o meno della donna ma soprattutto del maschio che si è sempre ritenuto infallibile per cui se un figlio non arrivava era sempre colpa della femmina, l’ unico modo per provare il contrario era che la donna avesse dei rapporti sessuali con un altro uomo, come fece ad esempio la signora Giuditta Carotta, anche lei “proclamata” dal marito e dalla gente sterile, che ebbe poi un figlio da un prigioniero di guerra russo.

Zia Rosy rimase fedele a suo marito fino alla fine, non si era mai sognata neppure lontanamente di tradirlo per dimostrargli che non era lei incapace ma lui, si portò dietro in silenzio questa “ colpa “ come tante donne di quel tempo.

Dopo alcuni anni di tentativi per avere un figlio proprio, zia Rosy prese in casa il figlio maggiore di sua sorella Lina che si chiamava Gianfranco lo tennero come un figlio loro senza però dargli il loro cognome, l0 allevarono lo nutrirono e lo mandarono a scuola come fosse un loro figlio e quando morirono lasciarono tutta la loro sostanza in eredità a lui.

Quello che ricordo con tanta tenerezza e nostalgia della zia Rosy, era il Natale: allora lei ci preparava dei piccoli regali, un fazzoletto colorato con motivi natalizi che ripiegava ed annodava come un piccolo sacco e dentro ci metteva un mandarino alcuni cioccolatini un torroncino, quanta gioia per noi ragazzini abituati al tanto del niente, era una gioia vera autentica genuina che non ho più provato negli anni successivi.

Grazie zia Rosy per la tua semplicità e la tua bontà che mi hai sempre dimostrato anche quando avevi il cuore gonfio di dolore…

Zia Rosy morì il 29 maggio 1983.

 

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Zio Lino

 

 

Era uno dei tre fratelli di mio padre, era nato malato con una serie di patologie che lo hanno reso fragile fin dall’ infanzie e soggetto a numerose malattie prima dell’ infanzia e poi anche nell’ età adulta.

Quando è morto io avevo tre anni e di lui ho solo un ricordo molto vago ed evanescente, ricordo che era un uomo molto alto e magro e che mi teneva spesso in braccio e mi faceva giocare con delle assicelle di legno con lo quali mi costruiva dei piccoli oggetti come coltelli ed altri attrezzi da cucina.

Si spense lentamente come un cero il ****

 

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Zia Lina

 

 

Zia Lina era un'altra sorella di mio padre era nata ****** ed aveva sposato un uomo che si chiamava Livio, un uomo piuttosto burbero ed irascibile con lei, era stato con gli alpini in Russia durante la seconda guerra mondiale e ne era tornato provato nella psiche, sovente si ubriacava specie quando era senza soldi e picchiava la zia.

Da quella unione non tanto felice, nacquero quattro figli , Gianfranco, Roberto, Alessandro e Lino. Era stato un periodo in Svizzera poi negli Stati uniti dove aveva richiamato la zia e tre dei suoi figli Roberto , Sandro e Lino però anche lì non ebbe fortuna e pochi anni dopo tornò in Italia lui la zia ed il figlio Roberto nato disabile, rimasero in America gli altri due.

Appena sposati gestivano una trattoria e osteria ed è in quel contesto che zia Lina ha iniziato a bere. Noi abitiamo letteralmente a due passi da dove abitava zia Lina e mia nonna sovente le portava da mangiare quando sapeva che non aveva soldi abbastanza per fare la spesa .erano tempi duri per tutti e la clientela della locanda spendeva poco così dopo poco tempo dovette chiudere per tentare una improbabile fortuna all’ estero. Rimasero sempre poveri e poveri morirono, zia Lina mori di cirrosi epatica nel 198*.

Due dei miei cugini, Sandro e Lino rimasero in America nel Conneticut, ed appena raggiunta la maggiore età essendo liberi di decidere in proprio per se e per gli altri, pensarono bene di far ternare in Italia gli anziani genitori ed il fratello Roberto gravemente handicappato per non avere più brighe ed essere finalmente liberi di godersi l’ America con tutte le sue sfaccettature e le sue libertà e le formidabili potenzialità ce essa offriva mentre da noi si iniziava allora a crescere molto lentamente, era l’ inizio degli anni ’70.

Tipi strani i miei cugini, con Sandro avevo frequentato assieme le scuole in collegio, prima a Campolomaso e poi a Villazzano, eravamo molto attaccati una forte amicizia che si è spenta al suo arrivo in America, quando era ancora un ragazzino intrattenevamo una fitta corrispondenza epistolare, ma pio man mano che è cresciuto ed ha cominciato a frequentare i movimenti pacifisti contro la guerra in Vietnam ed a frequentare le ragazze americane tutto si è spento.

Mio cugino Lino un uomo di bassa cultura e di basso profilo umano e sociale, capace di scroccarti il pranzo o la cena come faceva quando era un ragazzino qui in Italia, sfacciato ed arrogante.

Sono libere scelte che hanno fatto loro io non ho nessun diritto di obbiettare, però alcune considerazioni mi prendo il diritto di farle : non perdonerò loro mai il fatto di non aver tenuto con se i genitori ed il fratello disabile,l’ America è una grande nazione e per due giovani lavoratori non sarebbe stato un peso insopportabile il tenere con se i propri genitori, voglio ricordare che loro avevano saputo bene o male badare a loro fino a quando erano maggiorenni, pur essendo molto poveri, sono invece stati letteralmente cacciati da quella nazione dove avevano riposto le ultima loro speranze di riscatto economico e sociale, proprio dai loro figli. Di questo ignobile comportamento attribuisco maggiore responsabilità a mio cugino Sandro in quanto più vecchio e maggiormente acculturato avendo frequentato anche alcuni anni di liceo presso il convento di Villazzano.

Trovo anche assurdo che ora in un mondo divenuto un orticello grazie alla tecnologia digitale ed ad internet, basti pensare ai social network come facebook o twitter, dove riesci a ritrovare e ricontattare gli eredi di gente che era partiti nei secoli scorsi e dei quali non si sapeva più nulla, niente loro non si fanno proprio trovare… ho provato a cercare Sandro su fb e penso di averlo anche identificato con precisione si fa chiamare Al Rodegher ma quello che mi ha convinto che dietro a quel profilo fb completamente bloccato verso estranei ci sia proprio lui, è il fatto che al posto della foto ha uno stemma del Milan che era la sua squadra del cuore quando era in collegio con me.

 

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Zio Ernesto

 

 

Era il fratello vivente più vecchio di mia madre, il più vecchio in assoluto se lo era preso la guerra sul fronte Greco – Albanese dove una raffica di mitragliatrice gli aveva spezzato una gamba ed il bacino, morì nell’ ospedale da campo per le gravi ferite riportata il 14 marzo 1941 era nato il 07 ottobre 1914.

Zio Ernesto era diverso da tutti gli altri fratelli e sorelle di mia madre e diverso anche da lei, era un tipo solitario anche per via della sua grave e progressiva sordità per la quale tendeva ad isolarsi da tutti.

Era nato il 1915 e non si era sposato durante la seconda guerra mondiale era stato impegnato in Jugoslavia come guardia alla frontiera, dopo l’ 8 settembre ’43 venne fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in un lager del terzo reich come forza di lavoro coatto fino al 1945 quando venne liberato dai soldati dell’ armata rossa che gli resero la libertà.

Fin qui la storia della sua vita in breve, ma quello che mi preme osservare del carattere bonario dello zio e del fatto che fosse una mente molto più aperta di tutti i suoi fratelli e sorelle che ho conosciuto ho sempre tentato di dare delle spiegazioni caratteriali senza trovare risposte, non era neppure emigrato all’ estero da poter assumere una diversa cultura ed un diverso stile di vita, la spiegazione l’ ho trovata guardando il suo patrimonio di libri, riviste, giornali e fumetti che teneva gelosamente custoditi in casa sua.

Zio Ernesto era “ diverso “ da tutti i suoi fratelli perché leggeva molto, leggeva di tutto dai romanzi ai fumetti e si era fatta una cultura autodidatta ed era una persona di notevole spessore culturale ed umano.

Alla morte di mio padre ci aiutò moltissimo sia con il lavoro manuale in campagna che con delle donazioni in denaro, comprò a mia madre la prima lavatrice e quando eravamo senza soldi non si è mai rifiutato di darcene o di prestarcene. Mia madre non sempre sapeva essere riconoscente al modo giusto, spesso lo era solo in virtù dei favori e del denaro che zio Ernesto metteva a disposizione.

Aveva una grande passione nel cuore, quella per le moto da strada, si era comprato un “ galletto “ della Guzzi che teneva sempre lucido come uno specchio e per ogni piccolo segno di mal funzionamento lo portava dal meccanico. Con la moto la domenica lo zio si faceva dei lunghi viaggi in regione ed anche fuori ed andava a visitare e toccare con mano tutte quelle realtà e quei luoghi che aveva letto sui libri o sui giornali. La notevole quantità di denaro che mio zio possedeva, derivava dalla vendita al comune di Livo di una particella fondiaria in località Gaggià dove nei primi anni ’60 venne edificato il nuovo e moderno plesso scolastico per gli alunni di Livo, Vaeollo e Scanna, per intenderci le attuali scuole che sono ancora in sevizio alla data odierna, nonostante i proclami del Sindaco sull’ imminente trasloco nel costruendo plesso scolastico di Livo.

Io andavo molto d’ accordo con zio Ernesto e forse riuscivamo a capirci meglio per via dei nostri problemi fisici,alla fine degli anni ’80 zio fu colpito da un ictus che gli paralizzo il lato sinistro del corpo e dovette essere ricoverato all’ ospedale geriatrico di Cles dove gli vennero praticate le cure del case ed una energica terapia riabilitativa, si era ripreso abbastanza bene e venne ospitato da mio fratello in cambio di molto denaro che elargiva a mia cognata sempre più avida di soldi. Dopo un po’ di tempo fu colpito da un secondo ictus che gli immobilizzò anche il lato destro rendendolo invalido totale e bisognoso di continua assistenza di giorno e di notte.

Ho avuto la grande fortuna di trovare in tempi rapidi un posto presso la casa di riposo di Pellizzano in val di Sole do zio si trovò subito a suo agio, circondato da un personale premuroso ed umano e dove fece amicizia con un malato molto più giovane di lui al quale erano state amputate le gambe per via del diabete, s chiamava Ravelli.

Zio si trovò così a suo agio in quella struttura che non volle più scendere in paese, neppure per le festività natalizie o pasquali, lui diceva che quella era la sua nuova casa.

Morì serenamente il

 

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Zio Gigi e zia Anetta e zia Sandrina

 

Zia Anna ( Anetta )

 

 

Per raccontare la storia biografica di zia Anetta, devo , per certi tratti, fare ricorso al sentito dire dei dialoghi che intercorrevano tra mia nonna paterna e suo figlio, mio padre. La zia Anetta era una sorella di mia nonna, e di cognome si chiamava Stanchina come lei, era una donna piccola ed esile al momento che la descrivo, era però una donna di grande cultura generale, era poliglotta e sapeva leggere e scrivere le lingue inglese, francese, spagnolo, r dava lesioni private a studenti ed a gente che intendeva emarginare in paesi dalla lingua diversa dalla nostra.

Viveva assieme a suo fratello Luigi nella vecchia canonica di Varollo, lavorava da sarta per la gente del luogo che chiedeva il suo lavoro. Era molto religiosa, fin troppo legata a vecchi concetti quasi medioevali, ricordo che usava le ortiche per auto infliggersi delle pene corporali, era anche molto debole di psiche.

Quando lasciò la vecchia canonica di Varollo venne ricoverata nella vecchia casa di riposo di Cles, rimase lì per un breve periodo poi le sue condizioni di salute mentale si aggravarono e venne portata all’ ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana dove venne curata e soprattutto nutrita perché il suo stato di salute derivava soprattutto dalla malnutrizione e dalle privazioni alle quali lei si sottoponeva volontariamente per via delle sue credenze e delle sue fobie religiose. Guarita da questo stato depressivo venne ospitata nella casa di riposo per anziani Santo Spirito di Perdine Valsugana, dove fu di valido aiuto ai medici ed al personale per la traduzione di lettere e testi in lingue straniere che lei conosceva bene. Morì il ********* Per sua espressa volontà volle essere sepolta nel cimitero di Varollo, pensò l’ Amministrazione comunale di allora con il sindaco sig. Penasa Carlo a coprire le spese di inumazione.

 

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Zio Luigi ( Gigi )

 

 

Anche zio Gigi era un fratello di mia nonna paterna ed era un uomo mite ed umile, di lui so poco era stato soldato nella grande guerra al fianco dalle truppe imperiali di Francesco Giuseppe imperatore d’ Austria ed Ungheria, mi raccontava che durante il suo periodo bellico aveva spesso dovuto usare la maschera anti gas durante gli attacchi al gas nervino del nemico e che nel dopoguerra aveva lavorato in una fonderia di piombo dove aveva subito una grave ustione ad un piede.

E’ sempre vissuto di piccoli lavori agricoli prestati per lo più a persone molto abbienti. Viveva assieme alla sorella Anna nella vecchia canonica che sorgeva dove adesso c’è il piazzala a piano terra al lato est dell’ attuale nuova canonica.

Era una vecchia casa medioevale data in comodato gratuito a questi due miei prozii, era stata fino agli anni 30 la dimora dei parroci e curati della pieve di Livo, venne demolita ad opera del Comune alla fine degli anni ’60.

Mi piace qui descrivere , per quanto ancora mi conforta la memoria, questa casetta in pietra viva con la muratura quasi a secco, una casa di dimensioni molto ridotte, forse un quarto dell’ attuale canonica, con buona parte dell’ intera struttura restante in legno compresi i solai e le tramezze, quando è stata demolita per ricavarne un campetto da gioco per l’ oratorio del parroco di allora don Michele Rosani , nessuno ebbe l’ intuizione e la saggezza , che non ha mai dimorato in questo paese, di opporsi alla demolizione e conservarla come museo di un periodo storico dove la Chiesa aveva fin troppi poteri e dove un parroco aveva anche messo incinta la sua perpetua che si chiamava Filippi Rosa ( Rosinella ) la quale partorì una femminuccia che credo sia tutt’ ora vivente nel milanese.

Se fosse stata conservata così come era al tempo che la ricordo io, sarebbe stata già allora un museo di storia locale, erano infatti conservati , in ottimo stato, tutti i mobili del parroco dalla cucina allo studio alla stanza da letto, un vero delitto è stato demolirla, come un delitto attribuibile a don Michele Rosani è stata la totale demolizione del vecchio e storico cimitero tedesco che affiancava il lato sud – est della chiesa di Varollo.

Aveva ragione don Luigi Conter che scriveva nel suo libro FATTI STORICI DI LIVO che noi siamo della gente che non sa conservare la propria storia.

Dopo la demolizione della vecchia canonica, zio Gigi venne provvisoriamente ospitato in un piccolo appartamento ubicato nelle vecchie scuole elementari di Varollo, ora ci sono gli appartamenti ITEA e poi venne ricoverato nella veccia casa di riposo di Cles ora demolita da tempo pure quella , ogni tanto prendeva l’ autobus e veniva a trovarci a casa nostra anche dopo la morte di mio padre e quando ritornava in paese mia madre non mancava di fargli trovare per pranzo polenta e crauti che gli piacevano tanto.

 

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Zia Sandrina

 

 

Era sorella di Anna e Luigi e di mia nonna paterna, non l’ ho conosciuta di persona perché morta che io ero giovanissimo, ma no ho sentito parlare molto. Di professione faceva l’ attrice di teatro, era una bella donna ed i paesani la ricordano perché quando tornava in paese per qualche periodo di riposo, era sempre vestita alla moda di quel tempo con abiti lussuosi e di grandi firme italiane e francesi.

 

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La mia casa

 

 

La mia casa ora è un abitazione confortevole dotata di tutti i moderni confort di cui dispone la tecnologia.

La mia porzioni di casa si trova al lato sinistro guardando l’ atrio di ingresso,io abito al piano rialzato e mio fratello al primo piano al quale si accede mediante una scala in cemento armato.

Ma non è sempre stato così, quando ero ragazzino la casa era di quattro proprietari diversi Agosti Luigi (mori) , Agosti Tullio , Agosti Bortolo mio nonno paterno e Filippi Andrea Andy.

Era tutto un meandro di piccole porzioni , a partire dalle cantine fino al sottotetto, che rendeva praticamente impossibile ogni qualsiasi lavoro di ristrutturazione se non fatto di comune accordo con altri proprietari. L parte di proprietà di Agosti Tullio venne acquisita nell’ immediato dopoguerra da Agosti Luigi che venne a detenere così quasi la metà del fabbricato il restante era di proprietà di mio padre e del signor Filippi Andy che era in America da molti anni, quindi era disabitata.

Negli anni ’50 venne ad abitarci una vedova che prima abitava in una casa al Toflin, il marito era morto sul lavoro mentre prestava la sua opera per il rifacimento della strada che porta a Bresimo subito dopo il devastante incendio del 1955.

La signora si chiamava Carla ed aveva tre figli due maschi Rino e Claudio ed una femmina Luciana.

Vennero ad abitare nell’ appartamento del signor Andrea Filippi Andy che era fratello di Carla.

All’ inizio degli anni 60 Carla emigrò in Canada con tutta la famiglia, fu allora che il proprietario mise in vendita la sua porzione che venne acquistata da Agosti Luigi e si poté poi passare ad una divisione materiale con una logica che guardava non più alle piccole porzioni di proprietari diversi ma alla struttura globale dell’ abitazione, vennero così cancellate tutte quelle piccole porzioni che avevano impedito fino a quel momento di intervenire in modo razionale sulla ristrutturazione del fabbricato e si poté così procedere negli anni successivi alla globale ristrutturazione e risanamento dell’ edificio.

Ci vollero molti anni e molto denaro per renderla così come si presenta ora alla vista, togliere tutte le parti in legno degli stabbli rifare il tetto per ben due volte consolidare e rinforzare, ora è una casa rurale con al suo interno tutte quelle comodità e quelle innovazioni tecnologiche ce hanno tutte le case di oggi, nella mia porzione ho voluto lasciare i vecchi avvolti di un tempo a me tanto cari e direi che oltre ad essere esteticamente belli, sono molto caldi d’ inverno ed estremamente freschi d’ estate perché hanno i muri di spessore molto grosso molto isolante.

Sono passati i tempi quando da questa abitazione uscivano schiere di ragazzini di famiglie diverse che uscivano da ogni buco della casa dove si fosse potuto mettere un letto o un materasso, erano altri tempi, è vero, erano tempi dove ci si doveva accontentare dove la parola tedesca “ muss “ bisogna – si deve , era ancora abbondantemente di moda, quando pidocchi e cimici erano i compagni silenziosi ma schifosi della notte dei bambini e le madri prima di mandarli a scuola li dovevano ispezionare meticolosamente perché non restasse a bordo qualche sgradito ospite clandestino.

 

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I soldatini

 

 

Nella vecchia cucina annerita dal fumo e dal forte odore di caligine a causa del focolare che fumava sempre e molte volte mia nonna lasciava i cerchi aperti e la fiamma usciva libera e scoppiettante portandosi dietro una buona dose di fumo, perché mia nonna era convinta che così facendo il fuoco scaldasse di più l’ ambiente.

Il focolare era appoggiato alla finestra della cucina che guardava nella “ cort “ sottostante dove erano ubicate le “ buse de la grassa “ che altro non era che il deposito del letame delle stalle nostra e del signor Luigi nostro condomino.

In inverno con le finestre chiuse e con il freddo fuori, l’ odore del letame era appena percettibile, ma in estate con la finestra aperta protetta solo dalla reticella anti mosche, vi assicuro che l’ olezzo caratteristico del letame che fermentava faceva compagnia a tutto il nucleo famigliare, i numerosi gatti erano più furbi di noi, mangiavano a sazietà dopo la loro bella e sonora litigata per guadagnarsi a forza di artigli il boccone più grosso, metterselo bene tra i denti e poi sparivano fino a nuova fame e si rifugiavano sul fieno morbido, profumato e caldo per la fermentazione in corso.

Ritornavano quatti, quatti la sera per pretendere la loro razione di cibo e per dimostrare tutte le loro capacità di felini predatori ed il loro impegno civico di guardie fedeli e ligie ai propri obblighi, molte volte portavano tra i denti un topolino ancora vivo, terrorizzato per la fine che lo aspettava. Entravano in cucina e subito liberavano il topolino che per pochi attimi poteva assaporare il profumo della libertà, ma la cosa durava poco, quando la povera bestia si credeva al sicuro sotto la vetrina, ecco che uno sguardo sadico e feroce, il gatto gli piombava addosso ed una zampa munita di bianche ed affilatissime unghie lo riagguantava e lo tirava fuori da sotto per poi rilasciarlo ancora libero per alcuni attimi, fingendo ostentatamente di non accorgersi della nuova direzione presa dal topolino.

I gatti debbono aver imparato i metodi più atroci e sadici della tortura dalle SS o dalla Sacra inquisizione, il più delle volte era mio padre a porre fine alle inutili e gratuite sofferenze del topo schiacciandolo con un pestone dei suoi scarponi. Di solito allora mia nonna cacciava via tutti i gatti che dopo un attimo si ripresentavano fuori dalla finestra dopo essere scesi dalle “ spleuze “ fino al poggiolo per la struttura di legno, allora mia nonna davo loro degli avanzi di cibo e ricominciava una lotta furiosa per il boccone preferito.

Secondo me i gatti hanno un loro linguaggio sonoro per capirsi con annesse una sequela di parolacce ed il ripasso quotidiano delle litanie di tutti i loro santi saliti in cielo al termine della loro settima vita…

Verso le 10.30 mia nonna si preparava per fare l’ immancabile polenta gialla di farina di mais, prima di tutto apriva il portellone del focolare e con “ l’ fer del foglar “ un ferro con all’ estremità una curva che a me è sempre sembrato il simbolo della lira, faceva scendere la cenere spenta nel cassetto sottostante lasciando soltanto le braci ardenti, poi riempiva il crogiolo di legna buona “ de foja “ cone acacia, e faggio, poi richiudeva il portellone.

Preparava poi l’ acqua nel grande paiolo di rame lucidato con sabbia di mare ed aceto, che sembrava uno specchio, ci metteva una “ chjaspa “ di sale grosso e nel frattempo il fuoco aveva preso ad ardere bene , crepitando di gusto con qualche schiocco più forte.

Allora nonna toglieva i “ cercli “ del focolare fino a quando nel buco ci passava il culo del paiolo fino al punto dove era nero delle cotture precedenti.

Ci metteva sopra un grosso coperchio ed aspettava paziente che fratello fuoco facesse la sua opera miracolosa di far sfregare l’ idrogeno con l’ ossigeno fino al punto di bollitura dell’ acqua. Allora toglieva il coperchio ed iniziava una fase delicate e determinante affinché la polenta risultasse cotta giusta ma soprattutto senza “ gropi “.

Mia nonna era molto abile ed aveva una grande esperienza nel fare la polenta, prendeva una “ minela “ di farina gialla oro, era uno spettacolo da ammirare, un quadro di colori con tinte forti attenuate dal vapore che saliva allegro, prendeva la “ glava “ e cominciava a versare piano il contenuto della minela nell’ acqua bollente mentre con la glava mescolava velocemente la farina per impedire che si formassero dei grumi ( gropi ), era l’ operazione più veloce e più delicata che si doveva eseguire in modo impeccabile per avere un risultato finale ottimo.

Nel paiolo la farina scendeva veloce e poi prendeva a girare come in un vortice dal colore giallo sembrava la caldera di un vulcano dove tutto ribolle , schizza e scoppietta, finito di mettere la farina la nonna rimetteva il coperchio al paiolo per lasciare riposare l’ impasto e dava una ravvivata al fuoco.

Dopo poco toglieva definitivamente il coperchio ed iniziava a “ mesdar la polenta “ con la glava facendo attenzione di alternare il senso del movimento un po’ a desta ed un po’ a sinistra e lentamente la polenta prendeva forma, consistenza, profumo e sapore.

E tra il fumo profumato di polenta, come le vecchie immagini sfuocate di quei vecchi film in bianco e nero, ritornano il ricordi di quei bei tempi, e sono ricordi autentici che si portano appresso anche l’ odore inconfondibile della polenta che cuoce lentamente al fuoco dei grossi ceppi di acacia, che piano, piano sui bordi alti del paiolo si formavano le “ groste “ di un colore giallo intenso e quando cominciavano a staccarsi dal recipiente si desumeva dall’ esperienza secolare della civiltà contadina, che la polenta era cotta al punto giusto.

Era il momento solenne ed importante nel quale ci voleva tutta l’ abilità di mia nonna, il momento di scodellare la polente sul “ tavel “, allora prendeva due canovacci per non scottarsi le mani, afferrava il paiolo con la mano sinistra per il manico lo toglieva dal fuoco e lo appoggiava in un angolo del focolare, richiudeva in fretta i cerchi e lasciava aperto solo il tappo cieco, poi prendeva il paiolo e si avvicinava al tavel e con un movimento deciso e rapido scodellava la polenta sul cerchio di legno che stava in mezzo al tavolo, poi ricopriva la polenta fumante con una panno di cotone per evitare che evaporasse troppo in fretta e facesse la crosta sopra. La polenta era cotta !!!

Rimanevano sul fondo annerito e rovente del paiolo di rame delle piccole scintille di un rosso vivo che spiccavano in un modo particolare sulla nera fuliggine del fondo del recipiente, la particolarità di queste piccole scintille era che continuavano a muoversi come a cercare nuovi spazi vitali, nuovi posti da esplorare.

A me sembravano tutto quello che restava di una vita lontana alla quale veniva tolto lo spazio per esistere ancora, eppure il fondo del paiolo era molto ampio, ci sarebbe stato spazio a sufficienza per tutte e ne sarebbe pure avanzato, ma niente, tutte si ostinavano a voler restare strette in quei pochi centimetri di fuliggine nera. E rimanevo attento ed affascinato ad osservare questi soldatini, così li chiamava mia nonna, che si urtavano, si spingevano via, poi chi rimaneva isolato piano, piano si spegneva… non avevano divise diverse, erano tutti uguali rossi come il fuoco e rimanevo ad osservarli fino a quando l’ ultimo non moriva. Non c’ erano stati ne vinti ne vincitori, il culo del paiolo mi sembrava un mappamondo in lutto, tutto nero senza più segno di vita, senza che nessuno più rivendicasse uno spazio vitale, un territorio, un cortile, un “ heimat. “

Forse aveva proprio ragione mia nonna a chiamarli soldatini, che avevano combattuto per un ideale, per una bandiera, che avevano cercato un territorio grande come un impero ed erano morti tutti in un angolo di terra bruciata dal fuoco.

La radio trasmetteva allora le “ voci “ della guerra che iniziava in medio oriente tra Arabi ed Israeliani, un conflitto breve che durò solo sei giorni ma che avrebbe poi creato una grande e grave crisi tra le nazioni arabe e lo stato ebraico e che a tutt’ oggi a distanza di 50 anni non se ne intravvede una fine ne diplomatica ne militare. E i soldatini sul fondo del paiolo continuano a morire allora come ora per una striscia di terra bruciata dal sole e da tanta indifferenza ed ipocrisia.

Allora per consolarmi cominciavo a togliere dall’ interno del paiolo le croste saporite ed ancora calde della polenta e me le mangiavo adagio, ripensando sempre a quei poveri soldatini che erano morti pure prima di ricevere il ranci

 

 


CHEI DA SCJANA E CHEI DA LIO

il pomeriggio delle domeniche estive dopo la funzione religiosa dei vespri i ragazzini di Scanna e di Varollo si riunivano nella piazza della chiesa per decidere in quale località della campagna ci si sarebbe trovati a giocare e passare il pomeriggio in compagnia, nella maggior parte dei casi la scelta cadeva sulla “ Plazzola del doss de Barbonzana “ che era una località vicina all' abitato di Scanna. Giunti in cima al dosso, in lontananza, sulla bianca stradina sterrata che attraversa longitudinalmente il dosso di Barbonzana allora coltivato a grano e patate fino all' altezza del “ lech “ il canale dell' acqua a scorrimento che scendeva da muralta, si vedevano arrivare a piccole frotte le ragazzine e seguite a breve distanza dai maschietti di scorta, “ l' era chei da Lio “ e tutti insieme si dirigevano verso il crocifisso della Plazzola dove tra le piante di nocciolo ed i roveti a terra crescevano abbondanti i profumati garofani rossi selvatici con i quali le manine rapide delle bambine realizzavano delle coroncine che poi ci regalavano mentre noi maschietti con le bacche rosse detttte “ Cialcja vecle “ o anche “ Strupa cui “, realizzavamo con un chiodo e dello spago delle piccole collane rosse che mettevamo al collo delle bambine. Quelle bambine di Livo del nostro stesso paese, questa “ specie “ rara a noi quasi sconosciuta retaggio di un tempo di quando ci si trovava assieme solo durante la severa dottrina per i piccoli che il parroco don Giuseppe Calliari teneva alle due del pomeriggio di ogni domenica e guai a mancare, poi le nostre strade di apprendimento si dividevano perchè a quei tempi le scuole elementari nel Comune erano tre una a Varollo, una a Livo ed una a Preghena e questo stato di cose ha di fatto impedito la conoscenza personale tra i bambini delle quattro frazioni, limitando i rapporti personali, umani e culturali e questo serio problema si è protratto fino all' unificazione della scuola in un unico plesso scolastico negli anni '2000. Per questo motivo le bambine e le ragazzine della frazione capoluogo erano per noi ragazzini di Scanna delle vere e proprie sconosciute e la stessa cosa valeva per i maschietti, tutto questo, tutta questa distanza sociale si riperquoteva in noi in un desiderio di conoscenza dell' altro, in un motivo di confronto e di competizione e tra maschi anche di violente discussioni e anche a suon di sassate ma in presenza dell' altra metà del cielo prevaleva sempre farplay ed il pragmatismo in loro rispetto e per accattivarsi la loro simpatia ed il loro sorriso giovane ed innocente. Siedevamo in cerchio vicino alla croce di legno della Plazzola che era proprio in cima alla località detta “ La crozza “ per via della sottostante cava di pietra calcarea che forma la base di tutto il dosso di Barbonzana e ci si confrontava sul programma scolastico, dei maestri più o meno severi ed il nome del luogo era uno stimolo per “ chei da Lio “ di parlarci delle terribili maestre “ Crozze “ che a loro dire erano molto severe. Poi era un turbinio di gonnelline colorate delle femminucce che a piedi scalzi giocavano a rincorrersi tra le piante di nocciolo sull' erba arsa del piccolo praticello seguite dai nostri occhi curiosi e dai nostri cuori anelanti di scoprire emozioni nuove della vita che aveva inizio e ci trascinava nel suo eterno vortice. Era il modo più semplice e naturale per condividere la gioia e l' allegria tipica degli adolescenti che sono in cerca dei segreti della vita resi dei veri e propri tabù dalla religione per cui tutto era considerato peccato fine a se stesso senza che venissero date delle spiegazioni e delle motivazioni in merito e dalla famiglia troppo presa dai tanti lavori agricoli e dalla scarsa cultura per dare delle spigazioni al riguardo ma che stavano tutte in quella frotta di figli straccioni, scalzi e costantemente affamati ma sempre allegri e sorridenti. Allora ci sentivamo tutti autodidatti, tutti alla ricerca della differenza tra le braghe corte e le gonnelline colorate delle ragazzine che ci giravano attorno come delle farfalle per vantare la loro abilità nella danza. Era in quelle danze semplici ed innocenti che madre natura ti mostrava tutto il fascino, la dolcezza, l' eleganza della femmina e te la lasciava ammirare gratis in tutta la sua bellezza. E seguivi con lo sguardo avido quella danza sfrenata di tante gonnelline colorate che si sollevavano al vento lasciando intravvedere dei triangoli bianchi di lino.

 

 

 

 

 

 

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IL MULINO SUL “ LEC “

 

Quando ero un ragazzino negli anni ‘50 il sistema di irrigazione dei prati e dei campi consisteva in una miriade di fossi, il più delle volte scavati nel terreno senza l’ anima di cemento, che si diramavano come una ragnatela tra i prati e portavano l’ acqua del torrente Pescara dalla presa che si trovava in alto vicino all’ abitato di Rumo. Tutta questa rete di fossi dalle dimensioni più disparate si chiamavano nel nostro dialetto “ LECI “ al plurale e “ LEC “ al singolare, tutti sfruttavano la pendenza minimale del terreno per poter portare l’ acqua al massimo livello di altitudine dei terreni agricoli e permettere una produzione ottimale anche negli anni di siccità. Il lec di SAUDERN o di PRA POSIN che serce il CC di Livo è stato rifatto in calcestruzzo negli anni ‘30 da veri maestri muratori locali che senza la moderna strumentazione ottica ed elettronica attuale , furono in grado usando paline in legno, l’ occhio umano e la grande esperienza, di dare una cadenza continua al manufatto del 3 per mille dalla presa fino alla vasca di decantazione che si trovava a monte del abitato di Preghena ad una quota di circa 800 mt. Slm. , una vera e propria opera d’ arte dell’ ingegno umano. La cementificazione dei leci si era resa neccessaria anche per le continue e numerose frane provocate dall’ esondazione dei condotti che si intasavano facilmente con lo scorrere dell’ acqua, come narra don Luigi Conter nel suo libro FATTI STORICI DI LIVO. Ora i leci sono stati sostituiti da robuste condutture in acciaio ed in PVC che distribuiscono l’ acqua con parsimonia tra le colture dei meleti mediante impianti a goccia sottochioma, in sostituzione degli impianti a pioggia molto più dispendiosi e spreconi di quell’ aacqua indispensabile per ogni forma di vita e che diventa sempre più scarsa e costosa. Tutti noi ragazzini avevamo dei prati attraversati dal lec la cui acqua fresca serviva per dissetare le mucche, tenere la bottiglia di vino al fresco e per noi bambini fonte inesauribile di giochi ed esperimenti. Io ero tra i fortunati ad avere un ruscello naturale in un prato vicino al torrente Barnes in località Pongel, scaturiva spontaneo da sotto un grosso masso erratico ed attraversava tutta la parte pianeggiante del prato per poi confluire nel torrente, era il posto dei miei divertimenti … ricordo che costruivo a casa le pale di un piccolo mulino, bastavano due assicelle delle cassette delle mele incastrate tra di loro come a formare una croce, poi al centro si mettevano due lunghi chiodi che fungevano da perno di rotazione ed il mulino in miniatura era pronto per essere messo in moto. Arrivati vicino al ruscello si tagliavano due rami di nocciolo a forma di Y che si piantavano alle rive del ruscello, profonde quel tanto che le pale sfiorassero l’ acqua ed il piccolo mulino si metteva a girare per tutta la giornata ed era una felicità immensa vedere quel piccolo proggetto che avevi sognato la notte ed avevi saputo realizzare con le tue piccole mani ma con grande intuito ed ingegno , vederlo ruotare lentamente spinto dall’ acqua del tuo ruscello.. e restavi per ore a guardare la ruota che girava e il gorgogliare placido dello scorrere dell’ acqua che ti dava una sensazione di grande serenità e tranquillità con gli uccellini che dal vicino bosco sembrano cantare per te la loro gioia al creato e sei uguale a loro e non cerchi altro dalla vita che ti concede di vivere queste meraviglie un cielo limpido, un ruscello che scorre , il tuo mulino che gira ed il fragore del Barnes. Poi arrivava quasi sempre una mia parente che abitava al Toflin e che portava con se la sua nipotina più o meno della stessa mia età, come tutte le femmine curiosa di vedere quell’ opera di alta ingegneria che era il piccolo mulino che girava spinto dall’ acqua , e si accucciava dal lato opposto del ruscello per ammirarlo da vicino … ed era allora che potevi guardare le sue mutandine bianche sotto la sua gonnelina rossa, ai miei tempi era fatto divieto alle femmine di indossare abiti maschili, ed era il momento che il cervello cercava di darti delle spiegazioni ma come un cubo di rubig più lo giri più si incasina, così entravi nella più totale confusione tra le spiegazioni rubate dai discorsi degli adulti, le poche nozioni imparate a scuola ed i tanti taboo riguardanti il sesso, ma era anche quello un momento di crescita e della consapevolezza che esistevano due sessi che come due calamite si attraevano l’ un l’ altro, ed è sempre stato così fin dall’ inizio della vita. Poi arrivava mio padre tutto sudato con la falce in mano a riempire d’ acqua il “ cozzar “ per bagnare la “ preda “ che affilava la falce come un rasoio ; si fermava un momento si toglieva il cappello e si chinava a bere alla sorgente del grande masso dove l’ acqua sgorgava fresca e pulita e non dimenticava mai di ricordarmi il valore infinito di quel liquido benedetto e quante volte nell’ arido deserto della Libia aveva sognato le fresche sorgenti della malga Binaggia quando era pastore prima della guerra, poi si rimetteva il cappello e tornava a falciare di lena il prato. Ho avuto modo durante la mia vita di raccogliere le testimonianze di molti reduci di guerra, della prima e seconda guerra mondiale: i combattenti sul fronte africano lamentavano tutti la mancanza di acqua e la grande sete patita, quelli del fronte russo il grande freddo che li paralizzava e li congelava lentamente … e tutti maledicevano la guerra, forse ai giovani d’ oggi non è stato volutamente, per ragioni politiche, insegnata la storia contemporanea ed oggi ne paghiamo tristemente le conseguenze. E l’ acqua continuava a scorrere ed a far girare il piccolo mulino, con l’ amichetta ci siamo tolti i sandali ed abbiamo immerso i piedini nel fresco rivo con un sorriso e dei gridolini di felicità per il sollievo dato dall’ acqua che ti scorreva tra le dita provocando una piacevole sensazione di sollievo e di benessere. Il prato a Pongel ora è di proprietà dei miei cugini di Bolzano ed è un fitto bosco di abeti rossi che avevo piantato per conto di mio zio negli anni ‘70 , nei primi anni da pensionato un giorno mi è presa la nostalgia e la curiosità di rivedere quei luoghi che avevano reso felice la mia infanzia, nonostante i miei handicap fisici, e mi sono recato a Pongel, ho attraversato il fitto bosco dirigendomi verso il grande masso da dove sgorgava il ruscello, arrivato lì ebbi la più grande delusione della mia vita: la sorgente si era prosciugata ed il ruscello non c’ era più. Probabilmente i lavori di scavo per la costruzione di una centralina elettrica poco distante avevano tagliato la falda acquifera che alimentava il ruscello … tornai a casa piangendo. D’ estate poi ci si accodava ai “ grandi “ che erano studenti di 6° elementare o che avevano frequentato le scuole presso degli Istituti religiosi ed avevano imparato molto più di noi piccoli, sapevano la fisica, la tecnologia che sperimentavano nel bosco di Somargen e presso il torrente Pescara, così vedevi nascere una piccola centrale idro – elettrica fatta con una grossa dinamo con un meccanismo di ingranaggi e mossa da delle pale molto più grandi che sfruttavano la corrente impetuosa del torrente, il tutto serviva per illuminare una piccola baita costruita rigorosamente con il legno abbondante del bosco in una località che si chiamava “ Splazze “ che era un tratto pianeggiante del bosco privo di vegetazione un prato dove si portava il bestiame al pascolo. Allora non c’ erano telefoni o cellulari, per ritrovarsi valeva il tocco della campana che segnava l’ ora e il nome della località, noi conoscevamo il bosco ed i suoi segreti, conoscevamo strade e sentieri come le nostre tasche, lo si frequentava di giorno e di notte, si faceva riferimento a delle pietre particolari o ad alberi dalle forme strane e non ricordo che qualcuno si sia infortunato gravemente in quel periodo, al di là dei consueti graffi dei rovi o qualche ginocchio sbucciato per una caduta … non oso neppure immaginare quello che potrebbe succedere se si mandassero nel bosco i bambini di oggi. Questa era la vita povera ma felice di noi bambini degli anni ‘50 eravamo accomunati dalla povertà che allora regnava sovrana in tutte le case, che determinava un uguaglianza sociale di fatto, nessuno possedeva qualche cosa che l’ altro non avesse e che poteva essere fonte di invidia o di superiorità, tutti al mattino mangiavano le “ patate rostide “ con il latte e caffè di orzo e a pranzo polenta e quello che il convento offriva … ma sono stati giorni di grande serenità e di profonde e sincere amicizie che sono durate nel tempo fino ai giorni nostri e non di rado quei fanciulli di un tempo ora anziani quando si ritrovano rivangano con la memoria e tanta nostalgia quei giorni felici sulle rive di un fosso a guardare l’ acqua che scorre ed un mulino che và ...

 

 

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L ‘ CJANTON DI “ BOROMEI “

 

(L’ angolo dei “ Boromei “)

quando ero ragazzino delle elementari età in cui si comincia a capire il senso della vita, il trascorrere delle stagioni, i disagi di un infanzia di privazioni e umiliazioni, quando si cominciavano a capire le differenze sociali tra i ricchi e i poveri, quando gli infissi di casa erano tamponati da carta e stracci per evitare gli spifferi freddi e per fare pipì dovevi usare il “ cesso a caduta “ di legno sporgente dalle case gelato come i moderni freezer, allora la stagione più lunga e odiata che non finiva mai era l’ inverno. Allora nelle case c’ erano tre stanze abbastanza riscaldate ed erano la cucina, la stube foderata in legno ( la stua ) e la stalla che era riscaldata dal fiato delle mucche. L’ inverno si impadroniva dei tuoi piedini e ti provocava le bujanze ( i geloni ) che ti arrossavano e ti gonfiavano le dita provocandoti molto dolore e la sensazione che le scarpe fossero strette, poi ti gelava le mani anche se avevi i guantini o le manopoledi lana che ti aveva fatto la nonna, quando ti svegliavi al mattino e la finestra della tua cameretta era divenuta un quadro artistico naturale con arabeschi fiori di ghiaccio … c’ è da aggiungere che ai miei tempi l’ inverno era tosto con tanto freddo e tanta, tanta neve. Ecco la neve con il suo eterno fascino, che imbianca tutto che muta in una notte il paesaggio proprio come nelle fiabe che ci raccontava il buon maestro Ernesto a scuola e ci diceva sempre il saggio proverbio della cultura contadina tramandato dalla notte dei tempi e a tutt’ oggi ancora valido ed attuale: “ Sotto la neve pane, sotto l’ acqua fame … “ se per gli adulti la neve provocava qualche disagio e la scocciatura di dover fare “ la rotta “ per noi fanciulli era un motivo di grande gioia perché si poteva andare a slittare sullo stradone; alla prima nevicata si preparavano le slitte, si rervisionavano affinché fossero in piena sicurezza ed efficienza con l’ aiuto dei più grandi o del papà. Le slitte che usavamo noi ragazzini di allora erano fatte come un carretto con la parte posteriore fissa e dotata di lamine di acciaio e la parte anteriore mobile anch’ essa con le lamine di acciaio ed il manubrio simile a quello di una moto, la slitta mancava però di un sistema di frenatura autonomo la frenata avveniva con i piedi dei viaggiatori che raschiavano la neve al bisogno. Per poter “ slittare “ in modo ottimale bisognava attendere che sullo stradone fosse passato lo ” slitton “ che proveniente da Rumo faceva la rotta fino al bivio di Scanna. Il passaggio dello slitton era un vero e proprio spettacolo da fiaba come si vedevano certe immagini sui libri di scuola, era composto da un grande cuneo ferrato anteriore che fendeva la bianca coltre di neve fresta e dietro due enormi, pesanti tavole di legno fissate al cuneo anteriore con delle robuste cerniere in acciaio, era fantastico vedere avanzare i cavalli sbuffanti e sudati nella neve che trainavano lo slitton, uno spettacolo degno di un grande film Disney che ancora adesso rivedo col pensiero e con infinita nostalgia di quei tempi da fiaba e tanta libertà. Si attendeva con ansia la fine delle lezioni e poi si tornava a casa con gli accordi preventivi con chi possedeva una slitta e quali passeggeri avrebbe preso a bordo, si trainavano le slitte con una cordicella di canapa fino a Preghena sullo stradone reso uno specchio scintillante dal passaggio dello slitton e poi si giravano i mezzi e si era tutti pronti a partire diretti al bivio di Scanna. Prima di partire correva di bocca in bocca un monito severo di attenzione al pericoloso angolo dei “ Boromei … “ Stet atenti al cjanton di Boromei !!! “ , perché giunti a Scanna nei pressi del “ morar di Tripoi “ la strada si faceva pianeggiante per un tratto rallentando la velocità delle slitte, allora si decideva preventivamente di scendere dritti per la ripida e tortuosa stradina che taglia il paese di Scanna, accorcia e sbuca di nuovo sullo stradone a cento metri dal bivio sulla SS 42 ed a questo punto bisognava prestare la massima attenzione all’ angolo dei Boromei … le slitte scendevano veloci con il classico rumore dei pattini sulla neve battuta e gelata come un rumore di lontani cavalli al galoppo, tutti ci tenevamo attaccati con le mani ai bordi, una slitta dietro l’ altra a velocità folli, arrivati al morar di Tripoi le slitte imboccavano il primo budello della strada di Scanna con un tonfo per via dell’ improvviso cambio di pendenza, poi giù verso il fatidico cjanton di Boromei. Venti metri più a valle della chiesetta di Scanna dove la stradina gira a destra c’ era il temuto angolo, lì la strada si fa stretta e ripida bisogna fare attenzione a non viaggiare troppo a destra per via dell’ ingresso a gradino di una stalla e poi c’ é subito il cjanton che sporge a barbacane dalla casa… lì bisognava essere piloti esperti e dal sangue freddo tipico di quella età barbara ed incosciente che è la giovinezza. Le slitte passavano rombando ad una ad una guidate da mani esperte, rasentando l’ angolo in modo pauroso per poi immettersi nel budello finale tra la casa dei Ciatti e quella dei Ferari poi giù di nuovo nello stradone fino ad arrivare a destinazione Bivio di Scanna. Si riprendeva poi il cammino di ritorno verso nord ed ognuno raccontava con ampia gesticolazione la sua avventura, i momenti più brutti ma sopratutto quelli più belli ed affascinanti della giovinezza spensierata e serena della nosta stupenda età …

 

 

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La “ poina “

 

( La ricotta )

 

 

Era la parte meno nobile della filiera della trasformazione del latte, prima veniva prodotto il burro, poi il formaggio e dal siero del latte veniva infine ricavata la “ poina “.

La tradizione in italiano di questo prodotto e ricotta, e porta nel nome stesso la sua origine ed il suo sistema di lavorazione, infatti la ricotta veniva prodotta da una seconda caliata del siero dove prima si era prodotto il formaggio.

Il siero residuato del formaggio, seguiva lo stesso procedimento del latte che veniva nuovamente riscaldato a 35/ 37 gradi, ci veniva messo del nuovo callio che coagulava i residui di latte e grassi rimasti dalla prima cotta nella quale si era ricavato il formaggio.

Naturalmente quello che ne derivava erano delle forme di piccole dimensioni e dal contenuto estremamente povero di grassi: la poina. Ora credo venga prodotta solo nelle malghe di montagna e messa ad affumicare sopra delle tavole di legno nella casera vicino al pai nei pressi dell’ uscita del fumo verso il camino, prendono così un colore ed un sapore tutti particolare ed è divenuta un prodotto di elite consumato da pochi fortunati che la prenotano in tempo ai pastori o al casaro della malga.

Ai miei tempi era uno dei condimenti che spesso accompagnavano la misera polenta di tutti i giorni, aveva un sapore ed un odore tutti particolari impossibili da descrivere per chi non ne abbia mai avuta l’ occasione di mangiarla almeno una volta nella vita. La poina era un alimento estremamente magro e quasi privo di calorie, andrebbe bene adesso per tutte quelle signore in sovrappeso che si arrovellano per trovare una dieta o un prodotto che le faccia dimagrire, senza rinunciare alla buona tavola ed all’ abitudine forchettata, spendendo montagne di denaro per poi piangere ogni volta che salgono su una bilancia pesa persone.

Basterebbe una bella e poco costosa dieta alimentare basata sulla polenta e poina ed avremo fatto di tutte le donne italiane delle siluette. Quando ai miei tempi si era costretti per la mancanza assoluta di denaro ad alimentarci con la poina, tutti la odiavano perché sapeva di fumo e di sale e qualche volta ospitava anche qualche inquilino invertebrato di colore bianco panna che usciva allegramente dal pezzo tagliato di fresco, ti faceva un saluto e poi attraversava strisciando il tuo piatto facendoti perdere immediatamente l’appetito ed il più delle volte dicevi di non aver fame o di non stare tanto bene per non dover mangiare anche gli abitanti clandestini della poina.

Per la gente di montagna è stato uno degli alimenti poveri della classi meno abbienti come i contadini di allora che erano costretti a vivere con l’ esclusivo ricavato dei prodotti della terra, dai quali bisognava togliere il meglio della produzione che veniva venduto per poter ricavare del denaro per l’ acquisto di generi che non venivano prodotti in loco, vestiti, scarpe, farmaci ecc., così il burro veniva venduto, come pure parte del formaggio, i vitellini nella stalla. Con l’ incedere del benessere portato dal boom economico italiano degli anni ‘ 60 , la gente cominciò ad avere maggiore disponibilità di denaro frutto di un economia italiana che cresceva assieme al paese, si passò presto dall’ autarchia alimentare famigliare alla forma di commercio più pratica dell’ acquisto dei generi alimentari presso i negozi che erano sempre più riforniti con tutte le soluzioni e le novità che il mercato proponeva.

Con questo nuovo sistema l’ autarchia famigliare non h avuto più ragione di esistere, sono andate così definitivamente perse numerose tradizioni inerenti la produzione dei generi alimentari che si potevano comodamente acquistare nei negozi, dapprima sfusi e poi confezionati in unità di misura varie.

Chi non aveva produzione propria, il latte lo andava a prendere con un secchiello al caseificio, fresco appena munto, poi le leggi si sono fatte più restrittive e tutto quello che fino a ieri era un prodotto genuino acquistabile direttamente dal produttore, il giorno dopo non era più a norma e doveva essere venduto confezionato, prima in bottiglie di vetro e poi in tetrapac, rigorosamente pastorizzato UHT.

Così è stato piano, piano per tutti gli altri prodotti alimentari ed è nata così una catena di produzione al dettaglio che ha teso a confezionare tutti i prodotti alimentari in contenitori per la maggior parte in plastiche di vario tipo con il risultato di aver dato il via ad una colossale produzione di rifiuti che ora è divenuta una vera o propria emergenza nazionale, ma non importa tutto deve essere a norma CEE dalle confezioni alimentari, alle quote latte, alle produzioni di origine DOC e DOP, alla nomenclatura dei vini ecc.

La vecchia e gloriosa poina è divenuta ormai u attrattiva turistica per quelli che amano le escursioni in montagna con una sosta presso le malghe che ancora lavorano il latte, a chiedere una fetta di poina come se fosse il boccone più prelibato che ci sia.

Viene anche usata negli agritur come se si trattasse di tartufo o di caviale, e ritorna forte assieme all’ inconfondibile profumo di poina affumicata, il ricordo ed il rimpianto per quei tempi di miseria nera che per anni ci ha obbligato ad avere come piatto principale polenta, patate e poina, quando nessuno nel paese la sera prima di andare a letto chiudeva a chiave la porta di casa, certo che nessuno sarebbe entrato a violare la sua proprietà o i suoi beni, quando se uno aveva bisogno di un favore , piccolo o grande che fosse, bussava alla porta del prossimo vicino di casa certo che l’ amico lo avrebbe aiutato . io ho avuto tante disgrazie nella vita, tante umiliazioni ed angherie, ma ho avuto la grande forma di essere nato in un epoca in cui i rapporti umani erano migliori, la gente era molto più solidale ed onesta, non esisteva l’ ipocrisia di adesso nella vita sociale e de uno ti prometteva una parola quella era perché la comune povertà di quell’ epoca metteva tutti allo stesso livello ed a pranzo tutti mangiavano polenta e poina.

 

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Le patate rostide

 

 

Uno dei principali alimenti che costituivano il nutrimento di noi ragazzini di allora e che veniva preparato tutti i giorni della settimana, servito a tavola fresco o riscaldato, da solo od accompagnato da una ciotola di latte caldo, erano le patate rostide.

Per una volta credo che non ci sia bisogno di traduzione per capire che si tratta di patate arrostite.

Era un alimento semplice ed allo stesso modo molto economico, infatti il prodotto base principale erano le patate che venivano coltivate a tutte le famiglie della comunità in grande abbondanza nei campi attorno al paese. La pezzatura del tubero di patata variava a seconda della piovosità o della siccità della stagione, se era una stagione piovosa le patate maturavano con una pezzatura bella grossa, ma se al contrario la stagione era scarsa di pioggia o in certi anni il terreno pativa la siccità, allora tutto il raccolto, patate compresa erano di dimensioni molto piccole a tal punto che mio padre le paragonava con il suo linguaggio colorito e tagliente ai “ cojoni di grii “ ( alle palle dei grilli ).

Le patate rostide si preparavano con gli avanzi di quelle lessate per il pranzo, si pelavano e si schiacciavano con le mani in una grande scodella, mia nonna era un genio nel confezionare questo pasto, lei ci metteva un poco di latte ed una cipolla tagliata a spicchi che faceva rosolare dentro una enorme tegame di rame assieme a dello strutto ( grasso di maiale ), quando il grasso friggeva e le cipolle avevano preso un bel colore rossastro, venivano messe dentro il tegame le patate schiacciate e gli veniva cosparso un pizzico di sale, si lasciavano così rosolare mescolandole con un mestolo di legno per una decina di minuti, il tempo che si amalgamassero con il grasso fuso e la cipolla, quando avevano preso anch’ esse un bel colore giallo oro e profumavano di lardo e cipolla, allora si pressavano con un mestolo sempre di legno che assomigliava ad una paletta per far giocare i bambini, alla fine ne risultava come una grande torta alta due o tre centimetri, pronta per esser servita a tavola al mattino con il latte caldo misto a caffè di orzo rigorosamente tostato in casa con il “ brustolin “ che era il tosta caffè fatto in casa, mia nonna mi faceva girare la manovella mentre il fuoco abbrustoliva l’ orzo in una nuvola di fumo che invadeva la cucina nonostante la finestra e la porta fossero spalancate.

Alla fine dell’ operazione, assomigliavo più ad un diavolette puzzolente di fumo nei capelli e nei panni, mi mancavano solo due piccole corna ed ero un perfetto figlioletto di satana.

Invece la sera a cena. Le patate rostide venivano proposte con un menù diverso: con la minestra di orzo anche quella rigorosamente scaldata perché avanzata dalla sera precedente.

Così crescevo, un po’ gracilino e sottopeso, ma crescevo e non andavo a cercare altre soluzioni culinarie, sarebbe stato un inutile perdita di tempo perché quello era tutto quanto offriva il convento della famiglia Agosti, basti pensare che i primi budini, le prime banane il primo latte con il cioccolato, la prima gianduia da spalmare, ( l’ attuale nutella ), le ho potute mangiare solamente alcuni ani dopo quando andai a studiare presso il convento dei frati di Campolomaso.

Erano tempi duri, era inutile anzi controproducente lamentarsi della qualità del cibo, perché mio padre ch era una persona saggia e giusta, mi faceva notare, prendendomi in braccio, che c’ erano dei bambini che non potevano disporre neppure delle patate rostide.

Io non ho mai sofferto la fame, mio padre e mia madre piuttosto che io e mio fratello fossimo privati della giusta razione di cibo, si privavano loro per darlo a noi.

Erano tempi dove era evidente e palpabile il bisogno della reciproca solidarietà tra i membri di questa Comunità, che ha avuto momenti di alto spirito filantropico e solidale, nessuno allora si vantava più di tanto e non metteva tanto in mostra ne faceva pesare all’ altro il fatto di AVERE più dell’ altro, eravamo tutti poveri economicamente, quindi tutti eravamo nello stesso identico stato sociale, si dava allora molta più importanza all’ ESSERE, e si sapeva dedicare molto più tempo all’ educazione morale e civica dei propri figli, ogni giorno si trovava un momento per fare il punto della situazione scolastica, e ci venivano chieste spiegazione sul fatto che il maestro aveva informato mio padre sul mio andamento scolastico ed il Parroco gli aveva parlato della prossima cerimonia per la prima Santa Comunione… si trovava anche il tempo per la recita del rosario tutte le sere di maggio, per ascoltare mio padre che ci leggeva un buon libro o per ascoltare tutti assieme, in rigoroso silenzio, il radiodramma che veniva trasmesso dalla radio.

La vita ai miei tempi sembrava scorrere più lenta, meno piena di inutile e deleteria rincorsa ad avere più prestigio, che ora si identifica nell’ appartamento lussuoso, nei vestiti firmati che costano un patrimonio ed hanno la stessa utilità di quelli che mi porta a basso prezzo la mia amica marocchina Widad.

Non serviva l’ automobile di grossa cilindrata o il suv per avere più prestigio e rimorchiare qualche ragazza, e neppure il tanto sbandierato titolo di studio che faceva poi diventare il suo possessore un “ impiegato “ come se l’ agricoltore ed allevatore del nostro paese fosse uno sfaticato senza lavoro invece di un esperto ed instancabile lavoratore, non c’ era le televisione che è un formidabile strumento educativo se ben usato, ma diventa una piaga di asocialità e di profondo egoismo e futilità se usata in modo selvaggio e senza regole o controlli.

Ora uno conta se ha una bella casa, una automobile potente, se ha un profilo facebook con almeno 300 amici che gli sparano cazzate condivise da mezza Italia, quando non sono vere e proprie pesanti volgarità sessuali… poi non si è più capaci di avere con una donna dei momenti di dolcezza di vera intimità che alla lunga può anche portare ad un rapporto sessuale, ma ci si arriva dopo un percorso di conoscenza reciproca che il fare l’ amore diventa la logica conclusione di un percorso di vita insieme, senza più bugie, ne taboo ma un esigenza naturale che conclude un positivo percorso di vita dedicato alla procreazione ed alla continuazione della specie umana, che è forse l’ unica ragione per la quale il Creatore e madre natura ci hanno concesso questa breve parentesi sulla terra.

Anche per gli anziani e per i disabili , quando io ero un ragazzino il trattamento era molto diverso da quello attuale, allora tutte le famiglie erano dette patriarcali in quanto al loro interno trovavano posto tutti i loro membri, sani e malati, vecchi e giovani, ed il proprietario della casa era obbligato ad ospitare gli anziani genitori e i figli e le figlie che non si erano maritali. In casa la più alta autorità era del patriarca , il nonno che aveva il diritto di mettere la parola finale sugli affari economici ed amministrativi del nucleo familiare ed anche sulle piccole diversità di opinione o i piccoli diverbi tra le donne.

Ora tutto questo è divenuta stretta competenza dell’ Ente pubblico con i suoi Servizi sociali, la sua burocrazia, la sua organizzazione molto discutibile ed arida di umanità e carità cristiana. Ora , come tutto , anche noi anziani siamo dei numeri, degli oggetti che producono lavoro e reddito, ora le signore di adesso, dalle lunghe lingue e unghie rosse,non vogliono più brighe e scocciature in casa, ora tutte vogliono stare comode dopo il lavoro, nessuno le deve disturbare quando sono in chat su face book o al telefonino a mandare SMS alle tante amiche di turno che ha appena visto senza neppure salutarle, ma un messaggio e un post e che diamine, quello ci vuole, se no che amiche siamo !

 

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Le erbe commestibili.

 

 

Un abitudine ereditata dagli anni in cui la miseria aveva ridotto la popolazione alla fame, era quella, nelle primavere dei miei tempi, di andare per i prati a mangiare i “ panciuchi “.

Erano delle erbe grasse che crescevano per lo più nelle zone ed alta umidità dei prati, erano delle erbe simili agli asparagi che bisognava cogliere quando erano allo stadio iniziale perché poi diventavano legnose e non più commestibili.

Avevano un sapore acidulo, si strappavano e si mangiavano a pezzetti direttamente nei prati, allora eravamo in grado di riconoscere e distinguere quasi tutte le erbe che crescevano nei prati ed anche le numerose specie di fiori che crescevano allora nei prati e nei campi, molte della quali ora non ci sono più a causa del repentino cambiamento di coltura che ha portato di fatto ad una discutibile monocoltura fatta esclusivamente di mele golden delicius , che ha imposto un sempre maggior trattamento delle piante con anti parassitari, ed anti crittogamici fino ad arrivare ai limiti di avere un terreno talmente inquinato che si può definire tranquillamente fito - tossico.

Allora si potevano raccogliere , senza timore di intossicazioni, anche i denti di cane o denti di leone che era ed è un ottima verdura che và raccolta all’ inizio della stagione primaverile togliendo dal terreno la radice ed i primi germogli, perché poi la pianta cresce s fa dapprima un bel fiore giallo che si trasforma poi in semi simili a tanti paracadute che il vento disperde per continuare la specie.

Mia nonna mi raccontava che durante la prima guerra mondiale la popolazione affamata per sopravvivere aveva cercato tra le erbe dei campi e dei prati quelle commestibili o utili per compensare le carenze alimentari e di altro genere imposte dalla guerra, come le ortiche per mangiare o per fare filati ed altre erbe talvolta medicinali, come l’ erba medica “ medeck “ o la radice anziana che si raccoglie in montagna.

Ora i empi sono cambiati e ci siamo abituati a comprare le verdure dal fruttivendolo, dando per scontato che le coso rimangano così, immutabili, ma niente è più dinamico della natura che ha una grande forza di adattamento al mutare delle condizioni climatiche, ma è anche molto sensibile agli sfregi che l’ uomo quotidianamente le sottopone, perciò tutto quello che è stato può ripetersi con conseguenze catastrofiche neppure immaginabili per il genere umano, con guerre per il controllo dell’ acqua o grandi emigrazioni di massa che possono sconvolgere l’ intero pianeta.

 

 

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I crauti

 

 

Nella tradizione alimentare contadina del nord est in modo particolare nelle zone adiacenti al Sudtirol dove si parla come madrelingua il tedesco, uno dei piatti tradizionali della stagione invernale sono i crauti. Questo ottimo e gustoso alimento viene prodotto usando come unico componente il cavolo cappuccio che cresce in abbondanza da noi e matura nella stagione autunnale.

Il par giò i crauti era un vero e proprio rito di tutte le famiglie contadine, i crauti infatti sono un genere alimentare a lunga conservazione, dura praticamente tutto l’ inverno fino a primavera inoltrata.

Non appena finita la raccolta del cavolo cappuccio che avveniva in ottobre, non appena i campi erano stati liberati da altri prodotti come patate, bietole, rape ecc. , questo veniva trasportato in casa nella benna del carro, veniva sempre raccolto in una giornata ventosa per favorirne l’ asciugatura all’ interno delle foglie ed evitare così che marcissero.

Una parte veniva conservato in un luogo fresco e ventilato e con gli altri cappucci si facevano i crauti.

Si procedeva in questo modo, si puliva molto bene prima il recipiente di legno fatto come un barile ma aperto da un lato con un coperchio di legno rimovibile che serviva alla fine dell’ operazione. Serviva poi la “fletarola” che altro non era che una grande affettaverdure con la lama ad inclinazione variabile per affettare i cavoli con diversi spessori, sopra la quale scorreva una piccola tramoggia dove veniva inserito il cappuccio che veniva fatto scorrere sopra la lama e ne usciva sotto tutto affettato e cadeva direttamente dentro in barile.

Sopra ogni stato di cappuccio affettato veniva cosparso un po’ di sale da cucina quanto bastava per dare ai futuri crauti un giusto gusto salino. Finiti i cavoli era finita anche l’ operazione crauti, bastava mettere dentro il barile il grosso coperchio di legno a contatto con il prodotto ed aspettare per circa 40 giorni fino a quando nel giro di una notte i crauti facevano l’ acqua che saliva fin sopra il coperchio per alcuni centimetri, allora era il segnale che i crauti avevano finito la loro fermentazione ed avevano acquistato quella classica acidità caratteristica di questo prodotto alimentare.

Il modo più classico di gustare i crauti, è cuocerli in acqua con l’ aggiunta di pancetta, cotechino e puntine di maiale diventano un piatto delizioso e ricercato , lo si trova facilmente negli agritur, nelle malghe di montagna ed in molti ristoranti ed alberghi trentini.

Devo aggiungere che sono ottimi anche mangiati crudi o scaldati in un panino.

 

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Ordine e disciplina

 

 

Erano tempi dell’ immediato post-fascismo dove ancora imperava il senso di Patria, del dovere e della disciplina che comportavano un obbedienza alle Autorità costituite ed una rigida disciplina verso i superiori, a prescindere che questi la meritassero o meno, tutto questo non si poteva neppure mettere in discussione.

Avevo e tutt’ ora ho molti dubbi sulla riverenza, a volte anche troppo marcata che rasentava l’ adulazione, verso personaggi che a mio parere non ne erano degni per il loro passato fascista o per la loro discutibile vita morale.

Tanti sarebbero i nomi da fare di gente voltagabbana ruffiana e molto lesta a cambiare il saluto romano con il pugno chiuso, perché solo in questo modo sapevano di contare qualcosa e di estorcere il rispetto che non si meritavano per luce propria. così come è stato per molti sessantottini pronti a nazionalizzare il paese alla Ugo Chavez e divenuti poi la peggior feccia di questo comune, ma è meglio se sto zitto ma è in questo modo che questo paese e la sua Comunità sono stati penalizzati nella cultura, nel rispetto reciproco, nella solidarietà, nel recupero delle tradizioni, nell’ interesse per la storia e soprattutto nella conservazione e manutenzione dei documenti storici di ogni tipo che avrebbero potuto dare il modo di ricostruire la nostra storia passata con maggiore certezza e dovizia di particolari, come lamenta il Prete scrittore don Luigi Conter.

L’ argomento in questione era la disciplina ed il senso del dovere , del rispetto dovuto alle autorità e per autorità per prime io intendo la famiglia con i componenti più vecchi, dal nonno al padre alla madre e perfino agli zii.

Allora si dava ancora del voi alle persone più anziane, un eredità del fascismo voluta dal gerarca Starace.

E questo sistema di ordine era riconosciuto ed accettato da tutti, vecchi e giovani, era una forma di rispetto assodata e praticata da tutti. Quando a scuola entrava in classe il signor Parroco, o il signor medico il dottor Tenaglia o qualsivoglia altra autorità, tutti gli alunni erano obbligati ad alzarsi in piedi e salutare la nuova presenza con la parola “ Riverisco “, e bisognava rimanere in piedi fino a quando l’ ospite non dava l’ ordine di sedersi e rimanere in assoluto silenzio; solo il nuovo venuto aveva il diritto di mutare questo stato e di fare domande ed esigere risposte.

Tra i ragazzini maschi di allora, si giocava spesso alla scuola guida in quanto l’ automobile era una cosa molto ambita tra i giovani di allora tutti quanti biker e appiedati.

Una delle domande classiche che venivano rivolte agli aspiranti ad avere la patente di guida era questa :

se ti ferma la polizia in autostrada tu cosa fai ? “

La risposta era immediata e decisa :

tolgo la chiave dalla macchina e quella si ferma ! “

 

 

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il filò

 

 

credo che la parola “ filò “ trovi la sua giusta collocazione etimologica nel verbo filare, tanto usato nel passato per raccontare il lavoro umile ed importante di tante donne che con infinita pazienza filavano la lana ed alti tipi ci filato come il cotone ed il lino, per poter dare un vestito al proprio uomo ed ai propri figli. Forse non ci abbiamo mai pensato a quanto sia stato utile nei secoli questo lavoro , questo impegno femminile, che sapeva creare da una materia prima organica o vegetale , dapprima i tessuti per gli abiti per ripararsi dal freddo e dalle intemperie per poi arrivare con la genialità tipica delle donne a dei veri e propri capolavori artistici come i tappeti ed i variopinti abiti che la tradizione di ogni cultura ci propone con le tante e variopinte varianti. Da questo lavoro meticoloso della filatura che spesso vedeva le donne i comunità con la possibilità di scambiarsi idee, consigli e parlare della vita di tutti i giorni con tutti i suoi aspetti, dalla dolcezza di una donna innamorata e gelosa del proprio uomo, alla gioia infinita e legittima di una giovane madre, al sorriso dolce e beffardo di una donna che ha avuto l’ amore. Alla tristezza di quella che è stata lasciata dal suo uomo, fino al dolore senza fine di una vedova che ancora giovane cerca un amore ma che certe leggi di un’ assurda e medioevale morale glielo vietano.

Ci si trovava la sera sulle immancabili panchine esposte all’ ingresso di quasi tutte le abitazioni a raccontarci la vita che era scorsa quel giorno nel paese, e l’ argomento che dapprima poteva essere banale , come l’ analisi del tempo atmosferico o i convenevoli di rito, piano, piano si faceva più dettagliato quando qualcuno proponeva un argomento o un fatto recente di comune interesse che suscitava la curiosità, ed a volte anche la morbosità, di tutti. Il filò era come una specie di telegiornale fatto in casa dove la notizia nel maggior numero dei casi era tutt’ altro che certa e se anche lo fosse stato difettava e discordava nei dettagli tra una panchina e l’ altra, allora, nell’ incertezza e con la curiosità delle femmine, una trovava sempre una valida scusa per spostarsi da una panchina all’ altra per poter carpire maggiori dettagli e segreti per poi venderli a caro prezzo alle comari di un altro rione.

Tutto era regolato da leggi mai scritte e da limiti invalicabili quali il buon senso e la segretezza di certi argomenti che era possibile sentire ma guai a chi li avesse ripetuti ad altri. Così era possibile che un argomento restasse il segreto assoluto di proprietà di coloro che frequentavano una determinata panchina e che venisse poi reso obsoleto dopo pochi giorni e poi completamente archiviato dal cervello attivo e fervido delle comari assetato di altre novità da discutere ed elaborare.

Per fare un esempio che avvalora e rende bene l’ idea di questo comportamento nella pratica del filò, basti pensare che a distanza di 50 anni tramite un amica che allora era un’ adolescente sono venuto a sapere che una mia coetanea era stata violentata da un “ bullo “ del paese…

Il filò aveva però anche il suo aspetto positivo e sociale, innanzitutto favoriva le relazioni umane tra gli abitanti di questa comunità ed anche di quelle limitrofe, perché non era difficile trovare su una panchina un ragazzo proveniente da un paesino vicino al nostro, magari a piedi o se era fortunato in bicicletta od in moto e potevate stare certi che su quella panchina c’ era anche una ragazza, tirata a nuovo con i cappelli ben pettinati un cenno di rossetto sulle labbra ed un profumo violento che lo sentivi a dieci metri di distanza, serviva anche a coprire l’ immancabile odore di stalla che tutti ci portavamo addosso e per le femmine certi odori che in primavera con il tepore del sole si ravvivavano , allora non erano disponibili gli assorbenti intimi e tutta quella gamma di prodotti per l’ igiene intima della donna, c’ erano sole delle pezze ricavate da vecchie lenzuola di cotone o di lino, che finito il loro lavoro non venivano buttate ma venivano lavate a mano alla fontana e riutilizzate.

Un altro valore che io trovo giusto attribuire al filò, era quello della solidarietà umana che passava anche quella attraverso il filò, era quasi impalpabile come il vento di primavera che , ancora fresco ti ricorda che tornerà l’ inverno con tutti i disagi che si porta appresso. Così nasceva con semplicità ed il legittimo orgoglio di poter dare una mano a chi in quel momento ne aveva effettivamente bisogno, una gara di solidarietà verso il prossimo, che poteva essere un abitante del posto, di un paese vicino o un problema più grande come gli incendi delle case che allora erano una piaga, per arrivare alle grandi tragedie mondiali come la fame o i terremoti e le guerre.

E la risposta era unanime e generosa, perché tra quella gente tutti erano poveri, tutti avevano visto almeno una guerra e tutti avevano dei congiunti emigrati. Ognuno dava con il cuore quello che era nelle sue disponibilità e nessuno poneva mai dei dubbi sulla destinazione finale dell’ offerta, era un altro mondo, un mondo fatto di gente semplice ed onesta che si sapeva accontentare di quello che aveva, che non si sarebbe mai permessa di rubare qualche cosa al vicino di casa, povero come loro, che non avrebbe mai pensato di finire in un mondo fatto di amministratori incapaci , disonesti e ladri, che hanno saputo carpire la loro buona fede solo speculando sui drammi della guerra appena trascorsa che aveva provocato lutti e divisioni ideologiche non ancora sanate perché ancora oggi alimentano le divisioni e favoriscono il malgoverno e la corruzione nella classe politica locale e nazionale.

Benedetto filò…

 

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Il cuore grande della mamma.

 

 

Desidero raccontare un aneddoto che mi è capitato oggi 18 maggio 2013 e che mi ha dato l’ esatta misura con la quale si può valutare l’ amore di una madre verso i propri figli. E’ un amore grande, unico, spiegabile solo con il fatto che una madre ha portato nel suo grembo una vita nuova, unica ed irripetibile, per nove mesi, sopportando disagi che solo una madre riesce a tollerare e sopportare, per l’ amore infinito che prova per quel piccolo batuffolo che porta dentro di se.

Mai come oggi, in questo piccolo episodio che tra poco inizierò a raccontare, ho avuto la sensazione netta e palpabile di quanto amore sappia dare una madre per i propri figli e quanto dolore essa possa provare e debba sopportare se una di queste sue creature venisse a mancare.

 

Per capire questo episodio bisogna fare un passo indietro di una settimana e raccontare un tragico e mortale fatto di cronaca nera, una settimana fa infatti in un incidente stradale perdeva la vita un ragazzo che aveva lo stesso nome e cognome del figlio della parrucchiera che al bisogno viene in casa mia a tagliarmi i capelli .

Oggi, previo appuntamento, è venuta per il suo lavoro a casa mia ed alla fine prima che se ne andasse mi sono permesso di chiederle come si fosse sentita a vedere un annuncio funebre con lo stesso nome e cognome di suo figlio…

Pur avendo fretta si è fermata sulla porta per un attimo come se questa domanda le avesse impedito di proseguire e meritasse una doverosa risposta. Dopo avermi raccontato delle innumerevoli telefonate ricevute dagli amici del figlio che chiedevano notizie sull’ incidente, della telefonata preoccupata di una zia di Trento, dopo la visita inaspettata dei genitori anche loro in ansia per le notizie appena date dai telegiornali locali, appurato con una telefonata che suo figlio che era andato a pescare stava bene, spiegava ai parenti che si trattava di un caso di omonimia e che conosceva il ragazzo deceduto che abitava in un altro paese.

Questa è solamente la cronaca di questa tragedia che ha stroncato una giovane vita, quello che mi ha profondamente colpito e che desidero raccontare è il lato umano della vicenda e la riflessione di una madre davanti a questa triste vicenda.

La risposta con parole lente e pacate che denotavano un grande senso di sollievo e di liberazione per un pericolo evitato,è stata che per un attimo si è sentita come sfiorata da quella tragedia, come se la morte le avesse alitato molto da vicino.

La mattina presto si è recata a rifare la cameretta del figlio e tra una spolverata ed un sistemare le cose, al momento di rifare il letto per la prima volta si è sentita felice di questa quotidiana continuità ed a pensato a quelle mamme che debbono fare le pulizie disfare il letto per l’ ultima volta perché il proprio figlio non tornerà più…

 

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I miei vicini di casa

 

 

Della Carletta Filippi posso dire poco, perché è arrivata in casa quando ero ancora bambino e se n’è andata in Canada che ero adolescente. Lei mi pare facesse la sarta ma non mi ricordo bene, il figlio più grande che si chiamava Rino e lei aveva avuto prima del matrimonio con suo marito che si chiamava Ernesto Conter ed abitavano in quella casa appena prima del ponte sul torrente Barnes, scendendo da Livo e che era morto d’ infarto sul lavoro, era molto più grande degli altri due .

Luciana era del 1950 era una bella ragazzina dal seno prosperoso, erano le mie prime attrazioni sessuali di quando non hai ancora le idee chiare e ascolti con attenzione i discorsi degli adulti per capire quello che devi fare ma resta sempre molto vago e confuso e rimani a guardare quelle enormi differenze e quando si sedeva sui gradini della scaletta dove dormivano i miei genitori, con le gambe divaricate allora fingevo di giocare a terra per riuscire a vedere le mutandine cianche e strette senza nessun rigonfiamento, strano che però a me un certo rigonfiamento lo provocava… stavo diventando uomo ma dovevo imparare ancora molto dalla vita.

L’ altro fratello si chiamava Claudio, era molto più piccolo di noi per cui da noi veniva considerato come un ragazzo che partecipava ai nostri giochi, nulla più.

Anche lui all’ inizio degli anni 60 se ne andò in Canada con il resto della famiglia, Carla è morta che aveva 90 anni era del 1915 ?

 

La famiglia con la quale abbiamo condiviso , nel bene e nel male , la nostra abitazione, fu la famiglia di Agosti Luigi ( dei mori ) che aveva sposato una donna di Livo che si chiamava Conter Elisa ( dei Ciari ).

Luigi era un uomo molto colto ed intelligente, era un tipo molto progressista ed aperto alle innovazioni tecnologiche, era stato emigrato in America e credo avesse anche avuto un ruolo di comando nella miniera dove lavorava. Leggeva molto riviste e quotidiani ed era informato su quanto succedeva in Italia e nel mondo. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale ed aveva visto scorrere la seconda.

Per dare il senso e la misura di quanto Luigi fosse attento ai cambiamenti che la tecnologia proponeva, mi ricordo che un giorno lesse su un quotidiano la notizia che un aereo militare, un caccia dell’ USAF aveva superato in fase di collaudo i 1000 chilometri all’ ora e ce lo fece notare come un avvenimento di grande portata tecnologica e militare che avrebbe condizionato il modo di combattere ed aggiunse – mili chilometri al’ ora : “ vardà popi che le nar ve “ .

Da poco ho saputo una notizia eccezionale che avvalora ulteriormente la mia descrizione del pensiero progressista e socialista del signor Luigi Agosti mio coinquilino, ho saputo dal nipote G.Luigi Zanotelli, che negli anni ‘ 20 in uno dei suoi rientri in Patria il signor Luigi un giorno venne con un compagno di viaggio che fu poi ospitato dal signor Agosti Eugenio dei “ Turi “, ospite illustre e sfortunato, destinato poi ad essere un simbolo del socialismo e di quel pensiero anarchico non violento e quasi sentimentale che prese piede in Europa dopo la prima guerra mondiale. Bartolomeo Vanzetti ( 11 giugno 1888 - 23 agosto 1927 ) assieme a Nicola Sacco ( 22 aprile 1891 - 23 agosto 1927 ) vennero infatti accusati negli USA di essere anarchici e di aver commesso l’ omicidio di un contabile di un calzaturificio ( Slaten and Morilli ) ci furono subito molti dubbi sulla loro effettiva colpevolezza, ma la Giustizia americana li mise a morte nonostante le molte proteste dell’ opinione pubblica di allora.

I dubbi si rivelarono in seguito fondati e a 50 anni esatti dalla loro esecuzione il governatore del Massachussets Michael Dukakle li riabilitò con questo solenne proclama : “ io dichiar che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti “

Sono trascorsi 63 anni della mia vita prima di venire a conoscenza di questa notizia che trovo eccezionale per la storia drammatica del signor Vanzetti, ma soprattutto mi piace sottolineare con un pizzico di orgoglio, lo spirito di solidarietà umana ed il pensiero progressista in ogni circostanza del signor Luigi Agosti, un Agosti come me.

Elisa era una donna buona e semplice, era una donna attiva e curiosa di sapere ogni minimo particolare delle vicende che accadevano, era con un termine che non vuole essere offensivo ma che descrive il carattere di un intera famiglia, era una “ ciara “

Per rendere chiaro quanto fosse una donna buona, saggia e generosa, voglio raccontare due episodi che mi hanno toccato di persona e che ricordo con particolare senso di gratitudine e di serenità.

Quando mi ustionai accidentalmente, fatto che ho già ampiamente descritto, accorse immediatamente appena mia nonna e mia madre la chiamarono e fu lei a darmi il primo soccorso e portarmi degli oli adatti alle ustioni e fu lei a consigliare mia madre e mio padre di portarmi dal dottor Tenaglia.

Ai miei tempi nessuno chiudeva a chiave la porta della propria abitazione e nessuno si sognava di prendere qualcosa che non fosse di proprietà, attrezzi agricoli o altre cose, ricordo il signor Luigi che in età molto avanzata, ebbe a dire che non aveva memoria nella sua lunga vita che gli fosse stato rubato qualche cosa di sua proprietà.

Al momento della morte di mia nonna avvenuta nel dicembre del 1969 Elisa era presente assieme a noi ed ai figli di mia nonna, elisa e mia nonna avevano una fede incrollabile, cosi che mentre mia nonna se ne stava lentamente andando in cielo, lei continuò a pregare fino alla fine per accompagnarla degnamente in quel Regno che è la patria finale di tutti e quando mia nonna spirò lei disse con tanta saggezza e tanto realismo : Lei questo passo l’ ha fatto !

Luigi ed Elisa ebbero quattro figli Luisa, Maria, Ettore e Paola. Maria morì di difterite che era ancora giovane , Luisa si sposò con Zanotelli Tullio, Paola con Inama Celestino ed il figlio maschio Ettore rimase celibe, ebbe una lunga relazione con una donna sposata di qualche anno più vecchia di lui, la relazione iniziò quando Rita era ancora maritata, proseguì dopo la morte del marito e finì con la morte di Ettore nel 2007.

Ora la casa l’ ha ereditata un nipote di Ettore, zanotelli Gianluigi architetto e pupillo dello zio, sono passati presto sei anni ma è ancora vuota.

 

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La volpe

 

 

Nel cortile di casa vicino all’ orto c’ era il “ bait “ delle galline dentro un grande recinto di rete metallica che consentiva loro di avere un sufficiente spazio a disposizione dove potevano vivere libere e nutrirsi del becchime e degli avanzi di casa. Rispetto agli allevamenti intensivi e barbari di oggi, si può tranquillamente dire che erano delle galline privilegiate, avevano la loro casa, il posto dove deporre le uova e lo spazio dove poter razzolare libere e felici. Naturalmente quando erano vecchie e smettevano di fare le uova, prima che dimagrissero troppo, un colpo di accetta gli staccava di netto la testa e finivano in pentola, ma almeno avevano vissuto una vita agiata.

Ci fu una notte che le galline fecero un baccano del diavolo, svegliando tutti i condomini della casa che continuavano ad affacciarsi alle finestre per capire quello che sta succedendo, senza però trovare una ragione a tutto questo sconquasso.

Il buio infatti non consentiva di vedere lontano più di tanto ed a quel tempo le torce a batteria erano il lusso di pochi ricchi.

Il baccano durò fino all’ alba quando io e mio fratello decidemmo di andare a vedere quello che stava succedendo nel pollaio.

Il rosso dell’ alba che stava tornando come ogni mattino, illuminava a sufficienza la zona del pollaio e dopo esserci guardati attorno, improvvisamente, in un angolo vicino alla rete metallica del recinto scorgemmo una piccola volpe malata che stava accucciata immobile accanto al pollaio. Con grande inesperienza e molto rischio, trascinati dallo spiriti di avventura che non ci vedeva fuggiaschi davanti a nessun pericolo, prendemmo sollevammo piano la volpe e la deponemmo dentro una vecchia gabbia che serviva per l’ allevamento dei conigli, poi salimmo a casa , prendemmo del latte ed un piatto e ne versammo un poco alla volpe che iniziò a bere con avidità.

Ci venne in mente uno scherzo da infarto da propinare al nostro gatto di casa, lo prendemmo in cucina e lo portammo giù nell’ aia vicino alla gabbia dove era rinchiusa la volpe facendo un tragitto alternativo in modo che il felino potesse vedere la volpe solo all’ ultimo istante appena avessimo girato l’ angolo della casa.

Arrivati all’ angolo dove dietro stava la gabbia con la volpe ci fermammo, il gatto continuava il suo tranquillo ron ron e non immaginava neppure lontanamente la visione terribile che di lì a un attimo avrebbe visto. Girammo di scatto l’ angolo ed avvicinammo d’ improvviso il gatto alla gabbia, l’ animale in un batter di ciglio raddoppiò di volume con una cresta sulla schiena e la coda che sembrava una grossa spazzola, poi soffiò verso la volpe mentre le unghie erano uscita dalle zampe lunghe e bianche in un battibaleno si era divincolato lasciandoci in regalo non pochi graffi ere r salito sulla enorme e alta pianta di pero che era nel prato confinante andando a posizionarsi nel punto più alto possibile e restandovi immobile con lo sguardo minaccioso ed una impagabile sete di vendetta nei nostri confronti per lo spavento subito.

Chiamammo poi il cugino Ginfranco che era cacciatore per vedere il da farsi con la volpe, poi passò per caso il signor Agosti Ottone che come mio cugino ci consigliò di abbattere la volpe perché poteva essere ammalata e magari contagiarci con la rabbia e così facemmo quindi la portammo nel vicino bosco dove scavammo una buca e la sotterrammo.

 

 

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L’ “ MORAR DEI TRIPOI “

 

( il gelso della famiglia Zanotelli )

 

 

Proprio dove si incontrano le due strade che tagliano l’ abitato di Scanna, al lato est della casa vecchia dei “ tripoi “ appena dentro il bel cancello in ferro battuto che recinta tutto il piazzale interno, cresce un gelso secolare e di proporzioni notevoli. I vecchi della famiglia Zanotelli proprietari della casa di cui fa arte integrante il secolare gelso, affermano che i loro nonni sostenevano di averlo visto sembra così, maestoso e fiero, osservare immobile e silenzioso il trascorrere del tempo che si trascina dietro con se la vita delle persone e le abbandona poi quando il loro tempo è scaduto, ma come una grande ruota che gira senza mai fermarsi non ha un inizio ed una fine ed è pronto ad accompagnare novelle vite nel percorso obbligato dell’ esistere, dove tutto comincia con un atto di amore reciproco e finisce accolti dall’ Amore divino.

La lunga vita del gelso si deve, a mio parere, anche alla sua posizione strategica vicino alla strada ed alla casa dei proprietari, sommando infatti questi due fattori si può evincere che non sono mai esistite delle vere ragioni o delle cause per le quali si sarebbe dovuto sacrificare la pianta che è potuta vivere in buona salute, accudita amorevolmente dalla dinastia Zanotelli fino all’ epoca nostra e c’è da scommettere che morirà di vecchiaia e vedrà passare ancora numerose generazioni delle famiglie che compongono la saggia, silenziosa e laboriosa comunità di Scanna.

Un episodio in particolare merita di essere citato per l’ alto senso civico della famiglia Zanotelli nella difesa e salvaguardia del vecchio gelso,

alcuni lustri or sono della nostra storia più recente, i signori Zanotelli decisero di dotare la propria casa agricola di un moderno ed ampio garage per i mezzi da lavoro e per le automobili. Nessun problema od ostacolo di qualsiasi genere impediva di fatto la realizzazione di quest’ opera, anche per il semplice fatto che il garage veniva realizzato interamente interrato. Questa opzione deve aver provocato un senso di angoscia e smarrimento al grande gelso dalle lunghe radici, profonde e diramate, che gli hanno garantito la sua sopravvivenza durante i secoli, ma con un ingegnosa operazione di aggiramento e messa in sicurezza che ha impegnato il progettista e la Ditta di costruzioni, il gelso venne così protetto e salvato .

il gelso ha da sempre esercitato su di me un grande fascino e per questo pel lui ho una speciale devozione come per un grande vecchio silenzioso che custodisce dentro il suo animo nobile i segreti di un intero paese, le gioie dei matrimoni e delle nascite, il trascorrere della vita dal ritmo lento e tradizionale dei tempi passati dove il trascorrere del tempo era scandito dalle stagioni che segnavano il momento della semina e quello del raccolto e c’ era pure il tempo per fare filò, alla frenesia del movimento che contraddistingue la gente dei mostri tempi, sempre di corsa, sempre con il telefonino in mano senza più una meta, senza più un ideale, uno è solitudine, due sono troppi, e via su fb o su twitter a cercare nuove amicizie senza manco salutare quello che gli cammina al fianco…

Non so spiegarmi la ragione ma quando passo davanti al maestoso gelso, l’ animo si rasserena ed un grande senso di pace mi pervade, sarà che il gelso nota che sto invecchiando e che la grande ruota del tempo si avvicina inesorabile.

 

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IL CROCIFISSO DI SCANNA

 

 

 

Il crocifisso di Scanna è una riproduzione in legno di Cristo in croce, ed è per quanto ho potuto seguire la storia dellla frazione di Scanna del comune di Livo, in stretta concorrenza con la nostra piccola ed umile chiesetta, il simbolo più evidente e venerato dalla gente che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere, soprattutto quanti non sono più tra noi fisicamente ma che vivono tra noi nei nostri ricordi e nella preghiera dei credenti.

Per uno che non conosce la zona del Mezzalone e viene a Livo per la prima volta, non è affatto difficile localizzare con assoluta certezza il crocifisso, infatti quando si lascia la strada statale SS 42 Tonale Mendola e si imbocca la provinciale N° 68 che porta a Livo e poi prosegue per Rumo o Bresimo, percorsi circa 200 metri salendo sul lato destro della strada si incontra una prima croce in legno senza alcuna effigie, posta sulla destra della sede stradale al ampio bivio che porta nelle campagne più basse del paese. Per trovare il crocifisso del quale narrerò la storia, bisogna salire altri 150 metri circa fino ad arrivare al curvone che devia la strada provinciale di 90 ° per poi entrare per poche decine di metri nell’ abitato di Scanna. Alla fine della grande curva, anche qui sul lato destro della carreggiata, si trova il nostro crocifisso, posto in un angolo di un prato a valle dell’ imbocco della strada interpoderale che porta a Barbonzana ed a Barn, confinante con il prato dove è posto il crocifisso a valle si può notare la casa di abitazione del signor Zanotelli Ivo.

La croce in legno di larice è stata da poco restaurata compreso il capitello in scjandole sempre di legno di larice al quale è appesa una lanterna ad olio perennemente accesa.

Il Cristo invece ha una storia più antica e molto affascinante che mi è stata narrata dagli eredi dei proprietari che erano i “ masadori “ una delle numerose famiglie Agosti che popolano la frazione di Scanna. Masadori erano detti perché lavoravano ed abitavano nel periodo della stagione agraria in un maso della zona vicino al torrente Pescara ed erano dei mezzadri agricoli che lavoravano la terra di altri proprietari ricavandone la metà del raccolto.

Mi racconta il signor Romano Agosti dei masadori che il crocifisso era originariamente di loro proprietà ed era appeso in casa loro, si parla almeno di due secoli or sono, poi i fratelli Agosti divisero la casa in più parti per ricavare più alloggi, al termine di tutta questa operazione risultò che non si trovava più del posto per poter appendere il crocifisso. I signori Agosti allora decisero di comune accordo ritrovare una spazio in una loro proprietà ed esporre il crocifisso alla fede dei loro compaesani e dei numerosi viandanti che allora passavano sulle nostre strade.

Venne allora costruita una grande croce di legno, molto simile alla attuale considerato che si è sempre copiato dalla precedente opera per ogni restauro effettuato nei tempi che ne seguirono, Come appena accennato al Cristo venne messo un lume ad olio che si poteva abbassare tramite una cordicella ed una piccola carrucola per poter aggiungere del nuovo olio alla lampada.

Anche riguardo all’ olio che alimentava la piccola lanterna i fratelli Agosti del casato dei masadori, si erano diviso l’ onere di procurarsi, un anno per ciascuno, lì olio necessario per perpetuare la fiammella che ardeva davanti al Cristo in croce. La decisione di esporre il crocifisso in un luogo aperto in una loro proprietà, va classificato e trasmesso alla storia come un atto di grande consapevolezza maturato da una profonda fede in Dio; avrebbero potuto vendere il crocifisso che era comunque di notevole valore artistico e di vetustà e sicuramente sarebbe stato ben pagato anche a quei tempi.

Alla fine del 1983 o nella primavera del 1984 qualcuno rubò il prezioso crocifisso che la famiglia Agosti avevano esposto al pubblico, il furto avvenne in pieno giorno probabilmente da intenditori d’ arte che lavoravano su commissione. A nulla valsero le indagini subito avviate dai carabinieri di Rumo ed anche in seguito non dettero alcun risultato le ricerche nelle refurtive e nelle aste di oggetti di antiquariato dove era stato segnalato mediante delle fotografie. La piccola comunità di Scanna rimase profondamente colpita da questo evento delittuoso che la aveva privata di un punto di riferimento artistico e di fede, ricordo infatti i vecchi che si toglievano il cappello in segno di riverenza quando passavano vicino alla croce e l donne e le ragazze facevano a gara a fare delle composizioni di fiori presi negli orti che poi depositavano ai piedi della croce.

Mia nonna quando tornava da Barbonzana si fermava sempre alla Crozza e raccoglieva un mazzolino di garofani selvatici che poi attaccava con dei fili d’ erba ai piedi del Cristo morente, erano forme di fede popolare molto profonda e radicata nella cultura della mia gente, gente umile e povera ma piena di amore e di cristiana carità.

Era desolante vedere la croce priva del Cristo ed in paese non si faceva che parlare di questo furto sacrilego con molta indignazione e tanti dubbi e domande sugli autori che avevano agito in modo così strafottente in pieno giorno.

Con uno scatto di orgoglio mosso anche dalla fede profonda che la anima, la piccola ma saggia comunità di Scanna seppe reagire a quella situazione e decise di acquistare un nuovo crocifisso da appendere alla grande croce all’ ingresso del paese, in una riunione con il parroco di allora don Flavio Menapace si decise di finanziare l’ aquisto con una colletta tra la popolazione della frazione di Scanna.

Prima si informò la popolazione del paese a mezzo di un volantino fatto recapitare a tutte le famiglie e poi nella data stabilita il signor Alessandro Agosti ed il sottoscritto passarono per le famiglie a raccogliere le offerte.

Fu una bella esperienza di fede e di contatto umano, la gente rispose molto bene all’ iniziativa ed in un batter d’ occhio si raccolsero i fondi per l’ aquisto del nuovo Cristo opera dell’ artigianato del legno della val Gardena.

La riproduzione attuale somiglia molto a quella precedente perché venne realizzata sulle indicazioni fotografiche e sulla descrizione visiva.

In quella occasione si è provveduto anche al rifacimento di tutto il legno della croce con una nuova travatura in larice ed una nuova copertura del capitello con scjandole residue usate per la copertura del campanile della chiesa parrocchiale di Varollo, opera eseguita negli anni ’70.

Così il giorno 8 dicembre 1984 festa dell’ Immacolata Concezione alla quale è dedicata la chiesetta di Scanna ed occasione di grande festa nella frazione, alla presenza della popolazione il parroco don Flavio Menapace procedeva alla solenne benedizione della nuova croce.

Il signor Alessandro Agosti lesse una preghiera scritta per l’ occasione invocando la protezione di Dio per la popolazione e per tutti coloro che di lì si trovassero a passare .

Fu una cerimonia semplice ma sentita dalla gente perché era stata coinvolta in prima persona prima dal furto che l’ aveva rattristata d offesa nei sentimenti più profondi e personali come la fede, poi era stata attrice consapevole e generosa dell’ aquisto della nuova immagine del Cristo che ora li ripagava con lo sguardo morente dall’alto del legno della grande croce all’ ingresso dell’ abitato di Scanna.

 

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IL SENTIERO DEL GIAN MOLINAR

 

 

E poi lasci la strada statale SS 42, lasci il traffico rumoroso che echeggia tra le forre profonde del torrente Pescara là proprio dove le sue acque che hanno percorso fragorose il lungo tragitto che dalle natie Maddalene le ha portate fino a trovare una meritata pausa di riposo nelle acque tranquille e profonde del lago di Santa Giustina; lì, se vuoi, puoi assaporare un angolo di pace e di tranquillità che solo il bosco profondo e quasi selvaggio ti può regalare con un percorso all’ interno del suo grande cuore , formato da alberi di conifere che si elevano al cielo maestosi in cerca di luce e sotto un fittissimo sottobosco di piante di ogni tipo e di verdeggiante erba che cresce rigogliosa nel bosco ricco di vitale acqua.

Il sentiero del Gian Molinar inizia proprio in quel punto preciso e si tuffa nel fitto bosco tagliandolo come una spada con un comodo e dolce discendere tra i suoni, gli odori ed i colori che il bosco ti dona lungo tutto il percorso che dura all’ incirca 15 minuti e che poi sbocca come in tutte le favole che si rispettano, in una verde radura dove sorge nascosta tra fitti abeti una bella e comoda baita in legno.

Dalla casetta nel bosco per arrivare ai ruderi del vecchio mulino del Gian molinar il passo è breve, basta scendere verso il torrente e seguire il suo percorso verso valle per un centinaio di metri e si arriva nel fittissimo sottobosco alle rovine del vecchio mulino.

Arrivati qui si può trovare la logica spiegazione dell’ utilità del sentiero che serviva al Gian molinar per il trasporto della farina verso i luoghi abitati per la sua consegna alla gente che gli aveva dato il grano da macinare.

Originariamente il sentiero aveva una deviazione a metà del suo percorso attuale, ben visibile tutt’ ora, che scendeva verso il ponte romano che attraversava la forra del torrente Pescara e portava verso la terza sponda di Anaunia, era un ponte ad arco romano bello da vedere, aveva superato indenne tutte le avversità e le calamità del tempo fin dall’ impero romano ai moderni anni ‘ 70 per finire la sua grande e nobile storia demolito da questa civiltà meccanizzata ha cercato inutilmente di ostacolare con la sua presenza l’ avanzare di questo assurdo ed inutile progresso pagando il tributo a questa “ civiltà “ affamata di false illusioni e di una discutibile forma di progresso.

Da sottolineare che tutte quelle Istituzioni che tanto a parole difendevano il nostro patrimoni culturale ed artistico, impedendo magari l’ apertura di una indispensabile nuova finestra nei centri storici, nulla hanno fatto per impedire questo vergognoso scempio di un autentica opera d’ arte e di ingegneria dell’ uomo. Tristezza ed amarezza che provo ancora oggi quando ci penso…

Meglio infilarsi di nuovo nel fitto ed amico bosco e lentamente arrivare al vecchio mulino, tra le “videzze” ed i “noselari”, tra “ovene e rubini” le felci di un verde intenso, tra piante ormai morta schiantate sul terreno ormai stabile alloggio di formiche ed altri piccoli insetti, per arrivare dopo pochi minuti di ricerca al vecchio mulini ormai preda di guerra del bosco e dei suoi abitanti.

Lo trovi quasi all’ improvviso e subito ti stupisci dell’ imponenza di quei ruderi fatti di sola pietra tagliata e costruita a secco senza nessun tipo di malta legante, è una muratura che racconta come doveva essere originariamente il mulino, con nella parte interrata il cuore del movimenti idraulico fatto di ruote dai diversi diametri e direzioni di marcia regolati da un sistema di chiese che controllavano l’ acqua nel volume e nella direzione di marcia per dare il movimento e la vita alle macine ed agli altri strumenti che servivano a far funzionare l’ intera operazione di macina.

Sopra ci dovevano essere altri due piani dell’ edificio, si notano infatti nei muri portanti i fori simmetrici delle imposte che portavano una robusta travatura in legno che formava i piani superiori, uno dei quali adibito ad abitazione del mugnaio e della sua famiglia.

Il mulino era stato ideato e costruito a pochi metri dal torrente ma a proteggerlo a valle dalla forza del torrente nei periodi di piena ci sono dei grossi massi che nessuna piena del torrente avrebbe potuto smuovere dando così certezza e sicurezza all’ edificio. Guardando dall’ obbiettivo della fotocamera, mi è sembrato per un attimo di immaginare come doveva essere bello il vecchio mulino nel pieno del suo vigore giovanile ed ho provato un misto di ammirazione e di nostalgia per quei tempi quando il tempo aveva un ritmo più lento, quando le stagioni dell’ anno e della vita avevano un sapore di attesa misto alla meraviglia per il loro passare scandito da una vita tranquilla e legata strettamente ad un comune destino di sopravvivenza reciproca e solidale. Mi avvicino con Rodolfo al più imponente dei massi dove sotto romba minaccioso il Pescara formando un ansa con l’ acqua che ruota in un gorgo profondo attorno al masso formando un profondo “boion”, cadere lì significherebbe essere trascinati via in un attimo guardiamo affascinati per un attimo, ma poi prevale il buon senso e torniamo verso il mulino.

Questi edifici dovevano essere numerati in modo progressivo forse a partire dalle origino del torrente lassù nei nostri monti, infatti su una pietra posta alla basa di un muro portante posto a nord del mulino si può vedere ancora ben conservato dal tempo un numero leggermente intagliato in una pietra e dipinto di un colore rosso ruggine il numero identificativo di quel manufatto: il numero 32.

Facciamo il viaggio di ritorno lungo i resti in muratura di quello che era il canale di alimentazione del mulino che gli portava la preziosa acqua che alimentava il movimento dell’ intera fase della macinazione del grano, si vede ancora molto distintamente il percorso del canale che poi si perde nuovamente nel fitto bosco mentre noi proseguiamo lungo il sentiero che ci riporta alla radura ed alla baita nel bosco.

A pochi metri dalla casetta, ancora nel fitto bosco, con un po’ di attenzione si può scorgere alla base di due grossi abeti cresciuti gemelli, una piccola Madonnina che sembra spuntare dal muschi verde intenso che sta alla base degli abeti sopra un grosso masso che le fa da base.

Rodolfo aveva sognato una Madonnina posta tra due abeti ed ha voluto dare vita a quel sogno ed alla sua fede verso Maria.

 

 

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RAI – RADIO TELEVISIONE ITALIANA

 

Questo vuole essere una testimonianza diretta ed una denuncia sulla carenza endemica dei segnali radio e TV nel Comune di Livo, vissuta in prima persona e che ho contribuito in modo attivo se non a risolvere totalmente, almeno a sostituire la vergognosa assenza dell’ Ente RAI che gestiva il monopolio della rete televisiva italiana. Il segnale della radio bene o male arrivava in onde corte dapprima, poi in onde medie ed infine in modulazione di frequenza, il problema grossoera che per effetto della legge della propagazione molte stazioni si riuscivano a sentire solo di notte, poi con l’ arrivo della modulazione di frequenza almeno una o due reti nazionali erano stabili giorno e notte. Nel 1954 la RAI diede inizio alle trasmissioni televisive in bianco e nero e qui iniziarono i problemi comuni a tutte le zone montagnose, inizialmente e per molti anni il Trentino e l’ A.A erano serviti da pochi trasmettitori e ripetitori di segnale: c’ era il trasmettitore della Paganella e quello del monte Penegal la filosofia era quella di servire i grossi centri come Trento e Bolzano, poi chi aveva la fortuna di essere in linea ottica con il trasmettitore poteva vedere in modo ottimale le immagini coloro che avevano la sfortuna di avere dei monti che ostacolavano il passaggio del segnale si dovevano accontentare di vedere le immagini doppie o triple sovrapposte ed un effetto neve fastidioso dovuto al segnale debole, c’ erano gli amplificatori di segnale che andavano montati sull’ antenna ma il più delle volte se il segnale era doppio amplificava anche il disturbo. Questo grave problema si protrasse fino agli anni ‘ 70 senza che l’ Ente radio – televisivo, la Provincia ed il Comune facessero qualcosa per ovviare al disagio degli utenti che nonostante tutto continuavano a pagare il canone RAI. Nel frattempo vennero istallati altri ripetitori di segnale ma tutti che non riuscivano a coprire la zona se non in parte dal ripetitore del monte Peller ma le frazioni di Varollo e Scanna rimasero sempre scoperte. All’ inizio degli anni ‘ 70 due privati , Silvano Menapace rivenditore e Bruno Vigolo radiotecnico installarono nel comune di Cis un piccolo ripetitore che usava il segnale proveniente dal Peller, lo convertiva in 274 mhz e lo sparava verso Scanna e Varollo, qui veniva montatoin antenna un altro convertitore che lo convertiva in una frequenza libera sui televisori. Questo impianto migliorò la ricezione a livelli quasi ottimali e tutto sembrava risolto, anche il colore passava bene senza disturbi, ma come si dice quando le cose sembrano prendere il verso giusto c’ è sempre qualcosa che và storto … infatti venne installato da un rivenditore di Malé un ripetitore gemello in località Samoclevo per ripetere il segnale a colori della TV tedesca ZDF per gli utenti di Malé con l’ effetto indesiderato che questo segnale veniva a disturbare quello irradiato dal mini ripetitore di Cis . A nulla valsero le proteste dei proprietari dell’ impianto di Cis per far spegnere il disturbo si tentò di spostarsi di frequenza ma con scarsi risultati il disturbo continuò provocando grosse righe ondeggianti sullo schermo simili a quelle provocate dai radio amatori quando sono molto vicini. Anche la locale Pro Loco tentò di risolvere il problema istallando sopra l’ abitato a nord di Preghena in località Greggi, un impianto simile a quello di Cis ma iso ondacioè ripeteva il segnale senza convertirlo , il ponte venne realizzato dal radiotecnico Ugo Fanti per conto del rivenditore Vittorio Dallavo di Cles ma anche questo sistema si rivelò pieno di limiti e di problemi, poi il suo riammodernamento e manutenzione passò ad un altro radio tecnico Luca Marinelli ma poi l’ impianto risultò, per via di una denuncia, essere irregolare e fu fatto spegnere dalla Polizia postale di Trento, per non abbandonarlo del tutto venne temporizzato si accendeva alle 18: 00 e si spegneva alle 06 : 00 … Finalmente nel 1984 intervenne la Provincia Autonoma di Trento che realizzò 45 nuovi ripetitori su tutto il territorio provinciale tra questi anche quello sul monte Ozolo che serve numerosi centri tra cui Livo e Bresimo la storia di questo impianto rasenta il ridicolo, inizialmente lo si voleva costruire nei pressi di Bresimo vicino alla frazione di Bevia prendendo il segnale già scadente del Peller solo l’ intervento deciso dei rivenditori locali e dei loro tecnici impedirono tale errore e convinsero la RAI a realizzare l’ impianto del monte Ozolo. Finalmente dopo 40 anni dall’ inizio delle trasmissioni si potè avere un segnale ottimale direttamente da un ripetitore dell’ Ente televisivo italiano. La vera perfezione la si ebbe con il digitale satellitare con una miriade di canali e con l’ alta definizione. Questa è la storia tragicomica della ricezione televisiva nel Comune di Livo.

 

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LA MACELLERIA ZANOTELLI DI LIVO

 

 

Quando ero un ragazzino delle elementari, mia nonna che era la cuoca ufficiale di casa Agosti, di tanto in tanto mi mandava alla “becjaria” (macelleria) a Livo a comprare mezzo chilo di “retai” così le chiamavamo noi le frattaglie di carne erano dei pezzi di poco valore come polmone o fegato o parti insanguinate, con quella carne mia nonna riusciva comunque a ricavare degli ottimi piatti, complice anche il nostro insaziabile appetito giovanile che a volte si poteva anche declinare in fame vera e propria.

La macelleria era ubicata nel castello di Livo che a quel tempo era tutto di proprietà privata ed ospitava numerose famiglie di Livo. Il locale adibito a macelleria era stato ricavato al piano terra della torre a ovest del maniero, con l’ ingresso proprio all’ inizio della piazza dove la strada gira ad angolo retto e prosegue verso la Villa di Livo.

Era una stanza ad avvolto, ossia con il soffitto ad archi romani, le mura erano molto spesse oserei dire più di un metro di spessore, la porta esterna era in acciaio verniciata di minio rosso, c’ era poi una seconda porta in legno con delle finestrelle di vetro, appena entrati si scendeva un paio di gradini e fatti due passi ti trovavi davanti al bancone da macellaio. Sulla parete di destra, all’ altezza di circa due metri, c’ erano dei grossi ganci in acciaio dove venivano appesi i pezzi più grossi di carne, a destra della porta di ingresso c’ era un piccolo banco da lavoro attrezzato con una tritacarne e la sega elettrica per il taglio delle ossa, il locale era piccolo ed era servito da una sola finestra con una grossa inferriata, che guardava sulla strada che porta alla villa.

A destra del bancone c’ era un'altra porta che poteva essere a tenuta sprangata, assomigliava molto ad una porta blindata ad un portellone a tenuta stagna dei sommergibili. Dietro quella porta c’ era la zona refrigerata ad acqua corrente che conteneva una piccola riserva di carne, ricordo che si sentiva un continuo rumore di acqua che scorre movimentata da pompe. Allora il bestiame veniva macellato in modo autonomo dal rivenditore che acquistava per lo più in zona degli allevatori locali le bestie da macellare.

C’ era un grosso ceppo di larice che serviva a reggere il colpo della grossa mannaia che tagliava di netto l’ osso delle braciole, le costine e gli osso buchi, la merce era esposta in piccola quantità, sopra il bancone, allora non c’erano i frigoriferi e quando serviva della nuova carne il macellaio apriva la grossa porta del deposito e ne tagliava un altro pezzo da mettere in vendita.

Al centro del bancone c’era una bilancia analogica di colore rosso, con il piatto grande rettangolare fatto come una scodella e il contrappeso dal lato opposto rotondo e più piccolo e il quadrante fatto a semicerchio con la lancetta che segnava il peso con una risoluzione di un grammo.

Bene in vista campeggiava un cartello con la seguente scritta: “ PER DECENZA ED IGIENE E’ VIETATO TOCCARE LA MERCE ”.

La macelleria era aperta tutti i giorni, però in certe fasce della giornata era disponibile a chiamata, infatti all’ esterno della porta in legno c’ era il pulsante di un campanello, bastava premerlo e dall’ abitazione poco distante scendeva qualcuno ad aprire ed a servire il cliente che aveva chiamato.

Il titolare del negozio si chiamava Zanotelli Alessandro ed era di Livo del casato dei “ Vati “ era un uomo molto calmo e tranquillo, con l’ avvento dei mezzi di trasporto motorizzati, si era dotato di un furgoncino fiat credo che fosse anche dotato di refrigerazione ma non ne sono certo, con il quale si spostava nei paesini limitrofi a giorni stabiliti per vendere la carne anche in quei luoghi.

Per incartare la merce allora non esistevano i sacchetti in plastica o la carta speciale adatta per gli alimenti, la carne veniva incartata in un tipo di carta color giallo molto ruvida ed assorbente, era un tipo di carta ricavato dalla paglia del grano, era un colore inconfondibile e molto particolare, ora si usa per confezionare i regali di Natale o in particolari occasioni.

Ai miei tempi, non si guardava tanto alla qualità della carne, si preferiva molto di più una grossa quantità anche a prezzo inferiore ed anche se non era una parte pregiata . la macelleria rimase nella “ toresela “ fino al 1985, poi dopo la morte del signor Alessandro, i figli Ernesto, Alfonso e Carlo costruirono a poca distanza una nuova e moderna macelleria dotata di tutti i sistemi innovativi che la tecnologia del settore mette a disposizione, ora il negozio è grande ed accogliente dotato di cella frigorifera e nel retro bottega c’è il laboratorio per la lavorazione della carne, anch’ esso funzionale e moderno, ci sono poi nelle cantine i locali adatti alla stagionatura ed affumicazione dei salumi, pancette, coppe e spck di lavorazione e produzione propria dal gusto particolare frutto dall’ esperienza dei fratelli Zanotelli ereditata dal padre e perfezionata in Sud Tirolo dove Alfonso ha lavorato per anni.

Mi è doveroso ora aprire una parentesi per ricordare Ernesto, il maggiore dei fratelli morto prematuramente.

Era un uomo mite, buono e giusto, un grande amico personale, aveva sempre sulle labbra il sorriso di eterno bambino quale era, sempre con una battuta ironica e bonaria con tutti i clienti. Un cuore dì oro, di una generosità unica, se avevi bisogno di un favore era sempre disponibile, un lavoratore instancabile, dotato di quella scrupolosità e di quell’ onestà della gente di una volta. Voglio ricordare un piccolo ma emblematico episodio della grande generosità di Ernesto, era il 1997 quando le comunità dei paesi di Bresimo, Cis, Livo e Rumo si apprestavano ad ospitare i bambini bielorussi reduci dal disastro nucleare di Cernobyl. Avevamo organizzato un concerto di Natale, per sensibilizzare l’ opinione pubblica, con la partecipazione di cinque gruppi, come d’ abitudine al termine delle esibizioni si offriva uno spuntino ai componenti i cori, capitai in macelleria alcuni giorni prima e come mi vide, Ernesto levò dai ganci una grossa pezza di spek e me la diede. Era il suo modo di fare, il suo stile di donare a chi ne aveva bisogno, il suo essere credente nei fatti, senza che nessuno lo avesse chiesto fece un gesto che mi è rimasto impresso nel profondo del cuore e che a tutt’ oggi mi rimane ad esempio di Cristiana carità in mondo pieno di ladri ed ipocriti. Questo è stato il caro amico Ernesto, questo è il ricordo che porto nel mio cuore, assieme al suo sorriso ed alla sua rande bontà.

Alfonso, molto amante della musica, al quale avevo venduto la mia prima chitarra, ora dirige un gruppo musicale composto da ragazzi e ragazze molto giovani, cresciuti alla sua scuola di canto che interpretano brani musicali sacri e profani in modo moderno e con ottima qualità polifonica.

Il Gruppo musica insieme, si può considerare l’ unica associazione veramente attiva nel paese.

Di Carlo mi piace ricordare la nostra grande amicizia nata in età giovanile quando si poteva discutere di politica tra persone di idee opposte ma che si rispettavano e trovavano una ragione di vita nella condivisione di un libero pensiero. Di lui ho ampiamente parlato in un capitolo a parte.

Lavoratrice instancabile la signora Maria Alessandri moglie di Alessandro e mamma dei fratelli Zanotelli, ora è anziani con tutti gli acciacchi che questa età comporta, colpevole anche il tanto lavoro prestato per il funzionamento della macelleria quando i figli erano ancora giovani era lei che nella maggior parte dei casi che quando suonavi il campanello veniva ad aprire la porta della macelleria ed a darti quello le chiedevi, mi pare ancora di rivederla, con lo scialle sulle spalle che arriva ad aprire la porta .

Ora vedo la signora Maria quando vado in macelleria, non lavora più ma ogni tanto la si vede dietro il bancone che taglia a pezzetti delle frattaglie per gli immancabili gatti che stanno alla porta ad aspettare… Ora le frattaglie le mangiano solo loro, segno dei tempi che sono cambiati in meglio, ma rimpiango i tempi felici e spensierati di quando mia nonna mi mandava “n’ becjaria” a comprare un chilo di frattaglie…

 

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Le scuole di Livo e la loro storia

 

 

La storia degli edifici scolastici del Comune di Livo, la si può qualificare, senza ombre di retorica, una vera e propria odissea, per le storie contorte ed anacronistiche che descrivono la loro realizzazione ed il loro mutamento nei tempi.

Ma iniziamo per epoche .

Quando andavo a scuola io alle elementari, nel 1956, gli edifici scolastici nel Comune di Livo, erano tre , uno a Preghena, uno a Livo, ed un terzo plesso a Varollo, io che sono di Scanna, ho frequentato la scuola a Varollo, che copriva il fabbisogno delle frazioni di Scanna e di Varollo.

Gli altri due edifici servivano le utenze di Livo e di Preghena. Il plesso di Livo era ubicato nel vecchio caseificio, dove ora c’è la scuola materna, quello di Preghena era dapprima situato nella canonica, poi, venne costruito un nuovo edificio a valle del paese, proprio all’ ingresso, ma queste sono storie di cui mi occuperò in un secondo tempo, ora voglio descrivere la scuola di Varollo che ho frequentato fino alla quarta elementare, poi ho continuato gli studi nel collegio dei frati francescani di Campolomaso.

La scuola elementare di Varollo, era ubicata nella casa della “ fredaglia “ che era una confraternita religiosa, all’ inizio dell’ abitato, proprio vicino alla chiesa parrocchiale della natività di Maria, di Varollo.

Questo edificio era anche servito nei secoli scorsi, come ospedale, ora appartiene all’ ITEA che ha ricavato cinque appartamenti ed una sala riunioni a piano terra.

Questo edificio ha visto transitare all’ suo interno, generazioni di alunni, fino alla fine degli anni ‘50, quando l’ amministrazione comunale , allora era Sindaco il dott. Lorenzo de Stanchina, preso atto dei tanti limiti che avevano gli edifici scolastici di Livo e Varollo che erano obsoleti, piccoli e non si prestavano più alle nuove e più moderne esigenze didattiche, ed il mantenimento di tre strutture in un Comune era un peso finanziario non più sostenibile, decise di costruirne uno nuovo, più ampio e moderno, che potesse contenere anche gli scolari di Livo.

Si procedette, allora, alla scelta del luogo dove costruire l’ edificio, non fu una scelta ne facile ne priva di polemiche, come è sempre stato questo paese, dove tutti tendono a conservare il loro orticello, con i privilegi che ne derivano, e non si riesce a guardare più avanti della punta del proprio naso, ripiegando in tal modo su scelte derivanti da meschini compromessi e che sono sempre risultate poi nel tempo, strutturalmente carenti, riduttive e di basso profilo pratico e sociale. Ci si scontrava, ancora, con la mentalità conservatrice ed ottusa di alcuni personaggi di Livo, che ancora una volta mettevano al primo posto della scala dei valori, il loro egoismo e l’ incapacità di essere “ comunità “ che guarda al vero interesse dei propri figli, ad una crescita collettiva nei valori sociali ed umani.

Questa piccola minoranza tentò di opporsi al nuovo plesso scolastico al quale era stata finalmente trovata una equa soluzione, in un prato a metà strada tra Livo e Varollo, ma per questo gruppetto di ribelli, che non volevano mandare i loro figli in quella scuola, il posto scelto era ancora troppo lontano dalla loro abitazione e dalle loro intenzioni medioevali e retrograde.

Queste persone, proposero perfino un referendum popolare che avrebbe deciso la sorte del nuovo plesso, ed in caso di un risultato favorevole ai promotori, si sarebbe vanificato il lavoro di anni di trattative e perso definitivamente il posto in graduatoria per il finanziamento dell’ opera da parte della Provincia di Trento.

Dall’ alto della sua cultura e del suo buon senso, il cav. De Stanchina Lorenzo, sindaco di Livo, ritenne giusto e democratico coinvolgere la popolazione, informandola con una lettera del 24 giugno 1961, che fece recapitare a tutte le famiglie delle frazioni di Livo, Varollo e Scanna, dove spiegava le ragioni di quella scelta, i costi economici e gli incalcolabili benefici , sociali ed umani, che questa scelta avrebbe portato nel futuro delle generazioni di alunni che l’ avrebbero frequentata.

Si costruì l’ edificio a Varollo, in località “ Gaggià “ su un terreno che era di proprietà di un mio zio che si chiamava Zanotelli Ernesto, ed il tempo diede ampiamente ragione alla scelta saggia del buon sindaco dott. Lorenzo de Stanchina.

I lavori di costruzione durarono due anni, per un costo complessivo di 30 milioni di lire, così ripartito

Contributo delle Stato italiano Lire 22.267.350-

Contributo del BIM, (Bacini Imbriferi Montani), L.6.000.000-.

Per un totale di Lire 28.267.350- quindi il contributo del Comune si limitava a Lire 1.732.650-

Le nuove scuole furono inaugurate nel 1963, quando io ero già in collegio a Campolomaso, con l’ avvento poi del nuovo parroco, don Michele Rosani, in un ala del plesso venne ricavata la scuola materna, che negli anni 90 trovò poi sistemazione , come già detto, nell’ ex caseificio di Livo.

Per circa una trentina di anni la scuola , così come era, bastò alla popolazione scolastica di Livo, Varollo e Scanna, fino a quando il Comune decise di chiudere la scuola di Preghena, anche in questo caso, con tante inutili polemiche che rispecchiavano , nel merito, quelle di Livo degli anni 60, con la chiusura imposta dalla Provincia, delle scuole di Bresimo e di Cis, e con l’ arrivo in paese di numerose famiglie di immigrati e dei loro tanti figli, nonostante l’ intervento dell’ amministrazione Filippi, che nel 1985 ristrutturò la scuola di Varollo, predisponendola anche per il rialzo di un secondo piano, il problema dello spazio si ripresentò puntuale.

L’ amministrazione Filippi, era propensa a risolvere il problema alzando di un piano l’ edificio, che avrebbe di fatto raddoppiato le aule essendo il piano terra adibito a mensa e palestra, e , secondo me, sarebbe stata la soluzione migliore e meno costosa.

Poi Filippi nel 2000 perse le elezioni e la nuova amministrazione guidata sa Franco Carotta, optò per un polo scolastico molto più grande e costose ( 6 milioni di euro ) a Livo, a nord del campo di calcio, al bivio della strada provinciale che porta a Cis.

Di tale opera se ne sente parlare per la prima volta, ufficialmente, nella propaganda elettorale della lista Carotta Franco, già nel 2000, ma allora l’ ubicazione prevista era un'altra, lo volevano fare nell’ area dell’ ex SCAF, appena demolita ed in cerca di una nuova destinazione, ma non se ne fece nulla. Poi, molti anni più tardi, se ne riparlò, sul bollettino comunale “ MezAlon “ nel numero di settembre 2007, con una breve descrizione a firma del Sindaco ed un progetto di massima, iniziale, finanziamento pubblico di 3.501.894,38- euro, pari al 90% della spesa complessiva e 280.000,00- euro per l’ acquisizione dei terreni, pari al 80% della spesa complessiva. I lavori in oggetto, dovevano essere terminati entro il 2010

Poi una serie di anni di ritardo, con il terreno che doveva ospitare il polo ancora tutto un meleto che veniva potato quando era in corso la fioritura, all’ ultimo momento quando il proprietario capiva che anche per quell’ anno non gli sarebbe stato espropriato.

Alla scadenza elettorale del 2010, puntualmente , viene riproposto , a mezzo stampa ( l’adige di domenica7 febbraio 2010) ed in tutta la propaganda elettorale di questa amministrazione, il nuovo progetto di un polo scolastico con annesso parco tematico, per un costo totale di 6 milioni di euro .

L’ opera ha finalmente inizio nel 2010 e viene ampiamente messa in rilievo in un articolo, a firma di Gianantonio Agosti, sul numero di dicembre del bollettino comunale MezAlon del 2010.

Ora la Ditta che aveva vinto l’ appalto d’ asta, sembra abbia dato fallimento, i lavori sono fermi da tempo ed il Sindaco si è affrettato a comunicare che anche il prossimo autunno gli studenti di Livo, Bresimo e Cis, andranno ancora nella scuola di Varollo e speriamo almeno loro abbiano imparato la lezione che i loro padri, ora amministratori, pur essendo stati alunni in quella scuola per 50 anni ed aver potuto constatare di persona tutti i suoi limiti, non hanno ancora imparato:

che a chiacchiere ed a promesse elettorali, non si fanno lavori !

Voglio anche evidenziare un fatto che la dice lunga sulla democrazia diretta e partecipativa tanto sbandierata a parole da questa Amministrazione comunale, che fin dall’ inizio si era presentata con al primo punto del suo programma, la democrazia diretta, il coinvolgimento della popolazione nelle scelte amministrative importanti, tante belle parole rimaste lettere morte.

A differenza di adesso, 50 anni fa, un Sindaco più democratico e più progressista, davanti a delle forme di dissenso di una piccola minoranza e di alcuni amministratori, si è sentito in dovere, pur non essendo obbligato a farlo per legge, di informare la popolazione dei pro e dei contro che quell’ opera pubblica avrebbe portato, tutto questo in tempi dove anche il costo di una lettera era soppesato, per non incidere sul bilancio del comune, ora, nell’ epoca di internet, dei social network, della stampe facili, non si è pensato di farne un uso corretto, si sono pubblicate da parte di un Associazione comunale, la Pro loco, piuttosto delle pesanti volgarità offensive del pudore, delle donne e delle religioni, questo è un atteggiamento arrogante ed ottuso che fin da subito ha identificato questa Maggioranza ed i suoi supporter, che ha dimostrato e dimostra una scarsa sensibilità verso la democrazia e la condivisione delle scelte.

Altra importante osservazione che mi piace fare, è il fatto che si sia perso così tanto tempo prezioso per una decisione che avrebbe potuto cambiare radicalmente in meglio le attività didattiche, ludiche e sociali e la stessa vivibilità della popolazione scolastica, studenti ed insegnanti, per una migliore qualità delle attività scolastiche e ricreative. Forse si tende erroneamente ad attribuire una scarsa importanza al ruolo educativo e sociale della scuola, che, assieme alla famiglia, ha un ruolo fondamentale nella crescita culturale e civica dei bambini e non deve essere una formalità dovuta, o una perdita di tempo, ma deve trovare un ruolo centrale e primario per una società che si proclama civile.

 

Non si è sentito neppure la necessità ed il dovere morale nei confronti dei propri figli, la partecipazione diretta ed attiva dei genitori alla realizzazione di un opera così importante per l’ educazione dei bambini.

Si poteva infatti costituire un Comitato di genitori con l’ incarico di seguire i lavori di progettazione dando il loro consiglio ed il loro parere al Progettista, certo è un bell’ impegno, ma vorrei ricordare che è in questo modo che una Comunità esprime il proprio interessa e la propria partecipazione alla vita politica e sociale della Comunità ed alle scelte sia ideologiche che strutturali che l’ Amministrazione propone.

Il ruolo di una Comunità attiva, non deve limitarsi a scegliere i propri amministratori con una x sulla scheda elettorale, ma li dovrebbe seguire ed affiancare per l’ intera legislatura per capire e controllare che quello che fu promesso in campagna elettorale venga poi mantenuto nei fatti.

 

La nuova scuola soltanto dal 2013” così recita il titolo del pezzo che il quotidiano L’ Adige ha dedicato al ritardo dovuto alla sospensione dei lavori da parte della Ditta Pasqualini che doveva eseguire e terminare i lavori con il classico metodo delle chiavi in mano. Così il tempo passa e il “ paio di mesi di ritardo acquisito “ sono diventati un anno e non si sono visti neppure “ il lati positivi “ di questo fallimento come auspicava il Sindaco, insomma è ancora tutto in alto mare, inutile quindi sperare che durante le vacanze scolastiche del prossimo Natale. Si possa procedere al trasloco dalla scuola di Varollo a al nuovo plesso scolastico di Livo. E’ vero che il fallimento dell’ Impresa costruttrice non lo si può attribuire all’ Amministrazione guidata da Franco Carotta, ma la responsabilità oggettiva dei ritardi di anni che hanno preceduto la fase di progettazione a quella dell’ inizio dell’ esecuzione dei lavori, quella si. Si sono persi anni preziosi, quando ancora non si intravvedeva l’ attuale pesante crisi economica, per l’ acquisizione del terreno e questo lo si notava dalla potatura delle piante di melo che avveniva sempre fatta nel tempo della fioritura degli alberi, all’ ultimo momento.

E’ uscito da poco il periodico MezAlon senza che nel numero di Natale la Maggioranza e l’ Opposizione che amministrano questo paese, si siano sentiti minimamente in dovere di rendere conto alla popolazione del problema del nuovo edificio scolastico, neppure una parola, anzi il Sindaco dice che non serve rendicontare sul giornalino, mentre il consigliere di maggioranza Agosti Gianantonio auspica una maggior presenza dell’ Amministrazione sul periodico… almeno si mettessero d’ accordo.

Concludo con una domanda che rivolgo sia ai Consiglieri di maggioranza che a quelli di opposizione :

 

Anche se qui nessuno parla davanti al degrado sociale e strutturale sempre più evidenti che ormai regna sovrano in questo paese e per il quale si possono individuare oggettivamente delle pesanti e gravi responsabilità, pensate di avere o no una benché minima responsabilità in tutto questo sfascio, o date sempre la colpa ad altri ? “

Nell’ ottobre 2013, si aggiunge alla vicenda travagliata del nuovo edificio scolastico di Livo in costruzione, un altro grave ed inquietante episodio che la dice lunga sull’ effettivo sistema “ democratico “ dell’ attuale Amministrazione comunale retta dal sindaco Carotta Franco.

In data 05 ottobre 2013 sono stati destituiti i consiglieri ed assessori comunali Aliprandini Rosaria, Fanti Luciano ed a seguito di questo provvedimento deciso dal Sindaco ed inoltrato agli interessati via e. mail, il giorno 07 ottobre si dimetteva anche il terzo Assessore Agosti Gianantonio.

Le ragioni e le cause di questa paradossale vicenda, vanno cercate propri nella gestione della costruzione del nuovo plesso scolastico e nei malumori ed incomprensioni dettate dalla cattiva e non tanto trasparente gestione dell’ intera opera.

Sembra infatti che i mal di pancia siano di vecchia data , ma quello che ha fatto traboccare il vaso è stata l’ idea venuta al Sindaco ed ad altri, di voler proseguimento in modo autonomo i lavori di completamento del polo scolastico, interrotti dal fallimento della Ditta Pasqualini.

Tutta questa operazione avrebbe comportato l’ acquisto da parte del Comune della gru, ponteggio, box prefabbricati, recinzioni, per un totale di 62. 00. 00 euro, e la contestuale rinuncia alla copertura finanziaria ( fideussione ) a favore del Comune 176. 198. 00 euro.

La giunta è stata rimpastata con tre nuovi elementi e la delibera è stata approvata consentendo così la ripresa dei lavori.

Tardiva quanto inutile la presa di coscienza e di distanza dei tre consiglieri destituiti, da tempo infatti era noto a chi guardava con gli occhi dell’ obbiettività il sistema di amministrazione vigente nel Comune di Livo, che da tempo si era accorto di chi veramente amministra e decide…

Indegna anche del ruolo che gli elettori le avevano attribuito l’ opposizione, silente davanti a tanto scempio di democrazia e sempre più ruota di scorta dell’ attuale fallimentare maggioranza.

Auspicabile per sanare tutte queste anomalie e questo sistema di meschina sudditanza, sarebbe il lasciare commissariare per un lungo periodo di tempo questo infelice Comune, devastato strutturalmente e socialmente, affinché forze nuove e libere possano in futuro riportarlo ad una degna e democratica amministrazione ed ad una civile ed umana convivenza.

Non so se vedrò tutto questo…

Arrivederci alla prossima puntata di questa incredibile farsa.

Con le dimissioni di 8 consiglieri, tre di maggioranza ( Agosti Gianantonio, Aliprandini Rosaria e Fanti Luciano ) e cinque di opposizione ( Betta Massimo, Conter Aldo, Conter Luca, Zanotelli Francesca e Zanotelli Lino ) si è finalmente posto fine alla peggiore amministrazione comunale che io ricordi.

L’ ormai ex sindaco Franco Carotta, se ne và nel modo identico di quando era stato eletto, dopo un pareggio elettorale con il suo antagonista Giulio Filippi che aveva portato il comune di Livo nell’ anno 2000 al commissariamento per sei mesi ed a una nuova e decisiva tornata elettorale che aveva visto prevalere Carotta. Nell’ ottobre 2013 si era poi avuta la defezione dei tre consiglieri della sua maggioranza, che hanno pesato in modo determinante alla sua caduta, ed ora il comune sarà nuovamente commissariato per sei mesi.

Da subito si era capito che l’ opposizione guidata da Aldo Conter, che aveva perso alle elezioni del 2010 per una manciata di voti, era un opposizione imbelle e rinunciataria, lo si può evincere dal momento iniziale della legislatura quando ha votato in toto il programma della maggioranza.

Nel corso di questi quattro anni poi parecchi sono stati gli episodi di sostegno alla sempre più traballante maggioranza di Carotta, insomma una stampella ed una ruota di scorta della maggioranza.

Che dire dei tre consiglieri ribelli, se da un lato si può dare atto del grande senso di responsabilità democratica della loro uscita dalla maggioranza prima e delle dimissioni che hanno determinato la fine anticipata della legislatura, di contro c’è da rilevare la loro pesante ed ingiustificata responsabilità nell’ avere tenuto in piedi per 14 anni una maggioranza politica legata mani e piedi a dei poteri esterni, che a loro dire hanno determinato delle scelte amministrative sbagliate togliendo di fatto potere decisionale al consiglio.

Più volte infatti hanno chiesto sia in aula che a mezzo della stampa locale e del giornalino Comunale MezAlon. Di ridare la voce ed il potere al consiglio comunale. C’è da rilevare inoltre, alla luce dei risultati elettorali che in ogni tornata hanno evidenziato una pesante spaccatura all’ interno del paese con quasi la metà dei consensi all’ opposizione, segno inequivocabile che metà della popolazione aveva capito in anticipo verso quale tipo di politica si sarebbero imbarcati, perché a volte la gente ha più “naso” e più buon senso dei loro amministratori, peccato che poi, come nel caso in questione, la popolazione sia stata colpevolmente assente da ogni tipo di dibattito o di posizioni critiche nei confronti dell’ amministrazione in tutti questi 14 anni.

Continuate a dormire, buona notte !!!

 

 

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LA BOTTEGA DEL CALZOLAIO

 

 

Al piano terra dell’edificio scolastico dove frequentavano i bambini di Scanna e di Varollo, sull’angolo a ovest, proprio dove c’era la scala di accesso alle aule scolastiche, c’era una piccola stanzetta alla quale si accedeva direttamente dalla strada principale che era stata affittata dal Comune a dei calzolai dell zona.

Ai miei tempi quando una cosa si rompeva, si riparava anche più volte prima di decidersi a buttarla, cosi si facevano per le camicie, i pantaloni gli ombrelli , le pentole ed anche con le scarpe. Tutto allora si aggiustava, anche i piccoli dissidi famigliari che insorgevano tra moglie e marito e che quasi sempre degeneravano in litigi anche violenti, dove a farne le spese erano la moglie e le stoviglie ed il giorno dopo si potevano notare le donne con i lividi ed il marito che andava a comprare nuove stoviglie al negozio. La causa di tutto si può riassumere in una sola parola: miseria.

I calzolai che lavoravano nella bottega sotto la nostra scuola erano due fratelli che si chiamavano Guglielmo e Giuseppe Carotta, in un primo momento ci lavorava il signor Giuseppe poi alla sua morte il fratello si trasferì in quella bottega che era più comoda e più vicina al centro del paese.

Già quando entravi dalla porta del corridoio dove a due passi sulla sinistra c’ era la porta di accesso al locale, ti veniva incontro quel odore classico del bostik di quella colla che usavano allora i calzolai, a me quel odore piaceva perché era un odore deciso, intenso ed era uno di quelli che poi ti ricorderai per sempre e che ti portano alla mente quei giorni spensierati dell’ infanzia e della giovinezza. Poi si arrivava dopo due passi, davanti alla porta di ingresso della bottega che era a metà corridoio sulla sinistra e dovevi salire di un gradino, poi come aprivi la porta, di colpo l’ odore si faceva più intenso, quasi insopportabile, non ho mai capito come facessero a lavorare tante ore avvolti da quell’ odore così forte, forse ci si erano abituati…

Il ciabattino stava seduto su una piccola sedia in legno vicino all’ unica finestra dello stanzino, sopra la sua testa era appesa una lampada elettrica con un paralume rotondo di metallo smaltato di bianco, la lampada poteva essere abbassata o alzata con un sistema di carruccole e di contrappesi. La finestra che dava all’ esterno guardava verso la strada principale e verso la val di Sole.

Alle pareti c’ erano degli scaffali di legno dove erano allineate la scarpe rotte da una parte e quello riparate e pronte alla consegna da un'altra.

In mezzo c’ era il banco con gli attrezzi da calzolaio, spaghi, colle, borchie di rame, chiodini di varie misure.

C’ erano poi una serie di sagome di piedi in ferro di misure diverse che si andavano ad innestare su un supporto sempre in ferro e servivano a ribadire i chiedi all’ interno della scarpa.

C’ era poi una macchina da cucire la pelle più morbida mentre per cucire il cuoio si usava uno strumento molto simile ad un grosso ago ricurvo con il manico in legno che si chiama Subla.

In una gabbietta appesa in un angolo c’ era un uccellino, credo che fosse un canarino, che teneva compagnia al buon Beppi durante le ore di lavoro nella bottega e con il suo cinguettare rendeva meno monotona la giornata, Giuseppe era un uomo di statura medio bassa, era un bravo calzolaio ma era anche molto apprezzato per il compito che svolgeva in ambito ecclesiastico, era infatti l’ organista della chiesa, era perciò molto amico di mio padre che era direttore del coro parrocchiale di Livo.

Ricordo poi anche in quella bottega il signor Guglielmo Carotta che era padre di due miei compagni di scuola, Silvano e Ilario, era un uomo magro e leggermente gobbo per il tanto lavoro a per una malattia ai polmoni per la quale venne ricoverato credo nel sanatorio di Arco. Ricordo che quando eravamo chierichetti insieme ad Ilario, don Giuseppe Calliari chiedeva spesso informazioni al ragazzo sullo stato di salute del padre. Guglielmo era sposato con Stanchina Augusta di Livo, una signora simpatica e sempre allegra che vive ancora nella sua casa di Livo ed è prossima a festeggiare i 100 anni. Guglielmo morì molto giovane credo negli anni 70 – 80.

 

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CORAZZA AUGUSTO E LINA N. LARCHER

 

 

Tra le persone che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere e che mi hanno fatto dono della doro conoscenza e della loro esperienza ci sono i coniugi Augusto e Lina Corazza.

Persone umili e modeste, educate alla vita di povertà dagli eventi della storia che a volte sa scrivere pagine difficili per chi le vive, ma che per chi ne sa cogliere il senso profondo, diventano vere lezioni di vita, da dove attingere a piene mani e far tesoro dei veri valori che veramente contano nella vita di un uomo.

Augusto era un uomo di Brez che si era trasferito a Preghena negli anno ’60 quando si stava ammodernamento la strada provinciale n°68 che dal bivio di Scanna si dirama dalla SS 42 e prosegue fino a Rumo. Augusto era un manovale in quella occasione, ma era anche un artigiano calzolaio, lavoro che sapeva svolgere molto bene. Lina era una casalinga ed era originaria di Tret in alta valle di Non. Augusto e Lina ebbero tre figlie femmine, Daniela sposata a Cis, Faustina sposata a Preghena e Laura nubile che abita a Preghena.

La mia conoscenza e poi la mia profonda amicizia con i coniugi Corazza inizia all’ inizio degli anni ’80 quando io ero presidente dell’ E.C.A. di Livo (Ente Comunale Assistenza ) che si occupava in modo diretto da parte dei comuni del fabbisogno economico delle persone meno abbienti. Dopo il lavoro sulla strada provinciale, Augusto si era fermato a Preghena dove viveva in affitto nella casa di proprietà dei signori Vender, quel periodo fu molto tormentato per loro in quanto i proprietari non vedevano di buon occhio gli inquilini e frequenti erano i litigi.

Augusto lavorava da calzolaio in un locale al piano terra della canonica e quando quel lavoro scarseggiava prestava le sue braccia per lavori nei campi o nei boschi, ricordo che quando io ero poco più di un ragazzino e lavoravo da manovale all’ ammodernamento della strada interpoderale di Barbonzana, c’ era anche il signor Augusto sul cantiere a lavorare. In quel periodo nell’ abitato di Preghena si era costituito una specie di comitato formato da gente locale, che aveva come scopo dichiarato la cacciata dal paese della famiglia Corazza, questo particolare mi venne riferito dal parroco Don Pio Dallavo che aveva da poco sostituito il vecchio parroco don Pietro Bisoffi. Inutile ogni commento.

I coniugi corazza dovettero lasciare la casa dei signori Vender e trovarono alloggio presso un appartamento nella vecchia canonica al primo piano, era un appartamento fatiscente, le pareti divisorie in pannelli di legno pressato che con la presenza delle stufe a legna rendeva molto pericoloso l’ abitarvi.

Un giorno mi convocò in comune l’ allora Sindaco il signor Carlo Penasa che mi informò, molto preoccupato, che stavano cercando di sfrattare i coniugi Corazza in base alle perizie dei tecnici del Comprensorio che erano intervenuti per verificare la staticità della casa.

In quel momento l’ Amministrazione Penasa stava concludendo il passaggio di proprietà delle vecchie scuole di Varollo con l’ istituto per l’ abitazione popolare ITEA della Provicia di Trento e si poté garantire in base alla graduatoria un appartamento decoroso e riscaldato alla famiglia Corazza.

Questa è la storia cruda della famiglia Corazza, soggetta ad ogni sorta di privazioni dalla vita e di angherie dai loro compaesani per il solo fatto di essere poveri. E questa povertà materiale, la vita ha forgiato e ferrato con chiodi di sofferenza, in Augusto a Lina un carattere mite e tranquillo, una generosità che solo ai poveri ed ai puri di cuore viene concessa, una gioia di vivere che solo chi non ha più niente da perdere è capace di trasmettere con grande semplicità perché era l’ unico dono di cui disponevano in abbondanza e non costava loro nulla regalarlo al prossimo.

Lina allevava conigli che teneva negli scantinati messi a disposizione dal Parroco, come pure l’ orto dove coltivava un ben di Dio di ortaggi di vario tipo e patate, e quante volte mi hanno regalato un coniglio e dei cesti di verdura, riconoscenti per quello che avevo fatto per loro. Quando vennero ad abitare nella casa ITEA di Varollo, non scordarono mai la vecchia canonica di Preghena, anzi vi si recavano tutti i giorni, Augusto a lavorare da calzolaio e Lina ad accudire i conigli e l’ orto.

Nella casa accogliente di Varollo non ebbero la fortuna di abitarvi a lungo perché morirono entrambe relativamente giovani.

Voglio concludere con le parole usate dal Parroco all’ omelia della Santa Messa funebre di Augusto :

Se guardiamo la tua vita dal punto di vista del fare soldi, possiamo dire che sei stato un fallimento…”

E sono sempre i fallimenti che ci insegnano nuovi motivi di vita.

 

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UNIONE SPORTIVA LIVO

 

 

Negli anni ’70 quando il paese era in grande espansione e crescita economica, ed il sistema sociale era molto più aperto ed attivo di adesso e permetteva degli ottimi rapporti umani tra le persone, un dialogo schietto ed un continuo mettersi in discussione senza timore che l’ altro non ti capisse o facesse prevalere il suo stato economico o sociale per garantirsi di avere sempre ragione, in paese erano nate delle belle Associazioni come la Pro Loco e l’ Unione sportiva.

L’ Unione sportiva fu una bella e sana associazione che introdusse di fatto lo sport organizzato per tute le età dei bambini e dei ragazzi. L’ attività sportiva si sviluppava in due branchie : l’ atletica ed il calcio, devo dire che nel settore dell’ atletica dove mi ero impegnato a lavorare assieme ad altre valide persone che ricordo con molta stima ma che svito di nominare per non dimenticare nessuno, si era riusciti a raggruppare circa 60 bambini e ragazzi di tutte le età a partire dai cuccioli fino ai seniores che praticavano il podismo ed in modo specifico ed organizzato molto bene da Comitato di valle, la corsa campestre.

Era uno sport “povero” al quale potevano accedere tutti, bastavano un paio di scarpe da ginnastica ed una tuta. Per i bambini che non potevano disporre dell’ auto dei genitori, ci eravamo organizzati con il pulmino che portava i bambini alla scuola materna con l signora Amelia Alessandri, che li portava per i vari paesi della valle dove le locali Associazioni avevano organizzato una prova del Campionato valligiano di corsa podistica nel loro paese. Abbiamo organizzato più volte nelle 4 frazioni di Livo delle gare di campionato con esiti molto lusinghieri e con l’ unanime plauso di organizzatori ed atleti di tutta la valle.

Allora l’ Unione sportiva non disponeva di una sede sociale propria, ci si riuniva in delle salette messe a disposizione nei vari locali pubblici della zona ed era una necessità urgente alla quale si diede una concreta risposta chiedendo ed ottenendo dal Comune la disponibilità del locale che era stato adibito a bottega del calzolaio che ho ampiamente descritto nei minimi particolari in un capitolo a parte e che ora, con la dismissione dell’ attività si era reso disponibile.

Fu un bel lavoro di recupero e di restauro della vecchia bottega al quale contribuirono molti artigiani e muratori della zona, in modo del tutto volontario e gratuito, tutti mossi da un comune pensiero mirato ad una causa nobile e socialmente molto utile, quella di dare a tutti i nostri giovani la possibilità di fare dello sport sano ed a poco prezzo.

Si lavorò per un intero inverno fino alla primavera successiva ed alla fine ne risultò un bel locale arredato con mobili di recupero con delle panche di legno ai lati di tre pareti che servivano per le assemblee o per ospitare dei Dirigenti o dei Responsabili di altri sodalizi.

Le pareti erano state intonacate e tinteggiate, rifatto il pavimento con mattonelle, bene illuminato da luci al neon, una bella e massiccia scrivania in legno, un armadio e in alto sopra le panche un giro di mensole dove erano esposti i trofei e le coppe vinte nelle varie discipline e categorie.

L’ Unione sportiva Livo ebbe così la sua bella sede sociale, in un locale ristrutturato dal lavoro prezioso e gratuito di tanti volontari che avevano saputo credere nei valori della solidarietà e dell’ amicizia che lo sport povero porta con se ed avevano capito l’ importanza sociale e culturale dello stare assieme per fare comunità e per crescere insieme e percorrere la via della giovinezza intrisi di valori veri e duraturi nel tempo che poi sono quelli che fanno la differenza nella vita adulta. Venne inaugurata nell’ estate dell’ anno successivo alla presenza del sindaco di allora signor Carlo Penasa, delle persone che vi avevano lavorato e degli atleti del sodalizio.

Con il crescere del benessere economico però si è assistito ad un graduale lento declino della Società sportiva, come della società civile del mio paese, con il conseguente lento declino di tutte le forme associative organizzate, poi le vecchie scuole vennero acquisite dall’ ITEA ed ora nella vecchia e gloriosa sede dell’ Unione sportiva Livo, nuovamente ristrutturata e molto più grande della precedente, ci sono gli Alpini del Gruppo di Livo.

Mi piace concludere con un dato di fatto che costringe ad una conseguente riflessione :

In quelli anni ruggenti e fortunati per lo sport di massa della val di Non, faceva parte del Comitato Valligiano Corsa Podistica anche una società di un paesino dall’ altro lato della valle al confine con la provincia di Bolzano, la società sportiva Novella di Tret, alla cui guida c’ era Alessandro Bertagnolli.

Ma mentre la nostra Società sportiva ed anche civile da noi rallentava e perdeva quote di valore sempre più importanti fino alla completa staticità, dall’ altro lato della valle, dove finisce la coltura delle mele ma è rimasta e si è rafforzata la cultura dello sport e dell’ ospitalità, il signor Bertagnolli assieme al suo staff ha saputo inventare una nuova e redditizia attività sportiva che è cresciuta negli anni fino a vedere attualmente la partecipazione di oltre seimila atleti provenienti da tutta Europa ed oltre.

La manifestazione si chiama Cjaspolada.

 

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La scuola materna di Varollo

 

 

Dopo la costruzione del nuovo e moderno plesso scolastico a Varollo, fatto che ho ampiamente descritto, verso il 1968, con l’ aiuto determinante dell’ allora parroco don Michele Rosani che fece intervenire l’ ONAIRC che era un istituzione legata al clero che si occupava della gestione delle scuole materne, venne istituita la Scuola materna di Livo che ospitava tutti i bambini del Comune di Livo.

Inizialmente la parte di edificio che ospitava i bambini dai 3 ai 6 anni, era situata nell’ ala sud – est dell’ edificio, ben soleggiata con un bel giardino con una fontana in mezzo.

Naturalmente per la gestione di una struttura quale era il nuovo asilo, servivano delle maestre e del personale di supporto per la mensa e tutti gli altri lavori connessi come il lavare e stirare tovaglie tovaglioli e lenzuola.

La prima maestra del nuovo asilo di Varollo fu Moratti Mariateresa di Tuenno seguita da Bevilacqua Claudia di Termenago ( val di Sole ) la terza fu Dapoz Pia Grazia di Cles.

Vorrei ricordare qui, con l’ ausilio della mia amica e coetanea Renata Aliprandini, le persone che hanno svolto questo ruolo che sono : Aliprandini Valeria, Aliprandini Renata, Conter Dina, queste per brevi periodi di tempo, la donna che ebbe un ruolo più lungo in quella attività e che ha visto passare decine di bambini che ora sono genitori e nonni, è stata la signora Agnese Sparapani di Preghena sposata con Agosti Giuliano e residente a Livo.

La signora Agnese ha cominciato il suo servizio di cuoca ed inserviente presso la scuola materna di Varollo nell’ anno **** fino all’ anno **** data della sua collocazione a pensione.

Voglio qui soffermarmi e descrivere il ruolo ed il lavoro delle inservienti in modo particolare la signora Agnese con la quale ho avuto il piacere e mi sia concesso anche l’ onore di conoscere personalmente sul suo luogo di lavoro quando prestavo la mia opera al servizio del Comune di Livo negli anni ’80.

Persona umile e riservata la signora Agnese prestava il suo determinante lavoro come cuoca ed inserviente in modo silenzioso e riservato, la ricordo davanti al grande focolare ed al piano di lavoro preparare decine di pasti per quella folla di piccoli sempre affamati, la colazione, il pranzo e la merendina.

Partiti quei diavoletti, nel pomeriggio c’ era da riordinare le sale, pulire i pavimenti e stirare la biancheria, insomma non ci si poteva fermare un attimo. La scuola è come una piccola famiglia, una società allo stato infantile, e spesso diviene il crogiolo naturale per un infinità di storie umane , diverse tra loro, ma che racchiudono in se un infinità di gioie e di dolori, e così troviamo la signora Agnese la cui vita non si può dire tra le più fortunate avendo perso il marito Giuliano ancora giovane e la storia di tanti bambini come quella di Franco Pancheri, gravemente handicappato dalla nascita che frequentava l’ asilo assieme a tutti i ragazzi normodotati e che dimostra tutt’ ora la sua voglia di vivere, la sua gioia per la vita partecipando alle iniziative che il giornalino MezAlon propone con i suoi scritti.

Coraggio Franco che fino a quando qualcuno ci legge vuol dire che siamo vivi ed attivi, continua a scrivere…

 

Mi viene raccontato da Aliprandini Renata un fatto riguardante la sua permanenza come inserviente alla scuola materna di cui ero parzialmente a conoscenza e che ora posso raccontare per intero.

La signorina Renata a quel tempo aveva 17 anni e fu assunta all’ asilo anche grazie all’ interessamento che ebbe nei suoi confronti l’ allora parroco e decano del Mezzalone don Michele Rosani.

La gente però mormorava che l’ interessamento del prete nei suoi confronti non fosse esclusivamente a livello di lavoro, ma che sotto ci fosse stato un desiderio proibito per i preti nei confronti della giovane e bella ragazzina. Tutto questo rese invisa la signorina Renata nei confronti soprattutto della maestra Moratti ma anche di altre persone del paese che non vedevano di buon occhio il presunto atteggiamento del prete.

Per questo motivo alla ragazza venne resa impossibile la vita sul posto di lavoro con continui ed ingiustificati controlli ed altre vessazioni psicologiche, ma considerato il carattere testardo e deciso di lei non tiuscirono a farle perdere il lavoro, se ne andò lei quando si sposò nel 1972.

Allora erano tempi di grandi cambiamenti sociali tra i giovani, eravamo tutti impegnati in prima linea per tentare di eliminare tutte quelle ingiustizie sociali che a noi pareva fosse piena la nostra società, ci si costituiva in gruppi normalmente pilotati dai preti come il Gruppo giovanile di P. Alessandro Zanotelli del quale facevamo parte sia Renata che io, così quando c’ era da scrivere qualche cosa sul locale giornalino, prendeva la mia “ Olivetti LETTERA 32” ed andavo da Renata che mi apriva la porta laterale dell’ asilo e mi faceva entrare e mentre lei stirava assieme mettevamo giù le nuove idee che avrebbero dovuto cambiare il mondo in meglio togliendo ingiustizie e corruzione… sono rimaste purtroppo delle belle illusioni, dei sogni calpestati dalle generazioni consumistiche ed egoiste che seguirono.

Renata come me era una ragazza vivace e ribelle, ma di carattere dolce e buono, aveva avuto una profonda e buona educazione dal padre Antonio uomo saggio ed onesto, per cui non credo che anche se provocata dal prete avesse risposto alle sue attenzioni, certo che poi bisogna ammettere che in materia di donne e di sesso il clero ne sa una più del diavolo, compreso don Michele Rosani, poi ci sono quelli che incapaci di chiedere sesso ad una donna matura, approfittano dei minori negli oratori… povero Cristo, dovrebbe scendere dalla croce e prenderli tutti a calci nei coglioni.

Dimenticavo, non mi sono mai permesso di fare neppure una avance a Renata, forse anche per questo la considero una delle migliori amiche.

 

 

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A scuola

 

 

Il primo giorno di scuola, è stato, per me, una delle più grandi emozioni della mia vita, che , tutt’ oggi, conservo nel cuore come un episodio bello, unico ed irripetibile.

Devo dire, che a renderlo un avvenimento atteso, desiderato ed emozionante, ci aveva pensato mio padre, che era amante della cultura, pura e fine a se stessa, capace di fare la differenza tra le persone, la società ed i popoli, più tardi avrei capito il lungimirante messaggio di mio padre, uomo di grande cultura, assimilata a scuola e sperimentata nella sua breve ma intensa vita, fatta di onestà nella miseria più totale, mai una volta che fosse stato tentato di superare questo stato di cose con l’ illegalità, ma nemmeno con le più puerili forme di astuzia o di furbizia, oggi molto di moda, specie tra i politici e gli amministratori.

Ricordo un episodio, che prendo a prestito ogni volta mi si presenta l’ occasione di poter evadere gli obblighi e gli impegni che la società si è data :

era la fine degli anni ’50 o forse i primi anni ’60, quando mio padre, dopo essere tornato tardi una sera da una riunione del Comitato ASUC di Livo, del quale faceva parte come consigliere, raccontando a mia madre gli esiti della riunione, disse di essere pi felice di aver vinto al lotto per aver contribuito alla decisione di acquistare la malga di Montanzana, che era di proprietà dei nobili de Stanchina ed era stata acquistata dall’ Ente pubblico.

Era allora presidente il signor Alessandri Giuseppe, uomo saggio e giusto.

 

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Il primo giorno di scuola

 

 

Al primo giorno di scuola, che allora era all’ inizio di ottobre, c’ era mio padre, che mi accompagnò, a piedi, da casa fino al piazzale della scuola, che a quel tempo era a Varollo nella casa dove adesso c’ è la casa ITEA .

Quello che ricordo bene, e con tanta emozione, è stato il ritrovare tutti i miei amici e tanti altri bambini che conoscevo, tutti insieme davanti alla scuola, con la maestra ed il maestro che ci aspettavano.

Fu un momento solenne della vita, ancora oggi ne colgo l’ importanza che gli veniva attribuita, c’ era la bandiera alla quale era da poco stato levato lo stemma dei Savoia, i maestri ci diedero il benvenuto e ci elencarono i diritti ed in modo particolare i doveri degli scolari, poi , tutti salimmo nelle due randi aule che ospitavano le classi dei “ piccoli “ prima, seconda e terza e dei “ grandi “ quarta, quinta e sesta, allora non c’ era l’ obbligo di frequentare le scuole medie.

 

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La mia maestra.

 

 

La mia maestra per gli anni che ho frequentato la prime tre classi elle elementari, si chiamava Teodora Depeder e, come tanti maestri ed insegnanti di quel tempo, proveniva dal paesino montano di Bresimo, dove la miseria era ancora più radicata e stabile in quella Comunità svantaggiata, da suggerire ai genitori di far studiare i propri figli per poter avere un lavoro ed un futuro che potesse garantire la sopravivenza stessa della comunità di Bresimo.

Era una donna piccola, minuta, aveva sposato un uomo locale che si chiamava Maninfior Giulio, credo, ma non ne sono certo e comunque non ha nessuna importanza, che avesse aderito al fascismo negli anni del regime, ma di questo lei non ne fece menzione alcuna e, secondo la mia opinione, riuscì a scorporare da quel pensiero politico e dalle manifestazioni del ventennio, tutte quelle cose positive che esso ha proposto ed inculcato agli italiani, come la lealtà, il rispetto della parola data, la cura del corpo e della mente e la disciplina.

Se avesse saputo fare altrettanto l’ intero popolo italiano, a quest’ ora saremmo il Popolo più educato e colto, progressista, tecnologicamente avanzato e progredito del mondo. Abbiamo pensato bene invece, assieme ai momenti, gagliardetti e camicie nere, di bruciare in toto anche quei valori positivi che il regime fascista aveva prodotto durante i venti anni della sua storia.

Così la buona maestra Teodora, ci prese in consegna, amorevolmente, specie i nuovi arrivati, ci fece salire al piano di sopra , dove c’ era la nostra grande aula, e ci fece accomodare ai nostri posti, i più piccoli davanti, la seconda e la terza dietro di noi.

Le aule avevano il pavimento in legno, fatto con tavole logorate dal tempo, talune erano talmente sconnesse da avere delle grandi fessure nelle quali, sovente, cadevano matite, pennini, e pezzi di carta.

La manutenzione era ridotta all’ essenziale, perché già allora si stava pensando alla costruzione del nuovo plesso scolastico, il Comune, infatti, era già in trattativa per l’ acquisto del terreno.

La buona maestra Teodora, si accorse subito del mio problema al braccio destro e non fu che la triste conferma di quanto a casa avevano sempre sospettato ed esorcizzato, faticavo molto ad impugnare la penna e mi era difficile tracciare dei movimenti sulla carta per colpa dell’ instabilità dell’ arto.

Con infinita pazienza, la maestra mi prendeva la manina malata e la accompagnava sul quaderno a tracciare le prime aste, poi i tondi, via, via fino a quando prendeva forma una A o un numero.

Ricordo, con emozione e con grande riconoscenza, il lavoro didattico di mia zia Ada, che con tanta pazienza ed infinita tenerezza mi insegnava come una seconda maestra e mi teneva la mano tremante, per farmi tracciare bene le aste ed i cerchi.

Imparavo in fretta ed assimilavo bene tutte le materie, ero un po’ debole in matematica, ( lo sarei sempre stato ) ma per il resto imparavo tutto e bene.

Ricordo, con entusiasmo, un piccolo episodio, era verso la fine del primo anno scolastico, ed avevo imparato a leggere sillabando le parole, un giorno mio padre mi portò con lui al bar di Varollo, sul tavolino c’ era un quotidiano locale, presi il giornale e mi misi a leggere le parole più grandi, i titoli, era presente, per caso, un figlio della mia maestra, che si chiama Irio, il quale lo riferì alla madre ed il giorno seguente, a scuola, la maestra mi elogiò pubblicamente.

Tra gli episodi più belli e dolci che ho ricordo nel tempo trascorso con la buona maestra Teodora, alcuni mi sono rimasti impressi nella mente, come una poesia, dolce, che si narra al fuoco del camino, durante le sere d’ inverno, quando fuori cade la neve e le cose più care le tieni strette al cuore, in uno spazio angusto, con forza, sono i ricordi, che nessuno ti potrà mai rubare, nessuno, perché gli unici proprietari sono il tuo cuore, la tua mente, la tua anima.

Il 22 marzo 1959, è stato il giorno, solenne, della mia prima S. Comunione. A lungo ci aveva preparati il nostro parroco don Giuseppe Calliari, insegnandoci , alla maniera pre conciliare, la Bibbia, con i suoi Profeti, i suoi racconti, che mi parevano tratti da un libro di favole, poi il Vangelo, con tutta la storia di Cristo, dalla sua nascita al Calvario e poi la resurrezione.

Anche la mia maestra, ci aveva seguiti ed aiutati per questa solennità, come fossimo dei suoi figli, ci ha accompagnati lei alla S. Messa quel giorno, ed a me, forse perché ero il suo preferito per via dei miei problemi fisici, mi regalò i santini, piccoli, come era in uso a quei tempi, sul primo, che conservo ancora gelosamente, come un caro ricordo di lei, aveva scritto, a penna, con la sua impeccabile calligrafia: “ Varollo, 22 – 3 – 1959, nel giorno della tua l° S. Comunione, la tua maestra Teodora Maninfior “ .

 

Poi ricordo, con dolcezza un periodo precedente le feste di un S. Natale, forse era la festa di S. Lucia, quello che ricordo con un grande senso di gioia, ancora oggi, a distanza di 50 anni, è la sorpresa che provammo nel trovare sotto il nostro banco scolastico, un pacco con dei doni dentro, c’ erano quaderni, colori, matite, degli aranci, nessuno si aspettava una simile sorpresa, così l’ emozione e la gioia raddoppiarono, bastava poco per essere felici davvero…

 

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Le ustioni

 

 

Un giorno, di domenica, quando mia madre e mia nonna si erano assentate per andare alla S. Messa delle 7, io e mio fratello più piccolo ci alzammo e decidemmo di fare il caffè.

Allora, non esisteva la moka, ma lo si preparava con un pentolino nel quale si faceva bollire l’ acqua e poi si aggiungeva un cucchiaio di caffè macinato con un macinino a manovella.

Non ricordo bene come sia successo, forse il mo braccio instabile, o non so, il pentolino mi scivolò dalle mani e l’ acqua bollente mi si rovesciò sulle gambe provocandomi delle serie ustioni di primo grado, sopra il ginocchio, con delle vesciche che crescevano a vista d’ occhio. Mio fratello mi mise dell’ olio da cucina sulla parte ustionata, poi corse a chiamare mia madre e mia nonna, che erano ancora in chiesa e che, alla notizia, si precipitarono a casa.

Mia madre mi portò a Livo, dal dottor Tenaglia, il quale mi medicò e mi applicò una pomata adatta alle ustioni, poi disse che sarei guarito , lentamente, da solo, bastava tenere pulite le piaghe che non si infettassero. Ci volle un periodo lungo e doloroso, bisognava cambiare le bende due volte al giorno, togliere le incrostazioni e mettere nuova pomata.

Tornai a scuola e la mia maestra si preoccupò in ogni modo di farmi sentire a mio agio e mi lasciava tornare a casa per la medicazione diurna.

Dopo parecchie settimane, sono guarito dalle ustioni e ho potuto riprendere a pieno ritmo la scuola, e sono così, rapidamente trascorsi i primi tre anni, era giunto il momento di passare nell’ altra aula per frequentare la quarta e poi la quinta elementare.

 

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Il mio maestro

 

 

Ero divenuto più grandicello, più vispo e monello, alle classi superiori era insegnante un maestro che si chiamava Fauri Erneso, pure lui proveniente da Bresimo, ara un uomo severo ma molto buono e comprensivo, aveva combattuto in Russia durante la seconda guerra mondiale, era tenente degli alpini e spesso ci raccontava degli episodi di quella sfortunata e tragica avventura bellica, come le battaglie sul fiume Don e la famosa battaglia di Nikolajewka.

Quando perdeva “ le staffe “ come usava esprimersi lui, tante volte usava come metodo di convinzione, il metro, quello di legno, per capirsi, eravamo dei veri e propri monelli, sempre pronti ai dispetti ed agli scherzi, anche pesanti, ma mai cattivi.

Ricordo tutti i miei compagni, uno per uno, ricordo anche le ragazzine, eravamo tutte classi miste, con i loro camici neri, che indossavano sopra le gonne, nessuna, allora, vestiva con pantaloni o jeans, tutte avevano sotto il camice la gonnellina.

I maschi vestivano con pantaloni lunghi fino a maggio, poi , verso la fine della scuola i pantaloncini corti, nessuno sapeva che cos’ era un capo firmato, ma tutti avevamo almeno una toppa sui calzoni.

Si è sposato con una donna di Varollo che si chiamava Ravina Bice verso la fine degli anni ’50, ed ebbero due figli maschi Pierluigi e Gabriele, ricordo che alla nascita del primo figlio, i nostri genitori fecero una colletta e comprarono un completino per il neonato, ricordo che venne incaricata la nostra compagna Gina assieme a Rodolfo per la consegna del regalo che avvenne una mattina all’ inizio delle lezioni appena entrato in classe i miei due compagni si alzarono e portarono al maestro il regalo dicendo che era da parte di tutti noi. Lui ringraziò tutti visibilmente commosso fino alle lacrime e disse che lo avrebbe fatto indossare al piccolo al momento del battesimo.

Del mio maestro ricordo pure che anche dopo aver finito gli studi ho sempre mantenuto una bel rapporto di grande amicizia e stima fino alla sua morte,

quando venne a conoscenza delle mie simpatie politiche di destra, un giorno sorridendo, mentre stavamo discutendone con il figlio maggiore Pierluigi, ci disse. – basterebbero alcuni giorni di Russia o di Albania per farvi passare di colpo queste idee!

Non ho cambiato la mia scelta politica, ma ho sempre ricordato le parole del mio maestro come una grande lezione di vita e durante tutto il mio percorso umano, sociale e politico ho sempre avuto il massimo rispetto per le scelte e le opinioni politiche e no degli altri, ho imparato a capire ed apprezzare le altre forme di cultura, la diversità delle razze e dei popoli e le ragioni degli altri.

Devo annotare con un filo di amarezza, che pochi dei miei compaesani hanno saputo e voluto fare altrettanto nei miei confronti, molte volte sono stato vittima della loro ignoranza socio politica e della loro endemica povertà culturale causata dalla loro sete insaziabile di denaro, di profitto a tutti i costi che alla fine li ha resi schiavi della loro stessa condizione.

 

 

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Il dottor Tenaglia

 

 

Una volta al mese, veniva a far visita alla scuola il nostro medico condotto che si chiamava Giovanni Battista Tenaglia, era un uomo severo e lunatico, aveva aderito al fascismo ed era un gerarca locale, era molto amante del radio ascolto ed era sempre aggiornato su quanto succedeva in Italia e nel mondo.

Ricordo che fu lui a portare la notizia della grande catastrofe naturale del Vajont.

Entrava in classe e si impossessava subito del metro, poi, scendeva tra i banchi e ci chiedeva di mostrare le mani, mettendole disteso sul piano del banco, se le trovava pulite tutto passava liscio, se invece erano sporche colpiva le mani del malcapitato con il metro e che dolori erano. A volte, ci spiegava come si propagano le malattie, ci diceva dei batteri e dei virus, e ci diceva dell’ importanza della pulizia del corpo e della disinfezione delle piccole ferite.

Un paio di volte all’ anno, si presentava a scuola con tutto l’ occorrente per fare le vaccinazioni: aveva una siringa di vetro molto grande, con lo stantuffo di metallo lucido, aveva un fornelletto elettrico, di quelli che si vedevano le resistenze che scaldandosi diventavano rosse, una vaschetta di alluminio che riempiva di acqua e poi ci metteva tre o quattro aghi, che a pensarci mi vengono ancora i brividi da come erano grossi e lunghi, quando l’ acqua bolliva, con una pinzette prendeva un ago e lo metteva sulla siringa. La riempiva di siero vaccino ed iniziava la vaccinazione di massa. Separava i maschi dalle femmine e poi faceva entrare prima le femmine tutte in un aula, mentre i maschi aspettavano fuori nei corridoi o giù nel piazzale, finite le femmine toccava a noi, ci faceva mettere in fila, in ordine alfabetico, per via dei documenti che poi compilava, ci faceva abbassare i calzoni e le mutandine, prendeva un ago bollito e sterilizzato dalla vaschetta ed iniziava con il primo, che ero sempre io, per via del cognome e nome A B, iniettava una dose di siero guardando le tacche sul vetro della siringa, appena finito con un bambino, toglieva l’ ago e lo sostituiva con uno sterilizzato dall’ acqua che bolliva, finito il vaccino nella siringa, faceva il pieno da un grosso flacone che teneva in disparte nella sua borsa in un luogo fresco.

A volte penso alle tante, forse troppe precauzioni che si prendono adesso, alle tante denuncie per mala sanità, se ripenso a quei tempi, credo che saremmo tutti da vaccinare se si fosse stati obbligati a rispettare solo la legge della privacy, guai a chi si lamentava per la puntura o mostrava di aver paura, allora erano Madonne da sprofondare il cielo… siamo tutti ancora vivi e chi non c’è più non è certo per colpa del burbero ma capace dottor Tenaglia.

 

Trascorreva così, il mio tempo nella scuola, il tempo in cui mi veniva dato l’ apprendimento delle cose elementari, quelle che poi ti serviranno nella vita che hai davanti, nei contatti con il mondo, nei rapporti con la gene che ti circonda, e , secondo la mia opinione, è proprio in questa fase della vita che ricevi una certa istruzione, uno stimolo per essere migliore in una delle tante materie che ti vengono insegnate, e questo, secondo me, dipende molto dall’ atteggiamento di chi insegna, dalla sua sensibilità, dal suo modo di esporre la materia, dell’ entusiasmo che ci mette per farsi capire, dipende l’ apprendimento facile o refrattario dell’ alunno, chi insegna, secondo me, deve avere in se un carisma, un talento speciale, deve saper trascinare l’ alunno in quel mondo fantastico della ricerca, tipico dell’ essere umano, che ha un desiderio innato ed ancestrale di conoscere il mondo che lo circonda, di sapere da dove viene e dove và, di sapere sempre di più, perche questo è il principio, il destino , la differenza tra l’ essere umano e l’ essere animale : la conoscenza, il sapere di esistere, la cognizione di causa, il saper essere consapevoli e responsabili delle proprie azioni, del proprio agire, nel bene e nel male, lì essere consapevoli che ci aspetta una fine, che tutti siamo destinati a morire, questa è la differenza che fa di noi umani una “ razza padrona “, inferiore a tutte le altre specie animali, perché , con l’ intelligenza che ci è stata concessa, non siamo stati in grado di superare in AMORE tutte le altre specie animali, dotate solo dell’ intelligenza dell’ istinto di conservazione.

 

Tra gli episodi di vita didattica che mi sono maggiormente rimasti nella memoria e nel cuore, ne citerò , adesso, alcuni:

 

 

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La scatola delle scarpe

 

 

Era l’ anno 1962 mi pare, ma non ne sono del tutto sicuro, ero ancora un bambino delle elementari, affascinato dalla natura e da ogni tipo di cambiamento che si poteva notare. Non passò , infatti, inosservato, il fatto che la pancia di mia madre fosse un po’ cresciuta, al primo momento, dopo un rapido consulto con mio fratello più giovane di me di due anni, stabilimmo che poteva essersi ingrassata un po’, ma con il passare del tempo, la pancia continuava a crescere, ed allora mia madre, accortasi delle nostre continue attenzioni, un giorno ci chiamò e ci disse che avremmo avuto un altro fratellino o sorellina.

La notizia ci riempì di gioia, e già si pregustava il momento della nascita con tutte le conseguenze, poi il battesimo, si sarebbe dovuto trovare un bel nome e poi bisognava accudirlo e via dicendo.

Che non lo si fosse trovato sotto un cavolo e neppure lo avesse dovuto portare la cicogna, questo lo sapevo, verità rubate nell’ ascoltare i discorsi dei grandi, ed osservando tante di quelle pance di donne crescere e poi d’ un colpo te le trovavi per strada, di nuovo snelle come prima e con una carrozzina sgangherata con dentro un pupo che dormiva o che piangeva, il come fosse entrato nella pancia e soprattutto come facesse poi ad uscire, era uno dei tanti dilemmi ai quali non ero riuscito a dare ancora una risposta, era anche severamente proibito restare nella stalla quando partoriva una mucca…

A dare risposta a tutti questi interrogativi, ed appagare così la mia sete di sapere, ci pensò alcuni anni più tardi, un frate del convento di Villazzano, che ci spiegò , con molta calma e con grande sensibilità, il miracolo dell’ amore che da poi inizio ad una nuova vita e devo dire che a tutt’oggi, resta per me uno dei momenti della vita che ancora mi affascina e mi meraviglia.

Quando fui più grandicello, mio padre mi permise di assistere al parto di una mucca, fu per me una grande emozione, soprattutto quando , dopo essere stato asciugato con della paglia, il vitellino veniva consegnato alla madre, che dolcezza e che tenerezza, se lo ripuliva per bene con la lingua, mentre, ancora traballane, lui prendeva possesso delle mammelle della madre ed iniziava a succhiare di gusto.

Un giorno mia madre, disse che non si sentiva bene, chiamò mio padre il quale la accompagnò, con l’ automobile di un amico, al vicino ospedale di Cles, a noi disse che doveva fare degli esami e dei controlli.

Rimase lì alcuni giorni, mio padre riprese i suoi lavori nei campi, ma era sempre pensieroso ed a tratti preoccupato, finché un giorno, mentre eravamo in un campo, arrivò mia zia Lina a cercarlo, mio padre non disse niente, lasciò gli attrezzi nel campo e disse che doveva andare con urgenza all’ ospedale.

Tornò la sera, con una scatola di quelle che contengono delle scarpe, chiusa e legata con uno spago su tutti i lati, come a formare una croce. Era visibilmente addolorato, parlò un attimo con mia nonna nella sua stanza da letto, poi ci chiamò tutti e due, io e mio fratello, e ci disse che mamma aveva provato a fare un fratellino, ma che non ci era riuscita, ci spiegò, poi, che era un maschio e che era già formato nelle sue sembianze umane, non ritenne di dover aprire la scatola per non provocarci dei traumi e ci disse che il giorno dopo lo avremmo sepolto, in forma privata, nella tomba di famiglia nel cimitero.

La nonna recitò la preghiera dell’ angelo custode e ci disse che questo nostro fratellino era anche lui un piccolo angioletto che volava attorno a Dio, ci ricordò anche un suo detto, che ripeteva sempre nelle occasioni tristi o liete : “ L’ uomo propone e Dio dispone “. Poi scese nell’ orto, raccolse dei gigli bianchi ne fece un bel mazzo e lo depose sopra la scatola delle scarpe.

Non fu possibile battezzarlo e dargli un nome, perché era nato morto, così il giorno successivo, di buon mattino, ci recammo al cimitero del paese con una zappa ed una pala, io portavo la scatola mentre mio fratello portava il mazzo di gigli bianchi, arrivati alla tomba, mio padre scavò una piccola fossa, abbastanza profonda, prese la scatola e ve la depose dentro con delicatezza, poi , cominciò a ricoprirla di terra con le mani fino a quando la scatola scomparve alla vista, finì poi il lavoro con la pala ed alla fine rimase un piccolo cumulo di terra, smossa , sul quale deponemmo i fiori, poi, mio padre ci fece recitare di nuovo la preghiera dell’ Angelo custode, tutti con gli occhi lucidi di pianto.

Questo episodio, ha segnato profondamente il mio modo di pensare alla vita, al concepimento, la mia netta contrarietà all’ aborto, ho sempre pensato e fantasticato su questo mio fratellino: a chi avrebbe assomigliato ? che voce avrebbe avuto ? adesso avrebbe circa dieci anni meno di me, e cosa sarebbe diventato ? e poi, sicuramente sarebbe stato sano e più fortunato di me, senza tutti quei problemi che mi hanno rovinato l’ esistenza… A volte, penso, che la natura, la vita, siano come un gioco, una lotteria, dove per vivere bene bisogna anche avere fortuna.

Così, ogni volta che passo davanti al cimitero, penso sempre a quel mio fratellino che non è mai vissuto, ma che è andato dritto in cielo senza passare per questo calvario chiamato vita, in questo breve sogno nel quale ci è concessa la libertà di esistere, che noi consideriamo eterna, rendendo così difficile con il nostro egoismo, lo stesso nostro vivere.

Il sapere, che tra le tante persone che mi hanno voluto bene e che ora sono in cielo, troverò anche questo mio fratellino, è per me motivo di grande serenità.

 

 

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Compleanno alla malga Binaggia

 

 

Era il giorno di sabato 16 agosto 1958 , era ancora notte fonda ed il villaggio era ancora immerso nel sonno quando venni svegliato da mia nonna che era venuta quatta quatta nella mia cameretta dove dormivo come un ghiro: sveglia, che l’è ora de nar su la malgjia ! .

Era un sabato e mio padre aveva deciso di andare a raccogliere funghi in alta quota dove difficilmente passavano i rari cercatori di funghi di quei tempi e poi era il periodo giusto per la raccolta dei finferli e delle brise ed altre specie di miceti.

Mio padre preparò nello zaino dei viveri e delle bevande, quel tanto che bastava per il viaggio perché poi in malga i pastori che conoscevano mio padre , avrebbero pensato loro a rifocillarci e darci da dormire.

Ero troppo piccolo allora per immaginare quanto fosse lontana da casa la malga Binaggia e poi lo spirito di avventura ed il fascino dell’ ignoto mi diedero tanto coraggio e tanta forza per affrontare i 20 chilometri che ci separavano da casa alla malga.

Passando a Livo verso le 04 del mattino, ci fermammo dal panificio Comini a comprare il pane per il viaggio, ricordo che mio padre mi comprò anche una cioccolata, cosa imprevista e che mi mise subito addosso tanta allegria.

Poi ripartimmo svelti verso Bresimo che da Livo dista circa 6 chilometri, fino lì non ci sarebbero state altre tappe la strada infatti si inerpicava tra i boschi e non si incontrava anima viva.

Albeggiava quando entrammo nell’ abitato di Bresimo dove mio padre conosceva molta gente ed era anche ben visto dalla popolazione, si può dire che era un eccezione particolare perché noi dei paesi di Livo e Preghena non eravamo ben visti dalla popolazione e le ragioni andavano ricercate in vecchi rancori riguardanti la proprietà del monte Forzio un monte che confina con le proprietà di Livo. Dieci anni più tardi si sarebbe aggiunta anche la bega della caccia sulla Malgaccia che sarebbe durata 40 anni con un infinità di ripicche da entrambe le parti. Ma questa è un'altra storia.

Ci fermammo in una locanda a conduzione famigliare, credo che si chiamasse “ L’ auscela “ , ma quello che non scorderò mai furono le coccole di una donna molto premurosa che mi fece ingerire quasi a forza un uovo fresco sbattuto nel latte e zucchero, una vera delizia per “ qual popin “ .

Rifocillati riprendemmo la strada verso la valle de Ciamp dove ebbi la fortuna di assistere ad uno dei più belli ed affascinanti spettacoli della natura.

Era il momento dell’ alba ed il sole scendeva lento lambendo i monti a larghe fasce ad illuminare uno scenario da fiaba. Il colore dei pascoli cambiava rapidamente da un verde scuro ad tenue verde pisello, i gialli botton d’oro che sembravano assopiti dal buio della notte sembravano come rialzarsi per scrollarsi di dosso il sonno, e si lasciavano baciare dal nuovo sole, scrollandosi di dosso la rugiada mattutina e mostrando tutto il loro splendore nel verde del pascolo con un effetto policromatico da mozzafiato e tutto il pascolo riprendeva la vita man mano che veniva riscaldato dai raggi del sole, tornavano a svolazzare le farfalle con le ali multicolori, i grilli e le cicale iniziavano il loro canto assordante, le cavallette saltavano con lunghi balzi da un posto all’ altro e la rugiada che si asciugava al sole si trasformava in una nebbiolina evanescente impregnata di profumi, che durava pochi istanti giusto il tempo per poter odorare quei profumi di fiori freschi e di prato che la natura ci regalava.

Si camminava così sulla stradina sterrata che attraversa la valle di Campo ammirando quel paesaggio da cartolina, ogni tanto la stradina era attraversata da un rigagnolo di acqua limpida e purissima e là dove il ruscello aveva una portata d’acqua maggiore veniva fatto scorrere in un fosso più profondo e la strada passava sopra un ponticello di legno tanto carino da sembrare quello dipinto sui libri di scuola. Ero al mio secondo anno di scola e cominciava il tempo delle grandi scoperte nel infinito scenario della vita, che propone a chi sa osservare con occhi fanciulli tutte la meraviglie di cui dispone e tutti quei magici effetti che escono dal meraviglioso cappello magico di madre natura. Non ho mai scordato quei luoghi incantati da quelli scenari da favola, la mia fervida ed attenta memoria di fanciullo ha raccolto e rinchiuso nel cuore quei fiori e quei profumi di quei giorni indimenticabili di gioia di vivere.

Ora che sono adulto torno spesso il quei prati nella valle di Campo e mi piace camminare ancora sulla vecchia stradina a fianco ai verdi pascoli e di tanto in tanto entrare per un breve tratto nel prato a risentire l’ odore inconfondibile dell’ erba fresca.

Si camminava spediti per la stradina che si faceva e tratti molto ripida, di tanto in tanto ci si fermava a bere dalle numerose fontanelle naturali che zampillavano acqua limpida e fresca delle sorgenti alpine.

Ogni tanto mio padre guardava il cielo che si stava annuvolando con nube nere dense e minacciose quelle che normalmente precedono un temporale estivo in alta quota. Ed il temporale arrivò improvviso e violento proprio mentre avevamo appena iniziato a salire la ripida stradina che porta alla malga Binaggia e che si distacca con un bivio dalla strada che porta alle malghe Bordolona e Malgazza una stradina irta e stretta transitabile solo a piedi da uomini ed animali che portavano in quota il necessario per far funzionare la malga. Tuoni violentissimi s succedevano con rapidità e grande fragore seguito poi dell’ eco che si spargeva tra le gole dei monti, si continuò a salire sotto un vero e proprio bombardamento di saette, poi, improvvisa e violenta arrivò la pioggia che ci investì in pieno, gli alberi a quella quota di quasi 2000 metri erano rari e molto piccoli e poi mio padre mi disse che durante un temporale era molto pericoloso rifugiarsi sotto un alberi, specie sotto un larice e così proseguimmo a testa bassa e con il berretto calato sugli occhi, meglio bagnati che colpiti da un fulmine esclamò mio padre.

Dopo una mezz’ oretta il temporale cessò ed in cielo riapparve il sole assieme ad un grande arcobaleno che andava da un monte all’ altro, eravamo bagnati fradici e non avevamo vestiti di ricambio, allora mio padre mi spogliò dei vestiti inzuppati di acqua e mi fece camminare soltanto con le mutandine che a quel tempo erano cucite a mano ed erano molto grandi da sembrare dei pantaloncini .

Arrivammo in vista della malga nel primo pomeriggio e subito i pastori che conoscevano molto bene mio padre ci vennero incontro a ci fecero accomodare all’ interno della casera dove ardeva un bel fuoco di grossi ceppi di larice che scoppiettavano e spargevano scintille , ci fecero sedere e subito scaldarono del latte mentre misero ad asciugare i panni bagnati vicino al fuoco. Mi fecero bere una grande tazza di latte caldo con dentro il toccasana per ogni tipo di male ossia un cucchiaino di grappa ed un poco di miele, lo bevvi con avidità a piccoli sorsi perché ancora molto caldo, ma quel latte dal gusto un po’ strano e particolare mi ridiede subito calore e forza, mi spogliarono del tutto e mi misero addosso una grande giacca di uno dei pastori, mi infilarono le maniche nelle gambe ed il resto me lo avvolsero come una coperta, poi prepararono un posto con del fieno su un letto a castello e mi deposero lì. Mio padre tolse dallo zaino la cioccolata e me ne fece mangiare la metà, poi addormentai quasi subito perché ero molto stanco dal viaggio e che era stato molto faticoso ed avventuroso anche a causa del violento temporale nel quale eravamo incappati.

 

Mentre io dormivo beato, nella malga ferveva il lavoro della mungitura delle mucche, allora non esistevano le moderne mungitrici meccaniche, si mungeva il latte a mano nei secchi metallici zincati perché più igienici e pi facili da pulire, il “ pai “ il grosso paiolo nel quale veniva prodotto il formaggio e le bacinelle dove veniva conservato il latte al fresco perché venisse a galla la panna, invece erano di rame.

Mio padre aiutò i pastori a mungere sia la sera che il mattino successivo, ricambiando così la cortesia che di avevano fatto scaldandoci e rifocillandoci. Tutto avveniva alla luce delle lanterne a petrolio, ai miei tempi la corrente elettrica cominciava ad essere un lusso in molte abitazioni ma non tutti ne erano ancora provvisti, c’ era chi ancora usava le candele e le lampade a petrolio.

Arrivò l’ alba di domenica 17 agosto 1958 quando mi svegliai rilassato ed arzillo dopo quel lungo sonno ristoratore, mio padre mi accompagnò a fare i bisogni nella stalla in un angolo dove mancava una mucca, poi mi aiutò a vestirmi con i panni belli asciutti e caldi mi mise i berretto in testa e mi portò fuori dalla porta della malga. L’ aria era frizzante a 2213 metri di quota, ma valeva la pena rimanere all’ aperto per ammirare uno degli spettacoli più belli e più affascinanti che madre natura concede tutte le mattine: L’ alba.

Era di un rosso fuoco e pareva che le montagne bruciassero divorate da alte fiamme che piano, piano le avvolgevano di luce, una luce sempre più intensa con un crescendo che se ci mettevi la sinfonia dell’ inno alla vita di Beethoven si abbinava in un modo plastico e meraviglioso. Rimanemmo lì a guardare quello spettacolo affascinante seduto sullo steccato che delimita il pascolo fino a quando il sole aveva divorato i monti ed ora ci baciava con il suo calore.

Mio padre mi consegnò l’ altra metà della cioccolata dicendomi : buon compleanno figliolo !

Avevo raggiunto l’ età di sette anni ed ero salito a piedi per la prima volta fino alla nostra malga, superando anche la terribile prova del violento temporale in montagna ed ero anche riuscito a bere il latte con la grappa, ormai ero un uomo !

Non ricordo i nomi dei pastori che erano in malga al nostro arrivo, ma di loro ricordo la grande semplicità e disponibilità che ebbero nei nostri confronti accogliendoci e rifocillandoci, ancora oggi rivedo quelle facce con la barba lunga, la pelle scura bruciata e rinsecchita dal tanto sole di montagna e dal fumo costante del fuoco aperto che invadeva i locali della casera e della zona dove c’ erano i miseri giacigli di paglia e fieno dove dormivano.

A colazione mi prepararono del latte con il caffè da orzo e in via del tutto eccezionale perché era il mio compleanno, ci misero due cucchiaini di zucchero, mi augurarono in coro Buon compleanno e mentre io mangiavo di gusto loro si facevano un grappino versando dalla bottiglia che aveva portato mio padre dal paese come omaggio per la nostra presenza.

Verso le nove ci preparammo per scendere lungo il pascolo e raccogliere funghi come avevamo stabilito, salutammo e ringraziammo di cuore tutti i pastori della Binaggia e piano piano zigzagando tra l’ erba per meglio vedere la presenza dei funghi, ci allontanammo dalla malga . per un po’ ci voltavamo a rivederla ed a salutare di nuovo, era sempre più piccola con l’ immancabile filo di fumo che saliva dal camino, fino a quando dopo essere scesi ancora per un ripido pendio, sparì del tutto dalla nostra vista.

Intanto si era aggregato a noi il signor Rodegher Giulio di Varollo anche lui in zona a raccogliere funghi

Questa fu la mia prima grande avventura della mia vita di fanciullo, un avventura da poter raccontare ai miei compagni di classe ed al mio maestro, erano state due giornate indimenticabili, mi sentivo cresciuto, quasi un uomo, non era da tutti infatti aver fatto un tragitto così lungo a piedi a sette anni.

Tornati a Bresimo ripassammo dalla signora che mi aveva preparato l’ uovo sbattuto il giorno precedente e ascoltata la terribile storia del temporale me ne fece mangiare un altro questa volta ci mise un cucchiaino di marsala per : “ far crapar forza a qual popin “

 

 

 

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IL TELEFONO DA CAMPO DELLA WEHRMACHT.

IL “ FELDFERNSPRECHEN 33

 

 

Come ricorre più volte in questo scritto, si era nel periodo appena successivo alla fine della seconda guerra mondiale, nelle case era rimasta una notevole quantità di residuati bellici lasciati dai soldati del Fuhrer nella loro tragica ritirata del 1945 per tornare nella loro Patria e trovarla demolita dai bombardamenti degli Alleati ed invasa ad est dalle truppe dell’ Armata rossa ed ad ovest dagli stessi alleati. Durante la ritirata le i soldati tedeschi ripercorrevano la stessa strada statale 42 che avevano percorso i loro camerati della prima guerra mondiale, nel 1918, sconfitti pure loro.

Un esercito in fuga ha un solo ed unico obbiettivo, quello di tornare in patria al più presto con il minor danno possibile, quindi prevaleva tra quelle truppe soltanto l’ istinto di conservazione e nulla di più, considerato anche che tutto il resto era perso. Succedeva allora che i soldati abbandonassero nel loro passaggio tutto quello che non era strettamente indispensabile alla loro sicurezza e che era solo di ingombro e di ostacolo perché la ritirata fosse il più possibile rapida ed indolore. All’ altezza dell’ muraglione che sorregge la statale in località Zura la colonna si fermò per liberarsi del rimorchio di un camion carico di gassogeno, che era della legna da ardere tagliata corta che serviva per produrre gas per alimentare i motori dei camion considerato che la benzina era ormai introvabile per l’ esercito tedesco. Il rimorchio venne fatto accostare al ciglio della strada dove il muro è alto una decina di metri, poi con un camion venne spinto fuori strada fino a farlo cadere nel nostro terreno coltivato a vigneto. Il pesante rimorchio precipitò nel vuoto, rimbalzò due o tre volte, perdendo il suo carico di legna, fino a fino a finire nel fitto bosco di acacie sopra il torrente Noce, che delimitava la parte coltivata da quella incolta.

Altre cose vennero abbandonate lungo la strada della ritirata, si narra anche di cose si valore come oro ed opere d’ arte trafugate durante la campagna d’ Italia, si racconta anche di persone che si sono arricchite con questi tesori che hanno loro cambiato la vita e da poveri che erano si sono ritrovati ricchi sfondati proprio come nelle favole.

A noi però non rimase che la legna da raccogliere sparsa per tutto il vigneto, qualche attrezzo da meccanico, molto ferro che venne recuperato facendolo a pezzi con la fiamma ossidrica del buon Mario Conter che era idraulico ed aveva pure lui un vigneto poco distante dal nostro.

L’ unico oggetto di un certo valore più che altro storico che venne recuperato in quella occasione, ma non sono a conoscenza del luogo del ritrovamento, è stato un telefono da campo della wehrmacht che vado a descrivere : era una scatola nera di metallo delle dimensioni di cm. 30 x 20 x 15, con il coperchio montato su delle cerniere che si chiudeva con una chiusura a scatto e si apriva premendo la levetta che fungeva da serratura.

All’ interno del coperchio, dove era stato ricavato il vano per la cornetta anche essa rigorosamente nera come erano tutti i telefoni di quel tempo, c’ era una targhetta con elencato l’ alfabeto fonetico tedesco ad esempio per definire la lettera H bisognava pronunciare la parola Hitler.

Al suo interno c’ era la cornetta collegata all’ apparecchio, dei cavi con dei puntali ed una manovella. La manovella andava inserita in un foro all’ esterno dell’ telefono e serviva per azionare e far funzionare una piccola dinamo che produceva l’ energia elettrica necessaria per farlo funzionare, e che producesse energia elettrica lo si poteva testare premendo un pulsantino bianco che azionava un campanello elettrico. Era un gioiello di tecnologia al servizio della guerra e serviva, collegato con un cavo ad un apparecchi gemello, per tenere i collegamenti telefonici tra una postazione e l’ altra ad esempio tra delle batterie di cannoni per la direzione del tiro.

 

Per anni, durante le vacanze estive, veniva d noi la mia cuginetta e coetanea Giuliana di Cles e restava da noi l’ intera estate, dormiva assieme alla nonna nella stanza dove ora dorme Widad.

Con lei abbiamo molto giocato per i prati e nel vicino bosco assieme agli altri ragazzini del paese ed a mio fratello Paolo.

E’ stata proprio lei verso Natale 2013 . a ricordarmi il telefono da campo, perché era una mia particolare passione quella di scendere con lei nel “ vot “ dove c’ erano gli attrezzi agricoli e il banco da falegname di mio padre con attorno appesi tutti gli attrezzi per lavorare il legno.

Stavamo per ore a giocare con il telefono da campo tedesco, con la mia cuginetta che telefonava alle sue amichette e ci voleva un bel po’ di tempo prima che il telefono si liberasse per poterci giovare. Abbiamo ripercorso con il ricordo quei tempi lontani più di mezzo secolo ed abbiamo concordato che erano stati veramente dei tempi memorabili dove all’ infanzia non veniva rubato nulla, dove il gioco era creatività e fantasia, quando per divertirsi bastava poco, quando si era ancora troppo acerbi come le bacche nel bosco per pensare ad altri giochi che avremmo imparato poi negli anni a venire, quando i sogni ed i desideri passavano per la cornetta di un telefono da campo tedesco per restare chiusi in quella scatola nera.

A liberare quei sogni da troppo tempo rinchiusi in quella scatola, ci pensai alcuni anni dopo, quando la fantasia si mescolò alla mia insaziabile sete di conoscenza, di voler vedere come sono fatte le cose dentro, con una curiosità ed una voglia insaziabili di svelare nuovi misteri alla ricerca sempre più dettagliata della conoscenza.

Fu così che un po’ alla volta smontai pezzo per pezzo il telefono da campo, con la stessa passione ed ansia con la quale si spoglia una donna per la prima volta, e così tra una sorpresa e l’ altra potei appurare in prima persona cosa c’ era dentro un telefono da campo tedesco, c’ era il campanello con la bobina, i componenti per la trasmissione della voce, ed il sistema di alimentazione autonomo composto da una bella dinamo con il magnete rosso con impresso l’ aquila tedesca che porta una svastica tra le zampe, questa è l’ unica cosa che ancora conservo del apparecchio telefonico tedesco della seconda guerra mondiale.

 

 

 

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IL PROFUMO DEL FIENO

 

 

-Si va a Pongèl, domani si va a Pongèl !-

Per me il prato nel fondovalle del paese, vicino al torrente, verde punteggiato di fiori dalle policromie diverse e circondato da un vasto bosco di conifere ed un fitto sottobosco di piante di nocciolo, di acacia , acero ed altre specie di flora verdeggiante , era la forma di esistenza che più mi affascinava e mi rendeva felice al sol pensiero di poterci andare.

Mio padre preparava gli attrezzi adatti allo sfalcio del fieno ancora la sera prima, batteva la falce con il martello e la “plantola“, preparava la “preda“ nel “cozzar” e si portava appresso anche una bottiglietta di aceto da aggiungere all’acqua nel “cozzar”, perché la “preda” affilasse meglio la falce.

Il tutto veniva messo nello zaino assieme alla lampada a petrolio con il serbatoio pieno di quel liquido infiammabile e puzzolente. Si preparava anche il carro dalle grandi ruote con i raggi di legno ed un grosso cerchio in ferro che li stringeva come in una morsa; si controllavano i ceppi di legno dei freni, si lubrificavano con la “ songia “ le “sil “, ovvero gli assi portanti del carro, affinché le ruote scorressero meglio. Si preparavano, inoltre, le funi il pelle ben ripiegate sulla “spora“, le grandi lenzuola di iuta ove veniva raccolto il fieno essiccato e si dava un'occhiata a tutto l’ occorrente per

tacjar sot” le mucche.

La notte non riuscivo a prendere sonno per l’ emozione che mi aspettava il giorno dopo, che non era solo quella del fascino che suscitava in me quella località, ma c’era anche altro di molto più interessante...

Si partiva alle tre del mattino con la luna di agosto che ci illuminava la via fino alla stradina che poi scende ripida verso il torrente. Quello che a me è sempre sembrato strano era il fatto che arrivati lì di notte si sentiva il rumore della roggia molto distintamente, mentre di giorno era coperto dei rumori del lavoro della gente dei campi o forse, più semplicemente, non ci si faceva caso presi da altri pensieri o discorsi.

Si scendeva veloci alla luce della lanterna a petrolio, mente lo scrosciare del torrente si faceva più vicino e l’ odore caratteristico della palude, che era molto vicina al mio prato, si insinuava nelle narici come per darci il benvenuto. Si camminava per un tratto di strada ai margini della palude dove crescevano delle piante simili a dei piccoli pini e un' erba che aveva delle foglie enormi, più grandi di un ombrello, sempre piene di lumache.

Arrivati nel prato, stormi di lucciole si alzavano nell’aria frizzante dell’alba che stava per sorgere, come un pullulare di tante lanterne cinesi sospese magicamente nel cielo ancora buio: uno spettacolo unico ed affascinante, una meraviglia della natura che ti obbligava a fermarti per un po’ ad osservare ed a meditare su questo evento.

Mio padre apriva la falce, la fissava stretta con la chiave, si avvicinava al ruscello e riempiva di acqua i “cozzar”; quindi vi versava alcune gocce di aceto che serviva per fare aderire meglio la preda al filo della falce, poi dava un'energica affilata passando rapidamente la “preda” sul filo della falce.

Se rimanevi zitto potevi sentire le voci degli abitanti del bosco vicino e del prato ai tuoi piedi, potevi sentire il cinguettare di decine di uccelli che già scorgevano l’arrivo dell’alba e migliaia di grilli , cicale e cavallette che parevano darti il benvenuto con il loro gracchiare insistente che aumentava di intensità man mano che il rosso dell’alba si faceva più intenso. La falce tagliava l’ erba con un rumore cadenzato e si poteva capire quando tagliava e quando tornava indietro per ripartire con un altro taglio; quel rumore strisciante e leggero della falce di mio padre mi faceva sempre pensare alla morte, quella dipinta sul grande gonfalone che veniva usato nei funerali e sul quale si esaltava indiscusso il trionfo di questa.

Mi venivano i brividi.

A scacciare tutti questi cupi pensieri ci pensava il sole che piano, piano faceva capolino , facendosi largo , tra i monti e le conifere e proiettando una lunga ombra sul prato che assumeva forme geometriche diverse e mutevoli man mano che questo cresceva.

In un attimo era giorno, le cicale cambiavano il tono della voce, meno triste di prima, i grilli continuavano il loro canto alla vita e gli uccellini nel bosco vicino avevano intonato un concerto degno di una grande orchestra filarmonica. Me lo chiedevo e chiedo tuttora: “Ma perché non prendiamo esempio dagli animali di qualsiasi specie, che ad ogni sorgere del sole, tutti i santi giorni, sanno capire il fascino e l’ importanza di questo evento che si ripete da sempre, ma che tutte le volte rappresenta un giorno nuovo?”.

Eppure noi ci vantiamo di essere i possesso di un'intelligenza superiore a tutte le altre specie animali che vivono sulla terra, senza riuscire ad essere umili e saggi come loro. Dio ci ha mandato perfino suo Figlio per tentare di farci capire l’ importanza di questi valori universali che ci permetterebbero una vita degna di essere vissuta , con la pace interiore e la carità verso il prossimo.

Vicino alle due grandi piante di noce c’era un masso dalle dimensioni notevoli alla cui base sgorgava, come dal nulla, un piccolo ruscello di acqua limpida e pura che si poteva bere. Il rivoletto scendeva verso il torrente come un piccolo affluente, passando sul retro del “bait”, una piccola casetta fatta tutta di tavole di legno che aveva costruito mio padre per ripararsi dalle improvvise intemperie estive o per riposarsi dopo aver pranzato ed in attesa che il sole facesse essiccare il fieno.

A fianco della piccola costruzione cresceva rigoglioso un grande abete rosso che ombreggiava tutta la zona del bait.

Sul retro della piccola casetta di legno, c’ era il posto dove venivano lasciate riposare le mucche all’ombra dell’abete vicino al ruscello dove cresceva un'erba verde e rigogliosa e si potevano dissetare nella grande pozza che avevamo predisposto affinché il rivolo d’ acqua formasse un piccolo stagno dove le bestie potessero bere. Io consideravo quel luogo come il paradiso terreste: infatti c’ era tutto l’ occorrente per poter vivere con la quiete e la pace della natura intorno, un piccolo “eden” al quale ero molto affezionato.

Il taglio dell’erba procedeva velocemente, mio padre era un lavoratore instancabile, si fermava solo per affilare la falce ed allo stesso tempo ne approfittava per dissetarsi con un bicchiere di “acarol” che altro non era che la seconda bollitura dell’uva; poi riprendeva con slancio il lavoro.

Il prato lentamente cambiava di aspetto ed i fiori e l’ erba verde che prima guardavano dritti verso il sole sul passare della grande falce cadevano al suolo inerti, tutta questa scena mi ricordava tanto le parole del Vangelo che avevo studiato con i frati e che riguardavano il mistero della morte, ma non ci volevo pensare, anzi avevo altro da fare e da pensare: il mio compito era quello di sparpagliare l’ erba in modo uniforme affinché il sole la facesse seccare in fretta. Nel lato più in alto del prato dove confinava con il fitto bosco c’ era un sentiero accanto al piccolo fosso di irrigazione che mio padre aveva scavato , partendo dal mulino di proprietà dei suoi cugini; un lavoro abusivo per poter irrigare il prato nei periodi di grande siccità.

Ed era a quel sentiero che io tenevo fisso lo sguardo e stavo attento ad ogni più piccolo rumore o al movimento improvviso della boscaglia, perché lei prima o poi doveva pur arrivare…

A metà mattina, infatti, si udiva provenire dal sentiero nel bosco le voci di due donne che chiacchieravano. Il vociare si faceva sempre più vicino, allora osservavo attento l’ uscita del sentiero fino a quando non le vedevo sbucare dal fitto dei rami. Erano Carmela una lontana parente di mio padre che veniva sempre a controllare che non si sconfinasse nella sua proprietà ed assieme portava sempre con sé la nipotina Mariapia, una ragazzina di dodici anni e quindi della mia stessa età .

Un angelo biondo che scendeva lentamente tra i fiori del prato a piedi nudi evitando di calpestare i fiori o i “ talpinari “ , con una corta gonnellina color rosso a grandi cerchi bianchi ed una maglietta di cotone bianco aderente che lasciava libere le forme di due seni ancora acerbi.

Veniva a salutarmi dopo parecchio tempo che non ci si vedeva, allora smettevo di lavorare e le davo un bacio sulle guance poi la invitavo a sedersi vicino al ruscello all’ombra delle piante di noce.

Era tutta arrossata dal torrido sole di agosto, allora la invitavo a bagnarsi prima il viso con l’ acqua fresca e poi a berne alcuni sorsi senza esagerare perché non le facesse mal di pancia.

Mio padre nel frattempo aveva smesso di lavorare e parlottava con Carmela che era una sua cugina , una donna minuscola magra con un lungo naso aquilino, un abito nero lungo fino alle caviglie ed un fazzoletto colorato alla testa. Carmela era una donna verso la quale madre natura non era stata generosa nell’attribuire il dono della conoscenza, mio padre mi diceva che era analfabeta, ma di questo non sono certo; sono invece sicuro che negli affari si sapeva destreggiare bene.

Ad essere sincero della Carmela a me interessava quasi niente, quello che mi interessava e che mi rendeva euforico a dismisura era la nipote Mariapia.

Stavamo seduti io e lei, uno accanto all’altra in silenzio come per non violentare quei momenti di grande ed innocente dolcezza. Quando stavo vicino a lei mi sentivo felice come se tutto il resto del mondo non contasse niente e non esistesse nemmeno; il solo guardarla mi dava una sensazione strana che non avevo mai provato prima con altre persone e ragazzine, una sensazione nuova di infinita tenerezza. Tentai di intavolare un discorso, ma mi sembrava di dire delle cose banali, o forse... erano davvero banali perché lei rise di gusto ed il suo viso mi sembrò ancora più bello e naturale con i lunghi capelli biondi fluenti sulle spalle: sembrava l’ immagine della primavera, della prima stagione della vita ancora tutta da crescere e maturare, ma aveva in sé quella particolare bellezza e delicatezza nei lineamenti che solo a quell’età le femmine hanno e che ti danno la sensazione che siano come un'esile statuetta di cristallo talmente bella ma tanto fragile e delicata da dover fare di tutto per proteggerla, senza mai toccarla.

La portai allora vicino allo stagno dove si abbeveravano le mucche e dove l’ acqua era limpida e ferma e nel quale lei si poteva specchiare tra i cerchi d’acqua, mentre un raggio di sole le illuminava il visetto grazioso. Rimanevo in silenzio ed osservavo affascinato quella dolce e minuta figura bionda, che si specchiava nell’acqua, poi lei con un sassolino buttato nello stagno rompeva quel momento incantato fatto di fiabe e di sogni.

Metteva poi i piedini nudi nello stagno e li teneva nell’acqua fresca per qualche minuto per ristorarli dal calore, poi li toglieva e si sdraiava al sole per asciugarli. Mi sdraiai anche io vicino a lei e piano, piano iniziammo a parlare della scuola che era appena finita, dei risultati che avevamo ottenuto nelle varie discipline e di quello che si voleva fare da grandi…

Le offrii noci e more raccolte nel bosco e la bibita di lampone che aveva preparato mia nonna e che lei gradì e tutto quello che non riusciva a mangiare lo metteva nella tasca della gonna e diceva che se lo sarebbe mangiato a casa.

Dopo poco smise di parlare e mi girai verso di lei: dormiva beata come un angioletto; allora presi un lenzuolo di iuta che serviva per metterci il fieno, lo piegai in quattro e ne ricavai una specie di materasso, lo misi bene all’ombra del grande abete, sollevai con delicatezza la ragazzina e la deposi sul letto improvvisato coprendola con un lembo del lenzuolo. Non si svegliò, ma il suo viso ebbe come un'espressione di piacere e di gratitudine.

Mentre dormiva ritornai nella parte di prato ancora da sfalciare e raccolsi dei fiori di diverso colore e forma, ritornai da lei ad intrecciai una piccola corona multicolore e profumata e la posi tra i suoi capelli in modo tale da farla sembrare proprio la principessa dei miei sogni.

Quello che più mi colpiva e mi affascinava era quel senso di attrazione che quella ragazzina esercitava su di me, non capivo cosa fosse e da cosa derivasse questo sentimento diverso che provavo nei suoi confronti, un sentimento che mi obbligava ad assecondare senza la minima discussione tutto quello che lei mi chiedeva, che se me lo avesse chiesto mio fratello o i miei cuginetti li avrei mandati tutti a quel paese… era diverso con lei, era come se lei sapesse riempire un vuoto che c’ era nella mia anima e che nessun'altra persona al mondo avrebbe saputo colmare.

Non capivo e nemmeno mi importava più di tanto approfondire l’ argomento, a me bastava starle bene vicino e nessuno sembrava accorgersi delle nostre attenzioni, dei nostri giochi; eravamo un mondo a parte io e lei a giocare e sognare a sognare e giocare… nemmeno quando si era allontanata nel vicino bosco mi era sembrata diversa anche se, per fare pipì, si era abbassata nel boschetto, cosa che io non facevo mai. Avevo però notato che sotto la maglietta di cotone bianco, aderente al corpo, spuntavano i piccoli seni ancora acerbi che lei faceva di tutto per mettere in evidenza affinché io li notassi e mi autorizzò con un gesto della mano a toccarli piano suscitando in me tanta emozione. Poi quando mi diede un bacio sulle guance... !

Si era fatto mezzogiorno quando Mariapia si svegliò, si stupì del fatto di aver potuto dormire quasi come nel letto di casa sua, ma soprattutto rimase piacevolmente sorpresa quando si specchiò nel laghetto e vide la corona di fiori che le avevo messo in testa; mi guardò e mi sorrise come per ringraziarmi, mi sentivo quasi un eroe. Nel frattempo era arrivata mia madre con il pranzo in una grande borsa di tela nera, invitammo Carmela e Mariapia a restare a pranzare con noi. Accettarono volentieri così mia madre preparò sul tavolo della baita il pranzo che era come sempre a base di polenta, ma questa volta assieme, al posto della solita poina, c’era dello spezzatino di maiale con il relativo pocio.

Mariapia mangiava avidamente mentre io continuavo ad osservarla e mangiavo svogliato, tutti se ne accorsero e non dissero nulla, ma la Carmela con la sua ingenua franchezza mi disse: Magnes no, o ses innamorato ?

Dopo pranzo portai Mariapia a pescare con me sul grande sasso nel torrente dove l’ acqua forma un piccolo laghetto che noi chiamiamo “boioni”, stavamo seduti uno vicino all’altro mentre io le insegnavo i primi rudimenti della pesca, da come mettere il verme nell’amo a come lasciar correre la lenza nell’acqua. La lasciai pescare fino a quando una grossa trota marmorata non abboccò all’amo, allora la aiutai a tirare su il grosso pesce guizzante che deponemmo nella cesta di vimini. La ragazzina non stava più nella pelle dalla gioia ed anche io ormai le parlavo senza inibizioni. Rimanemmo lì a pescare ancora per un bel po’ di tempo fino a quando mio padre non mi chiamò per aiutarlo ad ammucchiare il fieno ormai essiccato al caldo sole estivo; dissi a Mariapia che poteva portarsi a casa il pesce che aveva pescato e lei mi ringraziò sprizzando scintille di gioia tanto da farmi sentire quasi un uomo.

Forse il vero amore nasce così nella semplicità, dove tu devi andare a scoprire tutte le diversità, tutte quelle cose che rendono la tua amata diversa da te, un po’ alla volta, senza fretta, senza che la passione prenda il sopravvento sulla ragione e sulla dolcezza di quei momenti , senza che il tuo cercare di vedere certe differenze ti porti a scoprire anzitempo il sesso ed a fare l’ amore come una formalità , invece che un reciproco donarsi di due ragazzi innamorati che coronano in questo modo il loro sogno d’ amore.

Fattasi sera, è arrivata mia madre con il carro trainato dalle mucche per caricare il fieno ormai seccato dal torrido sole di agosto: si è fatta era, addio Mariapia dolce fiorellino che il destino mi ha messo vicino per un attimo e che ora è un ricordo struggente che dura una vita, acerbo come il mio pensiero fanciullo, precursore ed esempio di momenti intensi e dolci che avrei provato più avanti negli anni.

Addio stellina bionda dalla vita breve e tormentata, se ci sarà uno spazio in cielo anche per me, allora ti verrò a trovare e parleremo ancora d’ amore, come allora, per sempre…

Il carro dalle grandi ruote, carico di foraggio, trainato dalle mucche ansimanti per il gran caldo, si inerpica lento per la stradina che porta al paese, ed io dietro lo seguivo adagio a piedi scalzi, con il cuore triste, mentre nell’aria stantia della sera si diffondeva , dolce, l’ odore del fieno.

 

 

 

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I sigolotti

 

( i fischietti )

 

 

Uno dei passatempi canori che tutti i ragazzi del mio tempo sapevano auto costruirsi con del materiale ecologico allo stato puro era “ l’ sigolot “ . per costruire questo strumento musicale ad una o più voci, erano necessari un coltello da tasca che allora tutti i ragazzi possedevano come utensile per la fabbricazione di tanti prodotti che la tradizione popolare aveva tramandato ed anche per il più comune uso come quello di tagliare un panino per metterci il companatico che poteva essere del formaggio e del salame fatto in casa, piuttosto che della marmellata o del burro. Mai ai miei tempi ci si sarebbe neppure sognati di usare il coltello a scopi aggressivi come purtroppo lo si usa molto di frequente oggigiorno.

Erano coltelli dalla lamo molto corta, allora si diceva che non potevano essere più lunghi di quattro dita e la spiegazione e la diede l’ arrotino di Cles signor Reversi, il quale mi spiegò che le quattro dita stavano a significare la distanza del cuore rispetto ai punti esterni del corpo umano dai quali potesse essere colpito con un arma bianca. I coltelli erano però molto affilati e con la punta molto sottile e tagliente adatta anche per lavori di precisione come il mosaico su un bastone ricavato da un ramo di nocciolo selvatico, l’ apertura del guscio delle noci, il taglio della videzza che serviva da sigaretta o il levarsi una piccola scheggia di legno o una spina di acacia. Quasi tutti allora avevano in casa un allevamento di conigli, ed allora il coltello diventava utilissimo per le sue dimensioni ridotte ma sufficienti per l’ uccisione dei conigli ormai grandi che venivano presi per le orecchie dalla gabbia, portati all’ esterno della stalla per evitare che gli altri animali sentissero l’ odore del sangue, li tenevamo fermi tra le gambe poi con una mano gli si prendeva la testa tenendola stretta e facendola ruotare in modo tale che si evidenziasse bene la gola del coniglio dal lato dell’ orecchio poi si infilava il coltello trapassandogli di netto la gola. La morte era rapidissima in quanto si erano recise tutte le vene e le arterie dell’ animale, non vi sembri una barbarie perché anche oggi si usano gli stessi metodi ma in modo industriale e più organizzato ma sempre un coltello si usa.

Ma l’ uso del coltello tra noi giovani, però era quasi completamente limitato alla fabbricazione di strumenti ludici per il fabbisogno della nostra attiva e feconda fantasia. L’ oggetto più comune che tutti sapevano costruire, era l’ sigolott appunto il fischietto, l’ operazione iniziava con il taglio di un ramo di salice o di “ stropar “ che era una pianta simile dalla quale si ricavavano le “ strope “, ma questa è un'altra storia.

Tagliato il ramo di circa 10 mm. di diametro si procedeva a stabilire quante note dare al fischietto, pertanto si stabiliva la giusta lunghezza poi si procedeva alle incisioni nella corteccia che doveva essere completamente liscia e priva di nodi . alla tacca iniziale che era fatta come una U seguivano le altre che erano rotonde come quelle di un flauto e di numero variabile, comunque mai sopra i sette fori. Finita quella operazione si procedeva a staccare la corteccia dall’ anima mediante la battitura con il manico del coltello dalla parte legnosa del ramo. L’ operazione durava pochi minuti ed alla fine la corteccia si staccava dal ramo scivolando fuori. Con la parte legnosa rimanente si procedeva a fare il tappo che chiudeva l’ estremità del fischietto e il bocchino nel quale era ricavata la cava dove poteva passare l’ aria, poi chiudendo alternativamente i fori con le dita si potevano ricavare delle note musicali diverse e si poteva quindi comporre una melodia musicale dolce ed armoniosa da dedicare alle bambine era un modo semplice ed innocente di tentare i primi approcci con un essere di sesso diverso che puntualmente ringraziava con un bacio sulle guance ed un bel sorriso gentile.

Quanto erano belle e carine quelle femminucce innocenti e quanto erano dolci quelli sguardi di piccole donne ormai abituate ai duri lavori domestici ed alle fatiche di doversi far carico dei tanti fratellini più piccoli.

Erano tutte ragazzine dai 10 ai 13 anni e quello che si poteva notare con evidenza era il crescere delle piccole mammelle che spuntavano dai vestitini quasi a reclamare il loro spazio vitale. Quello era il punto dove si posavano i nostri occhi di giovani maschi assetati di conoscere tutte quelle diversità che le ragazzine mettevano in mostra, attratti da un desiderio ancestrale che mai nessuno ci aveva spiegato per intero ma che a noi pareva chiaro ed attraente.

Questi sono e restano i ricordi più dolci e più delicati della mia vita, perché erano emozioni pure, libere da ogni manipolazione e da ogni forma didattica, erano natura allo stato puro dove la ricerca era frutto di un sentimento inconscio che ti portava naturalmente verso quello scricciolo dalle piccole tettine, e niente e nessuno era in grado di distogliere il tuo sguardo , un po’ inebetito, da lei.

 

 

 

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FIONDE ARCHI E FRECCE

 

 

Ogni ragazzo della mia età era in grado ci costruirsi con mezzi di fortuna e con il solo ausilio delle proprie mani e del proprio ingegno una fionda o un arco da usare poi nelle varie competizioni collettive di abilità .

Per costruire una fionda erano necessari un legno a forma di forcella che veniva ricavato da un ramo di nocciolo poi era necessario procurarsi un elastico abbastanza robusto e questo veniva ricavato da una vecchia camera d’ aria di un pneumatico di automobile.

L’ impugnatura a forma di forcella doveva essere il più possibile perfetta e doveva avere la forma di una Y , sulla parte superiore bisognava legare i due elastici ritagliati dalla camera d’ aria, era molto importante per avere una fionda di ottima mira che i due elastici avessero una eguale lunghezza, normalmente si usava un unico lungo elastico nel quale veniva inserita una piccola sacca in pezza o in pelle dove si inseriva il proiettile da lanciare un sasso o una biglia o dei pallini di piombo .

La forcella di legno di nocciolo veniva poi personalizzata con delle lavorazioni ad intarsio sulla corteccia che poi essiccava conservando nel tempo quelle piccole opere d’ arte dell’ ingegno e della fantasia di noi ragazzi. Con la fionda ci si divertiva a tirare a dei bersagli fatti di bottiglie o di barattoli di latta che si andava a recuperare nelle vicine discariche a cielo aperto che esistevano in zona, raramente, ma succedeva, si tirava anche ai passeri o ai vetri di qualche finestra, a volte ci si comportava da piccoli criminali dando libero sfogo a tutto il nostro potenziale repertorio di marachelle, ognuno aveva nella tasca posteriore dei pantaloni una fionda con l’ elastico ben ripiegato attorno alla forcella pronta ad essere usata in ogni momento.

Per la costruzione di un arco era necessario un lungo ramo di nocciolo e di un altro tipo di legno molto sottile e flessibile poi serviva uno spago molto resistente che veniva legato alle due estremità della frasca dopo averla leggermente piegata per poter mettere in trazione lo spago.

Le frecce venivano ricavate da rametti di nocciolo molto sottili ed il più possibile dritti ai quali veniva fatta la punta come ad una matita ed anche questi andavano poi a colpire dei bersagli che normalmente erano delle zucche e della frutta di stagione. Si potevano costruire degli archi o delle balestre molto più precisi ed efficaci usando le stecche metalliche dei vecchi ombrelli che venivano raccolte e unite rea loro fino a formare un fascio abbastanza grosso da poter disporre di una notevole energia dinamica da scagliare frecce o dardi ad una notevole distanza con forza e precisione. Allo spago allora si sostituiva un sottile fili di acciaio tipo quello dei freni della bici o dei fili simili, ne risultavano delle vere e proprie armi micidiali ed anche molto pericolose, devo pero affermare che non ricordo nessun episodio in cui qualcuno di noi si sia ferito accidentalmente o che abbia involontariamente ferito qualcuno dei compagni di giochi o altri. Devo osservare ed ammettere che allora eravamo si dei grandi monelli spesso ribelli e mascalzoni ma avevamo un grande senso di responsabilità e di consapevolezza civile verso terzi che io ritengo addirittura superiore a quella di molti adulti di oggi, basti pensare agli incidenti automobilistici e ai femminicidi ed altre forme di violenza troppe volte gratuita e molte volte impunita.

 

 

 

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I fratelli salomon

 

 

 

(Boromei)

 

Tullio Salomon

 

 

Di questo uomo mite e generoso, schivo e grande lavoratore, mi piace parlarne per la profonda e sincera amicizia che aveva con mio padre. Ambedue erano degli incalliti ed appassionati cacciatori, se si può usare l’ aggettivo umano nel parlare della caccia, bene allora dirò che rispetto ai nostri giorni il tempo di Tullio e di mio padre la caccia aveva una sua logica ed un barlume di umanità e di competizione tra il cacciatore e la preda che veniva cacciata.

Erano il tempi delle doppiette con i cani sopra il grilletto del fucile ed i segugi che andavano a scovare le prede fiutando l’ odore che esse lasciavano al loro passaggio.

Erano tempi di due colpi sicuri o altrimenti non si aveva più il tempo materiale per ricaricare la doppietta e come diceva un vecchio detto di quel tempo , “ a pranzo polenta e pallini “ e bisognava aspettare ancora giorni più propizi e più fortunati . Allora i cacciatori si riunivano in una radura e dopo aver scaricato tutte le armi ed appoggiate ad una grossa pianta, accendevano un bel fuoco tiravano fuori dagli zaini pane , lucaniche e buon vino e ce n’ era sempre per tutti, poi c’ era chi aveva portato la grappa fatta rigorosamente di frodo nelle profonde e buie cantine quando fuori nevica e si sentiva meno l’ odore dell’ alambicco, c’era chi aveva portato con se del caffè o del vin brulè, si faceva rosolare il pane sulla brace e si dava una mezza abbrustolita anche alle lucaniche per far uscire un po di grasso da spalmare sul pane e si cominciava a raccontare le avventure venatorie. Ed allora scorrevano i toponimi come se tutti avessero una grande carta topografica nella testa, perché infatti ognuno conosceva quei luoghi descritti nei minimi dettagli e era come se con la mente fosse lì. E tra una balla e l’ altra, si faceva colazione in sana allegria condividendo tutto quello che si era portato da casa.

La battuta di caccia si concludeva sempre in quel modo a meno che qualcuno del gruppo non fosse riuscito a prendere qualche preda, allora tutti lo seguivano presso la sua abitazione e l’ uomo li portava dritto in cantina dove era lui a dover offrire uno spuntino a tutta la compagnia.

Un giorno mio padre e Tullio che erano una coppia fissa durante la caccia come nella vita, si recarono a caccia del capriolo allora un esemplare molto raro in quanto difficile da individuare di giorno ed allora la caccia notturna non esisteva perché non esistevano i moderni strumenti ottici per le lunghe distanze e per la visione notturna, allora era il fiuto di un buon cane segugio che scovava il capriolo al suo beato dormire e questo scappando a volte ma di rado incrociava le canne di una doppietta, allora il cacciatore vedeva arrivare l’ animale al galoppo incalzato dal cane, doveva capire in una frazione di secondo se aveva o meno le corna, doveva calcolare ad occhio l’ approssimativa distanza dell’ animale per scegliere se sparare con la canna destra o con la canna sinistra dove c’ erano cartucce con pallini di calibro diverso da usare in base alle distanze e fatti tutti questi calcoli in rapidissima successione, sparare.

Quella volta a Tullio andò bene e colpì in pieno il capriolo. Lo portarono a casa dal lontano bosco a turno e fu una vera e propria festa popolare per i due cacciatori, lo portarono nella cantina di Tullio per scuoiarlo e pulirlo dalle interiora. Alla fine lo divisero a metà e mio padre si portò a casa il suo bottino di caccia. Ma per Tullio l’ epilogo di questa storica giornata ebbe un finale diverso ed imprevisto che lo rattristò e lo ferì nel suo orgoglio di cacciatore, un ladro, nottetempo entrò nella cantina lasciata inavvertitamente aperta, forse per l’ euforia e qualche bicchiere di troppo, e rubò la sua parte di capriolo.

I sospetti caddero subito su un personaggio locale ma non ci fu modo di avere prove sufficienti per poterlo accusare. Restò l’ amarezza non tanto per il furto in se, ma per l’ atto vile commesso verso una persona di rara onestà, generosità e solidarietà verso il prossimo.

In estate Tullio si recava per tre mesi sulla malga Binaggia che con i suoi verdi e dolci pendii è il pascolo per le mucche di Livo, allora il lavoro dei malgari era un lavoro duro fatto di levatacce mattutine per mungere il bestiame e preparare il latte per la caserata, poi bisognava far uscire le mucche al pascolo e custodirle mentre il casaro lavorava il latte ed era subito l’ ora di richiamarle perché era già sera… il mangiare era costituito da polenta e latte o polenta e formaggio, durante la stagione dell’ alpeggio poche erano le persone che si recavano in malga solo quelle che quel giorno caseravano.

Ed il destino si potò via Tullio in un afosa giornata il 9 luglio 1962 quando in montagna si scatenò un violento temporale estivo, frequenti in quel periodo, un fulmine lo colpì in pieno mentre era sulla porta della malga con un secchio di metallo i mano pronto per la mungitura a mano delle mucche.

Il fulmine colpì a morte lui ed una decina di mucche e ferì in modo lieve un altro pastore che però ebbe la forza di scendere a valle a dare l’ allarme.

Immediatamente dai paesi vicini partirono delle quadre di soccorso che raggiunsero la malga e portarono a valle il cadavere di Tullio e delle mucche uccise dal fulmine. In seguito venne messa sopra la porta della malga una lapide a ricordo del tragico evento.

 

 

 

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Egidio Salomon

 

 

Era un uomo buono, un po’ sospettoso per via della grave sordità che fa di queste persone della gente un po’ ridicola in quanto essi pensano, non sentendoci bene, che qualsiasi argomento trattato da persone che parlano e ridono tra di loro, sia fonte di un argomento che li riguarda ed allora, molte volte , senza una apparente ragione se la prendono con i diretti interessati.

Egidio era così, specie quando si sentiva emarginato dal argomento in discussione, o percepiva delle singole parole di un discorso più compiuto. Questo accade quando madre natura non concede a tutti pari dignità e pari opportunità a tutti coloro che per un desiderio comune che si concretizza in un atto d’ amore reciproco della donazione sessuale, con il miracolo della vita deposita su questa terra per il tempo che il destino vorrà.

E qui, colgo l’ occasione per inchinarmi e baciare i piedi di Egidio e di tutte quello sante persone che ho avuto l’ onore ed in piacere di conoscere in questo mio passaggio giù tra voi, dei loro guai, dei loro difetti fisici, del loro stato sociale ed economico, del loro essere stati vomitati qui su questo mondo fatto di tanto dolore, di tanta sofferenza fisica e morale, di tanto dire : “ che se Dio se lo fosse preso subito… o piuttosto che vivere così, è meglio che Dio l’ abbia con se… “

Qui non me la sento di dare delle mie “ ignoranti “ interpretazioni o dei miei giudizi preconcetti sulle responsabilità di Dio in riguardo alla nostra qualità o alla durata della nostra vita , mi limito a riportare quanto dice il mio carissimo amico padre Iginio Mazzucchi quando ho chiesto una preghiera per una persona a me molto cara che ne ha tanto bisogno:

 

Bruno.
Chiaro che metteremo la tua amica Tommasina, la sua sorella e la famiglia nelle nostre preghiere.
Ma non pensare che al Signore Dio bisogna ricordare le nostre situazioni e neppure che qualcuno ha una forza speciale sul suo cuore.
Il cuore del Signore Dio è così grande che ci pensa sempre ed a tutti. Per quello che dipende da lui ci arriverà sempre tutto di bene. Il male che ci arriva non viene da Dio, che pure ci sta accanto con la sua forza perché possiamo superare il male o convivere col minimo danno nostro.

Salutissimi p.Iginio Iginio

 

E’ una lezione di teologia che nessun’ altro prete mi ha mai saputo dare con tanta saggezza e semplicità.

C’ è un comandamento che Dio ha dato un nuovo testamento. “ ama il tuo prossimo come te stesso “ bene io credo che Egidio, come tanti altri giusti che ho conosciuto, sia ora in paradiso ed ascoltare tanta buona musica e chiacchierare riuscendo a percepire anche il più piccolo bisbiglio, perché questo premio si è guadagnato e meritato, per il bene fatto in questa vita, eravamo ancora ragazzini dopo la morte di mio padre, quando Egidio ci veniva ad aiutare a raccogliere il fieno nei prati più lontani come Pongel.

Di buon mattino si recava nel prato a falciare il fieno e al pomeriggio mentre noi lo mettevamo dentro ai lenzuoli già secco e profumato, lui li portava , uno alla volta, fino alla strada alta vicino al ponticello, dove in serata veniva un signore con il trattore a portarlo fino a casa nostra. Era un lavoro massacrante che ora si rifiuterebbe di faro anche un extracomunitario, sotto il sole cocente di agosto e noi gli riempivamo la bottiglia di acqua fresca della nostra sorgente….

Beati in puri di cuore perché vedranno Dio! “

 

E puro di cuore era, Egidio, ricordo in merito un piccolo episodio che mi raccontò mio cugino Gianfranco, che quando aveva la piccola Ditte edile all’ inizio dell’ anno fece stampare i calendari pubblicitari per l’ anno in corso, con le sue belle donnine nude in bella mostra. Un giorno Egidio di offrì ad affilargli la catena della motosega, si mise alla morsa che era proprio davanti al benedetto calendario e cominciò ad affilare i denti della lama . quando si accorse del calendario con le donnine, il lavoro non sarebbe mai finito… non aveva mai visto una donna nuda neppure sulla foto osè di un calendario!

Egidio morì il….

 

 

 

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Serafino Salomon

 

 

Anche Serafino era un tipo molto strano, pieno di complessi e di limiti fisici, era molto sordo anche lui, ma a differenza di Egidio che era un tipo mite e difficilmente si arrabbiava, al contrario Serafino quando credeva di essere soggetto a ironie e burle, si arrabbiava moltissimo e dava in escandescenze con parolacce e bestemmie.

Era anche lui un agricoltore ed allevatore il che gli consentiva di vivere come tutti con i proventi della vendita o del baratto dei prodotti agricoli e caseari.

Con mio cugino Gianfranco che abitava nella casa adiacente come Gino e Rodolfo, ci si divertiva a stare nascosti in soffitta ed ascoltare le numerose liti che intercorrevano tra i due fratelli, il massimo del divertimento era quando i due lavoravano a spaccare i ceppi di legna o a trasportarli a mezzo di una carrucola fino alla soffitta. Il problema di capirsi era tutto un programma dello spettacolo, tentavano di capirsi a gesti, poi a fischi e quando tutto questo no dava risultati iniziavano a litigare ed allora finivano con il capirsi a forza di urla.

Rodolfo li sapeva imitare perfettamente nella voce e negli atteggiamenti, e stava attento a non perdere neppure il più piccolo particolare dei movimenti e delle voci dei due. Poi nelle occasioni opportune si esibiva in spettacoli estemporanei ed imitava i due fratelli che litigavano, come ho già ampiamente detto in più occasioni, questa non era cattiveria, era il solo modo che avevamo per divertirci ed era anche un modo per tramandare la piccola storia di un insignificante borgo di agricoltori. Solo chi c’ era a quel tempo può capire e giustificare questi fatti che erano tollerai da tutti come ora vengono tollerati certi programmi televisivi dove si ironizza su politici, preti calciatori, ecc.

Per finire voglio raccontare un aneddoto che ho potuto vivere di persona, una mattina verso le 11 Serafino si incamminò verso Livo per portare la mucca al toro in quanto la bestia dava estro di essere in calore.

Passando davanti a casa mia incontrò una signora che era venuta in ferie dagli USA la donna si chiamava Elisa ed era moglie di Zanotelli Vittorio detto Mamera.

Alla vista del Serafino che accompagnava la mucca gli chiese : vala a manz Fino ? l’ uomo nella sua sordità travisò la domanda e la interpretò così: as magnà Fino ? e lui molto educatamente rispose : si, si, grazie, acja voi ? La donna si alzò e si diresse verso la sua abitazione dicendo . brutto porco ! e noi tutti a ridere di nascosto.

 

 

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Teresa Salomon

 

 

Un giorno prese fuoco il camino della cucina di Teresa che era sorella di Egidio e di Serafino.

Saranno state le 15 del pomeriggio di un giorno di primavera, perché la Teresa si era recata a Barn a legare i tralci delle viti nella sa vigna.

Aveva chiuso casa ed era partita e dopo un po di tempo dal camino si levarono dei grandi globi di fumo.

Ad accorgersi per primo fu Pio Zanotelli che aveva la finestra della cucina rivolta verso casa Slomon.

Pio chiamò il fratello Serafino convito che il camino che ardeva fosse il suo, ma appena l’ uomo uscì di casa e guardò verso il tetto capì che non era il suo e rientrò in casa scocciato e imprecando e dicendo che era quello di Teresa.

Allora Pio mi mandò a barn di corsa a chiamare Teresa che trovai nella vigna r la informai dell’ accaduto.

Lei mi assicurò che aveva messo ad ardere della legna di foglia e mi seguì in tutta fretta verso il paese.

Mel frattempo si era radunato un gruppetto di persone tra cui Ermanno Zanotelli ( Manotto ) il quale prese una lunga scala e salì fin sul tetto vicino al camino dal quale cominciavano a sprigionarsi delle fiamme.

Manotto osservò la situazione vide che l’ interno del camino era attraversato da una grossa trave di legno del tetto che aveva predo fuoco anche essa e rivolto alle persone che stavano in terra, esclamò :

mia par dir è, ma l’ e meio clamar i pompieri è !

Teresa era la sorella, la madre, la zia, la badante dei due fratelli Salomon, li teneva puliti, in ordine e dava loro anche molta disciplina con un piglio autoritario, ma era una donna buona e riservata.

So che aveva sofferto moltissimo per la perdita del fratello Tullio morto tragicamente in montagna, era il fratello al quale voleva più bene ed era più legata.

 

 

 

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Sparapani Eugenio

 

 

( Geniotti no W nato il morto il )

 

Lo spunto per raccontare, brevemente, la biografia di Sparapani Eugenio detto Geniotti, me lo ha dato una vecchia foto della fine degli anni ’50 scattata durante la cerimonia di inaugurazione della restaurata sede della Famiglia cooperativa di Varollo, dove sono ritratti numerosi personaggi locali, tutti delle frazioni di Livo, Varollo e Scanna, perché a Preghena esisteva già allora un punto vendita al dettaglio della Famiglia cooperativa di Preghena per l’ appunto, che è ubicato in centro al paese proprio vicino alla chiesa.

Tra i volti a me molto famigliari dei presenti sulla foto che ascoltano compunti il funzionario di turno mandato dalla Federazione Cooperative di Trento per celebrare l’ evento, tutti vestiti con il meglio del look che possedevano negli armadi, fatto di miseri vestiti dal collo rivoltato più volte, le camicie più belle che possedevano che per lo più erano quelle spedite dai parenti d’ America, i pantaloni pure con quello style abbondante e quasi goffo usato allora dagli americani, tutti con il cappello in testa o in mano, pochi con la cravatta.

Ed il Funzionario che continua la sua relazione sciorinando dati, percentuali, consuntivi ed obbiettivi ancora da raggiungere, tra gli ascoltatori c’è un uomo di statura bassa con baffi e capelli neri dentro un cappotto più grande di lui che sembra quasi dire :

- ma no al amò ruada no ???…-

E’ il Geniotti che venuto a sapere dell’ avvenimento del quale non gli importava nulla se non per il fatto che dopo ogni inaugurazione che si rispetti, veniva offerto ai presenti uno spuntino, quello era l’ unico ed ultimo interesse di Sparapani Eugenio di Preghena.

Da questa vecchia fotografia ingiallita dal tempo, ricordo di un avvenimento di oltre cinquanta anni fa, voglio fare alcune considerazioni e riflessioni sul modo di vivere di quei tempi, sulla partecipazione sentita alla vita sociale, sul valore che veniva dato allora al cooperativismo e sulla solidarietà schietta e senza ipocrisie della nostra gente di allora.

Il Geniotti che era un povero diavolo di Preghena, solo e non tanto ben visto dai suoi compaesani a causa delle tante dicerie che circolavano nel Borgo di sopra nei suoi confronti.

Circolava il sospetto che fosse stato lui ad appiccare il fuoco ad alcune abitazioni del paese, Adelia mi raccontò che un mattino trovarono nella stalla di sua proprietà un montone sgozzato e si disse che fosse stato il Geniotti… insomma come succede sempre in quel borgo per ogni cosa che non si riusciva a spiegare o a dimostrare, la colpa veniva sempre attribuita ai più deboli, ai più indifesi, a quelli che anche se si fanno alcuni mesi di manicomio gli sta bene almeno per un po’ non rompono.

Questo a grandi linee era Sparapani Eugenio, era anche un po’ parente di mia madre che aveva la sua di Preghena parente dei Lassi.

Quella vecchia foto mi fa dedurre che una certa differenza di pensiero e di comportamento ci fosse tra la popolazione di Preghena e quelli “ de zot “ considerato che qualcuno avrà detto al Geniotti : valà vei giò ancja ti !

Ma se anche avesse avuto l’ ardire di presentarsi senza un invito ufficiale, la foto dimostra che nessuno dei presenti lo aveva cacciato preventivamente come ospite non invitato o non gradito, c’è quindi da ritenere che anche il buon Geniotti si sia fatto la sua bella scorpacciata a spese della Coop di Varollo e per lui lo scopo della sua presenza a Varollo era ampiamente raggiunto e soddisfatto.

Ma forse la spiegazione più logica e più semplice che riesco a trovare in questo contesto è un'altra, il Geniotti collaborava attivamente con il Corpo dei Vigili del Fuoco Volontari di Livo, dando una mano a trasportare materiali o a sgombrare macerie, è molto probabile che sia stato invitato dal allora Comandante signor Zanotelli Livio che , guarda caso, era anche componente il CDA della famiglia cooperativa di Varollo.

La nostra comunità a suo tempo è stata capace di grandi gesti di solidarietà umana, fatti in silenzio e con l’ umiltà di chi condivide la comune povertà dell’ essere, che sa vedere i bisogni del fratello senza che vengano le Assistenti sociali ad avvisarti che uno ha qualche problema o qualche disagio. Era una comunità attenta, dove tutti sapevano tutto degli altri ed era così molto più facile vedere chi veramente aveva bisogno di aiuto e non chi fingeva perché non aveva voglia di lavorare.

Io ho fatto parte attiva anche come Presidente del comitato ECA di Livo ( Ente Comunale Assistenza ) per parecchi anni nel periodo delle amministrazioni Penasa e Filippi negli anni ’80 e mi ricordo il criterio che allora la Provincia adottava per intervenire sulle persone che chiedevano assistenza, il criterio era quello di verificare se di fatto la situazione che ci veniva prospettata fosse o meno quella reale.

Poi tutto passò alla burocrazia dei Comprensori e non mi è difficile capire, guardando il microcosmo della gestione di questo piccolo stato sociale che non impegna una grossa cifra in denaro per la sua gestione, perché le cose in Italia non potranno mai andare bene.

 

Gentile signora Annamaria,

 

sono Bruno Agosti di Scanna e La contatto per chiedere la Sua disponibilità a fornirmi alcune informazioni anagrafiche a biografiche di Suo zio Eugenio, che ho deciso di includere in un mio libro assieme schiera di personaggi che ho avuto la fortuna e l’ onore di conoscere,

Confidando nella Sua collaborazione, a tale scopo Le allego le mie info.

Con l’ occasione Le porgo cordiali saluti .

 

Bruno

 

 

Livo, 11. 03. 2013

 

 

Ho letto con attenzione la bozza riguardante mio zio, devo dirle che questo scritto mi ha fatto ritornare indietro nel tempo
e mi ha fatto ricordare delle cose e situazioni a me molto spiacevoli per questo desidererei che lei non scrivesse niente su
mio zio .Era una persona buona e la gente si approfittava di lui .
distinti saluti Annamaria Sparapani grazie

----Messaggio originale----
Da: brunoagosti@alice.it
Data: 1-lug-2013 17.07
A:
Ogg: R: informazioni

Innanzitutto grazie per avermi risposto, non tutto hanno questa buona regola, grazi per la sua disponibilità . Io cerco di ricostruire la storia del paese ma sopratutto delle persone che ho conosciuto e che mi hanno lasciato dei ricordi dentro, specie gi ultimi che sono i più deboli e che per questo hanno il grande dono della semplicità e dell' onestà. Le invio la bozza del testo quasi completo riguardante suo Zio e la foto che lo ritrae presso la cooperativa di Varollo.
se avremo modo di incontrarci sarà un vero piacere scambiare delle opinioni con lei.

Le invio un cordiale saluto

Bruno Agosti

----Messaggio originale----
Da: annamariasparapani@alice.it
Data: 25-giu-2013 7.53
A:
Ogg: informazioni


buon giorno,
sono spiacente di non poterla aiutare in quanto non ho molti ricordi di mio zio,ero piccola quando e'morto.
posso trovare delle foto i dati anagrafici penso che in comune li trova. Comunque sono a sua disposizione
La saluto cordialmente
annamaria sparapani


 

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Renato Calovini.

 

 

( die fukchs)

 

A farmi tornare alla mente Renato e farmi ritornare alla mente intensamente il suo ricordo ed il desiderio di voler riportare in questo libro la storia della sua vita avventurosa e della sua tragica fine, ci ha pensato un articolo che avevo scritto su Vita Trentina all’ indomani della sua tragica morte.

Renato era un uomo di Preghena, forse quello che impersona e definisce meglio tutte le tragedie umane che si sono compiute in quel borgo negli ultimi 50 anni. Era una persona molto intelligente e con un invidiabile cultura generale e questo anche al dire della sua maestra elementare signora Serafina Marchetti di Baselga di Bresimo che lo definiva l’ alunno in assoluto più intelligente di quelli a cui aveva insegnato, e questa sua eccezionale preparazione culturale la si poteva intuire se si aveva l’ occasione di poter dialogare con lui.

Dipingeva dei quadri di buona fattura e li firmava con lo pseudonimo di “ fukchs “ in tedesco volpe, lui conosceva perfettamente il tedesco anche perché sua moglie era di quella nazione, parlava anche francese e spagnolo.

Renato aveva molte ombre che offuscavano la sua vita avventurosa, la più affascinante e per certi versi inquietante era il suo passato di Legionario nella legione straniera francese, non sono mai stato in grado di capirne le motivazioni di questa sua scelta, normalmente è noto che uno che si arruola nella legione o ha commesso dei gravi reati e sfuggito alla giustizia si rifugia tra i legionari che vengono arruolati senza fare domande sul loro passato, o per un amore finito male, di questo non me ne ha mai voluto parlare. Molto invece mi ha raccontato della dura vita dei legionari, mandati sempre in prima linea, dopo un duro addestramento militare fatto di una ferrea disciplina , di chilometri di marce sotto il sole cocente del deserto e di un addestramento all’ uso di ogni tipo di arma e di tattica bellica.

Diceva di essere riuscito a scappare dalla legione con altri commilitoni tra cui un polacco che venne poi ucciso dagli inseguitori. Che fosse un conoscitore ed amante delle armi era cosa nota in quel di Preghena anche perché un giorno, forse alterato dall’ alcool, prese un fucile da guerra che aveva in casa e dopo aver sparato un colpo in aria si recò al bar del paese con il fucile in mano, lo lasciò fuori dalla porta appoggiato al muro dunque entrò e si fece versare da bere come nel far west…

Tutto questo suo passato fatto di avventure e trasgressioni lo aveva reso una persona relegata ai margini della società e con la sventura poi di abitare nel borgo di Preghena dove tutti i “ diversi “ vengono sistematicamente emarginati dalla classe sociale dei “ normali “ e benpensanti, come hanno fatto con altre persone con leggeri handicapp psichici o fisici o alcool dipendenti, e la catena se si volesse elencarli tutti sarebbe molto lunga, fino ad arrivare ad Adelia Facini ed i coniugi Calovini Fabio e tutto questo rimosso dalla storiografia ufficiale di quello sventurato paese, come dei fatti che riguardano altri e non loro. La passione per le armi una giusta dose di alcool e qualche maestro del mal consiglio un giorno d’ inverno, quando tutti avevano soldi in tasca da spendere perché arrivavano le pensioni e gli acconti delle golden, indussero Renato che di soldi non ne aveva, a tentare una rapina alla locale Cassa Rurale di Livo. Renato con in tasca una lunga chiave della porta di casa si presentò allo sportello della banca dove al momento non c’era nessuno, con una mano in tasca simulando la presenza di una pistola intimò al cassiere e Direttore signor Agosti Gianantonio di dargli tutto quello che aveva in cassa. Per ragioni burocratiche era presente in banca anche il Presidente signor Agosti Mario Marino il quale consigliò di dare il denaro richiesto al rapinatore.

Il cassiere diede alcune mazzette di denaro che Renato mise nella tasca della giacca per un attimo, poi le tolse e le restituì mostrando nel contempo che in tasca altro non aveva che la chiave di casa.

Venne subito immobilizzato dai presenti ai quali si era aggiunto anche Ezio Filippi direttore della sottostante Famiglia Cooperativa, in attesa che arrivassero i carabinieri di Rumo prontamente chiamati dal Direttore della banca… mi ricordo che era un giorno che nevicava. Giunti i carabinieri arrestarono e perquisirono il povero Renato che nel frattempo aveva dovuto subire le percosse dei presenti ai quali si era aggiunto anche Aliprandini Mario gestore del bar annesso alla cooperativa.

Quando i carabinieri perquisirono il povero Renato ormai malridotto ed incapace di reagire, trovarono nella tasca della giacca una mazzetta di banconote che non era riuscito a restituire prima che iniziassero le botte e per quella mazzetta, subito sequestrata e restituita, Renato venne condannato a tre anni di prigione credo che ne scontò solo pochi mesi poi venne scarcerato e tornò a Preghena.

L’ inverno del 1986 fu particolarmente freddo con temperature che scendevano anche a meno 20 gradi di notte e non salivavano sopra lo zero neppure di giorno, ed una di quelle fredde mattine fu fatale per Renato perché nel suo appartamento, di mattina presto, scoppiò un incendio provocato dalla stufa a legna con la quale si riscaldava, Renato provò in tutti i modi a spegnerlo ma venne sopraffatto dal fumo che ne provocò la morte per asfissia.

Le settimane seguenti presi una netta e dura posizione sul settimanale Diocesano VT, denunciando la mancanza di carità cristiana nei confronti degli ultimi, ricevetti gli ipocriti complimenti dei benpensanti ma in quel di Preghena le cose non cambiarono di un millimetro nonostante un parroco di frontiera come era don Pio Dallavo che alla fine del suo mandato concordò con la mia analisi :

Per 25 anni aveva predicato ad una Comunità di sordi “.

 

 

 

 

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IL SIGNOR LHONER

 

 

Il fatto storico che ora vado a raccontare, si svolse a Preghena, circa 50 anni or sono.

Il signor Luigi Facini del casato dei “Cicioti “, aveva affittato il primo piano della propria abitazione sita al numero civico*** del paese, ad un signore originario di ******* in provincia di Bolzano che si chiamava Lhoner Guglielmo ed al momento che si era trasferito a Preghena era pensionato ed andò ad abitare con la moglie signora Maria, appunto nella casa presa in affitto dal signor Luigi.

Erano tempi quelli, dove nei nostri paesi regnava ancora un forte disagio economico, ed il signor Luigi aveva approfittato della allettante proposta del signor Lhoner, pensando così di dare alla sua famiglia composta da lui e quattro figli, una maggior garanzia di sicurezza con i proventi dell’affitto.

C’è da dire, inoltre, che ad aggravare la già precaria situazione della famiglia Facini, il signor Luigi era rimasto vedovo nel 1943 per la perdita della moglie signora Celestina Pancheri, deceduta durante il parto dell’ultimo figlio Giovanni.

Il signor Lhoner era un uomo che soffriva molto degli acciacchi della vecchiaia, era costretto molte volte a restare a letto anche di giorno, e ad accudire il malato, oltre alla moglie, tante volte ci pensava anche una delle due figlie del signor Luigi, che si chiamava Adelia e all’epoca era poco più che ventenne, ed era entrata nelle simpatie del signor Lhoner, in quanto molto servizievole, simpatica ed anche molto bella, come del resto era molto bella anche la figlia maggiore che si chiamava Maria.

In quegli anni, a reggere le sorti della Parrocchia di Preghena e dei suoi fedeli, c’era un parroco che si chiamava don Pietro Bisoffi ed era già avanti con gli anni, ma reggeva la Parrocchia in modo saggio ed attento ai grandi mutamenti che erano in corso nella società civile e religiosa di allora, dal Concilio Vaticano II, che non era riuscito a digerire e metabolizzare, ai gradi cambiamenti sociali di allora, come le lotte di classe e poi il conseguente terrorismo rosso e nero.

Il Parroco era solito far visita ai malati di tanto in tanto, e di conseguenza conosceva bene il signor Lhoner, e conosceva altrettanto bene i suoi malori e i suoi problemi interiori perché era anche il suo confessore personale.

Era un periodo di tempo che il signor Lhoner non stava bene e soffriva di reumatismi e di gotta, ed aveva chiesto alla signorina Adelia di accompagnarlo a Cles da uno specialista per tentare di sollevarsi un tantino dal dolore. Adelia, che era sempre molto disponibile lo accompagnò, ma i risultati non furono soddisfacenti, ed il malato poco a poco fu costretto al letto.

Il lungo periodo di permanenza a letto, aveva influito in modo negativo ed evidente anche sulla psiche del signor Lhoner, il quale non dormiva più di notte ed era sempre molto agitato e di questo se ne erano accorti anche i componenti della famiglia Facini, che durante la notte spesso sentivano i passi sulle loro teste ed il brontolare del paziente.

Un mattino presto la moglie del signor Lhoner chiamò Adelia dicendole che il marito aveva bisogno di lei. Adelia si presentò rapidamente dal malato e chiese che cosa desiderasse ed in che cosa poteva essere utile. L’uomo rispose che aveva urgente bisogno di vedere il Parroco per farsi confessare e Adelia si recò in canonica, ancora prima della messa, ed avvertì il Parroco della richiesta del malato. Don Bisoffi, che conosceva bene il signor Lhoner, decise di visitare il malato ancora prima di dire la S. Messa, prese la stola e si avviò rapidamente verso l’abitazione dell’infermo. Giunto dentro casa, fu accompagnato dalla moglie del signor Lhoner nella stanza da letto dove stava ad aspettarlo il malato che avrebbe dovuto confessare. Appena entrato nella stanza il signor Lhoner pregò la moglie di lasciarlo solo con il prete, e la signora uscì nella cucina per preparare il caffè.

A quel punto il parroco pregò il malato di prepararsi per il Sacramento della confessione, e si girò da un lato per indossare la stola , a quel punto il signor Lhoner tirò fuori da sotto la coperta un fucile, lo puntò verso il prete e fece fuoco.

Don Pietro, che nel frattempo si stava girando verso il malato, vide il fucile puntato su di lui, ed istintivamente si buttò a terra di lato ed il colpo lo raggiunse di striscio ad un fianco dopo aver vistosamente lacerato la tonaca. Dopo lo sparo accorsero la moglie e Adelia che stavano bevendo il caffè in cucina, ed accorsero pure il signor Luigi e gli altri componenti la famiglia Facini, allarmati dallo sparo e dalle grida provenienti dal piano di sopra.

Il signor Luigi fu il primo ad entrare nella stanza dove c’era ancora il fumo e l’odore caratteristico della polvere da sparo, e trovò il Parroco spaventato ma quasi illeso, ed il malato a letto con ancora il fucile tra le mani. Alla vista del signor Facini, il Lhoner depose il fucile sul letto e disse che non ce l’aveva con nessun altro dei presenti, ma che voleva solo uccidere “il nero“ riferendosi alla persona del Parroco, poi consegnò l’arma al signor Facini.

Nel frattempo la casa si era popolata di curiosi che in quelle occasioni non perdono mai il vizio di assaporare poi il piacere di poter raccontare, il più delle volte aggiungendo molto della propria fantasia ed immaginazione, alle altre comari del paese il fatto del giorno. Il signor Lhoner venne portato via a forza (allora in casi come questi, si faceva uso della camicia di forza che era un telo con delle cinghie che immobilizzava i pazienti) dalla sua abitazione e, credo, non vi fece più ritorno.

Mentre le comari del rione erano ancora intente a raccontare, ingrandire e manipolare la vicenda dando già giudizio e pena per il povero signor Lhoner, e, se non fosse stato un prete il ferito, lo avrebbero volentieri spogliato, non per curarlo, ma per poi raccontare la tipologia della ferita e dare una condanna “giusta“ allo sparatore, invece, durante tutto quel trambusto il signor Parroco si era avviato verso la chiesa per celebrare la S. Messa del mattino e dopo finita la cerimonia, solo dopo, si recò al pronto soccorso dell’Ospedale di Cles per farsi medicare la ferita.

 

Nel febbraio del 1969 mio padre, già malato terminale, si aggravò ulteriormente e espresse il desiderio di voler confessarsi .

Allora la parrocchia di Livo era retta da un parroco che si chiamava don Michele Rosani, e che entusiasta, al contrario di don Bisoffi, delle nuove riforme portate dal Concilio Vaticano II, e ligio al dovere “progressista“ del nuovo corso, si era recato a Roma per le solite burocrazie Vaticane, così almeno aveva asserito Lui.

A sostituirlo aveva lasciato il compito al buon vecchio parroco di Preghena, don Pierino Bisoffi il quale svolgeva quel mandato spirituale con il massimo rigore e la massima professionalità, come d’altronde era il suo stile di vecchio curato di campagna.

Dopo aver confessato e dato l’estrema unzione e “l’olio santo“ a mio padre, si fermò con noi e mi raccontò che di malato grave c'era anche il signor Lhoner. Penso fosse all'ospedale o alla casa di riposo di Cles, e mi raccontò che andava a fargli visita di frequente e che sul comodino aveva una statuetta della Madonna di Lourdes, ed ogni volta che andava da lui gli diceva sempre : - “ Me perdonelo, sior Parroco ? ! ? “ - E lui gli rispondeva sempre : - L’ ga perdonà el Padre Eterno, volelo che no ghe perdona anca mi no ? “

A tutt’oggi, queste parole risuonano in me come un monito ed un esempio da imitare nella vita, e tutte le volte che mi sono trovato in una situazione simile, mi sono sempre ricordato le sagge parole del vecchio Prete di campagna, dalle idee preconciliari, ma fedele all’insegnamento del suo Datore di lavoro che gli aveva insegnato ad amare anche chi, in un momento di follia della vita, aveva attentato alla sua vita. Credo di poter affermare, senza passare per eretico, che quell’amore per i propri figli, specie per il figliol prodigo, abbia sicuramente salvato, alla fine dei suoi giorni il signor Lhoner, con buona pace delle comari del paese che lo avevano subito condannato senza appello e che lo avrebbero visto volentieri tra le fiamme dell'inferno.

 

In questa vicenda, a mio parere, ci sono due persone che brillano di luce propria, per la virtù innata e per l’ amore per il prossimo: il Parroco don Pietro Bisoffi e la signorina Adelia Facini.

Il primo per la fedeltà a quella missione che compiva in nome di Dio ed in nome di quella chiesa che aveva saputo rinnovare con il Concilio Vaticano II, la propria immagine ma che poi avrebbe abdicato negli anni seguenti al suo ruolo con una secolarizzazione sempre più marcata, fino ad arrivare ai giorni nostri alla scoperta della infame ed odiosa piaga della pedofilia nel mondo clericale e monastico, suprema vergogna per gente colta e dallo spirito ecumenico ed apostolico. Vorrei ricordare che ai tempi di don Bisoffi ad esempio alle donne erano vietati i pantaloni…e che una donna dopo aver partorito il proprio figlio, dono di Dio, era costretta ad un periodo di quarantena prima di potersi recare in chiesa per una cerimonia di “purificazione“... Roba da manicomio…

 

La seconda figura che brilla alta in questa vicenda è la signorina Adelia, la quale accettò sempre di buon grado, e senza tanta ricompensa, di aiutare quel Cristo malato che vedeva nella figura del signor Lhoner. Così semplicemente, come semplice e generosa era la Signorina Adelia, esempio fulgido di onestà e di carità cristiana, in tutta la sua umile e tribolata vita. Per me un esempio da imitare ed un ricordo struggente di un grande amore perduto, nel mio cuore.

 

 

 

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Zanotelli Pio

 

(Tripoi 2° WW )

 

La mia passione innata per la storia specie per la storia contemporanea e la dittatura fascista, mi consentì di conoscere a fondo il signor Pio Zanotelli che era anche cugino di mia madre. Pio era nato il 28 novembre 1913 giusto un secolo fa ed abitava a Scanna in una casa vicino alla fontana in condominio con altri due suoi cugini Giuseppe e Giovanni Zanotelli.

Pio era agricoltore ed allevatore come tutti gli uomini del nostro paese, aveva sposato una donna di Varollo che si chiamava Silvia Zanotelli pure lei ma ovviamente non erano parenti stretti. Da quella unione nacquero tre figli, Aldo, Adelio e Tullia .

In un incidente boschivo negli anni ‘ 50 Pio si infortunò gravemente ad un braccio per un grosso tronche d’ abete che glielo schiacciò, a nulla valsero le cure e le terapie antibiotiche per evitare che l’ arto andasse in cancrena, dopo pochi giorni dall’ incidente gli venne amputato.

Questa fu per lui un vera e propria tragedia personale e famigliare, in quanto aveva tre bocche da sfamare e gli rimaneva un solo braccio per lavorare.

Pio aveva partecipato alle duo guerre volute da Mussolini nel 1935 – 36, la guerra d’ Etiopia e la seconda guerra mondiale, alpino venne mandato alla conquista dell’ impero nelle aride terre etiopiche con un esercito per quel tempo poderoso dotato di armi automatiche , artiglierie di vari calibri, carri armati, aerei e micidiali gas come l’ iprite che paralizzavano i nemici immobilizzandoli di fatto, Pio mi raccontò dei massacri fatti con le armi convenzionali e con i gas contro bande di poveri negri straccioni armati di molte lance e qualche fucile, vennero impiegai anche i lanciafiamme insomma un test per la prossima e più cruenta guerra mondiale.

Nella seconda guerra mondiale Pio venne impiegato prima in Francia nel 1940 poi sul fronte dei Balcani e della Grecia.

Nel dopo guerra fu un uomo attivo all’ interno delle istituzione e ricoprì molte cariche sia come consigliere comunale che nella locale ASUC, fu per anni nel consiglio di amministrazione della locale Cassa rurale ed artigiana con ruoli diversi.

Morì di emorragia dopo un intervento chirurgico subito negli ospedali di Padova il 01 agosto 1983

 

 

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Agosti Ottone

 

( Tone dei “ masadori “ )

 

Erano detti “ masadori “ perché avevano preso in affitto il maso Filippi alle Val .

Parlare di Ottone Agosti è quasi sinonimo di istituzioni, cooperazione, associazionismo. Infatti, più che l’ aspetto bellico nella figura di Ottone brilla la sua partecipazione alla vita sociale ed amministrativa di questa Comunità del quale è sempre stato un esempio di grande impegno e profonda onestà.

Gente come Ottone, Arcangelo ed altri degli anziani che ho avuto l’ onore di poter conoscere, ora sono delle persone estinte in questa moderna, opulenta ed ignorante Comunità.

Ai tempi di Ottone, chi assumeva un incarico sociale lo faceva con l’ orgoglio ed il dovere di rappresentare al meglio la propria comunità, rappresentare tutti allo stesso livello, ci ti ha votato e chi no, in modo gratuito, allora non c’erano gettoni di presenza o altre forme di retribuzione che non fossero le spese vive per viaggi o altre cose rigorosamente documentate e quietanziate.

Ogni paragone con gli attuali sprechi e ruberie è completamente ed assurdamente inutile, nessuno ora riuscirebbe più neanche ad immaginare una società sana ed onesta quale era quella di 50 anni fa.

Nel 1943 alla caduta del regime fascista il signor Agosti Ottone ricoprì un incarico molto importante per la nostra zona : venne nominato dall’ allora Prefetto di Trento Commissario di zona ed assieme ad altre persone tra cui il signor Agosti Giovanni Battista ( Tita di Gianini ) per gestire il periodo di transizione dopo la caduta del regime fascista, carica che conservò anche dopo il 1947 .

Ebbe pertanto un ruolo attivo di grande importanza nella ricostruzione democratica dei primi consigli comunali post fascisti con le elezioni democratiche dei sindaci che sistituirono i Podestà nominati dal fascismo più o meno collaborazionisti del regime, in taluni casi infatti il Podestà si limitava ad eseguire in modo passivo gli ordini del regime senza infierire sui refrattari e sui dissidenti.

Faccio un piccolo esempio locale per dare il senso della misura del costo della retribuzione dell’ attuale Sindaco che riceve uno stipendio mensile pari a 1.500 euro, ho fatto un rapido conto ed il risultato è che in 15anni di legislatura gli è stata retribuita una somma pari a circa 300.000- euro….

Ottone fu consigliere comunale, delle ASUC, del locale consorzio cooperativo frutticolo, della locale famiglia cooperativa, del caseifici a turnario del Consorzio di miglioramento fondiario, un uomo che ha dato molto a questa Comunità che ora sembra assente ed indifferente ai veri valori della solidarietà e della cooperazione, dove gli Amministratori, qui come a livello nazionale, puntano allo stipendio, ai favoritismi ed alle tangenti, tutto il resto, i problemi del paese, la società che è allo sfascio, le opere pubbliche che assumono tempi biblici e costi impossibili, tutto questo Seanra non contare, basta poterci mangiare sopra .

Ottone aveva sposato una donna di Livo che si chiamava Giuseppina Conter ( Dei Ciari ) che gli diede quattro figli Romano, Carlo, Livia ed Onorina.

 

 

 

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Pia Zanotelli

 

 

Io non sono nessuno e non ho alcun diritto di giudicare gli altri, ma quando ripenso a Pia a volte mi viene quasi una spontanea ribellione contro Dio per avermi concesso quel poco di vista che ho. Se fossi stato cieco, probabilmente qualcun altro mi avrebbe descritto Pia e per tanta fantasia possa essere dotato un cieco mai avrebbe potuto immaginare quanto possa essere malvagio l’ essere umano e quanto danno possa fare ad un essere indifeso il perbenismo e l’ ipocrisia.

Pia era una donna di quelle nate disgraziate come me, ma con un ulteriore fattore negativo che le ha reso la vita un vero e proprio calvario, era infatti ospitata in casa di suo fratello e di sua cognata che la isolarono dal resto della famiglia perché si vergognavano di lei, e non volevano compromettere il prestigio della famiglia agli occhi della gente.

Credo che Pia fosse analfabeta ma non ne sono certo, era nata un po’ ritardata ma ad aggravare ulteriormente la sua situazione contribuì pesantemente il modo come era trattata nella sua famiglia di appartenenza.

Dai racconti di mia zia Ada che molte volte la incontrava sulla strada che porta a Somargen con le mucche da portare al pascolo, mi ha sempre descritto una situazione di profondo degrado fisico e morale nel quale versava la poverette, sempre scalza con un abito scuro lungo, un fazzoletto in testa, sempre spettinata e con quel gozzo che le deturpava il fisico.

Allora giovane, quando aveva il ciclo mestruale, non aveva neppure un panno o un fazzoletto e si puliva con il lungo vestito.

Quando l’ ho conosciuta io avrà avuto una cinquantina di anni ma ne dimostrava ottanta, era sempre relegata nella stalla o in una stanzetta , non la volevano in casa assieme al resto della famiglia e nonostante questo trattamento da schiava, lavorava tutto il giorno nella stalla ad accudire le mucche e poi andava in campagna ad aiutare il fratello nei lavori agricoli. Era cugina di mia madre e quando mia madre la vedeva tornare dal lavoro stanca ed assetata la faceva entrare in casa e la faceva sedere e le preparava un buon caffè, lei piangeva quasi sempre ed invocava sua madre affinché la venisse a prendere e se la portasse con lei.

Ho detto all’ inizio che io non ho ne l’ autorità ne il diritto di giudicare queste situazioni penose che si vedono nei paesi, pia è uno di questi casi ma ce ne sono stati e ce ne sono tutt’ora molti, concludo con una riflessione che mi viene offerta dalla data odierna : 27 gennaio giornata della memoria, allora il genere umano ebbe la forza ed il coraggio di abbattere le porte del campo di concentramento di Auschwitz e liberare tanti derelitti che erano destinati altrimenti a morire, oggi noi non riusciamo ad abbattere le barriere del nostro egoismo e della nostra ipocrisia.

Goditi il paradiso Pia !

 

 

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Amelia Conter in Agosti

 

 

Non avrei mai pensato di scrivere la sua biografia ora che non c’è più portata via da quella malattia killer del nostro tempo, ancora in età relativamente giovane, ma è così a riprova e conferma che noi siamo solo gli inquilini del nostro corpo e del nostro tempo, ma il Padrone vero è un altro.

Amelia era nata a Livo suo padre si chiamava Vigilio e sua madre Gamper Serafina originaria di uno dei paesini sud tirolesi a noi vicini.

La famiglia di Amelia era composta da quattro maschi, Adolfo, Romano, Agostino e Emanuele e due femmine lei e la sorella Bice.

Tre dei suoi fratelli sono nati gravemente handicappati sia nel fisico che nel cervello, nonostante tutto ciò vennero tenuti a vivere in famiglia a eccezione di Romano che dopo un certo tempo si dimostrò aggressivo e violento e venne messo in una casa di cura per disabili mentali, credo che sia ancora vivo, invece è morto Agostino il più debole fisicamente.

Bisogna riconoscere il grande senso di responsabilità , il grande amore per i figli, e la grande Fede in Dio della famiglia Conter per la difficile decisione di tenere nel proprio nucleo anche quei figli che madre natura ha voluto nascessero “ disgraziati “ per usare il termine che allora definiva la gente diversamente abile. Un alto merito ed un esempio che andrebbe adottato anche ai nostri tempi dove si tenta di socializzare il problema non sempre con buoni esiti.

Vorrei aggiungere che io capisco a fondo questo disagio che ha colpito l’ intero nucleo famigliare di casa Conter e lo capisco dalle condizioni di uomo “ disgraziato “ non ai livelli dei fratelli di Amelia, per fortuna a me il cervello è l’ organo del mio corpo che funziona meglio e mi gratifica nel pensiero e nella scrittura, e di questo Amelia aveva capito la grande differenza ed importanza per una vita almeno vivibile nel contesto sociale della comunità.

Erano tempi di miseria economica che ho avuto modo in varie occasioni di descrivere, a questo per la famiglia di Conter Vigilio si era aggiunto anche questo grave problema ma era comunque riuscito a tirare avanti ed a sfamare la sua numerosa famiglia.

Ho fatto questa premessa per riuscire a descrivere meglio la signora Amelia che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere molto bene, anche perché aveva sposato il signor Roberto Agosti di Varollo e dopo un periodo in affitto a Preghena si erano stabiliti definitivamente nella casa paterna.

Amelia era una persona schietta, di quelle che se ti doveva dire qualche cosa di bello o di brutto te lo sapeva dire lei in faccia senza bisogno di ambasciatori o dei pettegolezzi che spesso e volentieri volano su questo paese e ad ogni passaggio di lingua modificano il contenuto fino a travisarne del tutto il senso.

A livello personale quello che ho più apprezzato di Amelia è stato il fatto che lei mi ha saputo capire, ha saputo capire il mio disagio fisico, i miei limiti a livello motorio e di conseguenza quanto questi problemi passassero a livello della mia presenza all’ interno della società locale e quanto soprattutto tale condizione mi avesse escluso dalla società a tutti i livelli, fatto salvo quando facevo comodo a taluna delle fazioni sempre in eterna lotta che sarebbero state disposte a tollerarmi in quanto portatore di consensi elettorali.

Amelia ce l’ aveva a morte con la lobbie dei contadini che non pagano le tasse e consumano la maggior parte dei soldi pubblici in acquisto di materiali agricoli, di accesso ai contributi pubblici per loro e per i figli in quanto non obbligati a pagare tasse di nessun tipo, e questo conferma la sua sete di giustizia sociale che condividevo in toto a dispetto di taluni profeti della sinistra che ritengono di avere il monopolio dell’ equità sociale e dei diritti dei lavoratori.

Amelia era una donna con una saggezza ed una coerenza uniche che aveva ereditato a mio parere tanto dalla madre di origini tedesche, lei non diceva mai “ bisognerebbe fare “ lei faceva in prima persona e mi piace ricordarla impegnata nella parrocchia alla pulizia ed al decoro della chiesa di Varollo, ma anche un ecologista convita e coerente infatti la si vedeva spesso intenta alla pulizia della strada antistante la sua abitazione ma anche molto più avanti a raccogliere carte e bottiglie di plastica vicino alla cooperativa ed a redarguire certi utenti che gettavano nelle campane dei rifiuti destinati ad un diverso trattamento, questo per me era un grande senso civico che la signora Amelia esibiva a tutta la nostra comunità con semplicità ed orgoglio dimostrando anche a certi amministratori distratti la differenza tra l’ idea e l’ azione. Non l’ ho mai detto a lei, ma tante volte mi sono chiesto ammirato : “ ma Amelia, chi te lo fa fare ? “.

Un altro impegno volontario e gratuito che Amelia si era accollato, sicuramente il più nobile e meritevole, era quello di curare nel cimitero di Varollo le tombe di gente che non aveva più parenti o che comunque nessuno accudiva… e tante volte l’ ho trovata vicino alla tomba di una mia prozia che si chiamava Anna del cui decoro e pulizia si era fatta carico Amelia e quando ho portato n piccola croce di acciaio con una targa di alluminio con il nome e le date di nascita e di morte di questa mia lontana parente, ne fu immensamente felice.

Ad Amelia piacevano tanto i bambini, prima i figli che ha allevato con amore, poi i nipotini che ha accudito con altrettanta dedizione ed amore, una nonna a tutti gli effetti che mancherà sicuramente a loro ma che possono ricordare con legittimo orgoglio e con tanta riconoscenza.

Era un amante dei gatti che curava con amore e loro si erano talmente affezionati a lei che la seguivano ovunque , quando arrivavo alla famiglia cooperativa e vedevo dei gatti fuori che aspettavano pazienti, allora capivo che la signora Amelia era dentro a fare la spesa.

Conservo un bel album fotografico che la ritrae con i vari nipotini e di tanto in tanto per ritrovare serenità sfoglio queste belle immagini, ed è come se l’ Amelia mi venisse ancora incontro con il suo abito lungo un bimbo in braccio ed il sorriso sulle labbra.

Amelia aveva una straordinaria dote, sapeva riconoscere immediatamente ed aiutare il prossimo che ne aveva bisogno, come fece con il bambino bielorusso che ospito nel 1997 per un mese a casa sua aderendo al progetto “ amici di Chernobyl “ e come ha fatto per anni con Widad la ragazzina marocchina che veniva dalla val Camonica a guadagnarsi la vita ed i soldi per studiare vendendo abbigliamento e biancheria e che ora il destino e forse anche l’ intercessione sua e della mia amata Adelia hanno voluto che si fermasse a vivere con me, come una samaritana che si è fermata ad alleviare le mie difficoltà dovute ai miei handicapp, come uno scricciolo portato dal vento impetuoso di Dio che Amelia chiamava Gesù Cristo e Widad chiama Allah.

 

 

 

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Zio Tom

( Conter Giulio)

 

 

Nella piccola biblioteca della nostra scuola, tra i volumi a disposizione ce n’ era uno che si intitolava La capanna dello zio Tom di Harriet Elizabeth Beecher Stowe, una attivista antischiavista americana, che raccontava di uno schiavo negro che il suo padrone aveva ribattezzato Tom, la sua storia nella sua capanna.

Il racconto era corredato da dei disegni e quello della copertina assomigliava moltissimo al personaggio che ora vado a descrivere.

Si chiamava Conter Giulio ed abitava al castello di Zoccolo,che allora era ancora abitabile in parte.

Giulio non era sposato ed abitava con il vecchio padre e la sorella Irma che era sposata con un uomo di Napoli capitato qui subito dopo la guerra, si chiamava Luminosi Giuseppe, ma questa è un'altra storia che riprenderò in seguito.

Giulio Conter faceva di professione l’ imbianchino per la gente locale che doveva ritinteggiare le pareti domestiche, o doveva rinfrescare i nomi e le date sui monumenti funebri , faceva qualche altro lavoretto per il comune . Giulio era un uomo che leggeva molto, specie libri storici ed antichi ed aveva una buona cultura generale in modo particolare sulla storia dell’ arte dei monumenti antichi della nostra zona.

Anche per Giulio vale il saggio proverbio popolare “ nessuno è profeta in patria “ ma non solo non venne cresciuto per quanto diceva e raccontava dei libri antichi che aveva letto, ma veniva pure deriso da questa accozzaglia di ignoranti, che lo guardavano dall’ alto in basso dei loro trattori , delle loro goslden e dei loro soldi. Quando Giulio tentava di intavolare un ragionamento e si accingeva a raccontare un episodio della vita dei nostri antenati, era immediatamente interrotto dalle risate sarcastiche di questi geni della storia, di questi ingegneri ed architetti delle stronzate, incapaci di tenere un discorso in italiano ma bravi a deridere chi ne sapeva più di loro.

Questo atteggiamento arrogante ed ignorante non mi meraviglia affatto, è infatti il classico modo degli ignoranti che fanno un partito per avere la forza dei numeri e far tacere la ragione, neppure il Fascismo che pure era un regime dittatoriale si è mai comportato in modo così rozzo e grezzo nei confronti della cultura, anzi l’ ha sempre protetta e valorizzata.

Trascorsi alcuni anni anche la zona abitabile del castl Zoccolo venne dichiarata pericolante e fatta evacuare, allora si era pensato di dare a Giulio un alloggio ITEA a Varollo ma stranamente lui rifiutò e a nulla valsero i miei tentativi e quelli del sindaco Filippi per convincerlo, se ne andò invece a Bologna ospite della sorella Irma e dei nipoti.

Non disse mai i veri motivi del suo rifiuto di restare in questa comunità, ma forse non serve indagare tanto per capirne la giusta ragione.

Morì a Bologna il….

 

 

 

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Conter Fabio

 

 

(Ciari * 13. 10. 1914 + 30. 09. 1980 )

 

Uno dei componenti il Coro parrocchiale di Livo precedente il Concilio Vaticano 2 che ricordo con tanta simpatia è il signor Fabio Conter della famiglia dei Ciari che abitava a Livo in una casa alla quale si accedeva dalla strada principale tramite un vicoletto stretto a pieno di curve. La sua casa era una vera e propria casa rustica con molte parti in legno ed abitata da altre famiglie. Lui abitava in un appartamento sempre lindo assieme alla sorella Lina con la quale condivideva la vita ed il lavoro.

Fabio era agricoltore ed allevatore attento al mutare dei tempi ed alle soluzioni che venivano proposte.

Ricordo che a quei tempi per combattere il flagello della grandine che tutti gli anni perseguitava a zone alterne i frutteti provocando dei danni gravissimi, c’ erano due antidoti che parevano efficaci : il suono delle campane ed i razzi antigrandine.

I razzi anti grandine erano dei veri e propri missili terra aria con testate esplosive da 1 kg. di esplosivo al plastico, erano lanciati in aria da apposite rampe una delle quali era situata nel piazzale del vecchio magazzino delle mele CAM vicino a casa mia, altri erano sparsi in vari punti della campagna. Il deposito e la gestione di questi missili era stata affidata ad i VV.FF del luogo. Quando il tempo si faceva minaccioso e si avvicinava un temporale allora si mettevano in azione le batterie di missili antigrandine che partivano sibilando verso il cuore del temporale, sparivano alla vista in un baleno e poco dopo si poteva vedere in cielo tra le nubi una vampata seguita poi da una forte esplosione, il razzo era arrivato a destinazione e si sperava che lo spostamento d’ aria dello scoppio ed il propagarsi delle onde sonore riuscissero a disintegrare in piccoli innocui granellini la grandine, a terra ricadevano le alette direzionali del missile che erano di plastica color arancio. Era un operazione estremamente pericolosa e rischiosa tant’è vero che ad Ala nel basso Trentino un razzo ricadde sopra un deposito esplodendo e ferendo a morte alcuni addetti. Vi furono anche dei furti di testate esplosive da parte di nuclei terroristici, ma che pose definitivamente fine all’ uso dei razzi fu l’ avvento dello Ioduro d’ argento importato da Israele che con un azione chimica scioglieva i chicchi di grandine .

Come al solito c’era chi era favorevole e chi era contrario a questo sistema, ricordo un animata e partecipata riunione do il signor Fabio si scagliò contro l’ uso della nuova tecnologia dicendo : - Che “ oio duro o oio molo po’, lajame i nossi razzi ! “.

Fabio nel coro cantava da basso aveva una voce profonda e nasale ma era molto intonato e preciso nelle battute. Quando c’era la Via Crucis durante la quaresima no “ muli “ come ci chiamava il buon Fabio, si andava dietro l’ altare dove c’ era il coro e ad ogni Stazione si cantava lo Stabat Mater…

Fabio teneva molto al paese di Livo ed alle sue tradizioni e quando arrivava l’ 11 novembre con la sagra paesana di S’ Martino ed il vecchio coro era stato ormai sostituito dai giovani, dopo aver cantato alle cerimonie liturgiche per la festa di S. Martino, Fabio offriva da bere a tutto il coro giovanile.

 

 

 

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Alessandri Luigino

(peluchjan)

 

 

Luigino l’ ho conosciuto quando dopo aver finito gli studi ho incominciato a lavorare per la Ditta IRIS che stava eseguendo la messa in opera del primo impianto di irrigazione a pioggia dcel CC di Livo e nel suo estimo.

Era l’ anno 1968, mio padre era gravemente malato di cancro e durante l’ estate si stava aggravando a vista d’ occhio, fino a quando il Professor Enrico Nardelli non propose di farlo ricoverare al policlinico universitario di Padova per tentare un intervento chirurgico risolutore.

Allora io fui assunto dalla ditta IRIS come manovale comune ( picco e pala ) per intendersi ed una paga di basso livello, mi ricordo le vesciche sulle mani, il sole che bruciava la pelle, la sete e la fatica.

Io ero ancora un adolescente e gracile per natura, ma avevo tanta buona volontà e poi avevo tanto bisogno di guadagnare del denaro per la famiglia in grande difficoltà. Così mentre molti giovani della mia età erano in piazza a contestare il capitalismo e le ingiustizie del mondo con l’ effigie del Che stampigliata sulla maglietta e sulle bandiere rosse, io ero in un fosso a scavare per poi poter mettere in posa le tubazioni in acciaio, con buona pace di tutti quei contestatori la cui rivoluzione doveva liberare i popoli dalle schiavitù dell’ ignoranza, dello sfruttamento, del razzismo, e mettiamoci pure anche il lavoro minorile… tutti questi signori che ora sono la nuova borghesia ignorante per essere stata promossa a calci in culo con il 6 politico e quindi incapace di portare sul mercato del lavoro idee, innovazioni, nuove proposte culturali e nuovi modelli sociali, tutti questi raffrontati al socialismo vero e genuino di Alessanri Luigino, sono da me paragonati a meno di una MERDA!

Luigino mi vide un giorno tribolare in fosso, con la melma fino ai polpacci e si meravigliò molto che mi avessero assegnato un simile lavoro, io non avevo il coraggio di lamentarmi perché sapevo che se l’ avessi fatto avrei perso di brutto il posto di lavoro.

Luigino che aveva molta più esperienza di me in campo lavorativo, capì il problema, e se ne fece carico e lo risolse a modo suo. Lui lavorava a rivestire le saldature con il catrame bollente per renderle impermeabili all’ acqua ed evitare che si ossidassero, chiese al capocantiere un aiutante che gli desse una mano a trasportare il catrame bollente ed a preparargli le fasce di lana di vetro e chiese esplicitamente che io fossi il suo aiutante. Il capo acconsentì e dal lavoro faticoso dei fossi umidi mi ritrovai a fare un lavoro un po’ più pericoloso, ma decisamente meno faticoso.

Luigino mi raccontava che quando lavorava in Germania aveva una morosa che gli voleva bene ma era di religione protestante ed i famigliari di Luigino si opposero al matrimonio e questa aberrante imposizione gli restò come un ricordo negativo, come una scelta che non aveva capito e non era mai riuscito a digerire, per tutta la vita.

Luigino era molto politicizzato perché era stato emigrante ed aveva assorbito le idee dei popoli che aveva conosciuto, era di fede socialista ma non disdegnava di fare una qualche scappatella, al bisogno, verso altre formazioni anche di destra… almeno a parole ed a promesse di voto.

Il vino era la bevanda preferita da Luigino e non ne faceva mistero, anche per le numerose sbornie nei fine settimana, poi quando tornava al lavoro diceva sempre: “ – che venga notte il giorno di paga ! “

Un giorno, alcuni anni dopo, andai a Livo al Bar Zanotelli, era di domenica pomeriggio e vidi avvicinandomi un numeroso crocchio di gente che fuori dal locale ascoltava una musica o un canto che proveniva da dentro: era il Luigino che assieme a Bondì Mario detto Berlinguer cantavano a squarciagola canti fascisti con le parole elaborate come quello dei sommergibilisti che ora suonava così :

“ – è così che l’ vive l’ italian con un etto e mezz de pan e na cipolla n’ man ! – “

Questo è stato Luigino, un uomo veramente libero da vecchi e nuovi pensieri che hanno distorto menti e rovinato l’ esistenza a molti, ed io lo paragono sempre al suonatore Jones nello Spoon River del grande Fabrizio de Andrè.

Ciao Luis !

 

 

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Zanotelli Severino e Maria

 

 

( Moro dei Perini )

 

Il luogo dove ci s incontrava di frequente ed ho conosciuto ed imparato ad apprezzare il signor Severino Zanotelli detto Moro dei Perini, era la vigna in località Zura quelle scarpate ripide che scendono verso il lago di S. Giustina, dove mio padre aveva una vigna che confinava con la proprietà del signor Severino.

In quei siti irti dove si faticava a mantenere l’ equilibrio che erano al limite del bosco di acacie che scendeva ripidissimo verso lo strapiombo dove60 anni fa scorreva il fiume Noce e che ora è diventato un invaso artificiale per la produzione di energia elettrica, in quelle coste scoscese e bruciate dal sole, si produceva quella poca quantità di vino che serviva per il fabbisogno famigliare, erano uve di poco pregio e raramente riuscivano ad avere un contenuto zuccherino sufficiente per poter produrre un vino con un certo tasso alcoolico, c’ era un detto allora che definiva in modo inequivocabile la qualità e la bontà dei vini prodotti a Zura : si diceva che per poterlo bere bisognava avere almeno tre amici accanto : in due che ti tenevano stretto ed uno che te lo faceva ber a forza… Ma allora nessuno si lamentava e tutti bevevano il proprio calice amaro di vino e di povertà.

Nelle vigne era consuetudine di molti avere a disposizione un bait, di queste specie di italiche Dacie ne ho ampiamente parlato e descritto il loro scopo principale e gli scopi secondari , eros compreso. Mi piace però descrivere il bait del signor Severino che era un capolavoro di ingegno e di ingegneria idraulica.

Era situato vicino al nostro sito e si entrava da una porta sempre aperta che guardava verso la sorgente del Noce, era una costruzione di pochi metri quadri ed il suo scopo principale era quello di raccogliere l’ acqua piovana che cadeva sul tetto che tramite dei canali di scolo veniva convogliata in una grande vasca in cemento che serviva come serbatoio e veniva poi usata per sciogliere il rame che serviva per irrorare le viti per la peronospora ed altri crittogami e parassiti della vite. Era un sistema ingegnoso che aveva un troppo pieno nella vasca che impediva la tracimazione e deviava l’ acqua nel normale scarico.

Erano piccoli capolavori dell’ ingegno umano che permettevano di ripararsi dalla pioggia improvvida dei temporali estivi e consentivano di risparmiare tanta fatica per il trasporto dell’ acqua fino da casa o dal più vicino lech, cose adesso impensabili che fanno quasi tenerezza ma che ai miei tempi erano considerate un lusso. La primavera era il tempo nel quale era molto più probabile che per pura coincidenza ci si trovasse assieme al signor Severino nei rispettivi vigneti alla potatura delle viti che era un operazione molto delicata e precisa e bisognava avere una esperienza notevole ereditata dai vecchi per poterla esercitare senza fare danni, da una perfetta potatura infatti, derivava poi in autunno un ottimo risultato quantitativo di uva prodotta, la qualità la dava la stagione, se era una stagione calda ed asciutta la qualità del mosto era buona altrimenti ci volevano le classiche tre persone…

Bi sognava poi “ conciar su “ il vigneto ossia rimettere i pali consumati dal tempo, rifare le pergole con il filo di ferro, rifare qualche muretto che le piogge autunnali avevano demolito, erano giorni , settimane di lavoro per rimettere a nuovo il vigneto per poter avere in autunno il vino che avrebbe dovuto bastare per l’ intero anno. Ci si incontrava con “ l’ Moro “ quando si aveva la coincidenza di essere alla stessa “ strea “ ovvero allo stesso filare o pergolato ed allora si fermava a fare due parole con mio padre, il signor Severino era un uomo molto calmo e molto ragionevole, era , per dirlo con un termine che è tutto un programma, un uomo d’ altri tempi, con i suoi lunghi baffi, magro e con la carnagione scura, era una dolcezza per le orecchie sentirlo discutere con mio padre dei problemi del paese, della famiglia delle gioie e dei dolori che la vita aveva riservato loro… Mai una parola di troppo, mai che si fosse sparlato o fatto delle illazioni sul prossimo, erano persone di una integrità 3 lealtà mentali che mai si sarebbero abbassati a simili angherie se pur verbali, non ne avevano il tempo e meno che meno la voglia, avevano altro da fare, il signor Severino aveva sposato una donna di nome Maria e da lei aveva avuto due figli Rita e Paolo tutti e due più giovani di me, abitava a Livo nella vecchia casa dei “ Perini “ una delle ultime case della Villa, era un agricoltore ma per arrotondare faceva anche qualche lavoro da muratore

Dopo uscito dal collegio dei frati di Villazzano, ben ferrato nelle materie religiose imparate in convento e con il torcicollo politico verso lì estrema destra di Almirante, i preti mi vollero come membro di vari Consigli pastorali parrocchiali, da don Rosani a don Menapace, in quella occasione ebbi il piacere di conoscere ed apprezzare le doti e la irremovibile fede della signora Maria che ho sempre considerato una persona con tanto buon senso e tanta umiltà , abbiamo insieme condiviso molti anni della mia acerba e ribelle giovinezza, volta a contestare tutto quello che aveva un colore che assomigliasse al rosso, giorni, belli, un epoca vera senza le ipocrisie dei nostri tempi e non rimpiango minimamente tutte le scelte che allora ho fatto, le mie posizioni radicali sulle regole e sulla morale, che erano le posizioni di tanti all’ interno del Consiglio tra le quali c’ era sempre la saggia Maria.

Di questo mio modo di pensare e di vivere, di queste mie scelte controcorrente, di questo mio animo ribelle ed anticonformista, oggi ne vado fiero ed orgoglioso ed osservo con occhio cinico ed indifferente il fallimento di tante altre visioni della vita.

 

 

 

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I Carabinieri

 

 

( aneddoto raccontato da Zanotelli Paolo fu Severino )

 

Era il tempo della vendemmia e come per la mietitura del grano tutto il nucleo famigliare al completo era impegnato alla vendemmia, pure Paolo Zanotelli ragazzino della quinta classe delle scuole elementari di Varollo finalmente nuove e riunite, che aveva portato al maestro Lucchini Roberto la richiesta di giustificazione dell’ assenza firmata dai genitori. Il lavoro dei campi era considerato sacro, Qualcuno lo aveva decretato a suo tempo e ne aveva dato l’ esempio con la battaglia del grano.

I tempi erano cambiati ma l’ Italia stentava ancora decollare con un autentica economia agricola organizzata e razionale, ognuno pensava al proprio orticello o al proprio vigneto.

In casa Zanotelli fervevano i preparativi per la vendemmia del giorno seguente, ci si era accertati che il tinach non perdesse, che il congial e le ceste fossero pronte, mancava da verificare che il moderno carro dalle ruote di gomma fosse efficiente. Ed invece il carro aveva una ruota bucata ed allora non c’erano dei gommisti che in breve tempo lo potessero riparare.

A togliere tutti dall’ imbarazzo ci pensò il fratello del padre di Paolo, Cornelio, che si offrì di prestare il proprio carro per la giornata della vendemmia ed il problema pareva risolto.

Era da poco uscita una legge dello Stato che obbligava tutti i possessori di carri agricoli anche a trazione animale, a munirsi di targa di riconoscimento del carro con relativa tassa di circolazione.

Nessuno fece caso che il carro del signor Cornelio ne era sprovvisto, perche per accedere ai suoi poderi agricoli lui transitava esclusivamente per strade interpoderali dove il controllo era inesistente.

La famiglia Zanotelli al completo partì da Livo di buon mattino e ai recò a Zura per la vendemmia portando con loro pure i ragazzini ed il pranzo per il mezzogiorno perché la vendemmia non veniva mai interrotta, si iniziava al mattino e si proseguiva fino a termine lavori. Qui mi è d’ obbligo descrivere il rito della vendemmia, era un lavoro massacrante di quelli che oggi si definiscono usuranti e che meritano una pensione anticipata, le donne raccoglievano i grappoli nei cesti togliendoli con le mano o tagliando il picciolo con la “ podina “ che era un piccolo falcetto fatto a mezzaluna, quando le ceste erano piene venivano versate dentro il “ congial “ che era un contenitore in legno simile ad una grande gerla, che poi veniva portato dai maschi della famiglia fino alla strada statale SS 42 che passava proprio sopra le nostre teste, dove ad attendere c’ era il carro con le mucche e sopra il carro un grande tino di legno che raccoglieva la preziosa uva. Era il primo dopoguerra e mentre il ragazzino di quinta elementare arrivava in cima al faticoso pendio che portava alla strada principale con il congial sulle spalle, sfigurato dalla fatica, si fermavano le macchine dei turisti germanici che gli davano un marco per poterlo fotografare in quello stato, stupiti ed allo stesso tempo meravigliati del lavoro che noi italiani eravamo costretti ancora fare, mentre loro che come noi avevano perso la guerra uscendo demoliti dal conflitto, si potevano permettere già allora le ferie in Italia, mentre da noi a potersi permettere lussuose ferie a spese dei contribuenti erano solo i politici ed i dipendenti dello Stato.

Finita la vendemmia dopo una epocale giornata di duro lavoro, ci si portava tutti, armi e bagagli, verso lo stradone e dopo aver caricato sul carro tutti gli attrezzi ragazzi e donne comprese, il carro con la vendemmia della famiglia Zanotelli si avviò lentamente verso Livo. Al bivio di Scanna appena girata la curva a gomito c’ erano i Carabinieri di Rumo con la vecchia Jepp residuato bellico lasciato in Italia dagli americani, che facevano un normale posto di blocco o di controllo come di dice ora.

Alla vista dei militi il signor Severino salutò con deferenza togliendosi il cappello, i Carabinieri ricambiarono il saluto, ma seguendo il carro con lo sguardo notarono che era sprovvisto della famosa targa identificativa. Il carro che procedeva molto lento in quel tratto di strada in salita, venne inseguito dalla jepp dei CC che fatta una decina di metri furono, classicamente, davanti ai buoi. Il titolare chiese spiegazioni di tanto zelo agli ordini e gli fecero notare che il carro era sprovvisto della targa.

Il signor Severino non tentò neppure di mediare e se ne guardò bene dal dire che il carro gli era stato prestato da suo fratello in quanto il suo aveva una ruota bucata, chiese a quanto ammontasse la multa che avrebbe dovuto pagare, gli fu risposto che doveva pagare £. 300- . Severino non aveva disposizione una simile soma dei denaro,non gli serviva per il lavoro che andava facendo e non c’’ era niente da poter acquistare nel ripido vigneto di Zura. Dovette il giorno seguente recarsi alla Cassa rurale, prelevare la somma richiesta e portarla di persona alla caserma dei carabinieri di Rumo. La contravvenzione, termine che detto in questo modo sembra faccia meno arrabbiare, bisogna pensare che comunque era di £ 300- e che a quei tempi era una cifra notevole, considerato anche il fatto che allora tutti vivevamo nella povertà più assoluta e tutto quello che serviva per il sostentamento delle famigli proveniva esclusivamente dall’ agricoltura.

Visto che era mancato da scuola, il maestro ordina al ragazzini di descrivere in un tema la vendemmia, lui descrive minuziosamente tutta la giornata di lavoro e non dimentica di raccontare l’ episodio dei Carabinieri comprensivo di sanzione, usando parole molto critiche e di disappunto nei confronti del’ Arma ed in particolare dei Carabinieri della stazione di Rumo rei a suo dire di una clamorosa ingiustizia e non solo aveva anche aggiunto nel suo scritto che se i carabinieri impiegassero più il loro tempo perseguire i ladri, i truffatori ed i delinquenti, avrebbero compiuto un migliore servizio allo stato molto più remunerativo che controllare un misero carro agricolo se avesse o meno la targa di riconoscimento che arrivati a questo punto era costata a peso d’ oro.

Dopo aver letto il tema il maestro oltre a redarguire severamente il ragazzo ed accusarlo di vilipendio all’ Arma, affibbiò al suo tema un 3 - - - e chiamò sua madre ad un colloquio da lui per chiarire la vicenda , la madre a sua volta dovette redarguire il figlio de insegnargli che i CC sono quelli che fanno rispettare le leggi, che tutelano la nostra sicurezza, che rappresentano la Nazione.

 

Sono passati più di 40 anni dall’ episodio narrato, ed alla SCAF di Livo è tempo di conferimento delle preziose e rinomate mele Golden Melinda, ed alla pesa si alternano i grossi trattori con attaccato il carica pallets carichi di cassoni, pesato un numero di socio avanti un altro e tutti scalpitano per poter scaricare e tornarsene a casa.

Alla pesa c’è il signor Zanotelli Paolo che controlla e scarica i cassoni. La fila dei trattori si allunga fino alla strada provinciale creando delle lunghe colonne.

Arrivano i Carabinieri di Rumo che entrano nell’ area del magazzino per controllare se qualche trattore abbia una freccia che non va, o se non abbia le protezioni in regola o altre piccole infrazioni al codice stradale.

Fanno il loro lavoro, il lavoro che il Ministero degli interni ha comandato loro, in altre parole fanno quello che quelli che noi abbiamo democraticamente eletto gli dicono di fare con le leggi che partoriscono in parlamento.

Dopo un poco al signor Paolo gli viene in mente l’ episodio occorso durante la vendemmia di molti anni fa che ancora si ricordava per brutti voti avuti nel suo tema, per la ramanzina avuta dalla madre e per le 300 lire di multa spese da suo padre.

Allora si avvicina al Maresciallo e gli chiede se gli può raccontare un aneddoto sull’ Arma , sempre se non si fossero offesi, il Maresciallo acconsente e Paolo racconta l’ episodio del carro senza targa e delle 300 lire di multa comminate a suo padre…

I militi rimangono ancora qualche minuto e poi risalgono in macchina e tornano in caserma.

 

Fin qui la storia e potrei terminare qui… ma mi và di passare alla matematica ed aggiungere una piccola equazione :

 

I tedeschi che tornano vincitori con i loro marchi .

Noi che fatichiamo e i CC ci multano pure per leggi fatte a Roma da un parlamento fatto anche di ladri e corrotti.

Il maestro che ti punisce e ti umilia di fronte a tua madre.

40 anni dopo i CC che se ne vanno per la vergogna.

 

TOTALE

 

Siamo un popolo di zingari…

 

 

 

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Rina Depetris

 

( la Rina di Orsi )

 

Il solo pensare a questa donna, alla sua immensa bontà alla sua sincera generosità, alla sua nobiltà di pensiero alla sua sincera solidarietà, mai finalizzata ad avere un benché minimo ritorno, ogni volta che penso a Lei mi pervade un senso di serenità nell’ anima e quando nelle mie giornate affiora la tristezza o la nostalgia di persone care che il destino mi ha tolto, allora, volutamente e con insistenza penso a Rina e lei che mi ha sempre voluto bene, mi viene incontro, con il suo sorriso bonario, con la sua espressione dolce, tranquilla, mai una volta che l’ avessi vista arrabbiata odi cattivo umore.

Ed è la Rina che incontravo nei campi o per le vie del borgo che ritorna sorridente con il rastrello sulla spalla o il falcetto sotto il braccio, è la Rina che si fermava a darti una mano quando ti trovavi con il fieno secco ancora sparso per il prato e dal Pin arrivavano minacciosi i primi brontolii di un imminente temporale in arrivo. Ed allora si affrettava con il rastrello a far “ antane “ rapida come sapeva essere lei con la precisione e l’ esperienza di anni di duro lavoro nei campi. E non mi stancherò mai di elogiare questa forma spontanea e vera di solidarietà, quando tutti arano consapevoli di non essere un isola, di aver bisogno l’ uno dell’ altro, del valore morale e sociale della condivisione, delle gioie e dei dolori e non sembri una cosa d’ altri tempi, ormai inutile e superata,è una forma di vita collettiva della quale il genere umano non può fare a meno, è nel proprio DNA il dover socializzare, il dover condividere…

Un tempo tutto questo avveniva nei campi, sulle panchine vicino alle case nelle lunghe serate estive quando era diffusi il “ filò “ una forma di telegiornale di quel tempo con annessi approfondimenti e non è una cosa superata, basti pensare ai moderni sociaal network, dove una delle opzioni maggiormente usate è la condivisione.

E’ la fede autentica e sincera della Rina che voglio ricordare e che a me manca… quella fede che sapeva superare tutti gli ostacoli, tutti i dubbi, tutti i perché, che non metteva nulla in discussione, una fede senza se e senza ma. Ed aggrappata a quella fede nella Madonna di Lourdes corse come primo soccorso, a prendere la bottiglietta dell’ acqua miracolosa ed a bagnare il capo di Giovanni Agisti caduto mentre le stava riparando il tetto, Giovanni guarì nonostante le numerose fratture e ferite riportate nella rovinosa caduta. E’ la Rina che suona la campanella della nostra chiesetta, che mette i fiori freschi all’ altare DELL’ Immacolata concezione, componendo sempre nuovi giochi di fiori, perché una fede vera non deve essere una forma statica d venerazione fatta di riti che si ripetono e di frasi fatte, ma deve essere una fede dinamica che guarda avanti a noi per seguire l’ attualità sempre nuova di quella Croce.

Rina nella sua semplicità rappresentava tutto quel rinnovamento che neppure i teologi del Concilio vaticano ll° hanno saputo interpretare con tanta eloquente semplicità di fede vissuta, Rina ci era riuscita prima di loro.

Rina non era sposata ma il ruolo di madre o ha saputo esercitare comunque perché ha fatto da mamma ad una sua nipotina che si chiama Gabriella e che ora ha una vera e propria venerazione per la zia Rina, per tutto quello che le ha insegnato e per la fede profonda e l’ amore per il prossimo che le ha trasmesso.

Quando eravamo ragazzini, Rina ci permetteva di giocare sulla sua soffitta che era un vero e proprio meandro di nascondigli a di piccole sorprese e avanti a rincorrersi sopra il fieno profumato a giocare a nascondino o a rincorrere i gattini che avevano preso possesso di una zona profonda del fienile.

Uscivamo la sera stanchi da morire ed allora la Rina ci dava un bicchiere di caffè da orzo e un dado di zucchero, che bei tempi erano, però guai a fumare “ videzze “ severamente proibito per via del pericolo degli incendi, quelle si andavano a fumare la sera nel bosco per stupire le ragazzine e si ritornava con la lingua arrossata come se si fossero mangiati dei semi di peperoncino.

 

 

 

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Agosti Primo

( Trapeni 2°WW )
Primo era il primo figlio di Arcangelo e di Emilia era della classe 1920 era un uomo alto e magro, era un grande appassionato di sport specie il ciclismo ma anche altri sport, leggeva molto ed era molto informato sulle vicende politiche nazionali ed internazionali.
Non era sposato, anche perché al ritorno dalla guerra gli venne diagnosticata una grave forma di diabete che aveva contratto nel periodo bellico. Viveva con il fratello Egildo anche lui celibe e condividevano la vita assieme compreso il lavoro nei campi.
durante il secondo conflitto mondiale , Primo venne arruolato nella fanteria italiana Divisione Messina impegnata nei Balcani.
Dopo l' 8 settembre 1943 accettò di combattere con le truppe del Regno del sud al loro fianco e venne mandato ad operare presso Montecassino la celebre abbazia benedettina rasa al suolo dai bombardieri americani e teatro poi di furiosi e cruenti combattimenti specie tra le truppe della legione straniera “ arruolata dagli americani che comprendeva combattenti di tutto il mondo e di tutte le razze, polacchi, marocchini, italiani, francesi, ebrei, tutti coalizzati contro il comune nemico tedesco. Primo fu fortunato ed uscì vivo da quel mattatoio che fu Montecassino ma tornò a casa malato con una grave forma di diabete che gli complicò la vita fino alla fine. Conosceva molto bene le varie tipologie di armamento leggero degli americani, tutte armi automatiche molto efficaci ed anche lui , come mio padre, era convinto assertore che a liberare l’ Italia dal nazismo e dal fascismo poco avesse contribuito il movimento partigiano, ma decisivo sia stato l’ esercito alleato con i suoi carri armati, i suoi bombardieri ed i suoi soldati bene armati e ben nutriti, sarà un opinione, ma la ritengo molto autorevole.
Fatto importante quanto indicativo del comportamento delle due nazioni alle quali Primo rese il servizio militare di guerra, quando lui provò ad avere un risarcimento per la sua malattia contratta durante la guerra, provò a rivolgersi alle autorità italiane le quali gli fecero notare che aveva combattuto anche per l’ Italia ma poi si era dato volontario combattendo a fianco delle truppe statunitensi a Montecassino e non gli riconobbero lo stato di invalidità come conseguenza del servizio prestato a questa Patria, dal canto loro gli americani che sono dei filibustieri per loro natura si appellarono allo stesso principio giuridico ed anche loro gli negarono la pensione. Povero Primo, meglio avrebbe fatto a rifiutarsi di collaborare e combattere per gli yankee come fece mio padre, almeno avrebbe evitato quella umiliante beffa…

 

Acura di Bruno Agosti


 

 

 

 

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Filippi Ottone

 

( Ottorino *18. 02.1922 + 31. 10. 2008–

2° WW)

 

Un'altra persona che era un leale e caro amico di mio padre, era Ottorino Filippi , mio padre mi raccontava che fin ra ragazzi c’ era tra i due una profonda amicizia che si era concretizzata poi anche in un comune impegno sociale nelle varie entità costituite dalle istituzioni alle associazioni locali. nella giovinezza quella era la generazione in cui il Duce riponeva tutte le sue ambizioni di vittoria nella guerra che da tempo lui immaginava, crescevano così con uno spirito ribelle e bellicoso fomentato dalla politica sociale che il fascismo proponeva ed incoraggiava.

La trasgressione come ribellione fine a se stessa e come motivo e voglia di distinguersi nella società anche con atti concreti come ad esempio quando si misero a scavare delle gallerie nel campo della Giuseppina Agosti dei Floriani, o come quando in età più adulta si unirono con altri giovani e fondarono la filodrammatica di Livo con recite che rievocavano fatti bellici della appena trascorsa guerra o anche i drammi di SShakespear o altri autori classici.

Così poi si ritrovarono sempre con lo stesso spirito cameratesco con tanta buona volontà, lungimiranza e tanto ingegno, si trovarono fianco a fianco nelle istituzioni per dare il loro gratuito contributo alla ricostruzione di questo Comune e di questa Nazione.

E ci erano quasi riusciti con il famoso BOOM ECONOMICO degli anni 60 quando un Italia ancora onesta e pulita cercava di lavorare per ricostruire il paese uscito demolito dalla guerra, riportando l’ Italia al livello degli altri grandi paesi europei e mondiali con un alto export un design che solo il genio latino sapeva fare. Poi arrivò quella generazione di politici ai quali cominciarono ad appiccicarsi il denaro pubblico alle mani e questo succede tutt’ ora con grave danno economico per tutta la nazione.

E’ davanti a questo sfascio generale e collettivo, che persone come Filippi Ottone vanno rivalutate e citate ad esempio alle nuove generazioni che hanno trovato il tutto cotto ed ora credono che tutto gli sia dovuto e che amministrare non sia ne più ne meno un modo per far soldi senza avere nessuna responsabilità.

Faccio un esempio, alla fine del suo mandato di tre legislature, un Sindaco di un paesino come il nostro avrà percepito una somma di stipendi pari a 300 mila euro e questo sia che abbia amministrato bene o che abbia amministrato male.

Ho avuto il piacere ed il grande onore di conoscere personalmente il signor Ottorino, e posso testimoniare di aver conosciuto un uomo integerrimo, un grande lavoratore con uno spiccato senso della solidarietà umana e dedizione gratuita e filantropica nei confronti della nostra Comunità, una mente progressista e perciò aperta alle innovazioni tecnologiche nel campo dell’ agricoltura, fu tra i primi a possedere il trattore agricolo che sostituì il cavallo, allora quelli che possedevano il trattore lo mettevano a diposizione per fare dei noli a colore che ne erano sprovvisti, così faceva Ottorino, con semplicità, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ho avuto occasione di apprezzare le doti di amministratore capace, responsabile ed onesto, nel CDA della Famiglia cooperativa di Varollo dove ero stato nominato consigliere assieme ad altri tra cui il signor Filippi Ottone .

Aveva sposato una donna che si chiama Agosti Ida e ebbero due figli Fabrizio e Tiziana .

Soldato di leva in attesa di essere inviato in uno dei tanti fronti dove il Regio asercito era impegnato nella seconda guerra mondiale, con l’ avvento dell’ 8 settembre 1943, il signor Ottorino si trovava nelle caserme di San Candido in val Pusteria in attesa di ordini assieme a centinaia di altri alpini provenienti dai vari fronti di guerra.

Durante una libera uscita si imbatté il un gruppo di alpini inquadrati e bene armati che stavano sostando per una breve pausa di riposo. Il groppo era comandato da un ufficiale anziano, un tipo alto ed asciutto con una barbetta alpina che propose ad Ottorino di aggregarsi a loro che sarebbero andati verso sud, molto probabilmente a rafforzare in seguito le schiere dei soldati della repubblica Sociale Italiana che si sarebbe costituita di lì a poco.

L’ ufficiale aggiunse come garanzia di sicurezza e di serietà della proposta, che lui i suoi alpini li aveva riportati a casa dalla Russia e che ora non avrebbe consentito ad alcuno di fare loro del male, pretese inoltre che portasse con se le armi in dotazione. Ottorino tornò in caserma per prendere le armi, ma gli ufficiali lo trattennero e quando fu nuovamente libero il Gruppo di alpini era già partito verso sud.

Pochi giorni dopo arrivò un gruppo di tedeschi che intimarono loro di lasciare le armi, li caricarono sui vagoni bestiame dei treni e li deportarono a migliaia in Germania, con lo stato di internati traditori della causa comune.

Ottroino venne mandato nell’ est della Germania in una località vicino a Lipsia presso una famiglia di agricoltori che aveva già dato tre figli alla Patria immolati per la grandezza della Germania e del terzo reich di Adolf Hitler.

Ottorino ritornò dalla prigionia, molto dimagrito per la fame patita e con un chiodo fisso nella mente : Perché gli Ufficiali italiani non furono in grado di gestire la situazione generata dall’ 8 settembre, permettendo così quel biblico esodo di migliaia di prigionieri verso la più umiliante delle detenzioni, privati della libertà e trattati alla stregua degli schiavi.

Nel corso della guerra, Ottorino ebbe come compagno d’ armi il signor Alessandri Adriano di Preghena, di almeno dieci anni più vecchio di lui, ma con una esperienza bellica eccezionale, basti considerare la sua partecipazione alle operazioni belliche del 1936 in A.O. che portarono alla nascita dell’ Impero Fascista e subito dopo la sua presenza nelle truppe alpine nella seconda guerra mondiale fino alla prigionia nei lager tedeschi dopo l’ 8 settembre 1943, aveva dato alla Patria 11 anni della propria gioventù.

 

Nel dopoguerra, ha fatto parte attiva dell’ Istituzione dei VV. FF. di Livo per anni prestando gratuitamente il suo tempo, il suo impegno e la sua professionalità. Ha patto parte del CDA della locale famiglia Cooperativa di Varollo reggendo per anni la presidenza.

E’ stato membro attivo del coro parrocchiale di Livo negli anni pre – conciliari fino all’ avvento di don Rosani Michele che ha sciolto tutte quelle forme di culto che a suo parere non erano in linea con i nuovi dettami della rinnovata chiesa post - conciliare, demolendo anche quei simboli di una fede magari tradizionalista ma vera, come il vecchio ed artistico cimitero che circondava la chiesa parrocchiale di Varollo con le sue lapidi e le sue croci in stile tirolese che erano un vero e proprio monumento dell’ arte funebre dei secoli scorsi.

Tutto doveva essere più giovane, più dinamico in linea con le nuove direttive del concilio, le ragazzine poterono indossare abiti maschili come i pantaloni, e la Chiesa divenne sempre più secolarizzata perché pur di mantenere il proprio odieans era disposta a prostituirsi ed ogni tipo di nuova richiesta liberale e si finì per ammettere e giustificare tutto, passando in poco tempo da una Istituzione ortodossa e radicale ad una chiesa liberale e forse troppo lassista.

Per analizzare a distanza di 50 anni gli effetti del Concilio Vaticano 2° sulla chiesa e sulla società civile, basta dare un occhiata al degrado morale e civile che ha portato questo pensiero che avrebbe dovuto essere un motivo di crescita morale e solidale per portare a tutti una fede a misura d’ uomo ed un benessere sociale ampio e condiviso. Mi pare che non sia proprio così…

 

 

 

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Ravina Camillo

( Camillo dal Lela no w )

 

 

Dopo la morte di mio padre, se c’ è stata una persona che ci ha voluto bene e ci ha aiutato senza se e senza ma, è stato il signor Ravina Camillo.

Dietro a questo suo atteggiamento nobile e filantropico nei nostri confronti, c’è una grande ragione di fondo che supera ogni umano ostacolo o preconcetto.

È la profonda e sincera amicizia che intercorreva tra mio padre e Camillo, si può affermare senza ombra di essere smentiti da quanti li conobbero, che erano due corpi ed un unica anima. Camillo era un uomo buono e generoso per sua natura, un grande lavoratore con uno spiccato senso per l’ imprenditorialità e le innovazioni, forse avrebbe avuto bisogno di qualcuno che gli pianificasse ed organizzasse il lavoro, forse anche a lui è mancata una donna che lo avesse accudito e gli avesse dato affetto, forse…

Camillo era agricoltore ma si era messo anche ad allevare maiali che teneva nelle varie stalle di casa compresa quella caratteristica casetta tutta in pietre a secco che si incontra sulla strada per Caslir, l’ ultima casa dell’ isola.

Camillo vendeva i maiali ad un prezzo molto onesto ed aveva come macellaio ufficiale mio padre che nelle lunghe sere invernali lavorava la carne dei suini macellati per farne delle ottime lucaniche, mortandele,, cotechine , salami, coppe e pancette che il buon Camillo stivava nelle cantine che profumavano di buon vino che in casa Ravina non mancava mai.

Allora gli uomini erano gran bevitori di vino che era allora la bevanda alcolica principale che esisteva tra gli agricoltori e operai e Camillo non faceva eccezione ne mistero che un buon bicchiere gli piacesse.

Quando morì mio padre, non ebbe il coraggio di venire in casa tanto era grande il suo dolore per la perdita di un amico. Continuò anche dopo la morte di mio padre ad aiutarci, noi non avevamo a quel tempo il trattore e lui con il suo sametto ci irrorava le piante per la lotta ai parassiti, veniva la sera a portarci a casa il fieno seccato nei prati e l’ autunno ci consegnava la frutta matura al magazzino.

Mai che ci avesse chiesto denaro, ci chiedeva invece di aiutarlo a portare a casa il fieno e a governare i maialini. Molte volte andavamo a chiamarlo in casa perché ci aveva promesso di venire ad irrorarci le piante di buon ora al fresco del mattino, ma normalmente lo trovavamo ancora a letto che dormiva come un ghiro, allora lo svegliavamo anche perché c’ erano i maialini in rivolta che pretendevano il pasto mattutino, allora era una rincorrersi di ordini, tra una bestemmia ed un atra, bisognava scaldare l’ acqua con il bruciatore a gas e preparare in un grosso bidone il mangime da sciogliere, appena miscelato con l’ acqua tiepida il brodo era pronto, allora lui scendeva nella stalla per aprire le valvole e ci urlava di aprire la grossa valvola del bidone in fretta “ perché se no i me magna “. Da Camillo più che una casa era uno zoo con animali di ogni tipo, gente che andava e veniva i futuri cognati che erano terribili negli scherzi e nel farlo arrabbiare, il più fedele era Enzo il futuro marito di Rosina sua sorella.

Erano altri tempi. Erano tempi in cui per divertirsi bastava poco un bicchiere di vino una lucanica mangiata in cantina dove a volte i bicchieri non erano sufficienti… allora niente paura si prendeva un grosso imbuto di tappava con una patata i becco e poi lo si riempiva di vino e si beveva a turno come gli indiani e intanto ci si narrava le avventure ed i dispetti fatti in giornata.

Allora la gente era tutta alla stessa altezza finanziaria e culturale, pochi erano quelli che si distinguevano per aver frequentato le scuole superiori e molto spesso però difettavano della necessaria esperienza per poter competere con simili personaggi che ne sapevano una più del diavolo, quindi restavano giocoforza vittima della loro stessa ingenuità basata esclusivamente sulla teoria ed assente nella pratica.

Nonostante gli scherzi, anche pesanti, però al momento del bisogno, quando uno qualsiasi della Comunità, ricco, povero, lavoratore o “ lover “ ne aveva evidente bisogno per via di qualche disgrazia o qualche disavventura economica, tutta la Comunità del paese, in misura proporzionata alle proprie possibilità, contribuiva subito ad alleviare il disagio del cittadino che ne aveva bisogno e questo avveniva senza che lo stesso dovesse chiedere o dovesse dare delle garanzie, il tutto si svolgeva nel più totale anonimato e con la più schietta armonia e naturalezza come se fosse un atto dovuto, una regola mai scritta ma sempre rispettata dai censiti del paese senza distinzioni di casato, di casta o di frazione. Basti pensare ai numerosi incendi che allora colpivano le abitazioni, ai pignoramenti giudiziari per insolvenza nei pagamenti, alle disgrazie naturali o agli incidenti sul lavoro allora molto numerosi.

A demolire tutto questo stato sociale basato sulla solidarietà immediata e gratuita, ci hanno pensato alcuni anni più tardi le banche con la filosofia del profitto del denaro prestato a chi ne aveva bisogno, creando così di fatto un sistema capitalistico legato mani e piedi al potere delle banche e del denaro suonante che esse erano in grado di concedere ai privati come alle società, a tassi anche molto elevati ed a condizioni di sicurezza e di avvallanti molto alte ed onerose, quasi vicine all’ usura.

Con la scomparsa di gente come Camillo, come mio padre e molti altri di quella generazione di gente saggia ed onesta a cui bastava la parola data come garanzia, di gente come il buon Camillo che quando ti doveva fare il conto per una prestazione fatta o un maiale venduto, scriveva sulla polvere del trattore il conto da fare ed appena ti aveva detto il totale cancellava con una mano le cifre scritte e ti obbligava a passare per la cantina a festeggiare con un bicchiere di vino ed assaggiare il salame fresco che pendeva allettante dalle “ late “.

Se fosse dover raccontare tutti li aneddoti visti e vissuti insieme a Camillo, non sarebbe sufficiente un libro come la Bibbia, tante sono le storielle ed i piccoli episodi ed aneddoti della sua vita.

Ne racconto, per chiudere, uno emblematico di come era schietto ed ironico Camillo, un giorno venne a scadergli la patente di guida del trattore, allora si rivolse al buon maresciallo Caracristi che molto ha aiutato queste genti.

C’è da fare il certificato di nascita… “ –l’ faga lù sior Maresciallo- “ - il certificato di residenza… “ - l’ faga lù sior Maresciallo - “

- Ma almeno la fotografia la farà ben lei signor Ravina ! “ replicò ridendo il maresciallo Caracristi.

Ad operazione conclusa, Camillo invitò il Maresciallo in cantina a bere un bicchiere ed assaggiare i suoi famosi salami. All’ ingresso della cantina, proprio sopra la porta, c’era una grossa trave in legno molto bassa appena , il Maresciallo che non conosceva il percorso, all’ ingresso si tolse il berretto e proseguì dando una capocciata della trave.

Camillo rise di gusto e poi rivolto al Milite gli disse:

- merda o no , varda ch l’ jera ancia ieri !!! “

Camillo era un uomo molto sensibile che amava molto gli animali, anche quelli che allevava e che sapeva essere poi destinati al macello, un maialino si era tanto affezionato a Camillo, che quando lo vedeva arrivare per dar loro da mangiare, saltavo fuori dallo “ stalot “ e gli correva appresso come un cagnolino. Il maiale crebbe ed anche per lui giunse la sua ora, allora Camillo non si fece trovare da nessuno fino a quando tutto non fosse finito e credo che vendette il suino senza farlo lavorare, e ridurre in lucaniche e pancette. Penso speso a Camillo anche perché ho tanti motivi per farlo, ma soprattutto di lui mi resta il ricordo di una persona molto onesta, una di quelle persone, come ce n’ erano tante ai miei tempi, e che ora mancano nella nostra società moderna ed evoluta , manca il loro coraggio nel rischiare per trovare nuove forme di sviluppo e di crescita, allora l’ agricoltura moderna era agli albori, bisognava tutelarsi da soli, bastava un epidemia e ti morivano tutti i maiali, tutti i trattamenti antiparassitari erano a base di rame e zolfo o DDT e derivati di quelle porcherie americane che tanto danno hanno fatto all’ eco sistema.

Manca il loro buon senso applicato come metodo di vita, nel sommare e nel dividere ed i risultati negativi di queste assenze li possiamo vedere e sperimentare quotidianamente.

Manca il loro stile di vita che privilegiava le cose semplici e concrete, che preferivano il denaro contante al virtuale di un assegno, che erano orgogliosi del lavoro fatto e del legittimo ricavo ottenuto, perché non era frutto di speculazioni bancarie virtuali giocate magari sulla pelle di povera gente inconsapevole, ma era il frutto del sudore della fronte, termine che ora sembra essere passato di moda…

Tutte quelle persone a qui ho fatto riferimento, non sono passate alla storia per le loro conquiste o per i loro averi che è cosa molto effimera, ma come il buon Camillo entrano di diritto nella storia della nostra Comunità per il loro esempio e la loro onestà.

Camillo era per dirlo con una parola che riassume tutte le virtù di un uomo scaltro ma buono : - un can da l’ Ostia ! - una ne faceva e cento ne pensava.

Voglio concludere questa sua biografia nel modo che sarebbe sicuramente piaciuto a lui, l’ ironia raccontando due episodi il cui ideatore , regista e protagonista era lui, Camillo.

Erano gli anni ’60, tempi di grandi mutamenti nel campo Ecclesiastico, era in corso il Concilio Vaticano 2° con tutti i suoi rinnovamenti e le sue innovazioni profonde nella celebrazione formale della liturgia, molto meno della concezione della fede da parte dei fedeli. Correva voce, sempre più insistente che la parrocchia di Livo venisse messa a capo di un decanato di parrocchie e che don Giuseppe Calliari fosse nominato Decano di queste parrocchie.

Appena la voce arrivò a quel furbastro di Camillo, quello trovò subito il modo di rendere pubblica questa notizia in modo solenne.

Don Giuseppe aveva un cagnolino barboncino che si chiamava Biri colore bianco panna, di quelli che se fossero cattivi quanto sono urloni meriterebbero di far parte della divisione Nibelungen.

Un giorno Biri mancò di casa per alcune ore e la Monica, la perpetua di don Calliari, una donna alta poco più di due spanne, si mise alla ricerca del Biri per le vie del borgo, il cane però sembrava sparito nel nulla, nessuno lo aveva visto o sentito.

La sera però Biri fece ritorno in canonica, tutto bollo e pettinato, tirato a nuovo e con un aria di aristocratica superiorità, si presentò alla porta della canonica abbaiando per farsi riconoscere…

Biri è stato il primo Decano ufficiale della parrocchia di Livo in quanto quando entrò dalla porta della canonica aveva la calotta e i calzini dipinti di rosso.

Don Giuseppe capì lo scherzo e non ebbe nessun dubbio sul clan degli autori ed il loro capo ed un giorno incontrò Camillo e chiese se avesse saputo qualche cosa sul fatto del cane dipinto di rosso. Camillo rispose di non saperne niente e poi aggiunse rivolto al futuro Decano. – sior Parroco, nol sospetterà mia de mi no ?-

Don Calliari che era un avvocato gli rispose: - no, no Camillo, non sospetto minimamente di te, perché sono sicuro che sei stato tu !!!

E finirono al bar di sopra a bere un bicchiere e riderci sopra. E poche persone al mondo riuscirebbero a mandare in un negozio di alimentari un baldo e colto giovanotto a comperare “ un chilo di ombra del campanile “…

 

 

 

***    ***

 

 

Emanuele Conter

 

 

Un altro di quei fiori nati storti, dove il genio di madre natura si è decisamente divertito a dare il peggio di se dal punto di vista dell’ estetica, della parola del movimento…

Ma proprio per questa ragione bisogna guardare questi fiori con occhi particolari, per cogliere tutti quelli aspetti positivi che sono presenti in ogni creatura e che a volte la gente comune non riesce a vedere e che forse solo gli artisti ed i poeti sanno cogliere.

Emanuele è figlio di Conter Vigilio e Gamper Serafina ambedue deceduti ma che ho avuto il piacere di conoscere entrambe. Emanuele può avere ora circa 70 anni, ma è rimasto come un bambino nel pensiero e nei movimenti, erano altri tempi quando si sono sposati Vigilio e Serafina, lei proveniente da uno dei tanti masi di Proveis ( Proves ) in Sud Tirolo da noi distante solamente una ventina di chilometri, erano tempi in cui non esistevano i controlli medici prenatali che ci sono oggi, non esisteva l’ ecografia le analisi del sangue , tutto era dato in affidamento a madre natura che si arrangiava a fare tutto, ma se ci pensiamo bene è così anche adesso tutto il potere che dice di avere la scienza umana si limita a controllare, a selezionare ed ad intervenire quando è possibile su un essere già formato, prima di suo non mette quasi niente eccetto i ceck up che fanno tutti.

Quando un figlio è indesiderato o rischia di nascere con gravi malformazioni, lo si ammazza prima e si risolve il problema alla radice, ma questa “ terapia “ la usavano anche i Greci ed i Cretesi ma solo se una figlia era una femmina indesiderata.

Non abbiamo fatto tanti progressi, anche ora nascono bambini handicappati , malformati, down, ecc. adesso sono solo più fortunati che vivono quasi tutti ed hanno delle adeguate strutture per farli crescere, tutto il resto è uguale a 100 o a 1000 anni fa.

Dagli stessi genitori di Emanuele nacquero altri due figli gravemente handicappati, Romano che no ho conosciuto ed Agostino che invece ho conosciuto molto bene e che è morto una decina di anni fa.

Emanuele ed Agostino erano dei tipi miti sempre assieme anche quando andavano a lavorare.

Emanuele è un tipo molto allegro ed ha buona memoria delle persone che ha conosciuto ad esempio a me chiede sempre se mi ricordo di mio padre quando dirigeva il coro del quale faceva parte anche suo papà Vigilio che tutti chiamavano Lilli.

Emanuele abita a Livo però la domenica veniva sempre giù a Varollo alla S. Messa ed ai Vespri e ci vedevamo di frequente, a volte era anche bersaglio di piccoli scherzi da parte dei ragazzi più grandi di quarta e quinta ma mai scherzi pesanti o di cattivo gusto.

Un giorno il mio maestro mi vide mentre ci scherzavo assieme e mi redarguì pesantemente il giorno dopo in classe davanti a tutti.

Non so se Emanuele abbia frequentato le scuole a Livo o se sia stato messo in un collegio adatto a quei casi, ora dopo la morte del fratello Adolfo che era un po’ il suo punto di riferimento ed il suo tutore , vive assieme alla cognata Silvana ed alle nipoti.

 

 

 

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IL SEME DELL’ ODIO

 

 

 

Per capire la storia che ora vado a narrare, e le conseguenti tragedie che ne è derivarono, bisogna fare una salto a ritroso nel tempo e ritornare a quando ero un ragazzo negli anni ’50 e ’60. Allora avevo un prato vicino al torrente Barnes, che veniva falciato tre volte all’ anno per fare del fieno per le mucche, era un bel posto vicino al torrente ed era attraversato da un piccolo ruscello che sgorgava da sotto un grosso masso vicino alla grande pianta di noce. Lì, si andava di buon mattino con il carro trainato dalle mucche, si portava tutto il necessario per l’ intera giornata, i viveri ed il vino, la polenta veniva preparata sul posto da mia nonna o da mia madre nella baita in legno che stava sotto un grande abete, era stata costruita da mio padre per ripararsi da eventuali temporali estivi che allora erano frequenti. Le mucche venivano staccate dal carro e legate con una lunga corda al vecchio noce vicino al ruscello, potevano così brucare l’ erba ed al bisogno anche bere da una pozza vicino al rivolo. Devo dire, che quando si andava a Pongèl, era sempre una festa per me, in quel luogo immerso nella natura, con tanta acqua intorno, il fascino del fuoco che ardeva, il pranzo all’aperto, la possibilità di giocare nel torrente e poi il fascino della pesca di frodo con mio padre che portava la lenza gli ami, i lombrichi si recuperavano sul posto, bastava scavare sotto un mucchio di terra delle Talpe e si trovavano dei grossi vermi per una bella esca. Si pescavano delle belle trote marmorate che poi mia nonna cucinava per pranzo, mentre il fieno seccava sotto il sole cocete di agosto e le mucche, beate, si riposavano all’ ombra del grande noce, scacciando con la coda i numerosi e parassiti tafani che le ronzavano attorno. Sembrava di stare nel paradiso terrestre tanta era la felicità e la sete di avventura che avevo in corpo, una sete sana e genuina, mai inquinata dalla fixion della televisione che allora non c’era, ma dalla fantasia assorbita dalle letture di tanti libri di avventura come Salgari, Twein, Hugo, ecc. Il grande prato di Pongel, confinava su due lati, con il prato di un mio compaesano che si chiamava Giuseppo Agosti , non eravamo parenti ma solo omonimi, il signor Giuseppe con il suo terreno, confinava a sua volta con un prato di un suo fratello che si chiamava Giovanni Battista Agosti pure lui, ma tutti in paese lo chiamavano Titta, entrambi erano sposati Giuseppe con Maria ed aveva tre figlie e due figli, Titta con Rosa ed aveva tre figli maschi.

Nella frazione di Scanna, abitavano in una grande casa, la prima che si trova a sinistra entrando in paese dalla strada comunale, divisa in due porzioni, nel lato ovest abitava Giuseppe nel lato est Titta.

Tra i due fratelli e le rispettive famiglie, non correva , come si dice, buon sangue, i rapporti erano tesi da anni di piccole beghe ed incomprensioni mai chiarite e che nessuno dei due aveva mai provato a sanare, non ho mai capito bene i veri motivi del loro astio, ma credo che a fomentare e tenere sempre viva la fiamma dell’ odio, ci pensavano le loro rispettive mogli sempre pronte a battibecchi, titoli di cortesia e , soprattutto, alla ricerca di testimoni occasionali che potessero perorare la loro causa davanti al Giudice del tribunale di Trento o della pretura di Cles, dei quali erano fedeli abbonati e sostenitori. Così, quando si andava nel prato vicino al torrente a falciare il fieno, era frequente la coincidenza che uno dei due fratelli o alle volte entrambi, scegliessero lo stesso periodo per lo sfalcio dei loro prati,così quando c’ èra uno solo , i discorsi si riducevano ad un lungo monologo della moglie che raccontava le vere o presunte angherie subite, in un dialogo a distanza tra un prato e l’ altro, che scemava quando la distanza dei lavoratori aumentava, per poi riprendere vita quando ci si avvicinava ai confini del prato, ma la musica non cambiava mai.

Quando , invece, il caso voleva che tutti e due i fratelli scegliessero lo stesso giorno per lo sfalcio del fieno in quella località, allora era una continua battaglia verbale tra le mogli, i figli ed i padri, spesso i motivi del contendere erano banali e puerili, bastava che la falce di uno dei due tagliasse una paglia oltre il confine, e subito il fronte si accendeva con insulti reciproci, spintoni e minacce l’ inevitabile tirata in campo di mio padre come testimone che doveva aver visto o sentito le offese, e qui, era evidente il gioco degli avvocati dei due contendenti, che mirava ad avere dei testimoni terzi che potevano far pendere la giustizia da una parte o da un'altra. Mio padre era un galantuomo non volle mai entrare nel merito del dirimere, e quello che mi resta impresso a tutt’ oggi come un gesto di grande responsabilità e di grande saggezza, fu il fatto che un giorno , tirato in causa da entrambe i contendenti, si avvicinò al confine del prato e disse loro che sarebbe stata buona cosa e da persone sagge se l’ avessero smessa con tutti quei litigi, che erano solo una rovina per le loro famiglie e per i loro portafogli.

Mio padre non venne ascoltato, e le liti proseguirono per anni con grande dispendio di denaro ma senza mai trovare un accordo che mettesse definitivamente fine a tutto il contendere. Una mattina ****************nel mio piccolo paese, ricordo , si respirò in tutte le sue forme, l’ aria di una tragedia avvenuta nella notte, ricordo infatti tanta gente che correva, dei capannelli di donne che commentavano, poi arrivò mio padre che ci disse di non muoverci di casa, che erano cose che noi piccoli non potevamo ne dovevamo vedere…

Mia nonna e mia madre si avvicinarono a mio padre che sussurrò loro questa frase “ – Si è impiccato il Titta dei Gianini – “ Il Titta, venne trovato impiccato il corpo che pendeva fuori dalla porta dell’ abitazione del fratello Giuseppe, forse un estremo atto di vendetta verso il suo congiunto, o forse, più probabilmente, il gesto di un uomo stanco dei continui litigi e di una vita passata nell’ odio con il fratello e con i nipoti, che erano diventati grandi e robusti, con le donne che quando ci si mettono trovano da ridire in ogni occasione e basta un soffio di vento che muova qualche cosa per trovare il pretesto per una nuova lite.

Erano gli anni precedenti il Concilio vaticano 2°, ed in materia di suicidio le norme ecclesiastiche vigenti erano rigidissime : nessun suicida doveva essere portato in chiesa per la cerimonia funebre cristiana, o poteva venir sepolto nel cimitero consacrato. In quel tempo, era parroco di Livo don Giuseppe Calliari, un prete saggio e giusto, che ascoltò anche il parere di mio padre che chiese che al Titta gli venisse concesso un funerale cristiano, soprattutto per i figli che erano allora molto giovani e non avrebbero capito quelle differenze con gli altri morti, don Giuseppe acconsentì ed il Titta ebbe il suo funerale cristiano ed ora riposa nel cimitero di Varollo.

Dalla tragica morte del Titta però nessuno dei contendenti ne trasse alcun insegnamento buono e le liti proseguirono ancora più intense e violente di prima, fino ad arrivare, come logica conclusione, ad una seconda tragedia.

 

Era il mattino presto del ********** , io ero ancora a letto e mi ero svegliato da poco, quando, dalla direzione dell’ abitazione dei cugini Agosti, udii dei colpi secchi, come se qualcuno accatastasse delle tavole di legno, l’ una sopra l’ altra, lasciandole cadere, cinque o sei colpi, sembravano dei colpi di arma da fuoco, ma poi esclusi per stretto ragionamento che fossero spari, non era tempo di caccia e poi qui non siamo mica a Napoli… e ripresi sonno.

Mia madre era andata in chiesa, come faceva ogni mattina, ad un certo punto della S. Messa un uomo venne in fretta dal celebrante il quale interruppe la funzione religiosa e si allontanò con lui in tutta fretta .

Al ritorno, mia madre mi svegliò e mi informò che il Poldino aveva sparato al cugino Beppino ed a sua moglie Paola.

Allora, come rivedendo il riavvolgersi veloce di una pellicola di un vecchio film, ho rivissuto tutte le liti viste a Pongel, il tentativo, storico, di quel galantuomo di mio padre di tentare una mediazione ed una riconciliazione tra i due fratelli eternamente in lotta, e più di tanto non mi sono meravigliato.

Era successo che il Beppino, figlio di Giusepppe e di Maria, un agricoltore una pezzo d’ uomo robusto e ben messo, mentre lavorava nei pressi della stalla a pulire le mucche dal letame, ebbe un diverbio con uno dei tre cugini figli del Titta, Federico, al quale sferrò un pugno e lo stese a terra. A poca distanza, ad osservare la scena c’ era il fratello di Federico, Leopoldo, il quale disse al cugino che aveva colpito il fratello . – “ Vedrai che te la insegno io…” poi , rientrato in casa ne uscì armato di una pistola calibro 7. 65 e sparò l’ intero caricatore addosso al cugino Giuseppe ed alla moglie di lui. Giuseppe cadde a terra colpito da tre o quattro proiettili che gli hanno trapassato il torace e l’ addome, senza però colpire degli organi vitali, la moglie tentò di scappare verso la strada provinciale ma venne raggiunta da un colpo che la ferì di striscio alla testa e cadde lungo la strada. A quel punto, Leopoldo, salì in macchina, una Mini minor e si dette alla macchia, cosa raccapricciante è che tentò di passare con una ruota sopra la testa del cugino che giaceva a terra ferito, il quello, però , ebbe la forza di spostare la testa dalla traiettoria delle ruote della mini.

Il mio piccolo paesino,sempre tranquillo, dove non succede mai niente, dove a tratti ci si annoiava, in quella giornata di primavera, si animò all’ improvviso di soccorritori, di ambulanze e di carabinieri e polizia come quando ci fu’ la rapina con due omicidi, molti anni prima, vennero subito trasportati all’ ospedale di Cles i due feriti, la donna apparve subito meno grave, solo un colpo di striscio ed un forte sock, l’ uomo apparve subito grave fin dal primo momento, perdeva molto sangue però non perse mai conoscenza, ed ai primi soccorritori ebbe la forza di raccontare dei dettagli, come quello delle ruote della macchina, e poi ed uno disse : - Ora vado con mia mamma…- “

Non fu’ così, Giuseppe era forte e giovane come un toro, venne sottoposto ad intervento chirurgico per tamponare le emorragie e togliere i proiettili rimasti in corpo, e dopo un mesetto di ospedale ritornò a casa guarito. Leopoldo, invece, dopo essere scappato con la sua Mini, riuscì a sfuggire ai numerosi posti di controllo istituiti dai carabinieri e dalla polizia e si diede alla macchia e come sempre succede in questi casi, tutti gli “ amici fedeli “ su cui credeva di poter contare, lo abbandonarono e rimase solo. Il buon maresciallo Bruno Caracristi, alla domanda di noi ragazzi se lo avessero preso, ci spiegò che questa non era una rapina ma si trattava di tentato omicidio e che se non si fosse costituito, sarebbe stato condannato in contumacia, senza la possibilità di difendersi e quando lo avrebbero preso avrebbe dovuto scontare tutta la pena inflitta.

Quando Giuseppe fu dichiarato fuori pericolo di vita, e che l’ accusa non era più di omicidio ma di tentato omicidio, Leopoldo si costituì ai carabinieri, che lo arrestarono dopo averlo trovato sporco, infreddolito e con la barba lunga, venne processato dal tribunale di Trento per duplice tentato omicidio e venne condannato alla pena detentiva di anni 10- dei quali, però, ne scontò forse la metà, fu poi scarcerato beneficiando di uno dei tanti indulti che lo stato dispose in quelli anni, lavorò poi come operaio edile e poi come panettiere.

Il cugino Beppino, si costruì una casa nuova molto lontano dalla vecchia abitazione, ha avuto tre figli ed ora ha 72 anni e lavora la sua azienda agricola.

Non credo, però, che tra i cugini sia stata fatta pace, ma che la distanza delle abitazioni non permetta più di fatto di trovare dei motivi per litigare di nuovo.

 

Di questa vicenda, conservo ancora la documentazione giornalistica dei quel tempo, con le fotografie dei protagonisti e la cronaca dei fatti.

 

 

 

***    ***

 

 

 

DELITTI DI PAESE

 

 

 

Non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male, qualche delitto , senza pretese, lo abbiamo anche noi in paese. “

 

Mi piace iniziare così questo mio racconto di cronaca e di storia che ho solo senti raccontare e che ho vissuto poi , conoscendo i vari personaggi attori del fatto.

Era l’ anno 1953, il giorno ******** quando a tarda sera il signor Maninfior Giovanni, detto “ cesta “, si apprestava a chiudere il suo locale pubblico, un bar con annesso piccolo negozio di alimentari, sito in Scanna, al numero civico *** , proprio davanti alla strada provinciale che porta a Rumo e Bresimo.

Allora non era una strada asfaltata, ma era una mulattiera sterrata, il traffico di automobili a quel tempo era quasi assente,erano più i carri trainati da buoi o da cavalli che la percorrevano, che i mezzi motorizzati, fata eccezione per il normale servizio di autobus di linea allora affidato ad una società privata che si chiamava Vender Livio. L’ ingresso principale del bar e del negozio erano rivolti a nord – est ed erano quasi totalmente nascosti alla vista per la mancanza di abitazioni adiacenti, a quel tempo le strade non disponevano di luci elettriche come ora, quindi il piazzale del bar era quasi buio, illuminato solo dalle luci che provenivano dal suo interno e forse da una piccola luce esterna. Saranno state le ore 22 di sera, più o meno, quando due persone si introducevano di soppiatto nei locali del bar, con un fazzoletto sul volto ed armate di coltello e di martelli con il chiaro intento di rapinare il proprietario del locale, il signor Maninfior Giovanni, che a detta dei due doveva essere un ricco commerciante. Qualche cosa però ad un certo punto dovette andare storta, perché i due ladri furono scoperti dal proprietario, che tentò di opporre resistenza e chiamò aiuto, probabilmente, presi dal panico i due reagirono colpendo con estrema violenza il signor Giovanni con un martello alla testa fino a renderlo in fin di vita. Le grida della violenta colluttazione, vennero udite dalla moglie di Giovanni che si trovava nell’ appartamento dell’ abitazione situato al piano superiore ed al quale si accedeva mediante una scala interna in pietra con la porta di ingresso situata alla sommità della scala stessa.

La moglie di Giovanni che si chiamava Diomira, apri la porta e vide i due ladri che si apprestavano a fuggire, ad uno era caduto il fazzoletto dal viso e la donna lo riconobbe e lo chiamò per nome , si chiamava Emilio, questo , vistosi scoperto, si lanciò sulle scale per colpire la donna, che fece giusto in tempo a ritirarsi ed a chiudere a chiave la porta dell’ appartamento, poi si precipitò sulla finestra che guardava verso il centro abitato e chiamò a gran voce aiuto, aiuto !!!

Nella casa di fronte, abitava Emanuele Agosti, un cacciatore, il quale d’ istinto imbraccio il fucile lo cariò e si diresse verso l’ abitazione del Maninfior con l’ intento di fermare i due ladri, che però nel frattempo erano riusciti a scappare per la ripida stradina che portava ai prati ed ai campi di grano della collina di Barbonzana. Abbiamo lasciato il signor Giovanni agonizzante nel suo locale, perseguire i due fuggitivi che si erano dati alla macchia, i due erano riusciti a rubare solo pochi spiccioli di denaro, in quanto il grosso del valore il signor Maninfior lo teneva ben nascosto in un posto che solo lui sapeva, i due, arrivati in cima ad un sentiero tra i campi, che ora non esiste più, si fermarono un attimo per capire se fossero inseguiti da qualcuno, accertatisi di essere soli, il complice di Emilio lo invitò a scavare un buco nel terreno ed a nascondere il denaro rubato, Emilioi iniziò a scavare con le mani un buco nel campo di grano e mentre scavava il complice estrasse un lungo coltello e colpì Emilio con una sola e mortale coltellata che gli trafisse il cuore e gli provocò la morte immediata.

Da qui in avanti, il racconto si fa meno logico, meno preciso più torbido, per il fatto che secondo gli inquirenti che istruirono il successivo processo, il complice di Emilio dopo averlo ucciso, se lo sarebbe caricato in spalla e lo trasportò nel bosco di Sommargine, che dista parecchie centinaia di metri dal luogo della morte di Emilio, ma soprattutto venne portato in un luogo impervio alla base di una roccia alla quale si arriva da un sentiero impervio.

La domanda che tutti si posero e che non ha avuto e non avrà mai risposta, era quella di come avesse fatto da solo il complice a portare in spalla un peso morto di un uomo che era di robusta costituzione fisica…

Ma torniamo al paesino, che nel frattempo si era animato di gente che prestava soccorso al povero Giovanni gravemente ferito e si chiedeva chi fossero i due delinquenti che avevano commesso un simile efferato delitto. Una donna che si chiamava Rodegher Giuseppina affermò di aver visto scappare tre uomini, tre sagome nella notte, non so se questa affermazione venne inserita nelle prove a carico dei colpevoli durante il processo o se sia stata una voce che era circolata in quei giorni, ma il dubbio rimase sempre ed a tutt’ oggi non è mai stato chiarito.

Nella notte il povero Giovanni morì senza mai aver ripreso conoscenza per le gravi ferite riportate nella tragica colluttazione seguita alla rapina , e le indagini per rapina ed omicidio vennero condotte da un Tenente dei carabinieri della stazione di Cles. All’ inizio , si brancolava nel buio più totale, l’ unico indizio sicuro era che la signora Diomira aveva riconosciuto Emilio come uno dei componenti la banda, che però ora sembrava essersi volatilizzato nel nulla, nessuno lo aveva più visto o incontrato da quella tragica sera.

Il tenente dei carabinieri decise allora di sentire i parenti di Emilio per riuscire a dirimere la matassa e dare una spiegazione logica alla sua scomparsa.

Ascoltò tutti i parenti che non seppero dare delle informazioni utili, poi ascoltò il fratello minore, Rolando, il quale riferì al tenente che durante il pomeriggio precedente la rapina, una persona era stata a cercare suo fratello Emilio e non avendolo trovato, lasciò detto a Rolando di riferire che si sarebbero trovati quella sera al bar e che lui sapeva già il motivo.

Apparve allora chiara l’ identità del complice, ma non altrettanto chiare le sue responsabilità, perché di Emilio si era persa ogni traccia, nessuno lo aveva più visto o incontrato, si istituirono allora delle squadre di volontari con a capo un carabiniere armato per cercare di trovare Emilio, era però palpabile l’ ipotesi che il complice lo avesse ucciso in quanto era stato riconosciuto dalla moglie dell’ oste. Mi fu raccontato che in paese si era creata una vera e propria psicosi del fuggitivo e si pensava che potesse essere nascosto nelle tante soffitte e sottotetti allora adibiti a fienile completamente aperti per dare aria al foraggio, tutti avevano paura di ritrovarselo in casa magari armato e la paura collettiva dava sfogo alle più disparate ipotesi e fantasticherie.

Un lontano colpo di fucile, mise fine per sempre a tutte le paure ed i fantasmi della gente, tre colpi di fucile erano il segnale convenzionale che Emilio era stato trovato, non si era mosso di un millimetro dal posto dover lo aveva deposto il suo assassino, era lì appoggiato alla roccia che dormiva il sonno eterno…

Apparve allora chiara la responsabilità del suo complice, che nel frattempo aveva pensato bene di tentare di costruirsi degli alibi credibili, ma in realtà commise tanti di quelli errori che non fu difficile poi metterlo di fronte alle sue responsabilità. La sera stessa del delitto, si presentò dai suoi parenti ed amici per salutarli dicendo che il giorno successivo sarebbe emigrato in Svizzera per lavoro, poi si nascose nel piccolo appartamento di una sua zia invalida e zoppicante che si chiamava Maria e lì, lo venne a prendere il tenente dei carabinieri di Cles, alla richiesta di seguire i militari, Livio Rodegher, chiese se si trattasse per caso di una vecchia multa mai pagata per infrazione al codice della strada, la risposta del tenente fu un calcio in culo e l’ accusa di duplice omicidio.

Il Rodegher fo portato ammanettato dai carabinieri fino al luogo dove era stato ritrovato Emilio, gli fu chiesto se lo conoscesse, rispose di si, poi gli venne chiesto se fosse stato lui ad ucciderlo e lui nego, ne seguì un altro calcio in culo. Nel frattempo furono ritrovati il martello che era servito per uccidere il povero Giovanni ed il coltello servito per assassinare il suo complice, e proprio dalla proprietà del martello vene una delle prove schiaccianti contro il Rodegher, che aveva lavorato come dipendente presso una piccola ditta di imballaggi in legno il cui titolare si chiamava Zanotelli Augusto, era un uomo meticoloso r preciso e conosceva alla perfezione tutti i suoi attrezzi da lavoro, in una prova irripetibile dove fu chiamato a riconoscere il suo martello tra decine di attrezzi simili, senza esitazione riconobbe come suo il martello che aveva prestato al Rodegher e che era poi servito per l’ omicidio del povero Giovanni Maninfior.

Bello sarebbe ora poter rivedere tutti gli atti ed i documenti del processo che venne istruito presso il tribunale di Trento per capire quale fu la difesa del Rodegher, se anche al processo avesse sostenuto la tesi che assieme ad Emilio ci fosse stata una seconda persona che poi lo avrebbe aiutato ad occultare il cadavere, se fosse vero che dall’ autopsia sul corpo di Emilio, fesse risultata l’ assunzione di droghe come sostenne qualcuno, allora io ero poco più che un neonato, ed mio ricordo personale si limita al signor Giovanni che mi dava sempre un cioccolatino o una caramella quando mio padre mi portava con lui al bar per prendersi i tabacco per la pipa.

Altro piccolo aneddoto che ricordo mi raccontava mio padre a proposito delle indagini, quando venne emesso il mandato di arresto per il latitante Rodegher Livio, un carabiniere si presentò da un mio zio , omonimo nel nome e nel cognome al ricercato e lo condusse con le mani in alto presso il posto di polizia, per sentirsi poi rimproverare dal tenente per aver sbagliato persona. Mio zio, per nulla impaurito forte delle esperienze della guerra di Russia e poi della prigionia in Germania, ricevute le scuse del tenente se ne tornò a casa, a conferma se ce ne fosse stato bisogno, che i carabinieri la propria barzelletta la mettono ovunque.

Il denaro del Giovanni Maninfior, tanto cercato dai due delinquenti, venne poi ritrovato, casualmente, mentre si facevano le pulizie dopo il fatto criminoso, fa Dario Agosti che era un mio lontano parente, cugino di mio padre, un uomo che viveva di piccoli lavori, andava a raccogliere funghi e poi li vendeva, uno spirito libero ed indipendente, che venne chiamato dalla signora Diomira a ripulire la casa. Il denaro era nascosto nel doppio fondo di una botte del vino in cantina, e, a quanto mi fu detto, ammontava ad una bella cifra.

Livio Rodegher venne riconosciuto dal Tribunale penale di Trento, colpevole di due omicidi e venne condannato alla pena detentiva di due ergastoli, scontò la pena nelle carceri di Alessandria, Porto Azzurro e poi alla fine a Trento, dove frequentò l’ università e si laureò presso la facoltà di sociologia.

Ricordo che veniva portato a lezione dagli agenti di polizia e la cosa suscitò non poche polemiche in quelli anni, poi, con il perdono ottenuto dalla vedova di Maninfior Giovanni, anche mediante l’ intervento diretto dell’ allora parroco di Livo don Flavio Menapace, ha potuto beneficiare di un indulto e venne scarcerato, tornò in paese per poco tempo, poi si sposò con una donna veneta ed andò ad abitare nel paese di lei.

Un ultimo aneddoto me lo raccontò l’ allora parroco don Menapace, un giorno il Rodegher si recò in un bar del paese, trovò alcune persone che lo conoscevano da prima del delitto ed una di queste gli chiese : - Ades che i te ha molà , dime mo come la e stada ?-

Adesso che sei libero, raccontaci come andarono le cose . Non credo che ebbero risposta.

Un ultima considerazione che mi preme fare, alla fine di questo racconto, è che noi siamo soliti identificare le grandi metropoli come impero assoluto della malavita e dei crimini, ma se osserviamo il nostro paesino, in modo particolare la piccola frazione di Scanna, dove io abito, si può notare che il tasso di criminalità in proporzione al numero di abitanti, supera in percentuale di gran lunga quello delle grandi metropoli, con buona pace della canzone di De Andrè.

 

 

 

***    ***

 

 

 

le ao

 

 

( le api )

 

E’ quasi un ricordo ancestrale, come un sogno lontano. Che però, per la sua drammaticità, è uno dei ricordi della prima infanzia che ancora oggi rammento con precisione e dovizia di particolari.

A rinverdire questo ricordo, ogni tanto, ci pensa mia zia Ada che è stata per me come una seconda mamma, essendo all’ epoca una ragazza molto giovane che abitava in casa, essendo ancora da sposare. Avevo all’ incirca tre anni e mia nonna mi portava sempre con se nell’ orto che era adiacente al pollaio ad alle arnie delle api che erano di proprietà di mio zio Niki, che però era ripartito per l’ America dove lo attendeva il suo lavoro, e le aveva lasciate in consegna a mio padre.

Mentre mia nonna lavorava nell’ orto, io potevo scorazzare libero nei prati vicini e nel vicino pollaio dove erano appoggiate al muro le arnie delle api.

Quello che ricordo con fredda lucidità di tutta questa tragicomica vicenda, è che ad un cero punto ho preso un bastoncino dalla vicina legnaia, era un pezzo di nocciolo tagliato con l’ accetta a fetta di salame, e con questo pezzetto di legno mi sono avvicinato alle arnie delle api, frugando nella fessura di una della arnie….

Apriti o cielo ! Le api scocciate da questa imprevista intrusione, dettero subito l’ allarme alle api guerriere che erano a difesa dell’ alveare, le quali si precipitarono con i pungiglioni come una baionetta, sul malcapitato invasore.

Quello che seguì dopo, me lo raccontarono più avanti,

io ricordo solo che tutti mi prendevano a schiaffi ed infine mi venne rovesciato addosso un secchio di acqua per allontanare le api.

Mi avvolsero in una coperta e mi portarono dal medico condotto del paese che si chiamava dottor Giovanni Battista Tenaglia, il quale mi visitò e poi disse a mio padre che non esistevano degli antidoti alle punture delle api, che se avevo fortuna sarei guarito da solo, se no sarei morto… Sembravo un mostriciattolo, tutto gonfio per le punture e pieno di lividi per gli schiaffi ricevuti quando tentavano di allontanare le api dal mio corpo. Non era la mia ora, non sono morto a causa delle punture delle api, dopo alcuni giorni di convalescenza, mi sono ripreso ed ho continuato i miei giochi di bambino nell’ orto e nei prati circostanti, restando a debita distanza dagli alveari delle api.

In compenso, dopo aver ricevuto una dose così abbondante di punture, il mio organismo ha sviluppato una resistenza massiccia a quel tipo di veleno, tant’ è vero, che a tutt’ oggi,anche se vengo punto da più api o vespe, non sento alcun disturbo, ne mi si gonfia la parte lesa, probabilmente l’ organismo di è abituato a quelle tossine.

C’è da dire, inoltre, che il mondo delle api mi ha sempre affascinato e anche ora , che sono adulto, mi piace osservare quel mondo fatto di ordine, disciplina e tanto , tanto lavoro, ho preso molto del comportamento delle api, la semplicità, la meticolosità, il senso del dovere e della disciplina, che si è concretizzato poi con l’ esperienza della vita in convento, con i frati francescani i Campolomaso, forse, tutto questo, mi è stato trasmesso dalle benedette punture delle api.

 

 

 

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I burattini

 

 

Erano alcuni giorni che i compagni più grandi, mormoravano la notizia, sarebbe venuta alla nostra scuola una compagnia di burattinai, non ricordo da dove, non sapevo neppure che cosa fossero i burattini.

Arrivato il grande giorno, ricordo che per la prima ora di lezione il maestro ci fece fare ginnastica nel cortile della scuola, per dare il tempo alla compagnia dei burattini di preparare lo spettacolo.

Quando rientrammo in classe, c’ era il teatrino dei burattini, a guardarlo così, di prima battuta, sembrava il teatro del dopolavoro in miniatura, con le tende rosse, il palco, gli arazzi e gli stucchi.

Cominciò lo spettacolo, con tutti questi personaggi che entravano, si inchinavano, si muovevano e parlavano, e narravano una storia fantastica ed affascinante di battaglie, di condottieri, di dame e di eroi, e noi lì, tutti a bocca aperta, in silenzio, con mille interrogativi nel cuore, a guardare quello spettacolo e poi se ne è parlato a lungo e lo si è imitato con l’ ingegno e la fantasia dei fanciulli, ed ancora adesso, a distanza di più di 50 anni, lo spettacolo dei burattini mi affascina e mi commuove ancora, ed ho trovato su facebook una compagnia di burattinai che si chiama La piccola compagnia dei burattini, ed ha sede a Manduria nel Salento, in provincia di Taranto.

 

 

 

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Le lezioni all’ aperto

 

 

Un altro bel ricordo che ho del mio periodo scolastico alle scuole di Varollo, sono le “ lezioni all’ aperto “, così venivano definite le ore che passavamo con il maestro Fauri, nei boschi della zona, a volte si andava verso il torrente Barnes verso i molini dalla parte di Cis, a volte, invece, si andava vero il bosco si Somargen e quindi verso il torrente Pescara, erano delle vere e proprie scampagnate didattiche, ci si divertiva e si riusciva a coniugare egregiamente l’ utile con il dilettevole, con delle ore di lezione di storia naturale , geografia fatta osservando il posto dove ci trovavamo, la flora e la fauna. So che a Rumo questo modo di apprendimento è ancora in uso, per merito degli insegnanti locali, sono convinto che sia un modo di insegnamento e di apprendimento eccezionali, in quanto si da il modo di toccare con mano, in modo pratico, quello che si è appreso in classe in modo teorico, magari supportati da delle foto o disegni, ma sempre teorico. In questi frangenti, non mancavano gli scherzi, che tutti accettavano di buon grado, come i gavettoni con l’ acqua, le lucertole nelle tasche delle bambine, o i tagli di temperino nel bastone improvvisato del maestro, al fine di farlo cadere quando si fosse appoggiato di peso. Felicità allo stato puro, tutto questo, ancora oggi lo ricordo con infinita nostalgia…, ed appena posso, ora che sono libero perché pensionato, torno a ripercorrere quelle stradine, quei sentieri, apparentemente da solo, ma con il vociare allegro dei miei compagni di classe.

 

 

 

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I miei compagni di classe

 

Voglio ricordare, ed uno, ad uno, i miei compagni di classe, così come erano allora, con il loro pregi i loro difetti e con la differente simpatia che avevo nei confronti di ognuno di loro. Da bambini, secondo me, si riesce a guardare le cose come sono, con innocenza, senza quei condizionamenti, preconcetti e pregiudizi, a volte pesanti, che nell’ età adulta finiscono sempre, in qualche modo, per guastare quei rapporti schietti e sinceri che si erano intrecciati da giovani.

Inizio con le femminucce, per cavalleria e per il sincero e profondo rispetto che ho sempre avuto per le loro.

 

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Depetris Alessandrina,

 

 

Era mia coetanea, la chiamavamo, più semplicemente Sandrina, era figlia unica di Romano e Zanotelli Bruna, era la mia amica preferita, dolce buona e generosa. Ha avuto una vita tormentata e difficile, rimasta orfana della madre ,giovanissima, ha vissuto con il padre e la zia Rina, rimasta poi priva anche del padre, ad età già matura, ha sposato un uomo di Taio di nome Chini Paolo, dopo una decina di anni si è ammalata di cancro al seno ed è morta nel ****.

Sono venuto a conoscenza da pochi giorni di un gravissimo episodio cha ha riguardato questa mia amica quando era ancora una ragazzina.

Sandrina ha subito violenza sessuale da u parte di un uomo che si chiamava X Y a quel tempo era un giovanotto, uno dei tanti “ bulli “ del paese. Sandrina confidò solo alla madre il fatto ed una sua cuginetta lo capì ascoltando il dialogo che intercorreva tra lei e sua madre e me lo ha rivelato a distanza di molti anni.

Questo spiega la grande apatia e distacco che Sandrina mostrava nei confronti degli uomini e questo spiega anche il motivo del fallimento del mio approccio nei suoi confronti. E rimasta comunque l’ amica più care e sincera tra tutte le mie coetanee, mi voleva bene come a un fratello…

 

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Aliprandini Renata

 

 

 

Mia coetanea, è figlia di Antonio e Bordati Zita, una bella ragazzina mora, dai lineamenti inconfondibili dei popoli della Russia, il nonno paterno era di origine Russa. Grande amica anche lei, si è sposata molto giovane con Giorgio Corradini un dipendente Enel, con il quale ha avuto due figlie femmine, grande appassionato di montagna, perito poi, in modo tragico, sull’ Ymalaya in Nepal, durante un escursione.

Si è poi risposata con un uomo di Malè che si chiama Costanzi Carlo, veterinario provinciale e ora vive a Malè.

 

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Agosti Gina

 

 

 

Era di un anno più vecchia di me, figlia di Camillo e Zanotelli Romilda, era una ragazzina pepe e sale, dal carattere ribelle e provocatorio, non si contano le liti con il maestro e le ore che passava in ginocchio dietro la lavagna. Aveva uno spiccato senso del diritto e lo dimostrava con il suo atteggiamento e le sue ribellioni. Con lei, ci siamo persi di vista dopo la fine della scuola.

 

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Zanotelli Carmen

 

 

Era un ragazzina , più giovane di me di un anno, figlia di Giovanni e Zanotelli Sabina, era una bella bambina dai capelli neri boccolati, era anche mia vicina di casa, abitava nella casa dei “ TRIPOI “ dove vive, maestoso un secolare gelso. Dolce e gentile, un giorno cadde, forse spinta, nella fontana delle scuole e ne uscì fradicia di acqua fredda, il maestro la mandò, di corsa, a casa dalla mamma che la cambiò con dei panni asciutti. Il maestro, poi ci spiegò, che l’ aveva fatta correre perché non prendesse freddo. Ha sposato un commerciante di Rumo che si chiama Martinelli Ivo.

 

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Antonioni Piera

 

 

 

Noi la chiamavamo Pierina, era figlia del falegname del paese, Pietro e di Agosti Silvia, era una ragazzina molto vivace e molto spiritosa, si era fatta subito un fidanzato, che non ricordo di dove era, non era un ragazzo locale, rimase incinta dopo poco tempo, ed ebbe subito dopo un aborto spontaneo. Ricordo questo episodio, perché mio padre era il padrino di battesimo di Pierina. Dopo la scuola, non l’ ho più rivista.

 

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Zanotelli Emma e Silvana

 

 

Erano due sorelle, la prima di un anno più vecchia di me, la seconda un anno più giovane, figli di Giuseppe e di Ilda Agosti, le ricordo perché il loro padre, che aveva una famiglia numerosa, morì in un incidente nei boschi nel 1964. Ragazzine buone, umili e semplici.

 

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Conter Luciana

 

 

 

Era la figlia di Carletta Filippi, che era venuta ad abitare nell’ appartamento di fronte al mio, dopo la morte del marito, che si chiamava Conter Ernesto ed abitava in località Toflini vicino al torrente Barnes.

Era di un anno più grande di me, era una bella ragazza, ben formata dai seni molto voluminosi.

Con lei, ho giocato tanto nei pressi della nostra abitazione e sulla soffitta. E’ partita per il Canada, alla fine degli anni 60 e non è più tornata in Italia.

 

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Conter Luisa

 

 

 

Figlia di Danilo e di Agosti Luigina, mia coetanea, era una ragazzina dolce e determinata, di famiglia povera e numerosa. Il padre era molto impegnato nel sociale e nel cooperativismo. Ha sposato un carabiniere ed ora vive Calliano vicino a Rovereto.

 

 

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Zanotelli Tullia

 

 

Più giovane di me, era figlia di Pio e Zanotelli Silvia,

abitava a in una casa vicino alla fontana di Scanna. Ha sposato un uomo di Bresimo ch si chiama Fauri Luciano.

 

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Aliprandini Dolores

 

 

 

Era sorella della mia coetanea Renata, di un anno più giovane di noi. Come tutte le sei sorelle Aliprandini, era anche lei una bella ragazzina, dai lineamenti della gente dell’ est Europa, dolce e tranquilla. Ora è vedova, il marito si chiamava Elio Kershbaumer ed abita a Mezzacorona.

 

 

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Agosti Rita

 

 

 

Era la sorella di Gina, di un anno o due più grande, l’ ho conosciuta solo di riflesso perché era due classi più avanti di me. Ragazza dolce, simpatica, ha scelto il lavoro di infermiera, ora è in pensione.

 

C’ erano, poi, molte altre ragazzine e ragazzini , molto più giovani o molto più grandi di me, che ricordo anche per nome, ma che, vista la notevole differenza di età, non facevano parte della cerchia di amiche ed amici con i quali ero solito socializzare.

C’ erano anche i ragazzi di Livo, che frequentavano la scuola elementare della frazione di sopra, conoscevo tutti abbastanza bene, perché, si partecipava alle cerimonie e funzioni religiose, tutti assieme, ma poi si frequentavano delle scuole situate in posti diversi, ed ognuno aveva i propri maestri e maestre, quasi tutti provenienti dal limitrofo paesino montano di Bresimo.

 

Dei maschi ricordo un po’ tutti, in modo particolare alcuni con i quali ho condiviso la grande avventura della giovinezza, in tutti i suoi aspetti, i più belli e dolci ed i più barbari.

Ora , cerco di ricordarli, uno per uno, con eguale stima ed identico spirito di cameratismo, poi , descriverò, più ampiamente quelli che hanno fatto la storia di quelli anni assieme a me.

Carotta Gino, Agosti Rodolfo, Agosti Gianantonio, Rodegher Gianfranco, Zanotelli Elio, Filippi Ugo, Filippi Ivo, Conter Diego, Conter Alfio, Rodegher Sandro, Zanotelli Ferruccio, Zanotelli Luciano, Rodegher Bruno, Conter Aldo, Carotta Bruno, Zanotelli Adelio, Zanotelli Aldo, Zanotelli Onorio, Agosti Vito, Zanoini Piergiorgio.

 

 

 

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Dolfo

 

 

 

Si chiama Rodolfo Agosti, è sicuramente, assieme a Gino Carotta, il compagno di scuola, di classe e di vita più caro e sincero che io abbia mai avuto e conosciuto.

Suo padre si chiamava Emanuele, ma tutti lo chiamavano Lelli, sua madre sei chiamava Lidia Depetris ed era sorella del Romano dei “ Orsi “ , padre di Sandrina. E’ fratello di Gianantonio, ma non c’ è tra loro nessuna affinità, ne di carattere, ne di comportamento, ne di pensiero, per usare un termine che da noi definisce bene simili situazioni di mancata affinità, si dice che “ non assomiglia neppure nell’ urinare “ Dolfo era, ed è tutt’ ora un ragazzo leale, con tutti, generoso ed altruista fino all’ osso, se promette qualche cosa, mantiene la parola data. A scuola era sveglio ed attento, aveva , però, un grande senso della libertà e dell’ avventura, per questo andavamo d’ accordo, allora come ora. Aveva una fantasia creativa , che ho trovato in poche persone che ho conosciuto, era sempre pronto a dare una spiegazione ed una giustificazione a tutto quello che capitava, nel bene e nel male. Aveva , ed ha un atteggiamento di assoluta lealtà nelle azioni e nel pensiero, era capace di prendere la tua difesa in ogni momento, quando vedeva che eri dalla parte del giusto, senza se e senza ma, potrei narrare decine di episodi , in tal senso.

La sua vita, non poteva che essere una continua avventura, fatta di episodi , di aneddoti veri, che poi lui raccontava… Raccontare, ecco il grande talento di Dolfo, mezza Italia lo conosce, e lo conosce ed apprezza per il suo modo brioso ed ironico di raccontare la vita, un fiume in piena di barzellette ed aneddoti, anche piccanti, ma raccontati senza mai cadere nella volgarità. Ci vorrebbe una bibbia, e forse non sarebbe neppure abbastanza, per raccontare la sua avventura, perché , per lui , la vita è stata una grande avventura, vissuta su un grande palcoscenico, a tratti felice, ed a tratti dolorosa, ma vissuta sempre con grande dignità.

Dolfo, è un uomo conosciuto, stimato ed apprezzato per il suo innato senso dell’ umorismo, della battuta facile, a lui basta vedere una persona una volta, per saperne imitare alla perfezione la voce, i movimenti, la postura, un istrione innato, un menestrello dei giorni nostri, un cantastorie che ti fa rimanere a bocca aperta ad ascoltare… La vita per lui non sempre è stata generosa e facile, dopo essersi felicemente sposato con una nostra coetanea, Francesca, ed avere avuto da lei tre figli, il destino gli si è girato contro e gli ha rubato la donna che amava. Non si è più risposato, ma ha dedicato il suo tempo e le sue energie ai suoi figli. Ora, come dice lui, è un nonno felice, intendiamoci, da grande amatore delle donne, non è mai rimasto senza, ma questo è il vero sapore della vita.

A riprova di quanto sia fatua la felicità e quanto sia labile il confine tra la vita e la morte, devo purtroppo aggiungere a questa nota biografica, un evento drammatico che ha sconvolto la vita di Rodolfo, in un incidente stradale è scomparso l’ unico suo figlio maschio Tiziano.

Duro colpo per Dolfo.

 

 

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Gino

 

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Per descrivere, in senso bonario, Gino Carotta, figlio di Cornelio e di Decaminada Albina, si può , tranquillamene, usare l’ aggettivo di cui si serviva il nostro maestro, per definirlo : pacioccone.

Era un ragazzo che era quasi il doppio di noi di corporatura, ben messo, con una faccia tonda, sempre incline al sorriso, che sembrava un sole pieno d’ estate, di quelli che ci facevano disegnare o si trovavano sui libri di testo. Era più timido di noi, e perciò era un pò la nostra spalla per tutte le marachelle ed i dispetti che si architettavano nell’ arco di una giornata.

Era un ragazzino molto buono, disponibile e generoso, certe volte, di una ingenuità disarmanti. Nella classe,sedeva nei banchi in fondo, e quando passavo vicino ai nostri banchi per andare al cestino o a fare la punta alla matita, gli preparavamo un disegno satirico e quando passava davanti al nostro banco, lo esponevamo affinché lo vedesse bene, Gino ritornava al suo banco e , dopo un attimo, scoppiava a ridere in modo molto rumoroso e incontenibile, il maestro gli andava appresso ma lui non gli sapeva dare spiegazione ed allora lo metteva in ginocchio dietro la lavagna. Un cinema, tutti i giorni un cinema…

Gino, era un ragazzo molto robusto e molto forte, perciò, quando c’ era da fare qualche cosa che richiedesse forza e potenza fisica, c’ era Gino che si prestava a tutto. Naturalmente, era grande amico di Dolfo e mio, nonché di altri, eravamo, allora, molto ingegnosi, come più volto ho riferito, e Gino era anche molto attrezzato perché aveva il padre muratore e poteva disporre di molti attrezzi da lavoro.

Nonostante i molti pareri negativi che ebbe dalla scuola, riuscì ad essere un buon muratore, si fece una piccola impresa edile , che e lavorò da muratore fino alla meritata pensione. Ora è divorziato dalla moglie e non gode di buona salute, vive in un altro paesino della valle, non si fa vedere tanto facilmente.

 

 

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Gianfranco

 

 

Era un mio primo cugino, figlio di una sorella di mio padre che si chiamava Lina Agosti e di Livio. Anche lui, come me, era nato con un difetto fisico, aveva un piede malformato e camminava leggermente zoppo.

Era stato adottato, in tenera età. Da un'altra mia zia che si chiamava Rosy ed era sposata con un uomo che si chiamava Basilio Agosti, che non avevano figli propri e la sua famiglia, perciò, divenne quella. Con Dolfo e Gino, eravamo un trio inseparabile, nel bene e nel male, amici per la pelle con una fedeltà indissolubile

Con lui ho trascorso tanti giorni della mia infanzia, era di un anno più grande di me, era un ragazzo molto ingegnoso e dalla spiccata fantasia creativa, assieme a lui, abbiamo realizzato tanti strumenti da lavoro, tanti giocattoli fatti con materiale riciclato dalle discariche che allora erano a cielo aperto ed accessibili a tutti, quando fu più grandicello, era in grado di costruire cesti di vimini di ottima fattura, che poi vendeva nei negozi della zona e che servivano durante la raccolta delle patate, allora, non esisteva la plastica per fare dei recipienti o dei cestini. Realizzammo, guardando dei progetti sui libri di studio, una lanterna magica, così allora si chiamava il proiettore di immagini, con una lente recuperata in discarica ed una lampadina, messe in una scatola di cartone, poi bisognava mettere la cartolina al rovescio, con la testa in giù, e l’ immagine appariva sul muro, ingrandita, per la messa a fuoco, bastava spostare in avanti o indietro la cartolina, avevamo fatto il primo cinema muto del paese…

Ricordo che era abbonato ad una rivista giovanile di musica ed una volta vinse una radiolina portatile in omaggio, fu’ un avvenimento, nessuno allora possedeva una radiolina, si contribuiva all’ acquisto delle pile e poi , tutti assieme, si andava in un bait o su una spleuza ad ascoltare musica alla grande potenza di 0, 25 milliwatt. Divenne un cacciatore appassionato ed esperto, andò a caccia, i primi tempi, giovanissimo, con mio padre, fino a quando mio padre morì nel 1969. proseguì l’ attività venatoria, con l’ amico Dolfo, tra uno sparo ed una barzelletta. Per un certo periodo di tempo, fino a quando lo consentì la legge, si dedico con abilità e grande fantasia, all’ attività di imbalsamatore di piccoli animali del bosco, o di trofei di caccia, esercitava questa attività durante il tempo libero dal lavoro, prima ha lavorato alla Wirphool di Gardolo, per un periodo di tempo di una decina di anni, poi , assieme all’ amico Gino, formarono una piccola impresa edile. Aveva sposato una ragazza di Revò, che si chiama Rossi Maria Cristina, con la quale ebbe un figlio di nome Michele.

Mio cugino Gianfranco, morì di malattia nell’ inverno del 2005, di lui ho un ricordo bello, che mi riporta indietro all’ epoca della nostra infanzia e fanciullezza, ai giochi, alla ricerca del nuovo e del misteriose, a quel periodo stupendo ed affascinante che era la nostra infanzia, piena di esperienze nuove, di piccole trasgressioni, del saper apprendere dagli adulti tanti segreti e saperli poi portare , di diritto, nella vita che ci veniva incontro.

 

Con i miei compagni di classe, era nata più che un amicizia, si potrebbe dire che era stato fatto un patto di fedeltà e di mutuo soccorso, nel bene e nel male.

Si cominciava ad essere abbastanza grandi per essere liberi da certi condizionamenti famigliari e scolastici, era un età che io considero la più bella ed affascinante che ci si apprestava a vivere ed a godere, era un età barbara, dove tutti i giorni erano diversi e ricchi di nuove esperienze, di nuovi capitoli che arricchivano il nostro essere fanciulli e la nostra sete di sapere, di vedere cose nuove, di applicare alla vita, nuove esperienze, mai vissute prima di allora.

Cominciavano così, anche le prime trasgressioni puerili e innocenti dapprima, decisamente più maliziose e calcolate poi, era una catena , mai interrotta, che si tramandava da sempre, i ragazzi più “ grandi “ insegnavano ai più piccoli i trucchi, l’ arte ed i piaceri della vita, nessuno escluso, compreso quello sessuale.

Erano gli anni dell’ immediato dopo guerra, erano anni di grande, comune e conclamata povertà, erano pochi coloro che avevano una famiglia abbastanza agiata da poter disporre di qualche cosa più degli altri, ma , direi, che tra le cose positive che ricordo a tale proposito, c’è da evidenziare il fatto che chi aveva qualche cosa più degli altri a disposizione, lo condivideva molto più facilmente di quanto non si faccia ora e si badi bene che allora nessun bambino o bambina, disponeva del denaro proprio da poter spendere, che non fosse quello, contato al centesimo, per acquistare il panino dall’ Anetti.

 

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L’ Anetti

 

 

Si chiama Giuseppina Zanotelli, ( dei Diki ) abita a Varollo e posso dire di sapere l’ anno di nascita, il 1924, perché la signora Giuseppina è coetanea di mia madre.

Il motivo per il quale tutti la chiamano Anetti, non l’ ho mai capito, ma un giorno di questi, appena la incontro, glielo chiedo… Anetti aveva un piccolo negozio di generi alimentai a due passi dalla scuola, al piano terreno di una casa di proprietà di un signore che si chiamava di cognome Barbera.

Intendiamoci, in confronto ai moderni negozi di oggi giorno, la rivendita della signora Anetti era un buco, ma noi scolari, ci trovavamo tutto l’ occorrente per sfamare le nostre avide bocche e anche qualche opzional, come le gomme da masticare, o “ la merda del diaol “ che altro non erano che la liquirizia in diversi formati, barrette, fili o spirali.

Quando suonava la campanelle dei 10 minuti di pausa al mattino, allora si capivano tre cose: una che erano le 10 del mattino, due che c’ era la ricreazione, che si andava dall’ Anetti a prendere pane e gianduia.

Con 10 lire di allora, circa 2 cent. di euro, si poteva comprare un panino con una grossa fetta di gianduia, che era un cioccolato bicolore, a due gusti, il colore chiaro era al gusto vaniglia, il colore marrone era cioccolato. Si faceva tutti la fila, “ popi e pope “ ( maschi e femmine ), dopo una corsa per arrivare per primi, e la signora Anetti, con un grosso coltello , tagliava a metà i panini e ci metteva dentro una fetta di gianduia… Solo chi ha vissuto nella miseria nera come abbiamo vissuto noi in quelli anni, può capire il piacere di quei momenti, lo scricchiolio del pane fresco tagliato dal grosso coltello, il profumo eccitante l’ appetito della gianduia che la signora Anetti ci metteva tra le piccole mani, allora non c’ erano le tante assurde leggi di oggi sulla distribuzione dei prodotti alimentari, dove pesa quasi di più la confezione che il prodotto che poi và consumato, allora tutti si prendeva il panino senza involucri e giù a mangiare senza fiatare fino all’ ultima briciola e poi si aveva il coraggio di leccarsi pure le dita sporche di gianduia… Che bei tempi, quanta nostalgia… e quanta solidarietà franca e genuina, se c’ era qualcuno che non aveva i soldi per il panino, lo diceva senza vergognarsi e qualcuno dei compagni lo si trovava sempre che ti dava un pezzo del suo, con la promessa di essere ricambiato quando ne avesse avuto bisogno. A volte mi chiedo e quando me lo chiedo lo trovo sempre più assurdo ed ipocrita, ma possibile che ci sia bisogno della miseria, delle catastrofi naturali, delle guerre o delle malattie, per riscoprire il valore della solidarietà umana?

Possibile che tutti quelli insegnamenti della religione, tutti quei buoni propositi che facciamo da piccoli mentre ci fanno recitare le preghiere, valgano il solo tempo di una fanciullezza e non vengano presi come un insegnamento didattico come la matematica o la letteratura, che poi vale per tutta la vita ?

Quanta ipocrisia abbiamo preso in prestito per giustificare un buon motivo per non DONARE niente al prossimo !

Ogni volta che passo davanti alla porta dove , molti anni fa, c’ era il negozio della signora Anetti, assaporo sempre il profumo di pane e gianduia, che sembra uscire ancora da quella porta ormai chiusa, e faccio sempre una mia riflessione sulla figura della signora, sul suo ruolo storico ma soprattutto sulla sua grande sensibilità, bontà ed umanità, certo, noi pagavamo il panino con la gianduia, ma il fatto che la signora Anetti non sia divenuta la proprietaria di una catena di supermercati, ma che viva ora, dignitosamente , con la pensione di vecchiaia, la colloca di diritto tra le persone buone ed oneste che io ho conosciuto in questo paese, nonostante il suo carattere forte, schietto e determinato.

 

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Lo spirito di avventura e di trasgressione

 

 

Così, accomunati da una povertà endemica, ci si accontentava di quello che c’ era e di quello che madre natura produceva, e tutti disponevano del latte fresco, delle verdure degli orti, del formaggio e delle lucaniche e pancette del maiale. Il pasto principale, il pranzo di mezzogiorno, aveva come pietanza base, la polenta, che si preparava in tutte le case, le donne accendevano il fuoco nei focolari domestici e verso le 11 del mattino mettevano il paiolo con dentro l’ acqua sul fioco, e per mezzogiorno, quando tornavamo, affamati, da scuola, la polenta era pronta e la conferma le si poteva avere, anzi sentire, dal profumo che usciva dalle finestre socchiuse.

Il companatico che si mangiava aveva un denominatore comune per tutti : era sempre troppo poco… variava , invece, da stagione a stagione, ad esempio in inverno erano preferiti i crauti con cotiche di maiale, in estate formaggio o “ pocio “ di carne, sarebbe l’ odierno spezzatino, solo che allora, trovare un pezzetto di carne nel pocio, era come trovare un gelato nel deserto del Sahara…

Tante volte, e sottolineo con grande piacere, mia nonna cucinava le lumache raccolte tra i muretti mentre tornava dal lavoro dei campi, e dico, senza paura di essere smentito, che come le sapeva cucinare mia nonna, così buone e saporite, non le ho mai mangiata dopo di allora.

Noi avevamo una fortuna in più rispetto a tanti altri, mio padre era cacciatore, ed era un tiratore scelto, anche durante la guerra che aveva combattuto in Africa nella divisione Brescia, a fianco ai tedeschi, ed in autunno, quando si apriva la caccia, portava a casa molta selvaggina che mia nonna insaporiva con aromi ed erbe selvatiche e poi cucinava con amore e grande passione ed il profumo si spandeva per tutta la casa ed il vicinato e tutti sapevano che si mangiava polenta e selvaggina.

Ai miei tempi, alle scuola non c’era la mensa, e tutti, a mezzogiorno, al suono della campanella, si precipitavano a casa a pranzare, non si perdeva tempo in chiacchiere o in giochi, per quelli ci sarebbe stato il pomeriggio del doposcuola.

Alle ore 1. 30, infatti, si ritornava a scuola fino alle 15 poi tutti si ritornava liberi alle proprie case, dove si facevano i compiti che il maestro ci aveva dato per casa e da portare in classe il giorno successivo.

Finiti i compiti, ci si sentiva liberi, per un certo periodo di tempo, per andare a giocare con i compagni, ed allora , tutta la fantasia e creatività di noi fanciulli, trovava libero sfogo nei più disparati e variegati giochi, le ragazzine giocavano con una corda in due la facevano roteare ed una terza saltava al suo passaggio a terra, oppure tracciavano a terra dei quadrati con dei numeri dentro e poi vi saltavano in un certo modo, oppure giocavano a nascondino o con un fazzoletto a chi riusciva a prenderlo e scappare, senza farsi toccare.

Noi maschi, per lo più, si giocava alla guerra o agli indiani, le ermi si facevano con le piante di nocciolo, fortunati erano quelli che avevano una pistola o un fucile giocattolo, ricordo che un estate racimolai i risparmi e mi comprai un mitra ed un elmetto americano, naturalmente di plastica, mio padre scuota la testa in segno di disappunto, poi si avvicinò, guardò l’ arma e l’ elmetto e mi disse che erano americano l’ elmo, ed inglese il mitra, disse anche una frase che non ho mai più scordato e che mi ha colpito nel profondo dell’ anima, il cui profondo valore e significato lo avrei capito più avanti negli anni, quando mio padre mi fece leggere il suo piccolo diario di guerra, nel restituirmi il mira, mio padre mi disse : “ Se fossi certo che voi foste destinati a subire le atrocità che io ho visto in Africa, vi tirerei il collo a tutti e due… “

Ai miei tempi, tutte le abitazioni, di giorno , erano aperte, nessuno si sognava di chiudere a chiave, non ce n’ era bisogno, nessuno si azzardava a prendere qualche cosa senza chiedere il permesso al proprietario, si poteva così entrare nelle case e salire sulle soffitte che erano adibite a fienile, tante volte , se pioveva, si andava a dormire sul fieno e si scendeva poi la sera con lo stesso profumo di fieno fresco come profumavano i gatti.

La mia soffitta ed il mio fienile, confinavano con una casa di un altro proprietario che era in America da molto tempo, noi avevamo tolto alcune tavole di legno che dividevano le due proprietà e andavamo ad esplorare, con grande spirito dell’ avventura e sprezzanti del pericolo, tutta la vecchia soffitta del signor Vittorio Zanotelli, detto “ Mamera “.

Un giorno, la nostra sete di avventure, fu ampiamente ripagata, sotto una trave portante del vecchio tetto, trovammo due fucili da guerra con molte munizioni a caricatori, uno era un Mauser tedesco della seconda guerra mondiale e l’ altro era uno Stayer austriaco della prima guerra mondiale, erano armi perfettamente funzionanti ed in grado di sparare, allora, nell’ immediato dopoguerra, tutti noi sapevamo dell’ esistenza nelle soffitte di numerose armi da guerra e munizioni, abbandonate dagli eserciti austriaco e tedesco in fuga nella vicina statale 42, durante i due conflitti mondiali e nascoste dai proprietari nelle soffitte. Il buon maestro Fauri, che era a conoscenza di queste armi nascoste, un giorno ci spiegò di come fosse facile morire giocando con fucili o bombe e ci fece vedere delle diapositive con tanti tipi di bombe e fucili ed alla fine dei bambini con le braccia e le gambe amputate, tutto questo per farci smettere quei giochi, tanto affascinanti, quanto pericolosi.

 

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Il fumo e il sesso.

 

 

Le “ spleuze “ ( le soffitte ) , direi che erano il regno naturale ed incontrastato di noi ragazzini delle elementari, arrivati al quarto anno, ci si considerava già “ grandi “ e pronti a fare un salto di qualità nel campo della trasgressione. Qui bisogna capirsi, per non dare addito a delle interpretazioni distorte o a delle speculazioni, chi non c’ era allora non può sapere ne tantomeno capire.

Allora,per dimostrare di essere un uomo, bisognava saper fumare, e noi ci provavamo, ma siccome il denaro per le sigarette o il tabacco più le cartine, o per la pipa, non lo aveva nessuno, non era questione di essere o no maggiorenni per poterlo acquistare, allora tutti andavano a prendere le sigarette o il tabacco per il padre, nessuna donna sposata ai miei tempi fumava, ed il barista te lo vendeva senza problemi, non c’ erano leggi che lo vietassero, solo che noi non avevamo denaro ed allora, alla sigaretta, si era trovato un degno surrogato : LA VIDEZZA.

Era una specie di liana, che cresceva nel bosco, cresceva in fretta e poi si seccava naturalmente, all’ interno era cava, aveva come un piccolo forellino e questo consentiva se accesa di “ tirare “ come una sigaretta. Si tagliava a pezzetti de lunghezza di una sigaretta, poi si metteva in bocca da un lato e dall’ altro si accendeva, faceva inizialmente una piccola fiamma e poi si tramutava in brace che ardeva piano e noi si aspirava il fumo. Era una cosa orribile, il fumo ci faceva tossire e lacrimare e ci infiammava la lingua al punto che dopo poco sembrava che bruciasse, allora si ricorreva a qualche sorso di acqua, ma mai smettere di fumare fino a quando la videzza non fosse bruciata del tutto.

Alla fine della “ sigaretta “ , ci si sentiva dei veri uomini, rincoglioniti da quella dose di fumo che ci aveva seccato e bruciato la lingua , gonfiato le labbra, tormentato i polmoni con un fumo acre a sgradevole, ma eravamo dei veri uomini, come i nostri padri, ed i nostri nonni, che oltre a fumare il sigaro, masticavano il tabacco dell’ ultimo pezzetto rimasto.

 

Nei film , si vede sempre che dopo una scena d’ amore e di sesso, il protagonista accende una sigaretta ed aspira soddisfatto il fumo, rilasciandolo a piccoli tratti a forma di cerchio, noi no , si andava a cercare il sesso, controcorrente, dopo esserci intossicati di videzze ed essere mezzo rincoglioniti.

Anche qui, bisogna intendersi bene, per non alimentare malintesi o dare spazio a falsi moralismi.

 

Qui , desidero usare la massima dolcezza e delicatezza di cui , se voglio, sono capace, per raccontare questo episodio questo con il rispetto che ho ed ho sempre avuto per la donna ed il fascino che la circonda, per quel alone di mistero e di sacro che lei rappresenta, per quella attrazione che esercita sul maschio, senza cadere nella volgarità o nell’ ipocrisia.

Nel codice di onore, mai scritto, ma sempre rispettato da tutti i maschi della scuola, vi era una regola ferrea : mai far del male ad una bambina, la femmina era considerata sacra ed intoccabile, quasi un essere superiore, perché era in grado di portare dentro di se una nuova vita, era in grado di diventare mamma e tutti noi eravamo consapevoli dell’ importanza e del valore insostituibile della nostra.

 

Tutti si erano accorti che le bambine erano diverse da noi maschietti, non solo per la gonna con annesso camice nero, ma si era capito che in qualche cosa erano diverse…

Quando, ad esempio, si usciva dalla scuola e si andava ai molini, dalla parte di Cis, per fare la lezione all’ aperto, come definivamo noi , allora, una bella scampagnata nelle calde primavere, o quando si andava nei boschi a giocare, insieme, “ popi e pope “ ( maschietti e femminucce ), succedeva che si doveva, magari, fare pipì mentre i maschietti si giravano verso un boschetto e la facevano in piedi, si notava che le femminucce, cercavano si un boschetto fitto che le sottraesse alla nostra vista, ma poi, si accucciavano abbassando le mutandine e rimanevano in quella posizione per fare pipì…

Ci si chiedeva, come avessero fatto poi a fare pipì , senza tirare fuori il pisellino, un mistero da scoprire, prima o poi, un dilemma da approfondire, come una cosa misteriosa che, però, esercitava sui maschi un fascino ed un interesse del tutto particolari.

Allora si lavorava di fantasia , di intuito, ma soprattutto bisognava saper interpretare il linguaggio degli adulti.

Quelli, a volte, si sbilanciavano, a raccontare , tra loro, dei discorsi erotici, si doveva stare molto attenti perché parlavano un linguaggio quasi cifrato, come dei codici militari segretissimi, ed ognuno carpiva e memorizzava un tassello del dialogo, con aria assente, come se la cosa fosse del tutto indifferente, guai a mostrare interesse, il dialogo si interrompeva immediatamente ed il tema passava subito a : “ Doman von a sejar su Barbonzana” e la lezione era finita.

Alla fine, si tiravano le conclusioni in una specie di forum, ognuno portava la sua esperienza che veniva messa a confronto con le altre.

C’ era chi aveva sentito dire che quella sera pioveva…

C’ era chi invece aveva sentito parlare di una gondola… di Venezia.

C’ era chi diceva che suo padre sperava di prenderla…

C’ era chi aveva sentito : la mia no l’ me la dà pu…

E chi , felice, diceva : la mia la crompa !

Quando si sentiva dire che una donna “ la crompa “, allora le attenzioni si rivolgevano a lei, ed immancabilmente, dopo poco, si osservava che la pancia della donna in questione si gonfiava, si gonfiava sempre di più, poi dopo un certo periodo la si rivedeva con un passeggino ed un pupo dentro che dormiva o piangeva, ma il mistero delle differenze rimaneva, anzi più erano dettagliati i racconti, più sorgevano interrogativi e dubbi.

Non era cattiveria, o peggio perversione, o desideri che i preti definivano impuri e peccaminosi, era solo ed esclusivamente curiosità, voglia di scoprire qualche cosa di nuovo, di capire in che cosa queste ragazzine erano diverse fisicamente.

Non so’ se oggi esista ancora questa sete di conoscenza, del voler capire voler vedere, in questo tempo dove i computer danno , quasi , tutte le risposte, dove basta un clic su un sito porno e la tua fantasia erotica viene immediatamente saziata da immagini e video che non danno addito a dubbi o ulteriori chiarimenti, tanto sono espliciti.

Non lo so, se , magari, presi dalla tecnologia, che propone dei giochi di abilità sempre più nuovi ed affascinanti, nei ragazzi di oggi si sia addormentato quel senso dell’ avventura, della ricerca del nuovo e del diverso, in tutti i campi, che era la nostra peculiarità ed il nostro modo di vivere e di divertirci, e non mi stupirebbe se fosse così, visti i sempre più difficili, tormentati e fallimentari rapporti tra maschio e femmina.

Io ero fortunato, perché mio padre era un grande appassionato della lettura, specie di romanzi d’ avventure e sentimentali, poi c’ era mia zia Gloria che era la moglie di mio zio Mario, veterinario in val Gardena e poi a Chiusa all’ Isarco, che portava da leggere a mio padre dei fotoromanzi di quelli d’ amore, allora erano proibiti perfino agli adulti, figuriamoci ai ragazzini ! Mio padre li nascondeva in soffitta, in un grande baule pieno di vestiti usati che ci aveva spedito mia zia Mary dagli USA, ma io avevo subito trovato il nascondiglio e, nei giorni di pioggia, andavo in soffitta, prendevo un fotoromanzo e mi stendevo sul fieno a leggerlo d’ un fiato, cercando tra le figure femminili, una donna che fosse leggermente spogliata e un po’ osè, ma era molto difficile trovarne una, allora la censura sulla stampa era severissima. Mi divertivo tanto a sognare ed a fantasticare sulla trama e le immagini delle storie che leggevo, che mi commovevano e mi appassionavano.

Dopo un po’ di tempo, a scuola tra i maschi, cominciarono a circolare, in modo segretissimo, dei foglietti con disegnato una bambina nuda, con una strana cosa al posto del pisellino.

I disegni li aveva portati un amico, che aveva una sorella più piccola di lui di qualche anno, e mentre sua madre le faceva il bagno, lui ne aveva approfittato per dare uno sguardo mentre le passava un asciugamano.

Il passo verso la conoscenza fu breve, un giorno, quando i suoi genitori erano nei campi a lavorare, d’ accordo con lui, lo seguii a casa sua per fare i compiti per il giorno dopo, era tornata a casa dalla classe dei piccoli, anche la sorellina del mio amico, che ci precedeva saltellando. Giunti a casa, facemmo in fretta i compiti, poi il mio amico aiutò la sorella a fare i suoi, quando ebbe finito anche lei, decidemmo di giocare tutti assieme a fare il medico ed i pazienti. Il mio amico, stabilì i ruoli, noi facevamo i medici e sua sorella la malata.

La facemmo distendere sul letto e dopo averle tastato il polso, misurato la febbre, stabilimmo che poteva avere l’ appendicite, le tirammo su la gonna e le abbassammo le mutandine, la nostra sete, la nostra curiosità, di sapere e di vedere come era fatta una femminuccia sotto, fu appagata.

Per tutto il resto, bisognava aspettare, la vita ci avrebbe insegnato e dato, poi, tutte le risposte, assieme a tante responsabilità e preoccupazioni.

Naturalmente , il mio amico fece giurare alla sorellina , che non avrebbe parlato di questo gioco con i suoi genitori e con nessun altro, lei giurò e non ne parlò mai con nessuno.

Quando diventammo più grandi, ci venne permesso di assistere, prima all’ accoppiamento tra la mucca ed il toro e poi al parto delle mucche, un avvenimento unico ed emozionante, per la prima volta che si assisteva, era l’ evento che diradava ogni dubbio e spegneva , definitivamente i sogni e le fantasie che le menti fanciulle si erano costruite su come un animale mammifero mettesse al mondo i propri figli. Era anche un avvenimento di una grande dolcezza e tenerezza, il vedere il vitellino, appena uscito dalla pancia della madre, alzarsi, traballante, e cercare subito il posto per mangiare, mentre la madre lo asciugava, amorevolmente, leccandolo da capo a piedi, era evidente e palpabile, il legame materno un istinto ancestrale, acquisito in milioni di anni di evoluzione.

Si capivano e si spiegavano , allora, quelle “ differenze “ tra noi e le femminucce, e si spiegava il motivo di tanto rispetto verso l’ altro sesso.

Credo che al giorno d’ oggi, non ci siano più quei tabù riguardo il sesso e procreazione, ed è sicuramente una cosa molto positiva, so che adesso, nelle scuole, si insegna come matteria didattica, l’ educazione sessuale, cosa che, nel tempo in cui è collocata questa storia, non si faceva, anzi, direi proprio che si ostacolava in tutti i modi. Ricordo che a me, tutto quello che concerne il sesso e la procreazione, me lo insegnò, con molta delicatezza e grande sensibilità, un frate francescano, che era il mio insegnante di storia naturale e di scienze, quando ero i collegio un anno più tardi, quando frequentavo le scuole medie.

 

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La masturbazione giovanile

 

 

( le seghe )

 

Sono consapevole di affrontare un momento della vita maschile molto delicato e che merita tanta attenzione e tanta comprensione. Succede nell’ età della pubertà , quando il cervello comincia e rendersi conto della diversità dei sessi, perché bisogna entrare nell’ ordine di idee che un essere umano è maschio o è femmina prima di tutto nel cervello ed è da lì che partono tutti gli istinti e tutti i sentimenti e non c’è niente da fare, quando un sentimento o un istinto partono dal cervello.

Mi piace affrontare questo delicato passaggio della vita di quasi tutti i maschi, molto meno le femmine, con tanta delicatezza e tanta dolcezza, perché la masturbazione non è solo un procurarsi un piacere sessuale anomalo, ma è un trovare la ragione del perché madre natura ci ha fatti maschio e femmina.

Può cominciare in qualsiasi momento della pubertà, non c’è una regola precisa, un momento stabilito, un limita di età che ne contraddistingua il suo inizio, di solito si sono avverati in precedenza degli episodi , casuali o meno, di carattere erotico che hanno stimolato la fantasia maschile ed il più delle volte accade di notte che ti svegli ansimante e tutto sudato per aver sognato un momento erotico , una ragazzina che ti piace e che chinandosi per raccogliere un fiore ti ha mostrato le mutandine e ne sei rimasto folgorato fa quella visione e magari le mutandine erano quelle della sorella più grande, tanto ampie da lasciare intravvedere una piccola fessura con qualche pelo intorno…

Ed allora la notte ti svegliavi con il pisellino che era divenuto una chiquita che non ti lasciava più riprendere sonno e ti proponeva una sensazione di piacere dolce ed inebriante, fino a quando non cedevi all’ istinto ed assecondavi il piacere con il movimento della mano , e continuavi lentamente perché questa piacevole sensazione durasse a lungo, ma poi il ritmo della mano assecondava il piacere e dopo un poco ti ritrovavi con la mano bagnata di caldo sperma e tutto svaniva come per incanto ed il pisello tornava alle dimensioni originali. La sega era finita…

C’ erano taluni amici che scoperto il piacevole gioco avevano fatto come un patto tra loro e trovavano il tempo, ed il luogo, normalmente i baiti, per masturbarsi a vicenda tra maschi, con le ragazzine accadeva solo se lei si rifiutava di avere dei rapporti sessuali di altro genere.

Ai miei tempi il sesso era visto come un’ aspettativa, come un esigenza del maschi e della femmina finalizzata anche e soprattutto al piacere sessuale reciproco che veniva appagato normalmente dopo il matrimonio o nei casi nei quali il rapporto avveniva prima, nell’ ipotesi sempre probabile che lei rimanesse incinta, era obbligo assoluto riparare con il matrimonio, in pochi csi che io ricordo non si è rispettata questa regola.

Ai miei tempi il sesso non era , come si fa erroneamente credere adesso, un diritto acquisito dal maschio, ma era una cosa discussa, ragionata e capita dal maschio che per non rovinare una bella relazione d’ amore vero con una ragazza che credeva ancora al valore della verginità e della purezza, piuttosto che pretendere il sesso con la violenza o con l’ astuzia, preferiva farsi una sega la notte e si raffreddavano i bollenti spiriti. Si sapeva anche che alla prossima confessione bisognava raccontarlo al prete che se avesse potuto fare la collezione e fosse stata una cosa da vendere sarebbero tutti ricchi senza passare a raccogliere l’ elemosina in chiesa.

Si è detto e scritto un infinità di cose sulla masturbazione giovanile, ma io sono fermamente convinto ce un maschio giovane, se sano, abbia l’ esigenza di masturbarsi , perché per il maschio la masturbazione è una fonte di sfogo sessuale gratuita ed innocua verso l’ altro sesso, è anche un momento di grande dolcezza dove il pensiero diventa erotismo e compensa la mancanza di una entità femminile alla quale però tutto l’ essere maschile dei giovani è naturalmente e fatalmente attratto fin da ragazzo, nei modi più disparati e in questa fase, secondo il mio punto di vista, influisce tanto il destino e quelle ataviche forze dell’ istinto di conservazione che fanno in modo che due esseri di sesso diverso si innamorino perdutamente tra di loro per poi generare dei figli che altro non sono che il logico risultato dell’ attrazione sessuale reciproca e dell’ accoppiamento sessuale tra maschio e femmina che genera un piacere a livello cerebrale e corporale tale da accettare e giustificare poi tutti i sacrifici di crescere una nuova vita.

Sembra banale, perfino a tratti puerile, ma se così non fosse il genere umano si sarebbe estinto da millenni, perché la vita che nasce altro non è che il frutto inconsapevole che viene determinato dal destino ed assecondato dalle stelle, perché tolti i falsi moralismi e le bigotte prediche dei preti, durante un rapporto sessuale o se preferite un atto di amore, nessuno dei due interessati pensano minimamente al prodotto finale di quell’ accoppiamento. La saggezza di mia nonna spiegava con queste parole l’ evento del concepimento : “l’ uomo propone e Dio dispone “

 

 

Ancora oggi, quando mi ritrovo, casualmente, o in qualche ricorrenza, con i miei compagni di classe e di avventure, ritorniamo spesso, con la mente, a quegli episodi puerili, lontani nel tempo e ci scherziamo un po’ sopra, ma subito dopo, ci ragioniamo e facciamo i confronti tra i comportamenti, il modo di vedere le cose, gli atteggiamenti che avevamo noi, 50 anni or sono e l’ apatia, la mancanza di fantasia e di spirito di avventura dei giovani d’ oggi e concordiamo sempre, che il periodo della nostra giovinezza, è stato un periodo bello, libero da condizionamenti esterni, come la televisione ed il pc e tutti i suoi derivati, dove la scuola aveva un ruolo istituzionale di alto profilo ed era in grado di soddisfare la sete di sapere della gioventù, senza cadere nella demagogia o nella banalità, ma cercando e trovando sempre nell’ osservazione e nel rispetto della natura, nuovi ed interessanti temi da prendere ad esempio nella didattica.

 

 

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I “ sesseri “

 

 

I “ sesseri “ erano della palline della dimensioni di circa un centimetro di diametro, inizialmente erano in argilla cotta, in terracotta, la produzione era propria, le fabbricavamo noi ragazzini. C’era una località subito sotto il paese di Varollo dove scende uno dei tre fossi che servono per il deflusso delle acque piovane, il fosso di Prà Cavà. In quella località infatti c’era una vecchia cava di argilla, non saprei dire se nei tempi passati è stata o meno sfruttata dalle popolazioni, a me pare che sia semplicemente il risultato di molte frane che hanno interessato nei secoli quella zona, portando via il materiale meno aderente e mettendo così in rilievo l’ argilla che è un materiale molto impermeabile appiccicoso e resistente nell’ acqua.

Si andava in quel luogo con dei secchielli ed una cazzuola da muratore e si prelevava un po’ di argilla, quel tanto che bastava per poi ricavare una certa quantità di sesseri. Tornati a casa si preparava un imparto di argilla miscelandola con l’ acqua e poi si procedeva alla formazione delle palline con le mani facendole girare tra i palmi ed ottenendo così della minuscole sfere. Finito il lavoro della sagomatura, si passava alla cottura delle palline che venivano messe nel forno del focolare a legna quando la mamma cuoceva il pranzo o la cena.

Non tutti i sesseri si cuocevano bene e restavano interi, una buona percentuale si rompeva durante la cottura o usciva dal forno screpolato e si rompeva al primo tiro.

Certo non erano perfette, ma servivano comunque al nostro scopo bastava che rotolassero sul terreno.

C’ erano tanti giochi che si potevano fare con i sesseri, quello che ricordo meglio era quello che consisteva nel mettere la pallina sopra il pugno chiuso, in quella piccola conca che si forma davanti al dito pollice e poi colo stesso dito si colpiva la pallina mirando a quella degli avversari, chi colpiva quella di un avversario se ne appropriava. Arrivarono poi i sesseri in vetro che venivano recuperati dalle bottiglie della gazzosa nel cui colo ce n’era una che aveva il compito di far passare l’ aria mentre si versava il contenuto nel bicchiere.

Quelle erano palline sferiche perfette e chi le possedeva era di gran lunga avvantaggiato nei vari giochi. Questi erano i giochi della mia infanzia, giochi semplici, elementari e soprattutto che non avevano costi di realizzazione, tutto era autoprodotto, i carretti le slitte per la neve, gli archi le frecce, le fionde, spade, fucili, era tutto un concorso con la fantasia, l’ inventiva e tanto ingegno. Molti ragazzi di oggi, non riescono neppure a piantare un chiodo.

 

 

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Garofani e bacche

 

 

Noi ragazzini, conoscevamo il vicino bosco di Somargen, meglio delle nostre tasche, tra i nostri divertimenti estivi preferiti, infatti, c’ erano le scorribande nel bosco , per il sentieri che ora non sono più visibili, erano scorciatoie che ti permettevano di arrivare rapidamente in fondo al bosco, vicinissimo al torrente Pescara, il bosco era solcato da una miriade di sentieri, che portavano in località diverse, allora il bosco era molto battuto, in tutte le stagioni, alla ricerca dei prodotti che offriva a tutti coloro che sapevano cercare con conoscenza ed esperienza, c’ erano infatti funghi di varie specie commestibili, asparagi selvatici, nocciole selvatiche, more e mirtilli ed altri frutti.

C’ erano anche le famose videzze, tanto ricercate da noi fumatori, a volte si andava a pescare di frodo, si portava da casa un paio di metri di lenza, alcuni ami, allora questi oggetti erano facilmente reperibili, al primo mucchio di letame si faceva il pieno di vermi belli grossi e poi giù a gambe levate fino al Pescara, arrivati nei pressi del torrente, con il coltello che tutti avevano il tasca, si tagliava un ramo di nocciolo che sarebbe servito come canna per pescare. Ci si metteva in posti molto nascosti, per non essere visti dalle Guardie o da qualcuno che poi lo avesse potuto riferire ai nostri genitori e si metteva la lenza in acqua, dopo aver messo un grosso verme attaccato all’ amo.

Eravamo abbastanza abili, perche tutti avevano il padre o un parente pescatori, e , a giorni, quando le trote “ beccavano “, se ne prendeva parecchie. A casa , dopo il tradizionale rimprovero, la mamma però le metteva in padella soddisfatta di poter mangiare qualche cosa di diverso e più nutriente della solita polenta.

C’ erano dei posti dove crescevano dei fitti rovi, che producevano dei fiori bianchi che diventavano poi delle bacche di un colore arancione scuro, una bella tonalità del rosso, erano a forma di un piccolo ovetto allungato.

Noi , nel nostro dialetto, le chiamavamo “ cjalcja vecle “ che tradotto alla lettera significherebbe schiaccia vecchie, penso che il nome scientifico di questo frutto sia***** , so che con i fiori secchi si può ottenere una buona tisana rilassante.

A volte , portavamo con noi dello spago sottile e resistente, quello che serviva per fare gli insaccati e le lucaniche, e , con un ago, infilavamo le bacche nello spago e si formava una bella e coloratissima collana, che si poteva fare doppia o tripla, a seconda della lunghezza dello spago e della nostra fantasia.

Se si andava , invece, sulla Crozza di Barbonzana, che ra un piccolo bosco di noccioli che crescevano, stentati, tra le rocce calcaree, nella misera e sempre arida erba che cresceva negli spiazzi e vicino alla grande croce di legno, si potevano trovare dei piccoli e profumatissimi garofani selvatici di colore rosso fucsia, li raccoglievamo e ne facevamo dei piccoli mazzetti, uno lo mettevamo ai piedi della croce e gli altri , assieme alle collane, li regalavamo alle nostre ragazzine, che, orgogliose, tornavano a casa con la bella collana di bacche al collo ed un mazzetto di fiori tra i capelli… Quanta dolcezza si usava avere ai miei tempi, verso le femmine, le ragazzine erano considerate come un mondo a parte, delicato, dolce e soprattutto da rispettare ed onorare, anche con una semplice collana di bacche o un mazzolino di fiori… Altri tempi, e che bei tempi! E quanta nostalgia !

 

 

 

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l’ bait “

 

Le baite

 

Tutto il territorio del mio paese, a partire dal fondo valle, fino ad arrivare alla quota di alta montagna, è punteggiato da decine di “ baiti “ che sorgono a fianco delle strade poderali, forestali e montane.

Il “ bait “ è una piccola abitazione, costruita generalmente in legno, non mancano però quelli costruiti in pietra, in esso si trova sempre un focolare, ai miei tempi, ancora aperto con la fiamma libera, come un caminetto, c’ era anche un giaciglio, simile ad un letto, formato da un vecchio materasso o più semplicemente da paglia o fieno. In quelli dei poderi coltivati a vigneto, c’ era una vasca in cemento o un grosso bidone di metallo per la raccolta dell’ acqua piovana, che sarebbe poi servita per miscelare i prodotti antiparassitari, come rame, zolfo, ecc. che servivano per irrorare le piante di vite, Il “ bait “ è l’ abbreviativo di baita di montagna, che è una costruzione tipica delle zone alpine e di montagna, tanto apprezzate dal moderno turismo, che cerca quei luoghi che ha contribuito a distruggere in questi anni, con una discutibile mentalità consumistica, che ha privilegiato il turismo di massa, le crociere sulle grandi navi, i safari ecc.

E’, però, anche il sinonimo di precarietà, di povertà, di una situazione provvisoria e destinata a pochi giorni di utilizzo nell’ arco dell’ anno. Il “ bait “, infatti, era utilizzato dai contadini e dagli allevatori di bestiame, come rifugio provvisorio per il tempo strettamente necessario a finire il lavoro agreste in quella località, che risultava troppo distante da casa per poter far ritorno il mezzogiorno per pranzo o in certi casi, serviva anche come rifugio per la notte, specie quelli di montagna.

Nel bait “ ci si portava il cibo, gli attrezzi per il lavoro

Ci si arrivava, al mattino presto, a piedi o con il carro agricolo trainato dalle mucche o dal cavallo, si depositavano gli attrezzi agricoli e si mettevano le mucche, legate, nel lato opposto all’ ingresso, all’ ombra e veniva dato loro dell’ erba raccolta intorno ed un secchio di acqua da bere, poi si iniziava il lavoro nei campi o nella vigna. Quando la campana suonava le 11, la donna lasciava il campo ed andava nel “ bait “ a preparare il pranzo per il resto della famiglia che era venuto a lavorare nei campi. Per lo più, in estate, non si accendeva il fuoco, perché troppo caldo e troppi pericoli di incendi boschivi, si preferiva mangiare al sacco, polenta fredda e formaggio o lucaniche, un bicchiere di vino buono per gli adulti maschi e del caffè di orzo freddo con un po’ di vino dentro, per le donne.

Solo tempo dopo, con la disponibilità dei moderni contenitori termici e delle bombolette di gas portatili, fu possibile avere un pasto caldo, minestrone o spezzatino e polenta tenuti al caldo dalle termoos o scaldati sui fornelletti a gas, alla fine si metteva sul fuoco una moka di caffè del moro e per i maschi ci si aggiungeva anche un goccio di grappa come correzione, insomma un lusso !

 

Dopo pranzo ci si riposava un poco, a volte c’ era il tempo per un sonnellino, in attesa che il sole seccasse il fieno, ed allora nel “ bait “ c’ era l’ angolo attrezzato con un vecchio materasso e delle vecchie coperte e lì ci si sdraiava e ci si riposava per un pò di tempo.

C’ erano dei “ baiti “ che disponevano anche di un sotto tetto, come una piccola mansarda, ci si accedeva mediante una scaletta a pioli, poi , si doveva camminare abbassati perché lo spazio era poco e basso, però per dormire si stava comodi ed all’ asciutto. Il “ bait “, era un luogo che esercitava un certo fascino, specie su noi ragazzini, era sempre un avventura nuova tutte le volte che si andava in un podere dove c’era il “ bait “, ci si poteva divertire giocando a nascondino, alla guerra, o agli indiani, i “ baiti “ erano sempre aperti, c’ è una legge che lo stabilisce con il criterio di essere dei rifugi in caso di maltempo o perché si era fatto tardi nel campo e la notte stava per calare e non si riusciva a fare ritorno a casa, allora si pernottava nel “ bait “ e con l’ occasione ci si alzava presto al mattino, quando l’ aria era fresca e le membra rilassate dal sonno, per iniziare di buona lena il lavoro.

Un particolare e nuovo affascinante richiamo, quasi un profumo di novità e di primavera, venne poi esercitato dai “ baiti “, quando fui più grandicello, e madre natura mi faceva capire tante differenze tra me e le mie amichette, quando la vita chiede il tuo contributo alla perpetuazione della specie, e lo fa in modo elegante, dolce, gentile, ti fa notare certe diversità tra te e la ragazzina, che non la vedi più con gli occhi di un bambino, ma sei attratto proprio da quelle diversità nascoste e la curiosità lascia il posto ad altri sentimenti di dolcezza verso quella creatura che ti sembra esile, indifesa, che sembra voglia chiedere il tuo aiuto, la tua protezione, ma non è così, e scopri invece che è un essere forte, a volte testardo, ma sempre dolce, schietto e deciso, e a questa femmina, prima o poi, ti attacchi e non ti separerai mai più.

Ma cosa c’ entrano i “ baiti “ in tutto questo ?

Sono stati e restano per me l’ inizio dell’ avventura della vita, quando ti senti un eroe, capace di abbattere il mondo, quando saresti pronto a morire per lei, quando, oltre lei, non c’è nessun altra, c’ è solo il vuoto nello stomaco che ti rode, e allora la portavo nel nostro “ bait “, soli, la domenica pomeriggio, con il registratore a bobina che suonava le musiche degli anni ’60, quelle vecchie canzoni melodiche… che tenerezza, che nostalgia. E si restava, soli, un aranciata per due cannucce, i biscotti fatti in casa da lei, si ascoltavano quelle canzoni di una volta, quando finiva il nastro lo si girava sul lato B, e così fino all’ ultimo milliampeere delle pile. A volte io portavo con me la mia armonica a bocca, così, quando erano finite le batterie del mangianastri, mi mettevo a suonare qualche canzone, per allungare il tempo di permanenza nel “ bait “. Qualche piccola avance era quasi d’ obbligo, per il maschio, ma si otteneva al massimo un bacio su una guancia, e speravi che ti rimanesse il segno del rossetto delle sue labbra, per poterlo vantare davanti ai tuoi amici, non si andava mai oltre, c’era una morale rigida ed assoluta in materia di sesso e tutti rispettavano queste regole, ed era bello parlare assieme, scoprire un mondo nuovo, quell’ universo che è la donna, la sua semplicità e la sua tenacia, la sua dolcezza e il suo calore umano che la rende prima femmina, poi madre.

 

Ancora oggi, a distanza di anni, ricordo con infinita dolcezza quei momenti spensierati e felici, avevo solo poche lire in tasca, come tutti allora, ma con quel poco, unito a tanta fantasia e tanta gioia di vivere, nonostante tutti i miei handycapp, siamo riusciti a divertirci , con semplicità, in modo sano e corretto. Ricordo quel tempo con una struggente nostalgia, e quando ho modo di rivedere quelle mie amiche, ricordiamo insieme quei giorni fatti di vento, di vecchie canzoni, di infinita dolcezza, trascorsi nel “ bait “ , e mi sento in obbligo di ricordare, con riconoscenza, questi luoghi, per le lezioni di vita che mi hanno saputo dare, mi hanno insegnato che le donne hanno bisogno di uomini che le portino rispetto, le amino con tanta dolcezza, e sono capaci di ripagarti con la loro vita.

 

 

 

 

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Il lago

 

 

Una delle maggiori attrazioni di noi ragazzini delle scuole dei grandi di quarta e quinta elementare, era il vicino lago di santa Giustina.

Voglio qui tracciare una breve storia del lago artificiale di santa Giustina, è un bacino artificiale per la produzione di energia elettrica sfruttando la potenza dell’ acqua mediante condutture forzate.

Il progetto risale al periodo antecedente la seconda guerra mondiale ma venne momentaneamente accantonato per via della guerra che si mangiava tutto il bilancio dello stato e non disponeva di risorse per il proseguimento dei lavori di costruzione della diga di contenimento delle acque del futuro lago.

Dopo la guerre i lavori ripresero con energia e slancio e la diga solidamente piantata tra due spalle di roccia alte 150 metri crebbe a vista d’ occhio ed il primo invaso del lago ebbe luogo nel 1951.

Il bacino artificiale detenne per anni il primato europeo della diga più alta, venne poi superato di pochi metri da una diga in Svizzera, l’ invaso contiene a pieno regime 200 milioni di metri cubi di acqua e le turbine situate nel comune di Taio generano 1000 mega watt ora. Il lago viene alimentato dall’ acqua del fiume Noce e dei torrenti Barnes, Pescara, Novella e rio san Romedio, questi sfociano nel lago da anse molto simili ai fiordi norvegesi che prima erano il naturale letto dove scorsero per millenni.

Il lago era un’ attrazione per tutti noi , l’ attrazione ancestrale dell’ acqua che è sinonimo di vita di benessere di giochi e di avventure.

Io ho imparato a pescare da mio padre che era un ottimo pescatore di frodo perché non si poteva permettere il lusso di pagare la licenza di pesca.

Andavamo a pescare alla foce del Barnes che a dire il vero allora era una discarica a cielo aperto dove vi galleggiavano oggetti di ogni tipo ed animali morti in decomposizione, non era un gran bel posto ma si potevano pescare trote, scardole e pesci sole che abboccavano tutti abbondantemente.

Con i miei cugini ci recavamo spesso anche a Zura in un posto dove non c’erano le rocce e la spiaggia scendeva dolce verso il lago, anche qui si pescava di frodo scardole ed altri tipi di pesce.

Come canna da pesca usavamo dei rami di nocciolo che tagliavamo poco prima nel vicino bosco, ci legavamo alcuni metri di lenza con all’ estremità l’ amo ed il galleggiante ricavato da un tappo di sughero di una damigiana e verniciato di rosso sulla parte superiore per poterlo vedere bene. Ci sedevamo ed accendevamo un piccolo fuoco che dava maggior stimolo alla fantasia ed allo spirito di avventura, alle volte portavamo un po’ di sale da casa e cuocevamo dei pesci alla brace magari con delle patate rubate in qualche campo vicino… ci sembrava di essere i protagonisti dei libri di avventure che leggevamo a scuola come Pom Sawer e Robinson Crosue.

Una cosa mi pare giusto annotare raccontando la storia del lago e le avventure sulle sue rive, non ricordo che si sia mai annegato nessuno accidentalmente negli anni di quando eravamo ragazzini e neppure dopo, ad esclusione dei numerosi suicidi.

 

 

 

 

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La festa degli alberi

 

 

Una ricorrenza che ricordo con tanto piacere, era la festa degli alberi. Tutti gli anni, verso la fine dell’ anno scolastico, a primavera inoltrata, gli insegnanti, in accordo con le Atorità comunali e delle ASUC , sceglievano una giornata da trascorrere nei boschi vivono al paese, dedicata alla natura, agli alberi ed al loro rispetto. Naturalmente la festa veniva preparata prima nelle varie classi, con delle piccole recite o delle poesie in tema. Arrivato il giorno stabilito, ci si doveva presentare a scuola con un abbigliamento idoneo alla giornata che si andava a trascorrere, scarpe grosse, calzettoni ed una maglia pesante in caso di maltempo.

Veniva consegnata la bandiera nazionale ad uno dei ragazzi di quinta che si metteva alla testa del corteo, poi si partiva alla volta del bosco, rigorosamente a piedi e cantando delle allegre canzoni popolari o di montagna. Per arrivare al bosco più vicino, ci si impiegava un oretta scarsa, quando si arrivava, si trovava il posto già preparato ed attrezzato dagli uomini della forestale, ASUC e del Comune, erano state preparate numerose buche dove si sarebbero messi a dimora degli alberelli di abete che gli uomini della Forestale avevano portato con loro dai vivai.

L ‘ operazione di messa a dimora delle piantine, era preceduta da una breve cerimonia, dove veniva messo in evidenza l’ importanza dei boschi e della flora selvatica, per la salute dell’ uomo, per il suo relax e per le innumerevoli quantità di prodotti che il bosco offriva, dalla legna da ardere, a quella per uso industriale, ai piccoli frutti del sottobosco.

Seguivano poi le scenette e le poesie che ogni classe aveva preparato per l’ occasione ed infine , ad ogni bambino e bambina, veniva consegnata una piantina di abete e veniva aiutato a metterlo a dimora nella terra smossa delle buche.

Era un fatto emozionante, specie per i più piccoli, il sapere di avere un abete di loro proprietà era affascinante e, molti, segnavano la piantina con un filo di lana colorato, per distinguerlo dagli altri e poi ne seguivano la crescita per anni.

Per pranzo, ci veniva fatto omaggio di una sacchetto di carta che conteneva un panino imbottito con salame o formaggio, una bibita ed una mela, ci si sedeva sotto i grandi abeti del bosco e si mangiava in allegria.

Alla sera si ritornava a casa, stanchi da morire, per le corse tra i boschi, i giochi e la strada percorsa a piedi, ma con il cuore felice per questa estemporanea scampagnata.

 

 

 

 

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La compagnia teatrale

 

 

Capitava di frequente, quando ero ragazzino, che in paese facesse tappa una compagnia teatrale, proveniente dalle più disparate parti del nostro paese.

Nella maggior parte dei casi, la una famiglia patriarcale che aveva scelto quel tipo di lavoro e recitava commedie più o meno drammatiche, spostandosi di paese in paese, portavano quello che allora era una cultura nazional popolare molto in voga tra le campagne. Erano piccole compagnie nomadi che raccontavano in maniera teatrale, i drammi e le storie vere di quei tempi.

Andava tanto di moda, recitare le storie biografiche dei santi più popolari, specie dei martiri, come la storia di santa Maria Goretti o gi santa Genoveffa.

Alla commedia, seguiva sempre una farsa comica che concludeva lo spettacolo.

La compagnia rimaneva in paese una decina di giorni e recitava il meglio del suo repertorio.

Il teatro allora era situato nel piano superiore del Dopolavoro, dove ora , credo, sia sistemata sede della Pro loco, era un teatro piccolo, con le panche ed il pavimento di legno, la sede era di proprietà della Società Operaia Cattolica fondata da un parroco ****.

Erano attori bravi e preparati, allestivano le scene con materiali che portavano con se, si avvalevano anche della collaborazione di gente locale che li aiutava nei lavori, faceva la comparsa o qualche piccola parte, ma , soprattutto aiutava loro nella parte logistica.

Era sempre una novità ed una grande emozione partecipare alle recite, a me, ad esempio, piaceva un mondo recitare ed ero anche bravo. Il piccolo teatro, si riempiva in fretta di gente, uomini, donne e ragazzi, si potevano ammirare le innovazioni tecnologiche che non si era mai visto prima di allora, come luci speciali, esplosioni con fuochi pirotecnici ed altre meraviglie della tecnologia applicata al teatro. Dopo un ora il teatro era pieno di fumo di sigaretta, allora non c’ era il divieto di fumare in luoghi pubblici egli uomini si accendevano comodamente le loro sigarette.

Il giorno successivo al loro arrivo, si presentò alla nostra scuola un signore che accompagnava una bella ragazzina, parlò con il maestro un attimo, poi uscì lasciando la bambina assieme a noi. ‘ E’ stata una grande sorpresa per noi, allora non c’ erano scuole multirazziali, allora eravamo noi italiani ad essere costretti ad andare per il mondo in cerca di lavoro, tutti, infatti, avevano in famiglia qualche parente che era emigrato in America o in altre parti del mondo, io avevo tre zii, fratelli di mio padre, emigrati, Mary e Niky negli USA e Ada in Belgio, successivamente, nel 1966 – 67, partirono per gli USA , un'altra zia, Lina, assieme al marito ed a tre miei cuginetti Roberto, Sandro e Lino. Non ricordo più il nome di quella ragazzina, ricordo il suo viso dolce, era figlia di gente bella per natura e per il lavoro che facevano erano quasi obbligati ad esserlo. Le sere delle recite, rivedevo la ragazzina sul palcoscenico, che recitava qualche piccola parte nei ruoli di bambini o di quando il protagonista era ancora giovane, era brava ed elegante nella postura, e riceveva molti applausi da noi anche eravamo per un po’ di tempo, i suoi compagni di classe. Questo piccolo episodio lo ho raccontato per marcare la differenza di comportamento che c’ era 50 anni fa, in merito alla presenza di persone estranee nei paesi, e il differente modo di approccio nei loro confronti. Si veniva dal periodo del Fascismo, dove si diceva che eravamo razzisti e colonialisti, è vero, la parte peggiore del regime aveva proclamato le leggi razziali contro gli Ebrei, ma da noi tutto questo era molto lontano, quasi virtuale. La prova ne è che allora il padre di quella ragazzina, con due parole dette al maestro, aveva sistemato la propria figlia a scuola, nessuno aveva protestato, ne noi ne tantomeno i nostri genitori, impegnati in ben altri problemi e stanchi dal duro lavoro dei campi. Allora mi viene spontanea questa domanda e questa riflessione, ma questo razzismo, tanto ostentato dai movimenti antifascisti, era zero o esagerato ad arte ? Alla mia età non l’ ho mai visto ne vissuto, molti anni dopo, quando la società di dichiarava libera, democratica, rispettosa dei diritti umani, ho visto, episodi di puro ed ignorante razzismo nei confronti di popoli, etnie e religioni, diverse dalla nostra… Forse è vero che le barbarie ed i crimini, vengono sempre attribuiti agli sconfitti.

Quando se ne andò, la ragazzina ci salutò ad uno ad uno, anche noi la salutammo e le dicemmo arrivederci, e buona fortuna, se ne andava da noi, e domani sarebbe entrata in una scuola di un altro paese.

 

 

 

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LA CENTRALE ELETTRICA

 

 

Prendo spunto da un grave infortunio sul lavoro accaduto all’ inizio dei lavori per la costruzione del nuovo e più moderno plesso scolastico che doveva ospitare gli alunni di Livo, Varollo e Scanna, del quale erano in corso i lavori preliminari di bonifica del sito.

Nel prato in località “ gaggià “ che era stato acquisito dal comune per l’ imminente opera pubblica, passava la linea elettrica aerea della media tensione che alimentava il trasformatore di corrente posto nei pressi della CAM ( Consorzio Agricoltori Mezzalone ) di Scanna che serviva poi gli abitati di Varollo con la tensione a 220 Volt e Scanna invece con 120 Volt.

Per poter iniziare i lavori di costruzione delle nuove scuole si era reso necessario effettuare una deviazione della linea elettrica con la deviazione della condotta elettrica e la conseguente eliminazione di alcuni pali di sostegno in legno .

Incaricato del lavoro era un operaio addetto alla manutenzione della linea elettrica di proprietà dell’ Ingegner Gius in società con altri che forniva elettricità al comune di Livo.

L’ operaio che si chiamava Alessandri Livio ( Soler ) si era accordato con i responsabili della centrale che per una determinata ora del mattino dalla centrale sarebbe stata sospesa l’ erogazione di energia per consentirgli di lavorare in tutta sicurezza.

All’ ora stabilita il signor Alessandri calzò le staffe si mise la borsa degli attrezzi a tracolla e salì sul palo di legno per tagliare i fili e predisporre la deviazione che avrebbe by passato la zona di lavoro.

Arrivato sul palo l’ uomo sicuro che la linea non fosse in tensione, iniziò il suo lavoro ma appena toccò con una trancia un filo fu colpito da una violenta scarica di corrente che lo tramortì rimase lì attaccato al filo mentre il braccio continuava a fare arco e bruciare. Fu dado immediatamente l’ allarme e dalla centrale venne sospesa l’erogazione, arrivarono i colleghi e l’ ingegner Gius che salì sul palo imbragò il ferito e lo portò a terra.

In quell’incidente il signor Alessandri perse il braccio ustionato dalla corrente, ma nonostante questa grave menomazione continuò a lavorare da fabbro e meccanico con una forza di volontà degne dei grandi uomini di quel tempo, seppe rimediare alla sua grave menomazione con un ingegno ed una creatività degni del grande Leonardo da Vinci, seppe mantenere se e la sua famiglia in modo autonomo e con la dignità di un grande uomo che aveva fondato tutta la sua vita sulla forza insostituibile dell’amore ed attaccamento al lavoro che rende liberi ed autonomi e sa superare ogni ostacolo che la vita ci mette davanti.

La centrale elettrica che produceva l’ energia necessaria al fabbisogno dei comuni di Livo, Cis r Bresimo era situata sul torrente Barnes in località Molini. Dal torrente attingeva l’ acqua necessaria e il suo funzionamento mediante una condotta forzata che alimentava i generatori. Da scolari con il maestro Ernesto Fauri, si andava a visitarla almeno una volta all’ anno ed era uno spettacolo affascinante il vedere le grosse turbine che ruotavano veloci e gli strumenti che segnalavano la tensione in uscita e l’ amperaggio prodotto.

Un vero delitto averla abbandonata in quel modo senza guardare minimamente al futuro incantati dalle sirene dell’ ENEL che prometteva a tutti energia a basso costo ed in quantità illimitata per quel tempo.

Così quando il signor Pancheri Giuseppe proprietario di una segheria a Preghena chiese ed ottenne di diventare cliente dell’ ENEL, l’ Ente pubblico fu ben felice di rompere il monopolio della piccola centrale dell’ ingegner Gius ed entrare trionfante come maggior offerente che garantiva energia senza soluzione di continuità ed a prezzo più popolare. Fu così che la piccola centrale non ebbe più ragione di esistere e venne ben presto dismessa ed abbandonata. Un vero peccato, ma soprattutto questo fatto denota la scarsa o nulla lungimiranza degli Amministratori di quel tempo che non hanno capito l’ importanza dell’ energia polita e dell’ autofinanziamento che ne poteva derivare per l’ Ente pubblico se solo la centrale fosse stata rilevata dal Comune o da una società collegata, con una piccola spesa di ammodernamento e potenziamento si avrebbe avuto l’ energia elettrica a basso costo con notevole beneficio per le casse comunali. Mi ricordo quando l’ ingegner Gius passava per le case a leggere i contatori con un grande libro sottobraccio e dopo poco tempo tornava con la bolletta a riscuotere il denaro in base al consumo di ogni utente. Noi abitanti di Scanno aravamo servita con la corrente a 120 volt perché altrimenti la potenza della centrale non sarebbe bastata per tutti e questo fino all’ avvento dell’ ENEL nei primi anni ’70 che diede a tutti gli utenti di Livo la tensione a 220 volt.

Che fascino quei pali di legno, che non ce n’era uno dritto, con quelle pipe di maiolica bianca che noi ragazzini ci si giovava a bersaglio con la fionda, e quei cavi tutti contorti e pieni di giunture che ogni tanto qualcuno si rompeva e cadeva al suolo tra enormi scintille e schiocchi come una grande frusta. Allora le norme di sicurezza erano agli albori e nonostante il cartello posto alla base dei pali con la scritta “ chi tocca i fili muore “ con annessa bandiera dei pirati, noi ragazzini si faceva comunque a gara nel salire sui pali fino a quando non si sentiva il ronzio della corrente, per appagare fino in fondo lo spirito di trasgressione ed il gusto del proibito, per poterlo poi vantare davanti ai compagni e mostrare le ginocchia ridotto ad una piaga sanguinante dalla quale con un dito si era preso l’ inchiesto indelebile del proprio sangue per segnare sul palo il punto massimo di dove si era riusciti a salire.

Solo chi ha vissuto quei giorni riuscirà a capirmi…

Un giorno di marzo di quest’ anno 2014, sono tornato alla vecchia centrale dei molini sul torrente Barnes e con grande sorpresa ed emozione ho scoperto che ci sono ancora depositate vicino al fabbricato alcuni pezzi delle tubature della condotta forzata che ho provveduto a fotografare. Il fabbricato che ospitava la centrale è ancora in buono stato e non sembra abbandonata e senza un proprietario, ora è circondata da meleti che la avvolgono in una dimensione diversa da quella che ricordo quando ce la facevano visitare con la scuola a scopo didattico, a nord dell’ edificio, molto vicino alla torre di distribuzione da dove partivano i cavi che trasportavano la corrente elettrica, ora c’è alto e maestoso un palo di cemento dell’ ENEL che con la sua spietata concorrenza ha segnato la fine della vecchia centrale.

Molto più a valle, in località Pongel proprio al lato opposto dove c’ era il prato di mia proprietà e del quale tanto ho parlato in questo libro, c’è una seconda centralina elettrica privata con una piccola partecipazione pubblica, è una centralina costruita negli anni ’80 di bassa potenza che immette la tensione prodotta direttamente nelle linee dell’ ENEL.

Una mia personale convinzione è che tutte questa miriade di centraline sui torrenti non risolvano da sole il problema del fabbisogno collettivo di energia elettrica ma sia solo un pagliattivo “verde” ed ecologista, con al rovescio della medaglia il prosciugamento di lunghi tratti dei torrenti e la conseguente loro forestazione con il pericolo di esondazioni in caso di piogge abbondanti come abbiamo notato in questi tempi a causa del mutare del clima dovuto all’ innalzamento della temperatura terrestre.

 

 

 

 

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La radio

 

 

Rare erano allora le famiglie che possedevano un apparecchio radio-ricevente, costavano molto, ma anche se fossero stati a prezzi popolari nessuno se lo sarebbe potuto permettere.

La radio era allora una cosa affascinante, un oggetto del desiderio, se occasionalmente si capitava in una casa di fortunati possessori di un apparecchio radio, si rimaneva affascinati ad ascoltare la musica o le parole che venivano diffuse da quel favoloso strumento.

La diffusione popolare della radio, aveva iniziato a prendere piede con il fascismo che ne aveva fatto uno strumento di informazione ma soprattutto di propaganda del regime.

Ogni scuola pubblica allora possedeva un apparecchio radio ricevente, ce n’ era uno anche nelle scuole di Varollo e quando c’era qualche trasmissione didattica o qualche avvenimento importante, veniva acceso.

La signora Elisa mia vicina di casa ne possedeva uno, mi pare che fosse un Telefunken, aveva i tasti di selezione della banda color bianco avorio e mi pare avesse già allora le FM ( modulazioni di frequenza ) , andavo spesso ad ascoltare, specie quando c’ erano degli avvenimenti importanti.

Un giorno, verso il 1960 venne durante una delle frequenti visite che zio Mario faceva a sua madre, la mia nonna materna, ci portò un apparecchio radio che lui non usava più perché ne aveva acquistato uno nuovo e più moderno. Fu una delle più grandi sorprese e grandi gioie della mia infanzia. Era una radio a onde medie e corte che era in grado di ricevere i segnali da tutto il mondo, quindi io mi divertivo un mondo a smanettare tra le manopole della selezione per cercare nuove stazioni trasmittenti, imparavo così a riconoscere le varie lingue della gente del mondo ma soprattutto le diverse culture musicali dei popoli.

Mi ero subito accorto che le trasmissioni si popolavano e moltiplicavano la notte, avrei scoperto molto più tardi nel tempo, quando diventai radioamatore, che questo fenomeno si chiama propagazione.

 

 

 

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GLI ZINGARI

 

 

Un altro motivo di grande curiosità per noi e di grande preoccupazione per la popolazione, ara quando in paese arrivavano gli Zingari, Questo popolo nomade, con tante etnie tra di loro, mi ha sempre affascinato ed ha sempre alimentato in me un senso di avventura e di mistero. Erano da poco usciti anche loro dalla bufera della seconda guerra mondiale, dove erano stati decimati dalla filosofia nazional socialista di Hitler, che li aveva classificati come “ unter manch “ ( uomini inferiori, una razza minore come gli Ebrei e li aveva destinati ai campi di sterminio che pullulavano in Germania ed in Polonia. Secondo me, le potenze che hanno vinto la guerra, non sono state abbastanza lungimiranti da sfruttare a pieno la storia appena trascorsa, e creare i presupposti per rendere stanziale il popolo dei nomadi, o forse non importava a nessuno della loro sorte. E cosi , una volta o due all’ anno arrivavano in paese e si accampavano in una zona fuori mano, possibilmente vicini ad un ruscello ed alle fontane dell’ acqua potabile, per poter bere, cucinare e poter lavare i panni. La gente era molto preoccupata per la loro presenza, perché si diceva che erano dei ladri, che mandavano anche i bambini a rubare, allora tutte le donno si passavano parola e tenevano chiusa a chiave la porta di casa. Forse era vero che erano ladri, non lo so, a casa mia non hanno mai rubato niente, anche perché non c’ era molto da prendere, su questo loro comportamento, ci ho riflettuto molto, ed ho trovato nel loro comportamento nomade, nella loro precarietà e semplicità di vita, una grande sete di libertà anche spirituale, quasi ancestrale, di quando tutti i popoli erano nomadi, cosa che noi abbiamo perso da tempo, in nome di una falsa libertà e di un esagerato progresso che ci ha portati a consumare più di quanto possiamo spendere, a volte, sfruttando altri popoli, ecco perché considero gli zingari, della gente veramente libera.

Essendo spiriti liberi gli zingari ricorrono di frequente a delle forme ad a modi esoterici per convincere ed assoggettare la persone con le quali hanno dei rapporti bfrevi nel tempo ed è anche per questa ragione che usano molta spregiudicatezza e molti abili trucchi per sottrarre dei beni alle persone più deboli ed ingenue. Si dicono capaci di prevedere il futuro di una persona specie dal lato sentimentale dove uno si sente appagato da una notizia positiva che và cercando a tutti i costi… è la forza dell’ irrazionale, della magia che ha sempre accompagnato l’uomo fin dai tempi primordiali ed ha consentito di sognare ed a tratti anche di sentirsi appagati dal solo desiderio che viene avallato da una zingara che ti legge la mano e ti dice sostanzialmente quello che tu vuoi sentire.

 

 

 

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LA ZINGARA

 

 

Era l’ inizio degli anni ’90, anni difficili per me per l’ impiego precario che allora svolgevo per una cooperativa che prestava i suoi servizi al Comune.

Il lavoro consisteva prevalentemente nella pulizia della strade e piccole manutenzioni alle proprietà pubbliche, che non mi gratificava abbastanza e non mi permetteva di dare libero sfogo alle mie potenzialità ed ai miei sogni.

Ero come in gabbia, costretto ad un lavoro che non mi piaceva, sempre nervoso ed acido con tutti.

Ero divenuto socio onorario del Circolo anziani di Rumo perché mi prestavo a dare un mano all’ neonato sodalizio dove era iscritta pure mia madre e sua sorella Delfina. Nel 1992 anno di fondazione del Circolo, furono messe in programma numerose iniziative e gite, tra le quali una a Genova in occasione dei 500 anni dalla scoperta delle Americhe.

Partimmo al mattino presto alla volta di Genova dove era in programma la visita all’ acquario, che si rivelò molto bella ed interessante sia dal punto di vista naturalistico che storico. A pranzo fummo ospitati nell’ oratorio di una parrocchia di Genova dove era parroco un sacerdote originario di Rumo.

Nel pomeriggio visitammo alcune chiese della città, in una delle quali c’ era una grossa granata di artiglieria navale inesplosa che era caduta sulla chiesa durante il bombardamento di Genova da parte della marina francese nel 1940 all’ inizio del secondo conflitto mondiale.

Poteva essere un proiettile da 381 mm. dei grossi calibri delle corazzate dell’ epoca, anche a dire dei vari componenti il circolo che avevano partecipato alla guerra. La chiesa era molto grande, più una basilica che una chiesa, con varie navate in stile gotico romanico molto alte e belle architettonicamente parlando.

C’ era un grande ingresso al centro della imponente navata centrale e molta uscite più piccole ai lati. Trascorso il tempo prestabilito per la visita, tutti si avviarono verso le uscite laterali per raggiungere l’ esterno dove ci aspettava il pullman che ci avrebbe riportati a casa.

All’ uscita di una della porte laterali, che avevano all’ esterno alcuni gradini che scendevano in basso, seduta sull’ ultimo scalino dove poi inizia il selciato di cubetti di porfido, c’ era una giovane zingara, con il classico abito lungo multicolore, una collana di corallo rossa e molti anelli alle dita, era accovacciata a terra e l’ abito le copriva i piedi, un fazzoletto rosso a grandi punti bianchi le copriva i capelli, lasciando spazio dietro ad una lunga treccia nera legata alla fine con un nastro bianco.

Stava in silenzio con la mano tesa come chi chiede, ma senza insistere, come chi aspetta che qualcuno la notasse e ne fosse tratto a compassione al punto di donarle qualche spicciolo. Era una bella ragazza dai lineamenti della gente dell’ est da dove provengono i nomadi che nessuno riesce a fermare quelle roulotte e quei camper che paiono destinati a non trovare mai un posto nel mondo, come dei lupi assetati di libertà.

Neppure le persecuzioni che quel popolo ha recentemente subito sono riuscite a domare lo spirito libero e ribelle degli zingari. Devo ammettere che quel tipo di vita mi ha sempre affascinato perché rappresenta per me la libertà assoluta dello spirito e del corpo, non attaccato ad una abitazione a dei beni immobili ai quali affidiamo una sicurezza precaria ed evanescente, una forma di vita collettiva e singola statica, dettata da ritmi che si basano sul culto del profitto e dell’ egoismo che nulla concede ai valori più alti e nobili della vita.

Mentre scendevo quei pochi gradini, pensieri come folate di vento che portano stormi di uccelli usciti dalla nebbia mi frullavano in testa come un chiodo fisso :

che ne sarà del mio domani, quale futuro mi riserverà il destino… ero molto preoccupato per la mia posizione lavorativa che mi vedeva precario e senza grandi prospettive di un posto di lavoro.

Scesi i pochi gradini con questi pensieri scuri in testa, lentamente con una mano in tasca che tormentava le poche monete di cui ancora disponevo. Mi accorsi all’ ultimo gradino della presenza della nomade che mi fissava in silenzio con la mano tesa di chi chiede la solidarietà del prossimo senza tuttavia cercare di imporre questo stato di cose, la guardai quasi assente e realizzai che anche lei doveva avere un sacco di problemi come m, primo fra tutti l’ essere costretta a mendicare ed a rendere poi conto a qualcuno dell’ incasso della giornata.

Eravamo accomunati da enormi problemi e da tante preoccupazioni, la mano continuava a tormentare le monetine in tasca, mentre il cervello era in conflitto con il cuore : il primo infatti mi suggeriva con insistenza di far finta di niente e tirare dritto senza dare niente alla zingara, - non vedi che giovane ? che vada a lavorare pure lei ! - .

Ma quegli occhi mi continuavano a fissare ed avevano un non so che di malinconia ed una tristezza profonda dentro, come se dietro a quello sguardo ci fosse un dramma che non conoscevo ma che potevo intravvedere come dietro ad un sipario di un teatro dovessi sta provando una recita drammatica ed il cuore mi suggeriva di essere solidale con lei che chiedeva per necessità e di non ascoltare la razionalità che mi suggeriva il cervello. Mi erano rimaste dentro al pugno chiuso in tasca alcune monete, non sapevo a quanto ammontasse la somma, ma pensai che da sole non avrebbero potuto cambiarmi la vita e neppure a lei sarebbero bastate…. Ma era lei in quel momento il prossimo che chiede, che ha bisogno, che ti guarda con la mano tesa. Levai la mano dalla saccoccia con le monetine, mi abbassai piano verso la ragazza e le misi in mano le monete, lai le guardò un attimo poi rapidamente le mise in tasca.

Quando sollevò lo sguardo i suoi occhi brillarono per un attimo di gioia vera, quello sguardo dolce di chi ringrazia fu per me come una lama sottile che mi era entrata nel cuore per liberare un attimo di gioia che potevo condividere con la zingara, mi fu facile sorriderle un attimo, lei sorrise a sua volta e fece un ampio cenno di gratitudine, poi, quasi sottovoce come se fosse una preghiera ad un Dio lontano, mi sussurrò : - signore, questo ti cambierà la vita ! - .

Sapevo che nelle tradizioni e nella cultura del popolo nomade era molto forte il ricorso a pratiche esoteriche come la lettura della mano, dei tarocchi e le previsioni del futuro, e questo tutto finalizzato al’ imbonimento della gente con previsioni di vita migliore, di fortuna in danaro, in salute ed in amore, per essere come più autorizzati a praticare la loro forma di accattonaggio.

Perciò non diedi tanta importanza a quanto mi aveva predetto ed augurato la zingara, però mi rimasero in mente, come un chiodo fisso, quelle parole : - … ti cambierà la vita ! - , Ed era come se quella voce continuasse a ripetere nella mia mente quella frase, con un effetto eco, infinito, provocando in me una piacevole sensazione di tranquillità e di libertà. Non so se la previsione della zingara abbia influito o meno sull’ andamento della mia vita dal punto di vista economico e sociale, ma mi piace pensare che sia così, che la sua previsione fosse se non altro veritiera, se non addirittura foriera di buone novelle che poi si sono realizzate.

Sta di fatto che l’ anno seguente venni assunto a tempo indeterminato presso la Dalmec S.p.a. di Cles presso la quale ho prestato il mio lavoro con la mansioni di magazziniere, fino al 2011 anno del mio pensionamento.

 

 

 

 

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Le giostre

 

 

Arrivavano annunciate dai bambini che li avevano avvistati sulla strada del Fae’, una lunga colonna di camion e roulotte che avanzava lento verso Livo.

Si accampavano di solito nel piazzale della vecchia SCAF, quando ancora non c’ erano le celle frigorifere e d il magazzino ara come una grande casa a tutti gli effetti, non esisteva ancora la forma architettonica che viene attualmente impiegata per la realizzazione di strutture per la conservazione e lavorazione della mele. In mezzo al piazzale veniva collocata la giostra che era il divertimento maggiore, quello più utilizzato in assoluto sia dai maschi che dalle femmine di tutte le età. In cima alla giostra veniva issato un pennone con attaccato una coda di volpe, per poterla prendere, c’ era bisogno di un compagno che dietro di te ti proiettasse con una forte spinta un po’ più in alto della normale orbita imposta dalla giostra, come un satellite che entra in un orbita superiore e chi riusciva ad impossessarsi della coda di volpe, vinceva un giro omaggio.

C’ era anche il camper attrezzato come tiro a segno dove se sparavi e facevi un certo numero di centri potevi vincere dei premi in base a quanti centri si otteneva. Era uno sport amato dagli adulti che erano stati sui vari fronti bellici della appena trascorsa guerra e dei cacciatori che potevano così dimostrare a tutti la loro abilità. Il box che ospitava il bersaglio, normalmente si posizionava davanti all’ ex dopolavoro e la sede della Cassa rurale di Livo.

La giostra normalmente rimaneva nel paese una decina di giorni ed in quel periodo, di solito estivo, tutta la gente , la sera, si recava in massa alle giostre, era un momento di grande socializzazione e di vero divertimento popolare per tute le età e per tutte le tasche. La presenza delle giostre era un vero e proprio “ pane circensi “ per la popolazione che trovava finalmente uno sbocco alla legittima voglia di un sano divertimento popolare e di massa ed in questi giorni la gente si permetteva una deroga al grande regime di sobrietà e di rigore economico che a quel tempo imperava nella nostra società contadina, dove regnava una grande povertà economica ma ricca allora di tanti valori come la socializzazione e la solidarietà.

Noi ragazzini preferivamo fare dei giri sulla giostra, era come volare liberi nel cielo come gli uccelli, come quei tanti eroi piloti dei quali i nostri padri, reduci di guerra, ci raccontavano le loro gesta nelle battaglie aeree.

Nei giorni in cui rimanevano le giostre, il divertimento per noi ragazzini era assicurato e tutte le sere ci si presentava presso il piazzale del magazzino per una scorpacciata di sano divertimento, tenendo conto che ai miei tempi non c’ erano altri modi di svago come ci sono ora che , secondo me, hanno tanto contribuito a togliere ai giovani creatività e fantasia, ingegno e fiducia nei propri mezzi e nel proprio pensiero.

 

 

 

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La machina da bater

 

( la trebbiatrice )

 

L’ agricoltura ai miei tempi era ancora impostata su schemi molto vecchi e tradizionali e tutte le coltivazioni erano legate all’ acqua della pioggia o dell’ irrigazione.

Fin dove i “ leci “ riuscivano a portare l’ acqua irrigando così i campi, la coltivazione era incentrata sulle piante di melo e di pero, là dove non arrivava l’ acqua dei fossi che seguiva rigidamente la legge del livello, i campi erano coltivati a grano e patate.

Tutti allora possedevano dei campi perché era l’ unica fonte per la produzione di generi alimentari di prima necessità. I campi di grano venivano arati e seminati in autunno, era un rituale che tutti facevano seguendo un rito ancestrale legato alla necessita della sopravvivenza che si perde nella notte dei tempi.

Se la stagione si presentava buona, con la neve d’ inverno, le piogge di primavera ed il caldo sole estivo, il raccolto di grano era assicurato ed abbondante.

In luglio il grano era maturo ed era uno spettacolo vedere tutto il dosso di Barbonzana con i suoi campi color giallo oro punteggiati dal rosso dei papaveri ed il blu intenso dei fiordalisi.

A luglio avveniva la mietitura i contadini si recavano nei campi a “ seslar” armati della “ sesla “ ( il falcetto ) , il compito di falciare il grano veniva principalmente affidato alle donne che lavoravano chine nei campi, tagliavano rapidamente il grano e lo legavano in covoni che venivano allineati in piedi nel campo per la definitiva essicazione sotto il sole cocente di luglio.

Man mano che i covoni si essicavano, gli uomini li caricavano sui carri trainati dalle mucche, venivano poi portati a casa e depositati nelle soffitte arieggiate perché il grano non ammuffisse.

Si attendeva così noi ragazzini trepidanti ed ansiosi di nuove esperienze, l’ arrivo della macchina da bater ovvero della trebbiatrice meccanica.

Bisogna dire che fino agli anni ’60 la trebbiatura del grano si faceva ancora manualmente, con degli attrezzi rigorosamente tutti in legno, il lavoro veniva svolto nelle “ are “ ( l’ aia del cortile di casa ), si iniziava con il depositare i covoni di grano sul pavimento, formando un grande cerchio con le spighe rivolte verso l’ intero. L’ operazione successiva era la battitura del grano che avveniva con uno strumento chiamato “ fler “ che era un grosso pezzo di legno cilindrico lungo circa mezzo metro con la punta arrotondata e legato all’ altra estremità con una robusta stringa di cuoio ed un lungo bastone. Apro una parentesi erotica, il fler era anche additato come simbolo fallico della potenza sessuale maschile, forse si è esagerato un po’ troppo nel esibizionismo tipico dei maschi e nei desideri erotici femminili.

Lo si faceva roteare colpendo di piatto i covoni del grano per determinare la fuoriuscita del grano.

Finita questa operazione la paglia veniva raccolta e messa in disparte, sarebbe poi servita come foraggio per le mucche tranciata a piccoli pezzi e miscelata con il fieno. Successivamente si provvedeva a raccogliere i chicchi di grano mediante delle scope che lo spingevano il un grande cesto piato chiamato “ val “.

Il val serviva a separare la pula dal buon grano, l’ operatore si metteva contro vento e con dei movimenti rapidi dall’ alto al basso faceva in modo che il vento portasse lontano la pula e che nel val a fine operazione rimanesse solo il grano pulito pronto per essere portato dal mugnaio.

La machina da bater , la trebbiatrice meccanica sostituiva in un tempo brevissimo e senza tanta fatica umana, tutto il lavoro manuale fin qui descritto.

Credo venissero dal veneto o dall’ Emilia romagna quella gente che arrivava in agosto per le operazioni di trebbiatura, credo anche che avessero preso degli accordi precedenti con i locali agricoltori, il loro arrivo in paese era vissuto da noi ragazzini come un avvenimento molto importante, ed importante lo era veramente perché dalla buona produzione di grano dipendeva il felice andamento di tutto un anno, fino al prossimo raccolto.

Il loro arrivo era un lento scorrere di grandi ruote dei colossali trattori “ ursus “ che avevano un grande volano laterale che serviva poi a movimentare l’ imponente meccanismo della trebbiatrice. Era un incedere lento e sbuffante di questi trattori che si muovevano molto lentamente, la trebbiatrice aveva le ruote in ferro ed era di colore giallo ocra, si avvicinava al paese con un rumore crescente e in noi ragazzini cresceva la frenesia e l’ emozione dell’ attesa.

Il posto destinato ad accogliere la trebbia meccanica era a Varollo nel piazzale delle scuole vicino alla vecchia fontana e dopo una giornata di lavoro per il posizionamento della macchina e la sua messa a punto, iniziava finalmente la trebbiatura del grano.

Non ricordo bene, ma credo che il turno di accesso alla trebbiatura dei vari nuclei familiari venisse stabilito prima dell’ inizio dei lavori anche per non creare intasamenti o che nessuno potesse vantare diritti.

Ogni agricoltore arrivava con il proprio carro carico di covoni di grano, se non bastava un carro se ne chiedeva uno in prestito al vicino di casa, e si posizionava vicino alla machina da bater, il proprietari del grano ed a bracciate porgeva i covoni all’ operatore che li introduceva nella bocca della trebbia che come un grande mostro affamato e brontolante se li ingoiava ad uno ad uno con un rumore assordante di leve, pale cinghie di trasmissione e ventole .

In breve tempo il mostro separava il grano dalla paglia e dalla pula che usciva da un lato della macchina dove veniva raccolto in grandi sacchi di juta e veniva poi consegnato al proprietario. La paglia usciva dalla trebbia e veniva imballata da una seconda macchina che la trasformava in lunghi parallelepipedi legati da un filo metallico.

In quel momento l’ operazione era terminata, l’ agricoltore pagava il dovuto credo in base al peso del grano ricavato e se ne tornava a casa fiero e felice per aver assicurato il pane per un anno alla propria famiglia.

Noi ragazzini davamo una mano agli operatori aiutandoli a preparare il filo metallico che sarebbe servito a legare le balle di paglia, con una macchina che lo metteva in trazione e gli toglieva le pieghe.

Quando ripenso a quei giorni non posso esimermi dal fare della considerazioni e dei confronti, ad esempio le leggi sulla sicurezza sul lavoro, a tutt’ oggi mi sembra incredibile che nessuno si sia mai infortunato armeggiando attorno a quei mostri pieni di insidie e di trabocchetti, una spiegazione posso azzardarla, allora si era molto più attenti ai rischi perché abituati al duro lavoro dei campi, all’ uso di una miriade di attrezzi di vari tipi e tutti mossi rigorosamente dalla propulsione muscolare.

 

 

 

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L’ ” Mia “

 

Il mugnaio

 

Finita la trebbiatura, un'altra importante operazione per poter trasformare il grano in farina, era la macinatura.

Arrivava allora da Rumo un uomo con il carro trainato da un cavallo, l’ uomo stava seduto su una panchina in legno , come era tutta la struttura del carro, e teneva in mano le redini del cavallo.

Portava un cappello dalle ampie falde ed aveva sempre un viso sorridente. Mi sembrava tanto un personaggio di un famoso libro, La capanna dello zio Tom, perche aveva anche la pelle un po’ scura.

Er il mugnaio, un signore di Rumo che si chiamava*** e passava periodicamente per il paese a raccogliere il grano da macinare. Credo avesse un mulino ad acqua in quel di Rumo, tutte le donne che avevano bisogno di farina fresca, uscivano di casa al richiamo del “ Mia “ e consegnavano un sacchetto di grano, con la raccomandazione che “ l’ bondia po’ “ .

Trascorsa una settimana il mugnaio si ripresentava e riconsegnava alle massaie la farina.

Mia nonna diceva sempre al “ Mia “ che la farina era poca rispetto al grano che le aveva dato e lui rispondeva che era il grano che aveva reso poco…

 

 

 

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L’ UCCISIONE DEL MAIALE

 

 

( Cando i copava l’ porciet )

 

L ‘ alimento proteico di maggior consumo nelle campagne dei nostri paesi, era senza ombra di dubbio, la carne si maiale. Tutte le famiglie , ai miei tempi, ne possedevano almeno uno, veniva allevato per fornire la carne alle famiglie contadine .

Veniva aquistato piccolo, subito dopo lo svezzamento, dai commercianti che passavano con il camion e lo consegnavano ai clienti che lo avevano prenotato, uno di questi, si chiamava Fedrizzi, poi , dopo il consueto barattare per avere uno sconto sul prezzo, il maialino, strillante e roseo, veniva portato nella stalla, dove veniva deposto nel luogo che sarebbe stato la sua dimora per il resto dei suoi giorni, in un angolo della stalla, chiamato “ stalot “ recintato con mattoni o un inferriata, guai mettere tavole di legno perché il maiale se le sarebbe mangiate a poco a poco e sarebbe poi scappato per la stalla a razzolare tra le mucche.

Il maiale è un animale onnivoro, e veniva nutrito con gli avanzi del cibo e con patate, bietole ed altri prodotti dei campi, integrato con del mangime che si comprava a sacchi di 50 chilogrammi l’ uno,famoso era il Raggio di sole, si preparava così il pasto quotidiano facendo un miscuglio dei vari ingredienti, mescolati tra di loro in acqua calda, veniva dato due volte al giorno, la mattina e la sera. Il maialino veniva generalmente aquistato la primavera e veniva fatto ingrassare per tutto l’ anno fino all’ inverno successivo, quando , nei mesi tra novembre e febbraio, mesi invernali e quindi freddi ed adatti alla lavorazione ed alla conservazione della carne che sarebbe servita poi, per l’ intero anno.

Conosco nei dettagli, tutto il procedimento della macellazione e della lavorazione del maiale, in quanto, mio padre, nei mesi invernali si dedicava a questo lavoro per se e per la gente del paese che lo chiamava a macellare e lavorare la carne suina.

Conservo ancora gran parte degli attrezzi che servivano alla macellazione ed alla conseguente lavorazione della carne, come numerosi coltelli di varie dimensioni con il contenitore in cuoio, l’ “ cialin “ un pezze di acciaio magnetico che serviva per affilare i coltelli, la “ macchina da far su le lujangie “ che è un tritacarne con una vite senza fine che spingeva la carne nei budelli che diventavano lucaniche saporite.

La “ panara “ che era una cassa, molto simile ad una barca, con il fondo piatto e le pareti svasate che serviva per l’ uccisione del maiale se veniva utilizzata con il fondo rivolto in alto, o per la successiva pulitura del maiale morto ed allora veniva usata come una vasca da bagno.

Il maialino, intanto, cresceva, nutrito amorevolmente dalle donne di casa, che badavano anche alla sua pulizia ed alla pulizia dello “ stalot “ e del posto fatto in tavole di legno dove dormiva che doveva essere asciutto perché non prendesse i reumatismi.

Passava l’ estate e l’ autunno, ed arrivava l’ inverno, ed il maiale era così diventato bello grasso e paffuto ed arrivava a pesare tra i 90 ed i 120 chili, a seconda se

l’ ova fat ben o no “ , così, si sceglieva una data per la sua uccisione, in base alla luna ed alla disponibilità del macellaio, e la fine del maiale era segnata.

L’ uccisione del maiale era un rito che veniva preparato nei minimi particolari : bisognava chiedere l’ aiuto di almeno quattro o cinque uomini robusti che avevano il compito di tenere fermo il maiale, bisognava preparare una notevole quantità di acqua calda degli stracci puliti, un paiolo o un secchio per il sangue.

Tutti, allora, avevano un locale con due anelli metallici ancorati al soffitto che servivano per appendere il maiale, sventrarlo e togliere le interiora, e per poi lasciarlo frollare per almeno 24 ore.

Tutti gli altri attrezzi venivano portati dal macellaio.

Mi pare che ci sia tutto l’ occorrente e si possa iniziare…

Non vorrei, qui, essere accusato di sadismo o di violenza verso gli animali, se racconto, nei dettagli la morte di un animale, mi limito solo a fare una cronaca dettagliata, ed invito chi è particolarmente sensibile,

 

ad interrompere qui la lettura!

 

L’ uccisione, veniva sempre programmata per il mattino presto, all’ ora di quando la gente aveva terminato i lavori nelle stalle ed aveva portato il latte “ al ciasel” , all’ ora convenuta, gli uomini si radunavano nel luogo stabilito e per prendere coraggio bevevano tutti un grappino anche perché era sempre freddo, facevano qualche considerazione sul maiale da uccidere, ad esempio se fosse con poco lardo e lo si deduceva chiedendo il tipo di alimentazione che gli era stato dato, e stimando ad occhio il peso del suino.

Veniva, quindi, preparata la “ panara “ con il fondo rivolto in alto dove poi veniva adagiato il maiale, il macellaio, nel frattempo, preparava i suoi attrezzi, un coltello della lunghezza di circa 20 centimetri, che veniva affilato con alcune passate di “ cialin “ fino a tagliare come un rasoio, un pezzo di cordicella di circa due metri, veniva poi richiesta la presenza di una persona con un paiolo per prendere il sangue, generalmente era un ragazzo o una donna di casa.

Tutto era pronto, veniva allora aperta la porticina dello

stalot “ ed il maiale veniva fatto uscire, con la complicità di una bietola che gli veniva fatta rosicchiare mentre veniva indotto alla “ panara “ con qualche grugnito, lì giunto, ad attenderlo c’ erano gli uomini robusti che lo facevano girare nella direzione del macellaio, spingendolo piano piano,, appena raggiunta la direzione giusta, ad un cenno gli uomini , tutto d’ un colpo afferravano il maiale per le zampe e lo adagiavano di forza sulla “ panara” , allora cominciava a strillare a perdifiato che lo si sentiva per tutto l’ isolato, e la gente commentava : “ i copa l’ porciet “ .

Veniva tenuto giù di forza, mentre il macellaio con una mossa rapida gli girava attorno al muso la cordicella per evitare di essere morso, poi , tirava indietro la testa del maiale per mettere in evidenza la gola, tastava con le dita per cercare il punto giusto dove colpire, appena sopra la punta di petto, invitava con un cenno la donna con il paiolo ad avvicinarsi, poi, con un gesto rapido, piantava il coltello nella gola dell’ animale, facendolo penetrare con un inclinazione diretta verso il cuore, fino al manico, recidendo di netto le arterie giugulari. Appena estratto il coltello, ne seguiva un flotto di sangue violento ed abbondante, che determinava la morte in pochissimo tempo, il sangue veniva raccolto dalla donna, nel paiolo, veniva poi mescolato per non farlo rapprendere, fino a quando era freddo, per poi farne i “ brusti “ o sanguinacci, i francesi li chiamano buden noire.

Questo tipo di macellazione mediante sgozzamento, detta anche macellazione araba, sembra , a prima vista , una forma barbara e crudele per uccidere un animale, ma , secondo me, è invece il modo più rapido ed indolore di uccidere un animale, ho visto dei video sulle moderna macellazione industriale, da far rabbrividire per i metodi barbari adottati, animali storditi con la corrente o con i mortaretti, lasciati appesi per molto tempo, fino a rianimarsi, prima di essere sgozzati in modo sommario lasciati sanguinare, agonizzanti per molto tempo, in barba alle leggi vigenti.

 

C’ era un detto molto in uso tra noi ragazzini, un modo per esprimere e quantificare la gioia di quel giorno, un giorno durante la lezione di religione, il parroco chiese ad un alunno quale fosse stato per lui il giorno più bello della sua vita e il ragazzino rispose : - camdo i copa l’ porciet ! “ – ( quando uccidono il maiale ).

Erano infatti i giorni in cui finalmente si poteva mangiare della carne a sazietà, iniziava allora la lavorazione della carne per la sua stagionatura e conservazione per l’ anno in corso fino al prossimo maiale. Della lavorazione della carne del maiale, io ne posso parlare ampiamente e dettagliatamente in quanto mio padre era un esperto in questa arte.

Dopo essere stato messo a frollare per 24 ore, il maiale veniva sezionato in parti che poi erano destinate a diverse forme di prodotto finito, mio padre era molto abile in questa operazione di selezione iniziale.

Si passava poi al disossamento della carne che veniva messa in grossi pezzi in contenitori o secchi di legno, separata per le varie destinazioni finali.

Così venivano separate le parti che poi sarebbero divenute la coppa, lo speck e la pancetta dal resto che poi veniva macinato per ricavarne delle lucanicha, cotechino e mortandela.

I tagli destinati a diventare pancetta o coppa, venivano posti in salamoia in una cassa di legno con gli aromi , le spezie e la giusta quantità di sale che era il conservante naturale che doveva essere calibrato in modo corretto per avere una giusta gradazione al palato. Il tutto poi veniva lasciato macerare per otto giorni prima di passare alla fase della lavorazione finale e dell’ affumicazione.

Il grasso del maiale veniva anch’ esso separato e poi veniva fuso dalle massaie di casa in grossi pentoloni fino alla sua liquefazione totale, veniva vano aggiunte delle cipolle e dei chiodi di garofano per aromatizzarlo e poi veniva riposto in grossi vasi di terracotta o di vetro dove si raffreddava lentamente poi si chiudevano ermeticamente e così si conservavano per l’ intero anno ed anche di più.

Ai miei tempi non c’ erano i frigoriferi ed i congelatori e tutto si doveva conservare in modo naturale o con l’ ausilio del cloruro di sodio.

Era arrivato il momento degli insaccati, “ le lujangie “ per dirla in italiano le lucaniche, il compito di macinare la carne era affidata alla vecchia macchina per il macinato “ Alexanderwer “ fatta funzionare a forza di braccia, la macchina veniva fissata al bancone da lavoro con dei morsetti in metallo e noi ragazzini si faceva a turno ad azionare la manovella che faceva funzionare una vite senza fine che spingeva i pezzi di carne verso le lame che la tritavano e la facevano uscire dai forellini al termine dell’ apparecchio.

Si formavano delle piccole montagne di preziosa carne che aveva man mano depositata in una piccola “ panara “ di legno in attesa di venire poi speziata ed aromatizzata. Alla fine veniva pesata per poter calcolare la giusta percentuale di aromi ma soprattutto di sale che veniva aggiunto al macinato, seguiva poi l’ operazione di impasto che durava una mezzoretta affinché il sale e gli aromi penetrassero nella carne.

Man mano che questa operazione proseguiva, il locale si riempiva di un intenso profumo che proveniva dalla carne che assorbiva gli aromi, un profumo che solo quelle persone che hanno assistito o ci hanno lavorato riesce a riconoscere e ricordare per sempre.

Era un profumo intenso e ricco di quei sapori d’ oriente che riempiva il cuore e la mente di rinnovata fiducia in un nuovo anno di prosperità ed abbondanza, che ti dava un senso di sicurezza e di orgoglio per il tanto lavoro svolto per arrivare fino qui, con un doveroso e grato pensiero al povero maiale che era stato sacrificato per sfamare la famiglia che lo aveva allevato con tanta dedizione ed amore.

A volte mi chiedo : ma è giusto tutto questo ? -

Non lo so, e forse è meglio non approfondire troppo questo dilemma…

Alla fine dell’ opera di impasto si passava all’ insacco della carne miscelata che era divenuta un impasto omogeneo ed appiccicoso, alla macchina venivano tolte le lame e veniva applicato un imbuto dal lungo becco nel quale veniva infilato un budello ( un intestino di bue ) l’ unica cosa che si aquistava unitamente allo spago sottile e resistente che serviva per legare le lucaniche. Il budello lo si comprava alla cooperativa ed era venduto a metro, era già pulito e sotto sale per la conservazione, le donne lo mettevano in ammollo la sera prima in acqua tiepida ed in giorno dopo era pronto per l’ uso.

Una volta applicato nel becco del imbuto, mi sia consentito un paragone che rende bene l’ idea, come un lunghissimo profilattico, veniva poi legato all’ estremità ed iniziava l’ operazione lucaniche fresche.

Il budello si riempiva lentamente dell’ impasto di carne che veniva spinto dalla vite senza fine della macchina ed il budello si gonfiava e si ingrossava e si allungava arrotolandosi sul grande tavolo.

Inutile dire quali e quanti erano i commenti erotici e le allusioni ad un certo organo maschile, tante, piccanti e sibilline… ma era un momento di grande gioia ed allegria e tutto per un attimo era consentito, alla fine quando finiva il corruscare dei coltelli ed il pericolo di ferirsi era finito, era un continuo riempire di bicchieri, mentre mio padre legava le lucaniche con lo spago dando a tutte la stessa lunghezza, ne dava poi alcune a mia madre che le faceva cuocere nell’ acqua ed al termine la portava tagliate a grandi pezzi su un vassoio ed era il primo assaggio delle lucaniche fresche di quell’ anno, tutti mangiavamo avidamente ed i bicchieri di groppello non si contavano più…

Si finiva sempre con un coro improvvisato di qualche canto di montagna, mio padre era un ottimo cantore.

A questa festa si rendevano partecipi anche i parenti più stretti ed a loro erano riservate dell’ lucaniche di formato ridotto, così dette “ DEI PARENTI…”

Del maiale non andava buttato nulla, solo le ossa, i denti e le unghie, tutto il resto veniva usato per lì alimentazione o per altri usi, ad esempio il grasso scarto e non commestibile “ la songia “ veniva usata per ungere il cuoio delle scarpe, le setole del dorso venivano date ai calzolai che le usavano come ottimo spago per cucire le scarpe, con il sangue si facevano i “brusti “ o sanguinaccio che era un salame fatto con il sangue e vari tipi di frutta secca ed aromi naturali di erbe, molto buono, in Belgio lo si produce ancora ed è veramente una squisitezza.

 

 

 

 

 

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La stalla

 

 

Quando penso alla stalla, mi tornano alla mente una folata di ricordi e di esperienze vissute da ragazzino prima e da adolescente poi. La stalla era un locale comune a tutte le case rurali del mio tempo, era uno dei locali di casa più frequentati ed animati di tutta l’ abitazione.

Abbiamo ampiamente elaborato il modo di vivere della gente dei paesi della mia valle ed il mio non faceva eccezione, che si basava esclusivamente sull’ agricoltura e la zootecnia che servivano al sostentamento alimentare delle famiglie di quel tempo, compresa la mia.

La stalla di casa mia era un locale nel seminterrato posto a sud - est dell’ abitazione con l’ ingresso dalle “ cort “ da est. Il locale adibito a stalla, era un avvolto a 4 archi da noi questo tipo di architettura viene definito con una parola sola: “voti”.

Mi piace descrivere dettagliatamente questo locale, perché è uno dei posti che ricordo con infinita tenerezza e riconoscenza, perché per anni fu il sostentamento della famiglia ed il luogo di sicuro e comodo rifugio di tutti gli animali domestici e no ed un piacevole luogo di ritrovo dove le persone potevano liberamente fare “ filò “ .

La stalla era adibita a casa di abitazione delle mucche e del maiale che era un ospite “ stagionale “ della stalla in quanto veniva cambiato tutti gli anni…

Noi avevamo il posto riservato al maiale, detto in dialetto “ stalot “, che era al lato opposto delle mucche, a nord del locale, era un recinto di mattoni con il pavimento di mattonelle di terracotta lavorate in modo che i liquami potessero scorrere via velocemente, poi c’era un piccolo pavimento rialzato di legno che veniva sempre tenuto pulito ed asciutto dove dormiva il maiale, affinché non prendesse artriti o altre magagne.

Separato da un fosso profondo circa 30 cm. C’ era il posto per 4 mucche, con il pavimento in mattonelle di terracotta uguali a quelle dello “ stalot “ del maiale e dove arrivava il muso delle vacche, c’ era la “ spargeu “ ovvero tradotto in italiano la mangiatoia, una parola tanto usata di questi tempi nella politica italiana…

Era come una barca di legno divisa a metà con dei buchi per legare le mucche sulla chiglia e divisa in comparti quante erano le abitanti signore della stalla.

La “ spargeu “ serviva per mettere il fieno che era l’ alimento base delle mucche che veniva dato loro due volte al giorno, la mattina e la sera.

L’ acqua veniva servita mediante un grosso secchio di rame detto “ cjazudrel “, alcuni contadini però usavano portare le mucche alla fontana del paese e farle dissetare con l’ acqua del “ brenz “ che era una piccola fontana separata dal lavatoio dove l’ acqua era sempre pulita e potabile.

Mio padre era un uomo molto progressista e lungimirante nelle vedute e posso essere legittimamente fiero nel ricordare che fu uno tra i primi ad ammodernare la stalla alla fine degli anni ’50, con quanto di migliore disponeva a quel tempo la tecnologia zootecnica, come l’ abbeveratoio automatico e l’ acqua potabile nel locale per la pulizia dei secchi per la mungitura.

Se paragonato alle moderne stalle che oggi si possono vedere sui territori ancora adibiti alla coltura zootecnica, la mia stalla di allora fa tenerezza ed è paragonabile alla grotta di Behtlem, ma per quel tempo era il the best delle soluzioni tecnologiche all’ avanguardia, tant’ è vero che le mucche ebbero l’ acqua in casa prima del padrone e questo la dice lunga su quanto fossero importanti gli animali per la sopravivenza umana e quanto si facesse per la loro buona qualità di vita.

Un animale era un membro della famiglia a tutti gli effetti, aveva un nome che gli veniva attribuito come a noi vengono appioppati i soprannomi, dal colore della pelle, da una macchia sul pelo, da un corno storto, ecc.

Agli animali ci si affezionava al punto che quando se ne doveva vendere qualcuno molte volte noi ragazzini ci si metteva a piangere. Il governare le mucche implicava l’ apprendimento di parecchie nozioni ed il rispetto tassativo degli orari.

Alle mucche veniva dato da mangiare il mattino e la sera, l’ acqua se la prendevano da sole nell’ abbeveratoio automatico, dovevano essere munte due volte al giorno, mattina e sera, e dovevano avere il posto dove si coricavano sempre pulito, per tanto bisognava liberarlo dal letame e cospargerlo di segatura e “ florin “ .

Bisognava potare le vacche a “ manz “ in altre parole bisognava portarle all’ accoppiamento con il toro, bisognava quindi imparare a capire quando la mucca era in calore, ad interpretare i segni che madre natura dà alle femmine per farci capire che il tempo è fecondo.

Trascorsi poi i classici nove mesi, la mucca era pronta a partorire il vitellino, era sempre uno spettacolo emozionante perché era la nascita di una nuova vita, una nuova avventura che si ripeteva con un rito antico, il rituale della vita, con i suoi ritmi, antichi di millenni ma sempre nuovi ed attuali.

La mucca che “ la pestola “ per il dolore, poi piano, piano compaiono le zampe, ed allora ci si attaccava una cordicella e si tirava per aiutare la bestia a partorire.

Poi il vitellino che esce e bisognava asciugarlo con la paglia e degli stracci e dopo pochi minuti si alzava in piedi, barcollante ed indeciso, ma subito attratto dalle poppe gonfie di latte della madre e via a succhiare come un drago e quante testate nelle mammelle per chiedere più latte…

Si potevano ammirare tutti i più reconditi ed oscure ricordi ancestrali che madre natura aveva attribuito nei millenni passati a questa razza di animali e come tutti gli animali sapeva già delle cose , dei comportamenti che aveva ereditato dal DNA dei genitori.

La stalla era anche il regno di altri animali a due zampe, a quattro zampe ed ad otto zampe. Gli animali a due zampe si ritrovavano spesso nelle lunghe sere d’ inverno, in attesa del parto di una mucca, davanti ad una fiasca di buon vino a raccontarsi la vita trascorsa, le avventure belliche e quelle amorose e più calava il vino nella fiasca, più aumentavano i nemici uccisi e le donne con le quali avevano fatto l’ amore…

Altri animali a quattro zampe, furbi ed astuti, erano i gatti che pretendevano la loro parte di latte durante la mungitura, che veniva assegnato loro in una ciottola di legno con la solita imprecazione: “ boni da n’ got, con tuti i sorsi che je !!! “.

I topolini li si vedeva di rado, ma c’ erano e numerosi, a piccole famigliole, uscivano quando tutti erano andati via, specie i gatti, si cibavano dei resti del mangime per le mucche caduto a terra o di pezzetti di bietola oppure entravano piano nella casa del maiale, nello “ stalot “ ad avidamente divoravano gli avanzi del suino che dormiva.

Gli ospiti ad otto zampe erano costantemente in eterna mortale competizione tra loro, erano le mosche ed i ragni. Nella stalle le mosche abbondavano ed i grossi ragni avevano tessuto delle enormi ragnatele da un arco all’ altro della stalla, e tu le potevi anche abbattere che il giorno dopo le ritrovavi più salde e robuste di prima, misteri della natura.

Dopo fatta la tela al ragno era sufficiente attendere fermo in un angolo e le mosche che ronzavano intorpidite dal caldo della stalla entravano nella ragnatela e vi rimanevano impigliate, allora il ragno si avvicinava svelto e se le mangiava ed anche questo fa parte dell’ istinto di conservazione e del ciclo biologico della vita.

 

 

 

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I TORI DEL MIO PAESE

 

( QUANDO NON C’ ERA IL “ VIAGRA “ )

 

 

di

 

Bruno Agosti

 

 

Se ci sono dei momenti della vita che mi mancano in modo intenso e mi fanno soffrire di immensa nostalgia sono certamente quelli della mia infanzia, di quando mio padre, agricoltore ed allevatore, mi portava nei prati da falciare, saturi di fiori dai colori policromi e dall’ intenso profumo diverso tra loro che avevo imparato a conoscere ed apprezzare.

Il ricordo più bello e più delicato, che tutt’ oggi conservo nel cuore, è quello di quando si andava, a piedi, ad accompagnare le mucche alla malga Binagia,1 per l’alpeggio, che durava circa tre mesi.

Passato un abitato sulla via dell’alpeggio, ci si incamminava lungo la stradina sterrata che portava alla malga, ed arrivati nella valle di Campo, 2 ci si fermava sempre ad ammirare lo spettacolo dei prati verdi, punteggiati da una miriade di botton d’oro: uno spettacolo mozzafiato, con sfondo le vette alpine.

Tutto ciò accadeva, nei secoli scorsi, quando ancora i campi erano coltivati a grano e patate ed i prati servivano principalmente per la produzione di foraggio per alimentare il bestiame delle stalle, prevalentemente formato da mucche da latte, da qualche pecora e da pochi cavalli.

All'uscita dalle stalle, alla sera, dopo la mungitura era molto facile imbattersi in un crocchio di contadini, i quali, dopo aver portato il latte al caseificio, si fermavano a discutere dei problemi della zootecnia e dell'agricoltura e tra questi, a riguardo dei temi più comuni nel settore delle mucche, si sentiva spesso udire, tra loro, che avevano una mucca che : “la va a manz”.3

 

Per essere sinceri questo, più che un problema, era il normale corso della natura che determinava che la mucca era in calore e perciò pronta per l'accoppiamento con il toro, il quale, fino agli anni ‘60 era l'indiscusso padrone di tutte le mucche del paese. Credo proprio che fosse un lavoro che lo gratificasse enormemente visto che gli si era concessa più di una mucca al giorno, sino al momento dell'avvento della fecondazione artificiale che sostituì l’accoppiamento naturale e portò nella zootecnia locale del seme proveniente da tori americani di maggiore stazza. In alcuni casi ciò provocava la morte per parto di mucche che non riuscivano a dare alla luce dei vitelli così grossi. Questa innovazione biologica lentamente ha tolto al toro il lavoro e, conseguentemente, la sua ragione di esistere.

Il fatto di portare la mucca al toro era un vero e proprio rito che consisteva nel farla camminare dalla nostra stalla, sino a quella in cui era ospitato il toro da monta, dove c'era il responsabile che faceva accomodare la mucca al suo posto e poi liberava dalla stalla adiacente il toro, il quale usciva e subito si metteva ad odorare l’aria che nel frattempo si era impregnata dell'odore del feromone della mucca in calore. Dopo pochi istanti, salvo qualche eccezione, era pronto per montare sopra la mucca, senza i tanti preliminari a cui si è abituato il genere umano.

 

Naturalmente, per poter assistere a questo spettacolo “hard", bisognava essere “grandi” abbastanza per potere anche aiutare il papà a far camminare la mucca. Tra gli uomini che assistevano all’ evento, non mancavano ovviamente certe considerazioni sulla potenza sessuale del toro e certi accostamenti erotici sul sesso, bisbigliati, che avrei capito solamente quando mi sarei fatto più grande, e guai poi a ripetere quelle cose in presenza della mamma perché tutto il rito dell'accoppiamento doveva essere un tabù, persino quello del toro.

La gestione dei tori da monta era affidata ad una società che si chiamava “società del toro”. Ne esisteva una nel mio paese ed una nel paesino di sopra ed avevano un solo ed unico scopo: quello della continuazione della specie. Queste si finanziavano con i proventi della monta dei tori, che ad ogni mucca che veniva coperta dagli stessi, corrispondeva una quota che era a seconda della qualità del toro.

Esistevano, infatti, dei tori di prima classe, di seconda classe e di terza, e queste categorie erano attribuite direttamente dalla federazione allevatori di Trento, in base al peso, alla bellezza e quant’altro.

Per cui, la mucca che veniva montata dal toro più prestante, doveva pagare di più. La società dei miei paesani aveva a disposizione tre tori mentre quella della frazione poco distante ne aveva uno e con questi si riusciva tranquillamente a coprire tutte le mucche del territorio.

Ma ad un certo momento in quello di sopra venne un signore anche lui agricoltore e zootecnico, il quale a sua volta comprò un toro da monta, lo mise a disposizione degli utenti privati ad un prezzo di monta inferiore a quello del toro ufficiale e, per stretta logica di mercato, il toro ufficiale di quel borgo rimase, aimè, senza lavoro.

La società fu allora costretta a venderlo in quanto era risultato antieconomico il suo mantenimento.

 

Non appena rimossa la diretta concorrenza, l’allevatore in questione rialzò il prezzo della monta e in poco tempo si rifece dalla perdita avuta in precedenza, obbligando gli utenti ad una tariffa maggiore.

 

Come capita a volte nella vita le cose non sempre vanno nel verso giusto e così fu per quel signore , che dovette vendere il toro, smettere l'attività agricola e cambiare paese, così di punto in bianco gli utenti del paese di sopra si ritrovarono ancora una volta senza il toro che avrebbe dovuto montare le loro mucche. Furono così obbligati a scendere nel paese di sotto dove c'erano i due tori della società locale.

 

E così le cose sembrarono aggiustarsi. Gli allevatori della frazione di sopra scendevano a valle con le loro mucche, che poi risalivano soddisfatte dai tori, sino a quando, dopo un po' di tempo, ci si accorse che i due tori non erano sufficienti a coprire un numero così elevato di mucche, e qualche volta facevano cilecca con unanime disappunto sia della vacca e del padrone, costretto così a ritornare a casa a mani vuote e a dover poi riportare la mucca al toro la volta seguente ” che la nova a manz“.

Bisogna anche aggiungere che allora non c'era il “ Viagra “ 4 che si dice abbia in quella materia dei poteri miracolosi almeno per l' uomo, ma se anche ci fosse stato non sarebbe servito a nulla perché, come abbiamo detto precedentemente, il toro si eccitava esclusivamente nel sentire l'odore del feromone della mucca in calore.

Si dovette così acquistare un altro toro.

Il terzo toro si era reso necessario per coprire il fabbisogno dell'intera zona, ma la società, non avendo per statuto sociale un fondo proprio, dovette chiedere un prestito ad un agricoltore locale più benestante, il quale lo concesse volentieri. Il toro fu così acquistato.

Per ammortizzare quella inaspettata spesa, la società decise allora di alzare un poco il costo della monta così da ricavarne il necessario da poter restituire il denaro al creditore.

 

Le cose sembrarono allora prendere il verso giusto con soddisfazione delle mucche del paese di sopra, che avevano ritrovato il loro toro, e di tutti i contadini della zona che avevano risolto un altro problema; ma trascorso un po' di tempo ci si accorse che le mucche che venivano portate nel mio paese, cominciarono a scarseggiare, con conseguente calo del ricavato che sarebbe servito per coprire la spesa dell'acquisto del terzo toro e a pagare il mantenimento degli altri.

 

Per un po' di tempo si cercò di trovare qualche spiegazione, ricercando le cause del calo nelle lune crescenti o calanti. Successivamente, qualche vecchia zitella, azzardò l'ipotesi di una improvvisa e collettiva menopausa delle mucche. Insomma, ci si arrovellò per comprendere la ragione per la quale dall’altro paese scendevano così poche vacche verso i tori del mio.

Ma la risposta a tutto ciò la portò il macellaio, e lì per lì tutti pensarono che questo fosse la causa di tutto avendo magari dovuto macellare delle mucche in quel sopra. Pure tale ipotesi si rivelò falsa.

Lo stesso macellaio, infatti, riferì al Presidente della società del toro che, mentre scendeva dalle malghe con il furgone, non di rado gli capitava di incontrare agricoltori che portavano le loro vacche verso i tori del paese di sopra. Tutto ciò non perché fossero maschi più belli e più “fighi” e magari le mucche preferivano loro ai quelli del mio paese, ma molto più semplicemente perché lassù la monta costava di meno.

 

Fino a qui, la storia d’ altri tempi che oggi si può raccontare con ironia, ma che racchiude in sé tutta la filosofia ed il modo di vivere di 50 anni or sono, di quando la comune povertà della gente di campagna, obbligava le famiglie ad un tipo di economia domestica dove la parola d’ ordine era “risparmiare” ovunque fosse stato possibile farlo.

Per capire quanto fosse importante, quasi vitale, che le mucche nella stalla fossero gravide per poter poi ricavare del denaro dalla vendita del vitellino, o poter allevare un'altra mucca da latte, basti pensare che quando una donna allora perdeva un figlio per via di numerosi aborti spontanei dovuti alle fatiche o alla mancanza di prevenzione medica, ci si consolava dicendo che se fosse successo ad una mucca nella stalla, sarebbe stata una disgrazia ben più grande.

 

 

NOTE

 

  1. Malga di proprietà della comunità locale, adibita ad alpeggio per il bestiame.

  2. Località a nord dell’ abitato di Bresimo.

  3. Espressione popolare dialettale, che identificava che una mucca era in calore.

  4. Farmaco la cui azione stimola la sessualità maschile.

 

 

 

***    ***

 

 

IL SERPENTE GOLOSO

 

 

Nonna, nonna, per favore, raccontami una storia!”.

Ricordo, quando ero bambino, che chiedevo spesso a mia nonna questa cortesia. Lei era una donna d’altri tempi, che portava sempre il suo abito nero, il fazzoletto dello stesso colore e qualche fiorellino giallo, in onore di Francesco Giuseppe d’Austria, che ha sempre considerato il suo imperatore.

Era una contadina del regno, una donna semplice e umile, che aveva messo al mondo nove figli, senza chiedersi il perché. Quando le domandavo delle spiegazioni, mi rispondeva sempre, dall’ alto della sua fede incrollabile, che la donna serviva per mettere al mondo tutti i doni di Dio e mi pronunciava sempre un suo detto, che usava spesso nelle occasioni tristi o felici: “ L’ uomo propone e Dio dispone ! “

Quando ero bambino, io dormivo spesso assieme a lei e, come tutte le nonne del mondo, prima di addormentarmi mi faceva recitare una preghiera e poi mi raccontava una storia.

Lei non aveva avuto il tempo per studiare a lungo. Aveva frequentato le scuole elementari e poi via, giovanissima, in America nell’Ohio, dove c’era il suo amore che lavorava nelle miniere di carbone a Lafferty.

Dunque, tutte le storie che mi raccontava, non erano frutto dei suoi apprendimenti scolastici o della sua fantasia, ma erano racconti di vita vissuta, della sua infanzia o dell’ America.

Quella che ora vado a narrare è una delle storie più incredibili ed affascinanti che mi abbia narrato, che sfata dei luoghi comuni sulla natura dei serpenti e sulla loro presunta pericolosità, astuzia e cattiveria.

Devo anche ammettere che, da allora, ho sempre osservato ogni specie di rettile con fascino, interesse ed ammirazione e senza quella biblica repulsione che da sempre accompagna ed identifica questi animali.

- Era una torrida giornata estiva, quando le famiglie del paese erano tutte impegnate alla mietitura del grano sulla collina di Barbonzana,1 ricoperta dalle spighe dorate punteggiate da migliaia di papaveri rossi e di azzurri fiordalisi. Allora, la mietitura si faceva tutta a mano, con il falcetto. Si costruivano poi dei covoni legati da un mazzo di spighe, che venivano successivamente caricati sul carro agricolo dalle grandi ruote di legno e trasportati sulle aie per essere essiccati al caldo dell’ estate.

Ai tempi in cui mia nonna era giovane, verso la fine del 1800, la famiglia era detta patriarcale, perché in essa convivevano anche i nonni paterni e i figli non ancora maritati. Gli avi, dunque, accudivano i bambini piccoli mentre i genitori si recavano a lavorare nei campi.

Nel tempo della mietitura o della vendemmia, però, tutto il nucleo famigliare si recava nei poderi per tutte le giornate necessarie a finire il raccolto.

Così, anche la famiglia di un vicino di casa di mia nonna, al completo di nonni e bambini, si recò sul dosso di Barbonzana a mietere il grano nel campo di loro proprietà, portando con sé anche la figlioletta di tre anni. Caricarono così sul carro tutto l’ occorrente per il lavoro e per il pranzo, tra cui una vecchia coperta ed una bottiglia di latte fresco appena munto per la piccola, e si avviarono, con il mezzo agricolo trainato dalle mucche, verso il campo.

Arrivati a destinazione parcheggiarono le mucche in un angolo del campo, all’ ombra di una grande pianta di noce che segnava il confine con il vicino bosco e dove cresceva, rigogliosa, una bella erba fresca.

Da casa avevano portato, inoltre, un secchio per abbeverare le vacche, con l’ acqua del vicino “ lec “.

In un altro angolo ombreggiato, tra i fiori e l’ erba, sfasciarono un lenzuolo di campo, distesero a terra la vecchia coperta e posarono la piccola, la bottiglia del latte e un po’ di pane. Misero successivamente in testa alla bimba un fazzoletto rosso a puntini bianchi e le dissero di stare lì buona a giocare con la bambola di stoffa che le aveva cucito la nonna.

Iniziò il lavoro di mietitura. Le donne, chine tra le spighe dorate, tagliavano, rapide, il grano e ne facevano dei covoni di dimensioni uniformi, che, poi, accomodavano eretti come tanti soldatini dalle bionde chiome.

Avrebbero poi pensato i maschi a raccoglierli ed a caricarli sul carro, con le spighe rivolte verso l’ esterno ed incrociati tra di loro.

Alla fine ne risultava un’opera d’ arte, un bellissimo quadro agreste.

La nonna, toglieva dai covoni le erbe inutili ed i fiori di campo, quali papaveri e fiordalisi in prevalenza, e di tanto in tanto si recava dalla nipotina con dei fiori in mano, le metteva un fiordaliso tra i capelli e abbassava i petali dei papaveri sino a formare la sagoma di tante piccole bambine dalle gonnelline rosse ed i neri capelli.

La bimba guardava divertita e ritornava ai sui giochi.

Quando il campanile di Varollo 2 batté il mezzogiorno e il campanone iniziò i suoi rintocchi, tutti sospesero il lavoro e si accomodarono all’ ombra del grande noce, dove la nonna della bambina aveva preparato il pranzo a base di polenta, formaggio e lucaniche. 3 Non mancava mai un bicchiere di vino per gli uomini e del caffè da orzo per le donne. Per la piccola era stato preparato, invece, del latte con dei pezzetti di pane dentro, che si era ammorbidito e che la piccola mangiava con un piccolo cucchiaio di legno che il nonno le aveva regalato un giorno in cui a casa erano passate le “ Kromere “.4

Dopo una mezz’ora, finito di mangiare un boccone, si riprendeva il lavoro di mietitura, con ritrovata energia, sotto il sole cuocente. La mietitura era per tutti un rito quasi sacro, perché in quelle spighe giallo oro era racchiuso il pane per l’intero anno.

Un buon raccolto, infatti, equivaleva alla sicurezza del fabbisogno alimentare per tutta la famiglia.

Il lavoro procedeva snello, ognuno sapeva fare il suo con la professionalità che nasce dall’esperienza della tradizione millenaria del popolo che si è tramandata sin dagli albori della vita e fa parte dell’istinto di conservazione dell’uomo.

La nonna della bimba faceva il lavoro di selezione tra i covoni, togliendo le erbacce ed i fiori.

Ad un certo punto lei smise di lavorare e, come se un brutto presentimento le fosse balenato in mente, si alzò, si pulì il sudore con una manica, guardò il cielo azzurro, mosse le labbra come per una preghiera improvvisa e, senza dire nulla, si avviò verso la grande pianta di noce dove era stata sistemata la piccola.

Allungò il passo quando le parve di udire la bambina parlare con qualcuno, ma non riusciva a vederla perché era sottratta alla vista dal carro che era ormai carico di covoni di grano.

Quando arrivò, ansimante, al carro, scorse la bimba. Dapprima rimase atterrita e si mise una mano alla bocca per non gridare, poi osservò la scena, degna della grande Walt Disney, che le si proponeva dinanzi. Rimase immobile e in silenzio, tanto affascinata quanto incredula.

Non riusciva infatti a realizzare se fosse sveglia o se stesse sognando: c’ era un grosso serpente verde con striature marroni che beveva il latte dalla ciotola della nipotina che lo osservava divertita, la quale, con il piccolo cucchiaio di legno, gli colpiva piano la testa dicendogli :

 

Magna ancia l’ panin, no sol bever l’ latin, no ! “

 

(Mangia anche il pane, non bere solo il latte!)

 

La nonna si era ricordata del fatto che si diceva che i serpenti andassero ghiotti del latte, ma aveva sempre considerato ciò una diceria popolare, una favola per costringere i bambini a mangiare tutto il latte che veniva loro preparato: “altrimenti te lo mangia il serpente goloso!”, si diceva.

Comunque, dinanzi alla scena appena citata, dovette ricredersi ed ammettere che non era una favola, bensì la realtà.

Quando il serpente fu sazio abbastanza, con la stessa rapidità in cui era arrivato, se ne tornò nel bosco.

La nonna, allora, si avvicinò alla piccola. Non le disse nulla; se la strinse in braccio e se la baciò più volte, con tenerezza.

Pulì poi la ciottola della bambina, le versò dell’ altro latte e rimase con lei sino a quando il lavoro fu ultimato. -

La nonna della piccola confidò a poche e fidate amiche, tra cui mia nonna, quanto aveva visto, per non creare inutili allarmismi, ma soprattutto per timore di non essere creduta, di passare come una visionaria e schizofrenica. Infatti, a quei tempi, per un episodio così inusuale ed incredibile, si poteva anche finire in un manicomio.

 

NOTE

 

  1. E’ una località nel Comune Catastale di Livo, dalla forma collinare.

  2. E’ una frazione del Comune di Livo.

  3. Tradizionale salame trentino.

  4. Erano delle donne che provenivano dalle vallate altoatesine o del bresciano, passavano per le case con in spalla uno zaino a forma di armadietto con tanti cassettini e vendevano oggetti di uso comune, come aghi, filo, cucchiai in legno, ecc.

 

 

 

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L’ ciasel

 

( il caseificio )

 

A fronte di un economia agricola e zootecnica che era il sostentamento diretto della quasi totalità delle famiglie, non solo di questo paese, ma dell’ intera nazione, fatte salve le zone industriali che piano, piano crescevano ed avrebbero poi preso il sopravvento negli anni del cosi detto boom economico italiano .

Allora in paese tutti avevano una stalla con una media di due o tre mucche, poi c’ era il maiale tanti allevavano conigli e tutti avevano il pollaio con le galline ovaiole. Uno degli alimenti base della cucina di allora, era il latte nelle sue più svariate forme e derivati. La produzione di latte era complessivamente di parecchi quintali giornalieri e si imponeva quindi il problema della sua lavorazione e conservazione.

Naquero allora i caseifici dove i contadino due volte al giorno conferivano il prodotto che poi veniva lavorato.

Il caseificio era detto “ turnario “ perché gli agricoltori caseravano il latte a turno in base alla quantità conferita, ogni giorno il casaro pesava il latte ed annotava su un libretto giallo ocra le quantità conferite, quando si era raggiunta la quantità sufficiente per una caserata lo comunicava al destinatario ed il giorno seguente si procedeva alla caserata.

Era un giorno di festa per noi bambini che se non si andava a scuola ci veniva consentito di partecipare alle operazioni di lavorazione del latte.

Tutte le sere il latte conferito veniva messo in grandi bacini di rame in un locale freddo del caseificio ed ulteriormente raffreddati con acqua corrente, questa operazione serviva per favorire la formazione della panna che saliva in superficie ed il mattino dopo avveniva l’ operazione di telatura, ossia la panna veniva asportata dal restante latte e messa nella zangola che era lo strumento che serviva per tramutare la panna in burro. Mi ricordo che i primi tempi la zangola veniva mossa a forza di braccia , ci si dava il cambio a turno fino alla formazione del burro che avveniva dopo circa un ora di lavorazione.

Il prodotto finito veniva poi confezionato in degli appositi stampi di legno di varie misure che contenevano pezzi da un kg. Mezzo kg. e 250 grammi, veniva poi messo in una vasca di acqua fredda per la sua conservazione e poi la parte richiesta veniva data all’ agricoltore titolare della caserata ed il restante veniva messo in vendita.

Il latte parzialmente scremato veniva poi messo nel “ pai “ che era un enorme paiolo in rame posto sopra un fuoco di legna accesa, veniva scaldato alla temperatura di 37 gradi celsius, raggiunta questa temperatura veniva calliato e piano piano si aveva la formazione del formaggio che saliva in superficie come una grande lastra di colore bianco.

Veniva poi tagliato a pezzetti con la lira che era uno strumento fatto con delle sottili corde metalliche assomigliante appunto allo strumento musicale.

Veniva poi raccolto con grandi teli di juta, compresso nelle forme rotonde e messo in salamoia per la stagionatura. Quando era ancora fresco gli veniva stampigliato a bassorilievo il codice del produttore proprietario poi veniva messe sulle apposite assi e tutti i giorni veniva girato e pulito fino alla raggiunta stagionatura. Durante le operazioni di pulizia e sagomatura alle forme venivano appostati gli orli con un grosso coltello ed il casaro li distribuiva a noi bambini, costantemente presenti e sempre affamati.

 

 

 

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Ottavio Zanotelli

 

smerda cjasei “

 

Tra i tanti casari che hanno prestato il loro servizio presso il caseificio di Scanna, uno merita l’ onore della cronaca negativa di questo Ente. Il casaro in questione di chiamava Zanotelli Ottavio nato 08. 02. 1923 ed abitava a Scanna, dapprima nella vecchia casa dei “ tripoi “ nello stesso edificio dei miei nonni materni Martino e Maria un enorme caseggiato nel quale abitavano anche le famiglie di Agosti Ottone, Agosti Davide , Agosti Adolfo e Zanotelli Tullio fratello di Ottavio, ora tutte estinte.

Ottavio Zanotelli era della classe 1922 ed era tirchio anche per sua natura, ma anche per le privazioni ed i soprusi subiti durante la prigionia nei lager tedeschi come internato militare italiano.

Per capire la mentalità avida ed egoista di Ottavio, bisogna risalire all’ epoca della sua adolescenza quando, nel periodo di Santa Lucia tutti i bambini mettevano fuori dalla finestra un piatto con della semola dentro, affinché la santa potesse sfamare l’ asinello e lasciare poi dei regali che il mattino seguente venivano ritirati dai bambini.

Ottavio, durante la notte, passava sotto le finestre dove sapeva esserci dei bambini e con una lunga pertica faceva cadere il piatto per poi impossessarsi dei miseri regali.

Si imbatté sotto una finestra dove le imposte erano socchiuse, ma la sua avidità non si fermava davanti a nessun ostacolo, così nel tentativo di aprire lo scuro con la pertica lo sollevò dai cardini e questo gli cadde dritto in testa, se non che nella concentrazione del momento Otaavio aveva messo la lingua tra i denti e così l’ imposta cadendo pesantemente sulla sua testa, fece da ghigliottina recidendogli un pezzo di lingua.

Da allora il suo modo di parlare cambiò radicalmente e tutte le parole che contenevano una zeta ed una esse divennero impronunciabili e vennero così distorte ed adattate dal soggetto.

Ma torniamo al caseificio, erano gli anni ’50 o gli inizi dei ’60, allora mio padre era presidente della Società che gestiva il caseificio turnario e che aveva quell’ anno come casaro Zanotelli Ottavio.

Un mattino vennero da mio padre dei signori soci del caseificio e vollero parlare con lui in privato di un fatto che dicevano essere di particolare gravità.

Mio padre convocò la sera stessa il casaro per chiedere conto di quello che si andava dicendo su di lui che veniva accusato di aver fatto i propri bisogni corporali all’ interno del caseificio nella sala addetta alla conservazione e stagionatura del formaggio.

Ottavio si difese dicendo che poteva essere entrato un animale, forse un cane, ma non riuscì a convincere nessuno. Erano altri tempi, tutti avevano dovevano lavorare per poter mantenere la famiglia, così nei confronti di Ottavio non venne preso nessun grave provvedimenti se non quello della immediata e gratuita pulizia di tutto il caseggiato che ospitava il caseificio e la diffida a ripetere simili gesti pena il licenziamento in tronco.

Da allora al povero Ottavio venne appioppato il soprannome di “ smerda cjasei “ e questo marchio d’ infamia che ricordava quel suo comportamento sbagliato, gli restò per il resto dei suoi giorni.

Questo non fu il solo episodio che mise in cattiva luce il signor Ottavio con la sua ingordigia e grande venalità, ricordo le numerose visite estemporanee della Guardia di finanza che rovistava nei libri contabili che mio padre teneva in casa e ricordo e riporto un episodio che mi venne raccontato da mio cugino Gianfranco, molto amico di Agosti Romano figlio di quel galantuomo che fo Agosti Ottone.

Un giorno la signora Giuseppina Conter, mogli di Ottone si recò a piedi a Cles per vendere del burro a dei negozianti di quel borgo. Arrivata in paese con i numerosi pani di burro, si apprestò a consegnarli ai clienti abituali, uno di questi ebbe l’ intuizione di pesare uno dei pani e constatò con grande imbarazzo della signora Giuseppina che il pezzo di burro incartato e chiuso con i sigilli del caseificio, non corrispondeva a quanto riportato nella dicitura del peso, era meno di 1 Kg. il casaro aveva modificato l’assicella che serviva a rasare il burro in eccesso nell’ apposito stampo da un chilogrammo così da asportarne una maggiore quantità che poi avrebbe venduto in proprio il casaro, truffando così la Società e facendo fare delle meschine figure a chi lo andava a vendere come il caso della signora Giuseppina.

Otavio Zanotelli morì il 25. 10. 1997

 

 

 

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L’ Angiolina da Revò

 

 

Era una donna molto in carne per non usare l’ aggettivo di grassa, si chiamava Angelina Rossi ed era nativa w residente nel paese di Revò che dista da Livo circa 10 chilometri. Non era sposata e di lavoro faceva la commerciante ambulante. Partiva da Revò con la corriera della ditta di trasporti Franch che allora percorreva la strada per Cles passando sulla SS 42 Tonale – Mendola per deviare arrivati a Mostizzolo verso il Faè e quindi verso Cles.

Allora non esisteva la strada del Castellaz che per la terza sponda abbrevi di molto il viaggio, allora tutti erano obbligati a passare per Moztizzolo.

Già Mostizzolo, dove un tempo c’ era la Dogana e tutti coloro che vi transitavano erano costretti a pagare u pedaggio, come si fa ora sulle autostrade italiane.

Da qui il nome originale tedesco del ponte “ muss ist zalhen “ che tradotto in italiano suona in : bisogna pagare ! Poi con il passare del tempo ed anche perché il tedesco non è mai stato la nostra lingua,la gente lo ha lentamente storpiato fino a modificare il toponimo in Mostizzolo.

Al bivio di Scanna, dove finiva l’asfalto e iniziava a salire la strada sterrata che porta a Clivo, Bresimo e Rumo per poi inoltrarsi nella provincia di Bolzano per servire i comuni di madrelingua tedesca di Laurei (Laureano) e Prove (Proves ).

Angiolina scendeva al bivio di Scanna, con la sua pesante valigia legata con dei robusti spaghi perché non si aprisse involontariamente, carica di marce che vendeva ad una clientela fissa ed anche occasionale.

Mi sembra ancora di vederla entrare in paese, tutta trafelata e sudata dopo la lunga salita che parte dal bivio fino all’inizio dell’ abitato di Scanna, avanzava con il passo classico delle persone obese che sembrano calpestare a forza il terreno dove vi camminano. Quando era possibile, nei periodi estivi di vacanza dalla scuola, andavano dei ragazzini ed aiutare l’ Angiolina a portare in Paese la pesante valigia, poi li ricompensava con dei dolci o con u disco di musica popolare.

Anche al suo ritorno a Revò con la roba barattata, Angiolina aveva delle ragazzine che le davano una mano a scegliere le uova, quelle da dare alla gelateria e quelle da dare ai negozi e per ricompensa poi dava loro del caffè di orzo ed i sabati d’ estate metteva a disposizione dei giovanotti e delle signorine del paese il suo giradischi che veniva messo sul terrazzino di una casa sopra la piazza con tanto di disc – joker che cambiava i dischi di musica popolare mentre la piazza si animava di coppiette che ballavano valzer e tanghi.

Angiolina vendeva un po’ di tutto, dal caffè alle calse da donna, alla roba intima, alla lana per fare maglia, ma soprattutto barattava la sua roba in cambio di uova fresche, fagioli secchi, orzo che poi tostava e rivendeva come caffè da orzo , per questo veniva anche chiamata Angiolina dai evi , come erano dette le uova nel dialetto Revodano.

Credo che sia stata un po’ apparentata con la moglie di mio cugino Gianfranco che si chiama Cristina Rossi ed è nativa di Revò.

Mi racconta mia cugina Cristina, parente appunto dell’ Angiolina, che nella vecchiaia era ospite della Casa di riposo di Cles e prima di morire le consegnò un foglio di carta con un tema su di lei composto da un alunno delle scuole di Varollo, spera di poter ritrovare questo scritto per poterlo allegare a questo racconto.

 

 

 

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Riccardo da Dovena

 

 

Arrivava anche lui a piedi dopo essere sceso dalla corriera al bivio di Scanna, saliva la stradina zoppicando notevolmente pervia di un grave difetto ad una gamba, penso congenito, proveniva dal paese di Novena che è una frazione del comune di Castelfondo in alta anuria. Portava con se uno zaino color coloniale dove teneva le poche cose che possedeva e l’ immancabile mazzo di carte da briscola con le quali ci sfidava a giocare contro di lui che si riteneva un asso del gioco. Si chiamava Riccardo non ricordo il cognome, ma per tutti noi era semplicemente Riccardo da Dovena, passava per le case a chiedere l’ elemosina e verso mezzogiorno quando dalle finestre aperte usciva il buon profumo di polenta e crauti o socio, lui bussava alle porte di quelli che era certo poi lo avrebbero fatto rimanere a mangiare assieme a loro. Molte volte lo abbiamo ospitato a pranzo con noi, poi finito di mangiare tirava fuori dallo zaino le carte da gioco e i impegnava in delle lunghe sfide a briscola.

Riccardo veniva soltanto nella bela stagione da primavera alla fine dell’ estate e non passava mai con il cattivo tempo perché faticava molto con la sua gamba storpia e claudicante. Ritornava a Castelfndo sempre con la corriera delle diciassette che andava a prendere al bivio di Scanna, però a volte c’era chi lo ospitava anche a dormire e allora restava in paese per alcuni giorni.

Quando divenne più vecchio, il ritmo dei suoi viaggi si fece sempre meno frequente, fino a che una primavera non si vide tornare in paese ed era passata la notizia che aveva trovato un posto definitivo in una casa di riposo per anziani e da allora non si vide mai più.

 

 

 

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Il Lispo di brijaudi

(Il Lispo dei funghi )

 

 

Era uno di quei personaggi che nel mio immaginario hanno sempre rappresentato la libertà allo stato puro, intesa come lo spogliarsi di tutti quelli atteggiamenti e di tutte quelle regole che l’ uomo essere socievole per natura, si è autoimposto nel tempo, come la concezione sociale ed organizzata della società, il modo di vivere le relazioni umane anche tra sessi diversi, il concetto di avere che pianno, piano ha sostituito quello molto più importante e determinante che à l’ essere, ed in diretta conseguenza di tale distorsione sociale, si sono poi determinate le classi sociali sempre più distanti tra di loro quanto egoiste e prive di umana solidarietà.

Per me il Lispo rappresentava uno di quei cavalieri erranti descritti nelle canzoni degli Anarchici, continuamente perseguitati e scacciati che vanno erranti di terra in terra perché il loro pensiero e il messaggio che essi trasmettono, sono in totale disaccordo con l’ attuale pensiero e modello sociale capitalistico e borghese e và a rompere certi privilegi che aquisiti nel tempo con il denaro e l’ arroganza del potere.

Si chiamava Giuseppe Niccolini era nato a Villazzano il uno. 01. 1896 era coniugato.

Noi ragazzini lo incontravamo di frequente per le strade poderali e in giro per i nostri boschi ricchi di funghi che egli raccoglieva e poi vendeva alla gente del paese. Da come lo ricordo io, mi sembrava una persona con una spiccata cultura generale, non ricordo se lavorasse anche a dipingere quadri ma credo di no perché non ho menzione che qualcuno ne sia in possesso.

A dormire si recava spesso presso la casa della signora Agosti Rosa di Gianini e lì dormiva nella stalla sul fieno la stessa signor Rosa mi ha dato le sue generalità e la sua provenienza.

Morì presso la casa di Agosti Rosa il 16 febbraio 1960 e venne subito portato nella cappella mortuaria del cimitero di Varollo da un gruppo di volontari su incarico del allora sacristano della chiesa parrocchiale di Varollo, signor Carotta Severino.

Mi ha raccontato uno dei giovani che si sono prestati per il trasporto del morto, che al cadavere ancora caldo erano state messe le mani sul petto, ma le braccia di tanto in tanto scivolavano inerti verso terra spaventando i baldi giovanotti che non volevano più proseguire il tragitto che dalla casa più a sud del paese, a notte fonda come in un film dell’ orrore, si dirigevano verso il lontano cimitero di Varollo accompagnati dalla luce tenue della lanterna a petrolio del sacristano.

Per ovviare all’ inconveniente, il buon Severino che era anche il becchino del paese, prese dalla sua tasca un grande fazzoletto e legò le mani del defunto affinché non scivolassero più in basso.

Il mattino successivo di buon ora, si sentiva il rumore della pialla e della sega circolare del falegname del paese signor Pietro Antonioni , che preparava la bara per il defunto Giuseppe Niccolini che venne sepolto nel cimitero di Varollo.

 

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Dario Agosti cugino di mio padre

 

 

Un altro personaggio d’ altri tempi, uno di quei personaggi molto ben descritti da Fabrizio de Andrè nel suo album Non all’ amore ne al denaro ne al cielo.

Lo si potrebbe paragonare al suonatore Jones trasgressivo ed ubriacone, sprezzante di tutto quello che sapeva di regole o di ordini, a Dario non si poteva comandare, non perché non lo si potesse fare, ma perché era inutile tempo perso tentare di dargli degli ordini. Era un uomo che viveva alla giornata, senza un programma ben definito per il futuro, quando aveva lo stomaco pieno, aveva bevuto la sua giusta razione di vino ed aveva del tabacco ed un pezzo di giornale per confezionarsi delle sigarette, lui si sentiva l’ uomo più appagato e felice di questo mondo.

Lavorava saltuariamente come bracciante agricolo per le persone che avevano bisogno di aiuto nei campi, oppure aiutava la gente a fare la legna nel bosco e lì si trovava a proprio agio, conosceva infatti ogni palmo di bosco perché tra le tante attività raccoglieva anche funghi e li vendeva alla gente o li barattava con un pranzo o una cena. Bisogna dire che era un vero e proprio esperto in funghi, ne conosceva le varie specie sapeva distinguere se erano commestibili o velenosi 3 dava anche dei consigli alle massaie su come cucinarli.

A conferma di quanto fosse importante la sua conoscenza dei miceti, basti pensare che nell’ arco della sua se pur breve vita, Dario ha raccolto e messo a disposizione delle tavole di molte famiglie di Livo, quintali di funghi scelti tra decine di qualità commestibili e velenosi che crescono nei nostri boschi, senza mai aver provocato il benché minimo segno di intossicazione. Era frutto della sua grande esperienza e conoscenza aquisita dai genitori ed affinata poi con l’ osservazione ed il confronto stretto con i suoi amici per la vita che furono Carotta Romano detto Mano e Guarienti Serafino.

Quando la zia Lina gestiva l’ osteria, tra i clienti fissi e fedeli c’ erano appunto il Dario il Mano Carotta che dopo aver mangiato e bevuto a sazietà per la ricompensa pattuita per aver fornito di funghi freschi l’ osteria, si mettevano a cantare una canzona eseguita da quello strano ed estemporaneo duo, la canzone di intitolava “ La mosca mora traditora “.

Dario poi chiedeva a mia zia di poter dormire sul fieno fresco e profumato, la zia acconsentiva sempre allora lui per prudenza e per prevenire gli incendi svuotava le tasche e lasciava a mia zia Lina l’ accendino e le sigarette, soldi non ne aveva mai…

Mio padre era un big hunter un cacciatore esperto e dalla mira infallibile e a volte uccideva anche delle volpi delle quali recuperava solo la pelle che era pregiata per fare pellicce, mentre la carne normalmente si sarebbe buttata, se non che ci pensavano il Dario ed il Mano a prendersela appena scuoiata ed a cucinarla a grossi pezzi in una grande pentola ed hanno sempre sostenuto che era una delle carni più prelibate e gustose che avessero mai mangiato! Questo fa capire che a volte a dar retta ai preconcetti si rischia di rinunciare volontariamente a delle cose buone o belle che la vita ci propone come la carne della volpe in questo caso, ma se ci si pensa bene anche a cose ben più importanti come una bella amicizia solo perché l’ altro è uno straniero, o ad un amore solo perché siamo poveri, di una classe sociale inferiore o magari afflitti da qualche difetto fisico che deturpa l’ aspetto ma che non impedisce al cuore di battere forte per una ragazza e per fare questo no necessita di avere denaro luccicante, brilla di luce propria eterno.

Gente d’ altri tempi, capace di accontentarsi del nulla che aveva, di essere felice come un bambino davanti ad un piato di trippa ed un bicchiere di vino, capace poi di intonarti una canzone d’ amore o di guerra, per poi finire sdraiato sul fieno a russare libero dai pensieri e preoccupazioni che sono frutto del denaro e dell’ egoismo e dormire come un angioletto fino al mattino e lasciare senza il benché minimo rimpianto questa vita perché aveva saputo succhiare da essa tutte le essenze naturali e gratuite che la vita contiene in se stessa e che sa elargire a tutti quelli che la riescono a vivere con un cuore da bambino.

Dario morì nel 1964.

 

 

 

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ANTONIONI PIETRO

 

 

( Perolin )

 

 

A ricordare Antonioni Pietro, da noi chiamato più comunemente “ Perolin “, a me basta il suono inconfondibile di una sega circolare o di una piallatrice del legno, Pietro, infatti, di professione faceva il falegname, era una persona saggia ed onesta come pochi ho conosciuto,non era nativo di Livo, ma proveniva del piccolo paese montano di Bresimo, aveva sposato una donna di Livo che si chiamava Silvia Agosti, anche lei una donna umile e buona.

La coppia aveva avuto cinque figli, Sandra, Rosa, Maria, Piera e Natale. Pietro, aveva il laboratorio di falegname propri a poche decine di metri dalla mia abitazione, ed è per questo che mi è familiare il suono dei suoi attrezzi di lavoro, il canto della sega circolare ed il sibilo della pialla. Quando ero ragazzino e mi dilettavo a lavorare il legno e tutti i suoi derivati, quando avevo bisogno di un particolare lavoro o di una tavoletta di compensato, mi recavo dal Perolin… e lui spegneva le macchine e sceglieva tra le tavolette che non le sarebbero più servite, quella che faceva al mio caso, non si faceva mai pagare, anche perché era consapevole che nessuno di noi , allora, sarebbe stato in grado di farlo. Mi piace anche descriverlo fisicamente, in quel suo laboratorio angusto, che sembrava un museo della lavorazione del legno, con tutti quelli attrezzi appesi alle pareti, quel grande carro con le ruote di legno ed i cerchi in ferro, che assomigliava tanto a quelli del Far west visti nei film di Ford, con il sedile per il conducente, ma a differenza di quelli dei film, era carico di tavole di legno che gli servivano per il suo lavoro.

Era un uomo piccolo di statura con dei baffetti sotto il naso, me lo ricordo sempre vestito di blu’ con un grembiule da lavoro dello stesso colore.

Quello che più mi è rimasto impresso di lui, è il rumore delle sue attrezzature di notte, quando Pietro lavorava di notte, era perché doveva costruire una cassa da morto, ora con un linguaggio più elegante e meno impattante per chi resta, si chiama cofano o nella ipotesi più dura, bara, ma poco importa, il contenuto era e resta sempre lo stesso. Quando ero piccolo, io dormivo con mia nonna, nella stessa stanza dove dormo ora, solo che adesso le finestre e le pareti sono isolate, allora no, e mia nonna , quando sentiva questi rumori, mi diceva sempre : - Senti, el Perolin fa la cassa al…” e quanti nomi ricordo sono passati scorrendo il rumore del Perolin.

Un ricordo piacevole di Pietro era il suo hobby che esercitava solo di domenica o i qualche altra rara festività, lui suonava la fisarmonica,così, per diletto, con semplicità, senza tante pretese, e dalla sua fisarmonica uscivano delle note gradevoli di vecchie canzoni … Gondolì gondolà, Piemontesina, La domenica andando alla messa, ecc. ed ascoltando quella musica, gli ho un po’ rubato la sua arte, mi sono innamorato dell’ armonica a bocca che a tutt’ oggi mi diletto di suonare, con tutta umiltà come faceva Pietro con la sua fisarmonica.

 

 

 

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ARCANGELO AGOSTI

 

(Trapeni 1° WW * 27.02.1887 + 07.12.1980

 

Ora, che non sono più giovane, ora che riesco con maggior esperienza a dare il peso giusto alla vita vissuta ed ai ricordi, penso, spesso, a quanto mi raccontava, tanti anni fa’, un uomo di Scanna, Arcangelo Agosti, uno di quelli uomini saggi che hanno vissuto nei nostri paesi, una di quelle persone che adesso sono diventate rare, che hanno brillato per la loro onestà e delle quali, oggi, sentiamo la mancanza.

Arcangelo era un agricoltore ed abitava a Scanna di Livo, nella casa dove c’è la fermata dell’ autobus che scende da Rumo diretto a Cles, ora disabitata da anni.

Era nato il ……. sposato con Emilia ……… ed aveva …. Figli, era una persona mite e generosa, impegnata nel sociale e nella cooperazione.

Al tempo della grande guerra, come tutti gli uomini validi di allora, venne anche lui chiamato a servire l’ Imperatore Francesco Giuseppe d’ Austria, che aveva dichiarato guerra alla Serbia. Il conflitto si era però estese anche ad altre nazioni, tra queste la grande Russia dello Zar Nicola ll di Romanov e proprio contro i soldati dello Zar, venne mandato anche Arcangelo.

Dicevo, che il mio pensiero va’ tante volte al buon Arcangelo e quando penso a lui, mi torna sempre in mente un episodio bellico che lui mi raccontò circa 40 anni fa’

 

I soldati erano schierati nelle rispettive trincee, gli austriaci da una parte ed i Russi dall’ altra, ad un certo punto, i soldati Russi si mossero all’ assalto delle trincee austriache, dopo averle pesantemente bombardate con l’ artiglieria di diversi calibri.

Venivano all’ assalto, con i loro fuciloni lunghi, a piccoli gruppi, sparsi sul terreno, dopo una breve corsa si buttavano a terra, per poi riprendere l’ assalto.

Naturalmente, dalle trincee austriache, il fuoco delle mitragliatrici e dei fucili era intenso, e non tutti i soldati russi si rialzavano per riprendere l’ assalto, molti restavano a terra morti o feriti.

Alla fine, dopo vari tentativi falliti, vista l’ impossibilità di prendere la trincea austriaca, decisero di ripiegare delle loro posizioni di partenza con la copertura del fuoco di interdizione della loro artiglieria.

 

Finita la battaglia, con il suo frastuono di esplosioni e spari, tornò un silenzio, quasi irreale e quasi più fastidioso del fragore della battaglia, ma dopo un po’, dalla cosi detta terra di nessuno, che è la parte di terreno che va’ da una trincea all’ altra, e dove è pericolosissimo sostare perché sotto tiro del nemico senza alcuna protezione, si udì un soldato russo ferito che implorava aiuto e chiamava mamma.

Sicuramente il lamento e le richieste di aiuto del povero soldato , erano sentite anche nelle trincee russe, ma nessuno si muoveva per prestare soccorso per il timore di essere colpito dalle mitragliatrici degli austriaci, si c’ era anche allora la convenzione di Ginevra, che garantiva l’ incolumità agli operatori della Croce rossa e della Mezza luna rossa. Però non sempre questa convenzione era rispettata, specie dopo aver subito un assalto, ed era facile che qualcuno, innervosito, cominciasse a sparare.

Il lamento del soldato continuava e lacerare l’aria ancora odorante dei fumo delle esplosioni della battaglia, feriva il cuore ed entrava nel cervello ancora di più delle fucilate.

A quel punto, il capitano comandante della trincea austrica, chiamò Arcangelo gli consegno’ una busta contenente una benda ed il necessario per una medicazione sul campo, gli ordinò di uscire dalla trincea e di andare a prestare soccorso al soldato ferito.

Era un ordine, e si doveva solo obbedire, Arcangelo uscì dai reticolati, pensando: “ sia come sia se questa è la mia ora sia fatta la volontà di Dio !”

Tutti i suoi commilitoni lo seguirono con lo sguardo, mentre si avvicinava al ferito, col fucile imbracciato, pronti al fuoco di copertura se fosse stato necessario. Arrivò dal soldato che aveva una ferita da erma da fuoco al petto, gli aprì la giacca gli medicò la ferita e gli applicò sopra la benda che gli aveva il suo comandante. Stava per imbrunire, ed era calato su tetta la trincea un silenzio quasi sacro, tutti osservavano Arcangelo che armeggiava attorno al ferito, guardavano, ammirati, i suoi commilitoni austriaci e guardavano, sorpresi da tanta gratuita umanità, i soldati dello Zar.

Finito il suo compito, Arcangelo tornò in fretta, chino sul terreno, verso la sua trincea, aveva obbedito , senza discutere, ad un ordine del suo Capitano, ma ,quello che mi piace sottolineare, è che aveva obbedito al comandamento di Dio “ ama anche i tuoi nemici “.

Con il passare del tempo il lamento si fece sempre più debole, finché cessò del tutto.

 

Arcangelo, mi raccontò, che dopo poco tempo, con una manovra a tenaglia, preponderanti forze russe fecero in quella zona moltissimi prigionieri austriaci, tra cui lui, mi raccontò che durante quella battaglia, il suo comandante aveva scambiato i Russi per rinforzi austriaci, dicendo “ unsere “ … poi Arcangelo, scuotendo il capo mi sesse : “ se l’ me svessa scotà mi…”

Fu liberato dalla prigionia nel 1917 a seguito della rivoluzione di ottobre e dell’ avvento del socialismo in Russia che determinò la fine immediata della partecipazione della Russia alla grande guerra.

 

Questo fu Arcangelo Agosti, un galantuomo in guerra ed un uomo giusto nella nostra comunità.

 

 

 

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ROMANO DEPETRIS

 

(di Orsi 2°ww)

 

 

La storia di Romano Depetris, è l’ emblema della storia di tanti militari italiani, che alla fine della seconda guerra mondiale, vennero letteralmente abbandonati da questo Stato, fatto di gente arrogante ed ignorante, il cui unico scopo è stato quello di occupare e mantenere i posti di comando, a tutti i costi, creando così un sistema mafioso di scambio di voti con favori fatti ad Amici ed amici degli amici, portando la nazione ad un debito pubblico di circa 2000 miliardi di euro, una cifra che non riusciremo più a pagare.

Romano era un agricoltore di Scanna di Livo, abitava in una casa vicino alla chiesetta ed alla fontana, al sopraggiungere della seconda guerra mondiale, anche lui, come la stragrande maggioranza dei giovani italiani, venne richiamato alle armi e spedito sul fronte Russo, con gli alpini a combattere i russi sulle rive del Don. Da quella terribile esperienza, ebbe la fortuna di fare ritorno a baita, perché portato a spalle per l’ ultimo tratto di strada nel corso della ritirata dal suo tenente,. però con un grave principio di congelamentio ai piedi, che fu per lui la causa di molti problemi di salute, fino ad arrivare alla dialisi renale, che lo portò , lentamente alla morte.

Era un uomo buono, semplice ed umile, un lavoratore dei campi, si sposò con una ragazza che si chiamava Bruna e con lei ebbe una sola figlia che si chiamava Alessandrina, era una mia coetanea, anche lei del 1951, è stata la mia migliore amica tra i miei coetanei, mi ha voluto bene e come tutte le cose belle e buone, ha avuto una vita breve ed ora è in cielo con i sui genitori morti entrambi giovani.

Mamma Bruna, morì nel 198*, andò a letto una sera ed al mattino non si alzò più…

Romano rimase solo, con la figlia, ma la sua salute cominciò a peggiorare.

Nei primi anni ‘ 50, gli anni dell’ immediato dopo guerra, Romano chiese allo Stato una pensione per la sua invalidità dovuta al congelamento dei piedi in terra di Russia, venne sottoposto a delle visite di accertamento da parte delle commissioni mediche civili e militari e gli venne riconosciuta una piccola pensione come invalido di guerra.

Durante la fase burocratica inerente la sua pratica, venne trascritto in modo errato il suo cognome, risultò essere DEPRETIS anziché DEPETRIS, al momento della definizione della pratica, quando venne comunicata a Romano, lo chiamarono con il cognome sbagliato, lui che era un uomo onesto disse di chiamarsi Depetris e non Depretis, con il risultato della immediata sospensione della pratica e della conseguente liquidazione della spettante pensione.

Non sono a conoscenza se poi la cosa venne sanata, se fece ricorso per questo errore, che per il buon senso avrebbe dovuto essere corretto all’ istante riscrivendo, in modo giusto il suo cognome.

Ogni volta che vedo quelle ignobili storie dei falsi invalidi, che truffano lo Stato con miriadi di escamotages e di trucchetti, mi viene in mente l’ alto valore morale e la dignità assoluta di Romano Depetris, che quando lo chiamarono con un cognome non suo, rispose “ Madoca, ma mi jai nom Depetris ! “

( madoca, ma io mi chiamo Depetris )

 

 

 

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AGOSTI ILDA

 

La storia di Ilda è una di quelle avventure che la vita ed il destino sembrano confezionare ed arte, un arte triste e tragica, che molto fa pensare e discutere, con una serie di pensieri filosofici , di diversa estrazione e di diversa cultura, che però non hanno mai dato risposte a questi drammi personali ed a tratti sembrano quasi essere una scusante per giustificare il tutto,cercando e trovando tutte le colpe e tutte le cause nel destino.

Ilda è figlia del defunto Luigi e di Zadra Ester che proveniva dal vicino comune di Cis è nata nell’ anno 1924 ed è tutt’ ora vivente nella sua casa di Scanna, a due passi dalla fontana e dalla chiesette dell’ Immacolata concezione.

Aveva sposato un uomo che si chiamava Gieseppe Zanotelli del casato dei “ Tripoi “ nel primo dopoguerra che come tutte le famiglie dell’ epoca viveva di agricoltura e zootecnia, in parole più povere aveva alcuni prati e un paio di mucche nella stalla.

Quello che non è mai mancato in casa Zanotelli, erano le bocche da sfamare, tante per l’ epoca di magra di quel tempo, la signora Ilda, infatti, aveva ben 8 figli, 5 femmine e 3 maschi, una famiglia numerosa come molte di quei tempi.

Il signor Giuseppe, pur con tanti sacrifici e tanto lavorare, era sempre riuscito, con grande dignità, a sopperire ai bisogni della sua grande famiglia, bisogna dire che a quel tempo tutti sapevano accontentarsi dello stretto necessario dia nell’ alimentazione che nell’ abbigliamento che passava dal figlio più grande a quello più piccolo con il ruotare delle stagioni e con il crescere dei figli, era un continuo ereditare la roba dei fratelli maggiori, fino alla totale usura del capo

Nessuno allora si poteva permettere dei lussi, come abbigliamenti firmati o degli alimenti che non fossero prodotti in casa, si acquistavano solo i prodotti che non si potevano produrre come l’ olio, il sale, e pochi altri, per il restante si consumavano prodotti di produzione propria. Perfino il sapone per lavare i panni veniva prodotto in casa con il grasso di maiale e la soda caustica e lo si usava anche per la pulizia del corpo.

Il destino bussò alla casa di Ilda il 25. aprile 1964, quando il marito Giuseppe assieme al figlio maggiore Elio si reco sul monte Avert a fare la legna per l’ inverno, aveva infatti avuto la sua “ Brosca “ in quella località impervia. Durante i lavori di taglio e di accatastamento della legna, il signor Giuseppe perse l’ equilibrio e cadde da una roccia ferendosi in modo molto grave.

Il figlio Elio che era con lui, corse a valle per dare l’ allarme, arrivò stremato in paese e raccontò il fatto.

Sono subito scattati i soccorsi dei VV, FF. e dei volontari che quando raggiunsero il posto il signor Giuseppe era già morto.

Io a quel tempo ero in collegio e fui informato da un frate che era un lontano parente del signor Giuseppe, mi ricordo che scrissi una lettera al mio coetaneo ed amico Elio, ma come tutte le parole o gli scritti in quella drammatica occasione,ben poco servono e non hanno il potere di cambiare gli eventi, forse ti possono far sentire la solidarietà e la vicinanza delle persone che ti vogliono bene ma niente di più.

Così la signora Ilda restò sola con sette bocche da sfamare un una vita che portava in grembo, tutti minorenni, tante bocche da sfamare.

La signora Ilda, ha sempre avuto una profonda Fede nel Signore e credo che questo sia stato il carburante per darle la forza ed il coraggio di andare avanti, con tanta dignità . La sua devozione alla Beata Vergine della chiesetta di Scanna, lei l’ ha sempre dimostrata con il suo servizio svolto per la nostra chiesetta, dalla ricerca alla posa dei fiori, assieme alla Rina di Orsi e poi quando la Rina non è stata più presente, da sola porta ancora avanti questo suo mandato, senza chiedere nulla in cambio, se non la protezione della Madonna.

Gente d’ altri tempi, gente che era cresciuta con la vocazione di donna e di mamma, che sapeva così affrontare anche le avversità della vita con uno spirito di coraggiosa forza di rinascita, di dovercela fare, per amore dei figli di quelle numerose bocche che ogni giorno dovevano venire saziate. Mai una recriminazione, mai una ben che minima forma di odio verso la società, ha accettato quello che era un suo diritto, senza elemosinare o speculare sulla sua situazione di vedova con una famiglia numerosa a carico.

Mi sarebbe facile, citando l’ esemplare vita della signora Ilda, fare dei confronti e dei paragoni con delle situazioni familiari in profonda crisi, che vedo in questa nostra società, mi sarebbe facile e la signora Ilda ne uscirebbe come un esempio da imitare, come un simbolo di amore per il suo uomo e per i suoi figli, un esempio di dignità e consapevolezza del vero ruolo della donna che non è asservita all’ uomo ma che ama l’ uomo in tutte le sue sfaccettature, con i suoi pregi ed i suoi difetti, che è vissuta in un tempo dove le cose si sapevano e si dovevano aggiustare e per nessun motivo al mondo si sarebbero buttate. Erano altri tempi, è vero erano tempi in cui la vita sociale era scandita ed ordinata da valori che miravano alla stabilità della famiglia che è la cellula fondante della società, negli anni successivi non si è riusciti a crescere di pari passo conservando ed adattando al mutare dei tempi quei valori che non sono passati di moda, forse a taluni sono sembrati restrittivi della libertà personale, del proprio egoismo e della folle corsa al materialismo ed al consumismo sfrenato.

I valori non hanno colore politico, non hanno una fede religiosa, sono solo un frullato di esperienze e di buon senso. Non invecchiano mai, ma ci aspettano al varco dei nostri errori ed al fallimento delle società che pensano di poterne fare a meno !

E’ a donne come la signora Ilda che noi uomini dobbiamo toglierci il cappello al loro passare, a quelle donne la cui semplicità ed umiltà rende speciali ed uniche, rare da trovare in questi tempi moderni dove tutto sembra dovuto, anche il rispetto che certe persone non meritano ma che viene aquiseto con il denaro e con il potere, cose del tutto effimere nell’ ottica di vita ispirata al fulgido esempio della signora Ilda.

 

 

 

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ZANOTELLI GIOVANNI

 

(Gioanin ( 1°ww ) * 24. 06. 1896 + 04. 02. 1973

 

Si chiamava Zanoteelli Giovanni, ma io l’ ho sempre sentito chiamare Gioanin, era un uomo alto e magro, una persona umile e buona, che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere molto bene, in quanto la mia abitazione dista una decina di metri dalla sua e tutti i giorni avevo l’ occasione di incontrarlo, quanto andavo a giocare con i miei cugini che ora sono negli Stati uniti.

Giovanni era zoppo e camminava decisamente claudicante per via della brutta ferita avuta nella prima guerra mondiale, quando una granata d’ artiglieria gli aveva demolito il piede e da allora, dopo essere stato curato nell’ ospedale militare di Lienz in Austria, per poi venire congedato a causa della grave infermità era costretto a camminare zoppicando.

Con l andare del tempo, la tecnologia ortopedica gli aveva messo a disposizione delle scarpe speciali che gli consentivano di camminare con meno sforzo e con meno dolore.

Quel suo camminare stentato e faticoso me lo sono portato nella mente fino ad oggi e quando passo vicino a casa sua, mi sembra ancora di vederlo salire lungo il viottolo con quel suo incedere faticoso e lento, ed io , uomo di destra, a volte entusiasta delle grandi battaglie, del fascino della guerra, delle grandi imprese epiche e mitologiche, venivo sempre messo a confronto con la realtà cruda e dolorosa delle vicende belliche, quando incontravo il Gioanin con il suo passo lento e zoppicante, con il suo eterno sorriso, specie per i bambini, con la sua serenità di una vita vissuta con profonda onestà e dedizione alla sua numerosa famiglia. Giovanni infatti, nonostante la grave menomazione, era riuscito a farsi una bella famiglia, erano tempi duri allora per gli uomini e per le donne, ma erano anche i tempi dove sbocciava un vero ed indissolubile amore tra due ragazzi, a prescindere dalle condizioni economiche e dallo stato fisico, e questa ora è una situazione che invidio, io portatore di un grave handicap, non sono riuscito a farmi una famiglia, perché le donne del mio tempo guardavano più alla scatola che al contenuto…ma questa è un'altra storia.

Giovanni aveva sposato una ragazza di Scanna che si chiamava Concetta Agosti, ma per tutti in paese era la Rosina e da lei aveva avuto ben 7 figli, tre maschi e quattro femmine, quello che mi è stato più vicino, per via dell’ età e della passione per la ricerca, è stato Onorio, era un genio di sapienza e di fantasia applicata alla realtà, ricordo con nostalgia quei tempi, quei lavori ingegnosi, quel nostro correre al torrente Pescara, quel nostro costruire le baite nel bosco, con la centralina elettrica mossa dalla forza dell’ acqua, quanta libertà, quanto entusiasmo e quanta costruttiva fantasia…

Giovanni era un agricoltore, viveva con il lavoro dei campi ed i prodotti della terra, ad aiutarlo nel lavoro quotidiano , reso ancora più pesante dalla sua menomazione al piede, c’ era sempre la fedele Rosina, sembra quasi di raccontare una bella fiaba dei Grimm, ed invece è la vita di un uomo, della sua donna e della sua bella famiglia. Pensando al Gioanin, a volte mi chiedo : ma cosa ci manca ora, perché andiamo a cercare tutto quello che avevamo e che abbiamo dimenticato in nome di un discutibile progresso che ci ha resi schiavi di un consumismo sfrenato, di cose spesso inutili ed assurde, e poi andiamo a cercare un angolo di pace in una baita di montagna quando quella pace e quella serenità l’ avevamo dentro le povere case di un tempo…

Giovanni aveva anche dovuto emigrare negli Stati uniti, dove era stato un anno precario in attesa di un lavoro e per sopravvivere faceva dei lavori saltuari, poi , come tutti gli italiani, aveva avuto il suo lavoro, in una miniera della Pensilvania, dove rimase per 10 anni.

Il suo stato di grande invalido di guerra, a quel tempo non dava diritto a delle sovvenzioni o delle pensioni, anche perché quella era gente che aveva combattuto contro l’ Italia e specie durante il periodo fascista, non erano visti di buon occhio, quindi ancora maggiore era lo sforzo per poter mantenere la famiglia con la moglie e i sette figli, ma quello che più pesava in casa di Giovanni, era la pesante ironia che i bulli del paese avevano elaborato per deridere il Gioanin ed il suo grave problema derivante dalle ferite della guerra, forse quell’ ironia , stupida ed anacronistica, pesava al Gioanin ed alla sua famiglia molto più del dolore fisico che gli procurava da anni la ferita al piede che lo aveva reso zoppo.

Infatti una banda di bulli del paese con a capo Zanotelli Davide, suo nipote aveva pensato bene di coniare un soprannome che definisse nei particolari e senza ombra di dubbio, lo stato fisico di Giovanni Zanotelli, lo definirono “ il gamba “ .

Io non so se anche nei miei confronti, per i miei problemi congeniti che ho, si sia pensato di azzeccarmi un nomignolo, ne sarei quasi onorato, perché lo ritengo l’ unica cosa che certa gente, ignorante e retrograda, sarebbe in grado di partorire, solo il guardare i difetti degli altri senza mai guardarsi allo specchio.

La figlia Rita, mi ha raccontato un altro piccolo episodio riguardante l’ invalidità del padre, un giorno, mentre il Gioanin tornava a casa con il carro carico di fieno per le mucche che lo trainavano, un ragazzo del paese che si chiamava Zanotelli Pio, tiro al Gioanin una pera colpendolo al piede malato, tante furono le bestemmie e le maledizioni dell’ uomo, ed il destino che ascolta tutto, e rende poi giustizia nel tempo, determinò che il bullo che gli aveva appioppato il soprannome di “ gamba “ , chiamato anche lui a combattere un altro nemico in Africa, venisse ferito ad una gamba e poi, col tempo gli dovesse essere amputata, ed il secondo perdesse un braccio in un incidente di lavoro… quando si dice destino.

 

 

 

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CONTER BASILIO

( Paoli 1° ww )

 

Basilio Conter, fu una delle persone che ho conosciuto sin da bambino, in quanto era il nonno paterno dei miei cugini Alfio e Diego, aveva sposato una donna che si chiamava Zanotelli Anna ed aveva due figli Daniele e Remo. Era un uomo semplice un agricoltore, come tutta la gente locale di 2 secoli fa, anche lui, come tutti i giovani validi, allo scoppio della guerra venne richiamato e mandato sul fronte russo, con gente di Rumo, come mostra una foto che lo ritrae assieme ai suoi commilitoni .

Delle sue imprese belliche non ricordo molto ma spesso ci parlava della sua odissea per poter tornare a casa dopo l’ armistizio del 1917 quando la Russia, dopo la rivoluzione di ottobre e la cacciata dello Zar Nicola secondo, concluse con l’ Austria una pace separata liberando tutti i numerosi prigionieri tra cui anche Conter Basilio, che poi impiegò mesi per ternare a casa avendo dovuto compiere il viaggio di ritorno passando per il Giappone e dovendo di fatto fere il giro del mondo alla rovescia per arrivare al suo paese, con la sorpresa di trovarsi non più austriaco ma italiano dopo l’ annessione del 1918.

Riprese il suo lavoro di contadino, come aveva fatto prima della guerra, era una persona semplice ed umile, molto riservato. Dopo la seconda guerra mondiale, una grave disgrazia lo colpì, il figlio minore Remo, si ammalò gravemente di depressione e dovette essere ricoverato all’ ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana, sembra che il ragazzo fosse stato arruolato nel lavoro coatto dell’ organizzazione tedesca Todt che affiancava la Wehrmacht per lavori di manutenzione alle strade ed alle strutture militari e lì si era poi malato.

Da quel manicomio ne uscì morto nel 19**- Voglio raccontare un piccolo episodio che coinvolse Basilio in un incidente stradale, erano gli anni 60, ed era un caldo pomeriggio estivo, quando la signora Rita Zadra che abitava ad un passo dal luogo dell’ incidente ed aveva visto tutta la dinamica, mi disse di chiamare mio padre ed i parenti di Basilio, perché gli era capitato un incidente stradale. Era successo che l’ uomo , tornando dal lavoro dei campi, era stato a “ votar l’ fen “ ( girare il fieno che seccava al sole ), si era fermato un attimo al bar della Cooperativa di Varollo a bere un bicchiere di vino, ed aveva incontrato un suo nipote di Varollo che si chiamava Tomevi Ettore.

Si fermò a chiacchierare con lui per un po’, poi il nipote che aveva una moto non ricordo la marca, si prestò a portare a casa Basilio con il suo mezzo, per fargli risparmiare tempo e fatica. La strada allora non era asfaltata, era una strada bianca sterrata, e non c’era nemmeno la variante che tagliava fuori il centro abitato di Varollo, il tragitto non era lungo, saranno stati circa 100 metri, ad ogni buon conto, arrivati alla croce dell’ Angelica, forse per un sasso o della sabbia smossa, il guidatore perse l’ equilibrio ed i due rovinarono a terra… Il danno fisico fo molto limitato, data la bassa velocità della moto, si trattò di alcune contusioni ed escoriazioni, non credo che ci fu nemmeno bisogno del pronto soccorso ospedaliero.

Il fatto fece cronaca perché a quel tempo il traffico era limitato, quasi assente, e le notizie di cronaca nera o rosa o il gossip erano limitati ai confini comunali, oh, si badi bene che però c’ erano delle comari che sapevano di te vita, morte e miracoli, e per quello che non sapevano, ci pensava la loro feconda fantasia.

 

 

 

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Agosti Eugenio

 

( dei Turi 1°ww )

 

Era un uomo alto e magro abitava all’ inizio del paese in una delle prime case che di incontrano a destra salendo per la ripida e stretta stradina che taglia a metà il paesino di Scanna, la casa che è di fronte a casa Guelmi il caseggiato più storico della Frazione.

Anche lui , come tutti qui in paese , era agricoltore, allevatore con una spiccata propensione per l’ apicoltura. Era sposato con Rosa dalla quale ebbe numerosi figli e figlie ???

Come tutti gli uomini validi di quel tempo, anche lui venne arruolato nell’ esercito di sua maestà imperiale Francesco Giiuseppe d’ Asburgo ed il 20 luglio 1914 venne anche lui inviato su uno dei numerosi fronti di combattimento.

A guerra finita tornò anche lui nella nuova patria italianaa riprese il lavoro e riprese a fare figli, un figlio che si chiamava Vittorio andando Cles, all’ altezza del bivio di Scanna ebbe un grave incidente con un pullmann di linea dell’ linee private Franch, mentre percorreva in bicicletta la strada andò a sbattere con la testa contro il mezzo e riportò un grave trauma cranico che in seguito gli provocò una grave forma invalidante simile all’ epilessia.

Di professione faceva il sarto ed era anche molto bravo perché aveva studiato l’ arte presso un maestro di sartoria, lavorava a fare vestiti sia maschili che femminili, ricordo un giorno che con mio fratello eravamo andati a prendere un lavoro finito e mentre ci stava consegnando la merce ebbe una crisi e cadde a terra, noi , impauriti ed incapaci scappammo a gambe levate.

Eugenio era un uomo di fede e tutte le domeniche si recava alla Messa cantata assieme a tutti gli uomini del paese che allora andavano a piedi , a piccoli gruppi e si raccontavano i problemi e le avventure della vita.

Ricordo una domenica che scendevano da Messa assieme a mio padre ed altri uomini anche Eugenio, mente nell’ aria si stava preparando un violento temporale estivo. Ad un tratto una saetta si abbatté molto vicino al paese con un rumore come una grossa bomba, mio padre disse che era un fulmine che si era abbattuto molto vicino a loro.

Eugenio si fermò e con lui si fermarono tutti ad ascoltare quello che avrebbe detto un saggio anziano del paese, quando ancora il parere e l’ esperienza dei vecchi che avevano alle spalle una vita contava molto e rivolto a mio padre disse. – Ses stà n’ tal campo n’ do che i sbarava ? – mio padre rispose affermativamente che era stato in guerra in Africa.

Eugenio allora disse . - io si che i jera i fulmini ! -

 

 

 

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UNA VITA SALVATA

 

Forse era l’ anno 2003 ma non ricordo con esattezza, ma non ha tanta importanza la data di questo evento, è più importante il suo lieto fine.

Era una sera , fredda d’ inverno,la temperatura era molto bassa, meno 10 o giù di lì, erano circa le 18 quando mi accorsi che mi mancava qualche cosa che dovevo andare in cooperativa a prendere, mi misi il giaccone, il berretto di pelo e mi avviai con le mani in tasca verso il negozio. Che facesse tanto freddo, lo dimostrava il fatto che il fiato che usciva dalla bocca vaporoso, ghiacciava immediatamente sul viso e sulla barba ancora da fare. La cooperativa di consumo alimentare, dista da casa mia circa 70 metri, e si trova all’ ingresso dell’ abitato di Varollo sul lato destro della strada, prima della curva a gomito che porta verso Livo, a metà strada si trova l’ abitazione della signora Laura Depetris, ora da poco deceduta, ma che all’ epoca dei fatti aveva circa 80 anni.

Le strade erano deserte, perché tutti se ne stavano al calduccio delle loro case ed uscivano solo se necessario, come avevo fatto io quella sera. Quando arrivai alla casa della signora Laura, ed avevo già superato l’ angolo del fabbricato di fronte piccolo giardinetto, mi sembrò di udire una voce che mi chiamava, mi fermai un momento ma non udii più nulla.

Pensai che fosse una mia sensazione o che magri il cappuccio imbottito della giacca a vento avesse distorto qualche suono proveniente chissà da dove.

Il richiamo non si ripeté più ed io ho proseguito la strada verso il negozio. Lì, non c’ era nessuno al di fuori della commessa, che mi servì in fretta anche perché era presto l’ ora di chiusura.

Presi la roba e mi riavviai con passo svelto verso casa, avevo appena superato l’ angolo della casa della signora Laura, quando sentii nuovamente questo richiamo, qualcuno che mi chiamava da quella direzione e questa volta il richiamo era nitido, pensai che non mi sarei potuto confondere per due volte di seguito e che qualcuno mi chiamava per davvero.

Mi fermai ad ascoltare meglio, era la signora Laura che chiedeva aiuto, quell’ angolo di casa era nel buio più fitto, neppure la luce della strada riusciva ad illuminarlo, chiamai allora per nome la signora, mentre cercavo di capire quale fosse la strada giusta per arrivare a lei , mi rispose dicendo che era caduta e non riusciva a rimettersi in piedi, le dissi allora che non riuscendo a vedere, sarei andato a chiedere aiuto dalla signora Rita che abitava a due passi da casa sua.

Suonai il campanello di casa della signora Rita che fortunatamente mi rispose e si affacciò alla finestra, le chiesi allora se avesse una torcia elettrica e di seguirmi per farmi luce mentre cercavo di soccorrere la signora in difficoltà. La signora Rita mi segui con la grossa torcia che illuminava la strada e raggiungemmo la signora Laura che era scivolata ed aveva strisciato con la fronte sul muro ruvido , procurandosi delle escoriazioni superficiali che però le avevano sporcato di sangue la faccia, vista così, faceva una certa impressione, ma avendo partecipato ad un corso di pronto intervento, la cosa mi sembrò normale e non tanto grave. Chiesi, per ogni buon conto, alla donna se sentisse dolore in altre parti del corpo e lei mi assicurò di no, allora la aiutai ad alzarsi, mentre l’ altra donna mi illuminava la zona con la grossa torcia, dissi alla signora Laura di appoggiarsi a me e piano, piano la riaccompagnai al suo alloggio, tutta intirizzita dal freddo ma in buone condizioni, suoni il campanello e scese la nuora che alla vista del sangue rimase molto shoccata, ma si riprese subito e le prestò i primi soccorsi in attesa dell’ ambulanza che arrivò dopo poco dal vicino ospedale di Cles.

Al calduccio, accanto alla stufa che ardeva, la donna si rianimò e riprese a parlare come prima, raccontò che era andata a chiudere le persiane della stanza all’ esterno della casa nel giardinetto buio, che era scivolata ed era caduta tra il muro e le piante di rose, ed era incapace di alzarsi da sola, certo ce se fosse rimasta lì in quel posto per un po’ di tempo con quella temperatura di meno 10, sarebbe morta assiderata, ma il destino ed il caso vollero che in quell’occasione, io abbia sentito il suo flebile richiamo di aiuto, sarebbe bastato che in quel momento fosse passata un automobile ed avrebbe coperto la sua voce.

La signora Laura mi ringraziò e mi considerò come il suo salvatore, mentre io sono convinto che non era destino che lei quel giorno morisse, il destino, invece l’ ha chiamata all’ ultimo appello nel settembre del 2011, e mi piace sapere che sul letto di morte una figlia le leggeva il libro delle mie poesie, A CHI.

 

 

 

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Aliprandini

Antonio

(lucrezi 2° WW )

 

 

Per parlare del signor Antonio Aliprandini, bisogna risalire al tempo degli inizi della prima guerra mondiale, giusto un secolo fa, esattamente nel 1914 quando allora , imperversava la guerra tra l’ impero Austro - ungarico, la Germania del Kaiser e il resto dell’ Europa. Allora il territorio del Trentino - Alto Adige era sotto la giurisdizione dell’ impero Asburgico e con l’ avvento dell’ ennesima guerra contro gli avversari di turno, tutti gli uomini validi di età tra i 20 ed i 50 anni, vennero arruolati nell’ esercito di Francesco Giuseppe e mandati a combattere per lo più sul fronte orientale, per paura di facili diserzioni se fossero stati inviati sul fronte Italiano. Le famiglie rimasero così sprovviste della forza lavoro necessaria per poter mandare avanti le attività agricole.

Bisogna dire per completezza di informazione, che a seguito delle tante battaglie combattute sul fronte orientale, i prigionieri russi riempirono presto i campi di concentramento austriaci, con evidenti grandi problemi di gestione economica di quelli che erano “ nemici “ e quindi bocche inutili da sfamare.

Il gabinetto di guerra Austriaco, pensò bene di trovare una soluzione al problema dei prigionieri di guerra russi assegnandoli al lavoro coatto presso le famiglie dell’ impero più bisognose e che avevano dei congiunti al fronte.

Così, un anonimo soldato dello Zar Nicola II , assieme a tanti altri suoi commilitoni prigionieri, venne assegnato a delle famiglie del Comune di Livo e di Preghena, per i lavori campestri, al loro controllo era stato delegato a Preghena un piccolo distaccamento di militari austriaci di guardia, non più in giovane età, non più carne da cannone, ma soldati di quaranta anni che avevano sede nella casa Calovini, sotto i “ponti “ di Preghena, vicino alla chiesa.

Alla signora Giuditta Carotta, classe 1881, ammogliata con il signor Aliprandini Tommaso, che era stato arruolato nell’ esercito imperiale di Francesco Giuseppe e spedito a combattere proprio sul fronte russo, alla signora toccò un bel ragazzone figlio della grande Russia dello Zar, gente di indole buona e gentile, abituati al duro lavoro dei campi della Russia zarista dall’ economia prevalentemente agricola, sradicato dalla sua isba lontana tra le bianche betulle dell’ immensa steppa Russa e trascinato nella bufera della prima guerra mondiale.

Fatto prigioniero in una delle tante e cruente battaglie,molto spesso combattute per conquistare pochi metri di inutile terra con costi di vite altissimi, miracolato e definitivamente allontanato da altre possibili battaglie, ed infine per essere stato deportato in un villaggio tranquillo del Tirolo del sud, dove si parlava una lingua diversa dal tedesco, una lingua più dolce e meno imperiosa ( italico cuore italica mente, italica lingua qui parla la gente… ) e dove la donna che lo aveva in “ comodato gratuito “ presto si innamorò del bel giovanotto che parlava una lingua ostica al suo udito, e che non capiva una parola di quello che diceva lei, ma che, mi piace pensare, ha saputo prenderla con dolcezza e regalarle momenti di intenso amore, nella calda estate del 1916, distesi tra i fiori dei campi di sua proprietà.

 

Trascorsi i nove classici mesi che madre natura ha destinato per questi eventi, naque in casa Aliprandini un bel bambino che venne chiamato Antonio, era il 19 aprile del 1917, che crebbe con la madre ed il padre naturale fino all’ avvento della rivoluzione Bolscevica detta Rivoluzione di ottobre, che decretò la tragica fine politica ed umana dello Zar Nicola II e di tutta la sua famiglia, pose fine alle ostilità contro gli Imperi centrali e rese possibile la liberazione immediata di tutti i prigionieri di guerra Russi detenuti in Austria e di quelli austriaci detenuti in Russia, e così il padre di Antonio fece ritorno nella grande madre Russia divenuta socialista e bolscevica.

La signora Giuditta che era sposata ufficialmente con Tomaso Aliprandini, classe 1872, che era stato arruolato nell’ imperiale regio esercito austroungarico e mandato a combattere proprio contro i russi, all’ avvento della rivoluzione di ottobre venne rilasciato dai bolscevichi e poté far ritorno presso la sua famiglia di Scanna e presso la moglie che ne avrebbe voluto volentieri fare a meno, in quanto fonte di tutte le critiche ed i maltrattamenti della suocera perché ritenuta responsabile dell’ infertilità della coppia, ma che in realtà si era poi rivelata un accusa evidentemente ingiusta ed infamante al punto che quando la signora Giuditta rimase incinta ad opera del prigioniero russo, ne andò legittimamente fiera ed orgogliosa e si poté vantare del fatto che ad essere sterile non era affatto lei ma bensì il marito che la accusava di essere “ Fula “ ( vuota ).

Questo fatto mi fa meditare tanto sulla maternità e sul fascino del concepimento, della conservazione della specie umana, su quanto poco contano le nostre decisioni, la nostra morale, di fronte al richiamo naturale tra i due sessi che supera barriere di razza, di religione, di cultura, di colore della pelle e se non fosse per la perdita ancestrale dovuta alla nostra maggiore superiorità intellettiva nella gestione sessuale rispetto a tutto il resto del mondo animale dell’ “ Estro evidente “ la nostra attuale civiltà, così come è strutturata ora. non avrebbe ragione di esistere , ma sarebbe una società umana priva di una qualsiasi specifica razza.

Il ritorno a casa del signor Tommaso, ebbe momenti drammatici, e dovette intervenire il Parroco di allora per sanare la situazione famigliare andando a prelevare il marito reduce di guerra a Mostizzolo al tram e strada facendo informare il signor Tomaso degli eventi accorsi nella sua famiglia in sua assenza, l’ uomo capì il problema, non ne fece una tragedia greca e continuò la vita assieme a sua moglie che per ironia della sorte, fu costretta ad essere fedele ad un uomo del quale sapeva benissimo di non poter avere figli.

Le donne di allora erano donne d’ altri tempi, la cui forza e saggezza derivava dal fatto che erano consapevoli del loro ruolo biologico e sociale ed avevano accettato la loro condizione di femmina finalizzata alla procreazione ed al allevamento della prole, senza se e senza ma, e per ogni problema sapevano sempre trovare la giusta soluzione, con grande equilibrio, sensibilità ed infinita solidarietà.

Così una donna di Scanna, Agosti Giuseppina dei “Floriani”, aveva dato la sua disponibilità ad accogliere ed allevare il piccolo Antonio qualora il signor Tomaso non lo avesse riconosciuto e tenuto in casa come un figlio legittimo.

Antonio crebbe così nell’ amore della sua famiglia legittima e non ci sono motivi dalle notizie che io ho avuto dalle figlie che le cose non fossero così, giunto il periodo della scuola la frequentò con molto impegno ottenendo degli ottimi risultati in tutte le materie scolastiche. Ho avuto recentemente modo di vedere le sue pagelle scolastiche e posso garantire che è stato uno studente modello.

Ai nostri tempi, se si verificano casi simili, pochi sarebbero disposti all’ accoglienza gratuita nel proprio nucleo famigliare di una bocca in più da sfamare, per questo la nostra bella società solidale ed altruista a parole, si è ben presto premunita di Assistenti sociali, di strutture protette per nascondere al mondo certi peccati e non turbare più di tanto le coscienze della gente “perbene”.

Quanta ipocrisia in questa nostra società !

 

Come tutti i giovani italiani di quel tempo, fu anche lui avviato alla leva militare pronto per essere impiegato in una delle cicliche guerre che ogni venti anni devastavano il vecchio continente e puntuale arrivò la seconda terribile guerra mondiale con le tragedie ed i lutti che tutte le guerre portano con se.

Antonio prestò servizio presso il 131° Reggimento artiglieria corazzata “ Centauro “ con sede a Livorno.

 

Io ho avuto la fortuna e l’ onore di aver conosciuto il signor Antonio, perché alcune delle sue figlie maggiori erano tutte più o meno della mia stessa età, e la signora Renata è una mia coetanea, erano tutte belle ragazze, e i giovanotti e bulli locali, lucidi di brillantina Linetti, ronzavano attorno a così tanto ben di Dio, io compreso, e devo dire che le signorine Aliprandini molte volte ci invitavano ad un Party stile anni 60, dove era giocoforza d’ obbligo la sobrietà e parsimonia, dove con poche bottiglie di aranciata ed alcuni biscotti fatti in casa ci si divertiva ascoltando da scassati mangiadischi o da dei registratori a bobine la musica che allora andava di moda. Nessuno allora osava allungare le mani, o peggio tentare di appartarsi con qualcuna delle ragazze, avrebbe fatto i conti con il padre di loro che era buono e giusto, ma estremamente severo a questi riguardi.

Per far capire quanto il signor Antonio fosse meticoloso e severo in materia di sesso, basti pensare che all’ avvento dei primi calzoni femminili, si recò dal parroco, don Giuseppe Calliari per chiedere se tale abbigliamento fosse in sintonia con i precetti di Santa Madre Chiesa e se le proprie figlie fossero autorizzate ad indossare i pantaloni.

 

Come sono cambiati i tempi da allora ! Quante chiacchiere femministe sulla dignità della donna, sulle pari opportunità, quanta ipocrisia nei confronti della femmina, quante violenze ed angherie nascoste da veli di mimose.

Lo stato di figlio illegittimo di Antonio, pesò per tutta la vita come un macigno, come una colpa che pur non essendo sua , lo ha segnato in modo indelebile, come se fosse un disonore e tutto questo , secondo me, và imputato ed una visione distorta del problema dei figli “illegittimi“ aggravata da una mentalità clerico - bigotta della gente, che si preoccupava più di tutelare il buon nome della famiglia, che della vita di un essere umano, complice la Chiesa con i suoi predicatori che imponevano alla gente delle regole assurde che andavano contro la stessa logica naturale della vita, tenendo nei confronti della donna un profilo basso di dignità , basti pensare alla quarantena imposta alle puerpere, o il divieto assoluto degli anticoncezionali.

Il signor Antonio, si era sposato con una ragazza della val di Sole, di Comasine comune di Cogolo, che aveva conosciuto per via del suo lavoro di autotrasportatore, iniziato alla fine della seconda guerra mondiale quando aveva lavorato per l’ Organizzazione Tod della Wermacht e produceva “ gassogeno “ ( legna da ardere tagliata a pezzi piccoli che serviva per alimentare i camion del terzo Reich cha a fine conflitto non avevano più benzina ), e per completezza di informazione, da mia madre ho sentito dire che Antonio si recava a Comasine dalla morosa, che però era una sorella della signorina che poi sarebbe divenuta sua moglie. Però siccome il cuore è uno zingaro e dicono che al cuore non si comanda, e poi c’è da dire che nel DNA di Antonio doveva esserci tanto di quello del padre, che finì per mettere incinta la sorella, e da galantuomo che era se la sposò con buona pace della morosa ufficiale.

La ragazza si chiama Bordati Zita, una donna schiva e riservata, gran lavoratrice, tutt’ora vivente , che gli diede 7 figli , il primo era un maschio e si chiamava Renato, e morì tragicamente annegando nel pozzo di casa, poi la coppia generò altri sei figli, tutte femmine, gran belle donne tutte, per la gioia di noi giovanotti locali e non solo, visto che alla fine nessuna di loro finì con il maritare un giovane del luogo…

La perdita dell’ unico figlio maschio e il fatto di non averne più avuti, fu per il signor Antonio un motivo di rammarico e di tristezza per tutta la vita, il che non gli impedì di essere un padre amoroso ed orgogliose delle sue sei figliole, che voglio nominare una per una :

Renata, mia coetanea grande amica e compagna di tante battaglie sociali negli anni 70, Bruna, Dolores, Valeria, Antonia e Rosaria .

Il signor Antonio fu un grande amico di mio padre e ricordo ancora,con grande riconoscenza, i favori ricevuti nei momenti di bisogno, dal signor Antonio, che era una persona estremamente disponibile e generosa. Antonio aveva anche dato inizio ad una attività mineraria, aprendo una piccola cava di sabbia in località Scjani, ma non ebbe fortuna e la dovette chiudere dopo poco.

Poco dopo, Antonio si ammalò Di una grave forma di atrofia polmonare e da allora la sua vita divenne un calvario, fatto di continui lunghi periodi di ricovero ad Arco per cercare di fermare e controllare quella malattia che lo avrebbe portato alla tomba lentamente ma inesorabilmente.

La malattia di Antonio ebbe anche una pesante ripercussione negativa sui componenti la sua famiglia, in modo particolare sulle figlie. Infatti le malattie polmonari erano considerate molto contagiose e altrettanto pericolose, per cui le ragazzine di casa Aliprandini erano considerate delle potenziali portatrici sane di quei batteri insidiosi e subdoli che potevano provocare la malattia.

E’ una delle cose negative che hanno pesato maggiormente sulla psiche di quelle ragazzine, sinceramente io non ci avevo mai pensato a suo tempo ed avevo continuato a frequentarle in casa loro, mio padre, molto amico di Antonio, non mi ha mai posto dei limiti o dato degli avvertimenti. A me le signorine Aliprandini piacevano tutte, erano delle ragazze di una rara bellezza, come sono belle tutte quelle donne nate dall’ incrocio di due razze diverse e lontane.

Una mi piaceva in modo particolare… ma il destino ha voluto diversamente, e questa è un'altra storia.

 

Il valore dell’ uomo, non si misura in anni di vita vissuta, che sono esclusivi regali della provvidenza, della natura e del desino, ma si misura in ciò che egli a fatto per se, per la famiglia, e per la società.

Vorrei qui ricordare alla Sua Famiglia, innanzitutto, alla Società Civile ed organizzata di adesso ed a quanti leggeranno in futuro questa biografia, che il signor Antonio fu protagonista nella nostra società civile di allora, per il suo impegno costante e generoso verso tutti quelli che ne chiesero il suo contributo, senza esempi pratici la cosa potrebbe sembrare teorica, il signor Antonio infatti , si prestò volentieri, lui ed il suo “ Leoncino “ ad impegni che esulavano dalle sue personali competenze e responsabilità, come il servizio svolto per anni a fianco dei Vigili del Fuoco Volontari di Livo, mettendo a disposizione il suo camion nei momenti delle emergenze per gli incendi, che all’ epoca erano frequenti, e quando, ricordo, nelle primavere stizzose, quando il tempo faceva le bizze e la temperatura scendeva sotto lo zero e si era soliti accendere i fuochi per “ la nglaciadura “, ( le gelate notturne che rovinavano la fioritura, e quindi il raccolto ).

Ed i VV.FF. ( Vigli del fuoco volontari ) di Livo hanno ricordato, con intelligenza e riconoscenza, nel loro calendario del 2003 che viene distribuito alla popolazione, l’ impegno di Antonio abbinando , penso per pura coincidenza, il mese della sua nascita, aprile, e con la storica foto che lo ritrae , vicino alla chiesa di Varollo, con il suo camion con al traino la vecchia e gloriosa pompa Mertz con motore Volks Wagen dei Vigili del Fuoco Volontari di Livo .

Questo, secondo me, è il modo migliore e più intelligente per ricordare quanti hanno contribuito , in vari modi, a far crescere questo nostro paese, abbandonando vecchi steccati e assurdi preconcetti legati alle nostre origini di provenienza, e mi piace pensare che lassù Antonio abbia ritrovato il suo vero papà, e che da lassù insieme, guardino alla loro famiglia ed a questa nostra Comunità e che insieme possano dire “ Karaschiò “ va tutto bene .

Anche questa è storia !

Un particolare aspetto di questa dolorosa ed infinita vicenda, al quale non avevo mai pensato è il fatto della paura del contagio che queste malattie suscitavano nella popolazione, la ragione per la quale io ho sempre ignorato questo pericolo, sa nel fatto che mio padre essendo un grande amico del signor Antonio, mai una volta mi mise in guardia della possibilità di contagio e meno che meno mi impedì di frequentare casa Aliprandini e frequentare le ragazzine. Più tardi negli anni la signora Valeria mi fece notare questo aspetto della malattia di suo padre che coinvolse in maniera passiva ma con effetti devastanti per la convivenza, l’ intera famiglia Aliprandini.

Infatti c’ era gente che proibiva ai loro figli di frequentare le ragazze in ogni forma e si rifiutavano perfino di dare loro la mano nell’ andare o nel tornare da scuola e era loro vietato il giocare assieme a loro.

Questo stato di cose subdolo e sibillino, finì con emarginare poco a poco le ragazzine che vennero messe in vari Istituti religiosi sradicandole di fatto dalla famiglia e separandole tra di loro, mi dicono che per questo hanno sofferto molto ed ancora oggi ricordano quel periodo e quelle discriminazioni come una cosa molto ingiusta, fondata soltanto su medioevali paure e su preconcetti spesso infondati.

Come ho avuto modo di dire, infatti nessuna di loro ha sposato in uomo del luogo…

 

 

 

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Le padelle

 

cando i bateva le padele ai sposi “

 

Da tempo immemorabile, e fino a tutti gli anni ’60, quando un uomo decideva di convogliare a giuste nozze, tra i tanti impegni ed obblighi che precedevano il grande giorno, vi era quello di lasciar pagato “ da bever “ nelle varie osteria della zona.

Era questo un segno di amicizia e di condivisione del lieto evento che si andava a celebrare, ma soprattutto era ritenuto di vitale importanza per poter compiere i propri doveri coniugali, la prima notte a due, ance perché , quello che da sposati è diventato un dovere, diciamo pure anche piacevole, prima era un divieto assoluto.

Chi ometteva, infatti, di “ pajar da bver “ , poi , a nozze celebrate e non ancora consumate, veniva sottoposto alla pesante condanna del rito “ dele padele “ . Era questa una tradizione popolare che era tramandata dalla notte dei tempi, e consisteva nel fare il maggior chiasso possibile, sotto le finestre del maldestro sposo, che già pregustava i piaceri coniugali, usando delle pentole, coperchi, bidoni, lame della sega circolare e tutto quello che poteva generare dei forti rumori. Il rito, iniziava all’ imbrunire e proseguiva per ore fino a notte fonda, rovinando di fatto la luna di miele al malcapitato ed alla sua signora, che per la verità aveva la sola colpa di aver sposato un uomo giudicato avaro e per questo, sonoramente, punito.

La “ funzione “ non si limitava a quella sera, ma proseguiva poi con una cadenza prestabilita, come fosse una liturgia punitiva e purificatrice dell’ offesa subita dai frequentatori delle bettole di allora, da riscattare a puntate. C’ è anche da aggiungere, che a quei tempi, pochi si potevano permettere il viaggio di nozze, pertanto erano obbligati a subire questa terapia con le varie dosi di richiamo.

Ricordo, che quando si sposò il signor Zanotelli Ottavio di Scanna, fu sottoposto per settimane a questo trattamento, e tra i capi banda che organizzarono l’ evento, c’èra il signor Maninfior Benito, che però quando si maritò, commise la fatale imprudenza di non pagare da bere, magari confidando che erano cambiati i tempi, o che ci si fosse dimenticati delle tradizioni, e invece no, si dette vita ad un frastuono di padelle biblico, per sere e sere, fino a quando il signor Maninfior sporse denuncia alla magistratura. Dopo poco il Signor Pretore di Cles, convocò in udienza i querelati per capire e dirimere la questione, l’ avvocato difensore dei battitori di padelle, dimostrò al Pretore che si trattava di una manifestazione di carattere goliardico che da tempi immemorabili era giunta fino a noi e che tutti, fino a quel momento, l’ avevano considerata tale, neppure il vicinato si era mai lamentato dei rumori notturni, sapendo le “ nobili motivazioni “ che stavano alla base di tanto frastuono, e furono assolti perché il fatto non costituiva reato.

Apriti o cielo ! la sera stessa riprese con rinnovato vigore, forti della sentenza a loro favorevole, il baccano notturno per ancora un po’ di tempo. Dopo di allora, la tradizione andò a morire, anche perché era sempre più frequente tra i novelli sposi il classico viaggio di nozze, ma, soprattutto, l’ economia della zona era in forte crescita e tutti avevano il denaro per lasciar pagato il da bere presso le osterie, tradizione che, anche grazie al “ bater le padele “ a tutt’oggi viene rinnovata e rispettata, come segno di buon auspicio per una nuova famiglia che nasce.

 

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Il turbante

 

 

Eravamo diventati dei veri e propri monelli, e non perdevamo mai l’ occasione per dimostrarlo, anche a costo di vederci puniti a colpi di metro, o di dover rimanere , inginocchiati , per ore dietro alla lavagna,

Un giorno, ritornando a scuola il dopo pranzo, ci inventammo la storia che io fossi caduto a terra e mi fossi ferito alla testa, così i miei compagni di classe, mi bendarono con la tendina bianca tolta da una finestra del corridoio, fatta a strisce e poi applicata come una garza alla mia testa.

Più che una benda, alla fine, risultò essere una specie di turbante, come quelli che si usano nei paesi arabi, alla fine, io non volevo entrare in classe così conciato, ma i miei compagni non ebbero esitazione e mi spinsero dentro.

Il maestro mi chiese che cosa fosse successo, ed io ormai, dovevo stare al gioco e dissi di essere caduto per strada e di essermi ferito alla testa… il maestro si avvicinò e notò subito la strana benda, fatta di una stoffa che nulla aveva in comune con le vere bende medicali. Me la strappò dalla testa con un movimento brusco e repentino, scoprendo, così, il piccolo inganno.

Il risultato di questa bravata, fu che tutti i partecipanti e collaboratori, venimmo messi in castigo in ginocchio per l’ intera lezione, dietro la lavagna.

 

 

 

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I chierichetti

 

 

Tutti i bambini che avevano ricevuto la prima Comunione, erano anche automaticamente autorizzati a svolgere le mansioni di chierichetto ed a servire la S. Messa. Don Giuseppe Calliari, ci aveva insegnato le varie fasi della S. Messa e il ruolo di noi chierichetti.

C’ erano diversi attrezzi da dover usare, “l’ santarel “che era il contenitore dell’ acqua santa, “l’ turibol “ il turibolo con l’ incenso che diffondeva un fumo profumato, le ampolle che contenevano il vino e l’ acqua, poi c’ era il messale, i ceri, c’ erano i paramenti sacri il calice dorato, la pisside, insomma un armamentario di oggetti sacri.

Noi vestivamo con delle tuniche bianche e nere, per fare il chierichetto, bisognava arrivare per primi in sacrestia, per aiutare il prete a prepararsi, predisporre gli oggetti al posto giusto, mettere la lunga asta di impugnatura alla borsa per le offerte, preparare acceso la brace di carbonella per poter bruciare l’ incenso ed altre piccole cose.

Il sacristano era un uomo di Varollo che si chiamava Severino Carotta, era incaricato di suonare le campane, che a quel tempo erano ancora azionate mediante delle grosse funi, aveva anche l’ incarico di scavare la fossa nel cimitero quando moriva qualcuno, ora le campane suonano azionate da grossi motori e le fosse vengono scavate dagli operai del comune.

C’era un periodo dell’ anno, mi pare che era la primavera, nel quale si svolgevano le “ rogazioni “.

Erano delle processioni che si facevano per le strade di campagna, per chiedere prosperità e buoni raccolti.

Il compito dei chierichetti, era quello di portare la croce all’ inizio della processione, il santarello con l’ acqua benedetta ed i vari altri simboli religiosi. Succedeva, di frequente, che, o per distrazione, o per qualche caduta accidentale, il santarello si rovesciasse e si rimaneva senza acqua benedetta. Poco male, il prete non si accorgeva perché camminava avanti a noi, allora, uno di noi, correva al fosso più vicino e riempiva di acqua il santarello. I campi crescevano ugualmente rigogliosi e, la grandine magari non cadeva, l’ importante era la fede della gente.

Severino, aveva il figlio più piccolo che si chiama Bruno ed era un nostro compagno di classe, di frequente Bruno sostituiva il padre nel compito di suonare le campane per le Messe feriali, allora avevamo libero accesso al campanile dalla chiesa parrocchiale di Varollo.

 

 

 

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Il campanile

 

 

Mi piace qui descrivere il nostro bel campanile, che a mio parere , è uno tra i più alti e più maestosi di tutto il trentino. Storia dell’ arte e dell’ ingegno umano, tramandato e conservato fino ad oggi, è un opera del **** alto circa 65 metri, è composto per circa 2/3 da solide mura in pietra locale credo sia pietra proveniente da Port, facile da tagliare in cava e con la caratteristica di saper ben resister agli agenti atmosferici ed al freddo. La parte superiore, tutta in legno di larice, è un intreccio simmetrico di grosse travi che imprimono all’ opera una forma ottagonale che si slancia nel cielo maestosa e snella. In cima c’ una sfera metallica dotata con una croce all’ apice.

Tutte le volte che ci passo vicino, non posso fare a meno di osservarlo con nostalgia, è ancora un giovanotto snello, nonostante i suoi tanti secoli di vita.

Con il consenso dell’ amico Bruno, salivamo le ****rampe di scala di legno, formata da **** scalini, per arrivare alla torre campanaria dove sono poste le *** campane che compongono il suono polifonico che proviene dal nostro bel campanile.

Era sempre una grande emozione salire fino lassù, era come essere molto vicini al cielo, poi da lassù si può godere di uno spettacolo impressionante, si può osservare l’ intero paese con un colpo d’ occhio favoloso e la campagna attorno, con le persone che camminano per le stradine, che ti pare di guardare nella favola di Gulliver nel paese di Lilliput.

Con Bruno, era possibile anche osare di più, ed allora era adrenalina allo stato puro, a volte salivamo con lui lungo il castello di travi di legno del tetto e man mano che si sale, lo spazio si fa più angusto, sempre più stretto, per via della sua forma conica che si assottigliava e si chiudeva sempre più.

Sono certo, che ritornando sul campanile, troverei ancora, incise nelle secolari travi di legno, il segno del nostro passaggio, non è grande storia questa, ma è la storia che più mi piace, perché è quella vera e vissuta da noi ragazzini delle scuole elementari di Varollo, a partire dal 1956.

Un giorno di questi, chiederò il permesso al mio parroco e grande amico don Ruggero Zucal, per salire ancora una volta e fare delle foto da lassù.

Tante volte, aiutavamo il nostro amico Bruno a suonare le campane, tirando di buona lena, nelle grosse funi che arrivavano giù fino all’ ingresso del campanile, era un operazione semplice, ma delicata, bisognava fare oscillare lentamente la campana, tirando e poi rilasciando la fune, fino a quando la campana cominciava a suonare, poi c’ erano tanti modi di suonare per segnalare il tempo di inizio della S. Messa o della funzione religiosa, c’era il suonare che consisteva nel lasciare libero sfogo alla campana, c’ era lo sbottare, che era il far battere il batacchio della campana su un solo lato, naturalmente si sbottava solo con le campane più piccole.

 

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L’ orologio

 

 

Il vecchio orologio meccanico che era montato sulla torre campanaria della chiesa di Varollo, era un vero e proprio gioiello della tecnologia meccanica di precisione. Era un orologio costruito da ***** nel ****, funzionava con un sistema di pesi e contrappesi, si ricaricava ogni quattro o cinque giorni, con una manovella che usciva dall’ interno del meccanismo ed accessibile dalla scala di accesso del campanile.

Il fine carica lo si poteva capire dal tratto di corda che scorreva durante l’ intera operazione di ricarica e che segnalava con un tratto di colore rosso, la fine dell’ operazione. Credo l’ intera struttura della parte meccanica dell’ orologio, sia ancora nel campanile, frema da più di quaranta anni, sostituita da un moderno meccanismo elettronico.

 

 

 

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La “ sgrenjena “

 

Era uno strumento di legno, con una ruota dentata che faceva alzare, al suo passaggio, un assicella di legno sottile ed elastica che ricadeva , sbattendo, sul dente che stava arrivando, la si faceva roteare con una mano, tenendola in aria e produceva un suono come il gracchiare di una rana. Ne esistevano di diverse forme e dimensioni, il principio ero lo stesso, cambiava la tonalità del gracchiare, serve a tutt’ oggi, a segnalare , acusticamente, l’ inizio o il termine di una manifestazione.

Da noi, quando ero ragazzino, quindi in un periodo precedente il Concilio Vaticano ll°, serviva la settimana santa, dal venerdì al sabato, quando la liturgia non consentiva il suono delle campane e nemmeno il suono del tintinnante campanello che segnalava le fasi saliente della S. Messa, allora, in alternativa, si usava la “ sgrenjena “ .

Nel meridione, in dettaglio in Puglia, questo strumento viene chiamato “ tremula “ , infatti, per restare in tema al servizio che questo aggeggio svolgo,a Manduria c’è una Compagnia teatrale che si chiama La tremula.

Così, il buon Severino, durante le funzioni religiose della settimana santa, faceva roteare in aria la “ sgrenjena “ per segnalare ai fedeli che iniziava la S. Mesa e tutti si inginocchiavano, devoti.

 

 

 

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L’ “turibol”

 

 

L’ turibol, era l’ oggetto religioso più ambito da noi chierichetti, era lo strumento che serviva per far bruciare l’ incenso che produceva un fumo dall’ inconfondibile aroma profumato.

Accendere, calcolare i tempi di durata, e tenere accesa la brace nel turibolo, era una vera e propria arte del chierichetto, era , usando il gergo militare, quello che ti faceva diventare caporale di giornata.

Bisognava, innanzitutto, accendere la carbonella, erano dei dischetti della dimensione di un biscotto dello spessore di un centimetro, circa, si accendevano mettendoli a contatto con la fiamma di un cero, li si teneva in mano fino a quando avevano preso fuoco bene, poi si mettevano nel crogiolo del turibolo, penso che questo sistema sia usato anche oggi, è uno dei pochi principi che la Chiesa non ha ancora cambiato, poi per tenere viva la fiamma, si faceva roteare in aria il crogiolo con i carboni ardenti, tenuto da una lunga impugnatura di ferro, per effetto della forza centrifuga il crogiolo stava attaccato all’ impugnatura, prendeva ossigeno forzato e si aveva un effetto ottico come un fuoco pirotecnico, con scintille e scoppi annessi, ogni tanto, da fuori la sacrestia di sentiva un botto, era il crogiolo che si era staccato dall’ impugnatura, per un manovra azzardata o una frenata troppo brusca ed era stato proiettato contro una parete o un mobile, dopo il botto, dalla sacrestia usciva il fumo provocato dall’ “ incidente. Che tempi, ragazzi !!!

 

 

 

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Il campanò

 

 

Era il modo per annunciare a tutti i paesi limitrofi, fin dove fosse arrivato il suono festose delle campane, che la nostra comunità, civile e religiosa, era in festa.

Il campanò era un arte, tramandata nei secoli dai campanari e dai loro figli, così, quando nel paese c’ era una ricorrenza festosa come la sagra del borgo o una S. Messa novella di un giovane sacerdote, lo si annunciava al vicinato, con il campanò.

Per capire il suo funzionamento, bisogna aver visto i preparativi che faceva il padre di Bruno, il signor Severino, naturalmente gli amici di Bruno, potevano assistere ed aiutare. Devo dire, che allora, a differenza di oggi, i giovani erano molto più laboriosi ed ingegnosi, tutti, infatti, erano obbligati ad aiutare i genitori nei lavori nei campi e nelle stalle e si aveva così appreso ed aquisito il senso della misura, del calcolo ad occhio, l’ abilità nei vari ruoli e mansioni, il senso della prevenzione del rischio e del pericolo.

Eravamo tutti dei piccolo agricoltori ed allevatori.

Per preparare le campane per il campanò, bisognava , con le funi, imbragare il battacchio, poi tendere la corda, legandola ad una trave del castello della torre campanaria, fino a portare il battacchio a circa un centimetro dalla campana, in modo tale da poter parla rintoccare spingendoci sopra con le mani o i piedi.

Si formava così una ragnatela di corde, tante quante erano le campane, finita questa operazione, tutto era pronto per fare campanò.

Si poteva fare dei veri e propri concerti per corda e campana, bastava saper comporre dei piccoli brani musicali sfruttando la diversa tonalità di ogni campana, il risultato erano dei veri propri pezzi di musica che si potrebbe classificare come improvvisata e folk.

I concerti di campanò, erano frequenti per via delle numerose ricorrenze sacre di quei tempi, ed ogni paese aveva il suo stile inconfondibile e riconoscibile subito dagli orecchi più esperti, c’ era il campanò di Livo, di Preghena , di Cagnò, ma quello sicuramente più popolare ed inconfondibile, come il suo campanile, era quello di Cis, al quale noi avevamo scritto il testo, con le seguenti parole : “Din don, din don comarole, maturano le perole “.

 

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L’ azione cattolica

 

 

Era un supporto dell’ insegnamento religioso, ai miei tempi molto rigido e coercitivo, infatti, quelli che erano assenti ingiustificati alle funzioni religiose, S’ Messa, vespri, e catechismo, erano additati pubblicamente dal prete, che li richiamava durante la sua omelia.

Su questa fase della storia della chiesa e sul comportamento coercitivo dei preti, ho una mia precisa opinione, che non voglio assolutamente sia presa come giusta o da imitare, io penso che in quella fase della storia della chiesa, in attesa del Concilio rinnovatore ed innovatore, sia stata una fase dove il popolo seguiva la religione in modo tradizionale e vecchio, fatto di regole e codici antichi, incompresi da tutti, perché la lingua ufficiale della chiesa era il latino e perché mai aggiornati ed adeguati al mutare dei tempi e delle idee. Non che ora la situazione sia migliore, ma almeno adesso se uno non sente il bisogno di andare in chiesa, non viene rimproverato da nessuno, io ho delle mie convinzioni personali, in merito alla Fede, io non credo che Cristo, all’ inizio, abbia mai detto che la chiesa si debba dotare di questa assurda e ridicola gerarchia, di tutti i suoi prodotti e derivati, di sedi di culto lussuose, di un patrimonio dal valore inestimabile… Credo che abbia detto che l’ unico comandamento che ti può salvare o condannare è l’ amore verso il prossimo, bene se c’è un posto nell’ aldilà dove uno riceve un premio per come ha saputo interpretare in vita il Suo comandamento, io, in quel posto ci vado !

Torniamo all’ Azione cattolica locale, era composta prevalentemente da donne della borghesia locale, non saprei come erano organizzate tra di loro, so che aiutavano il parroco nell’ insegnamento del catechismo e della religione in generale, specie nei periodi precedenti la cerimonia solenne della prima S. Comunione. E’ una delle cose più penose che ricordo, per il formalismo delle azioni, sterili, senza convinzione e contenuti veri e sentiti, era una tradizione che si tramandava da generazioni, condita con tanto pressapochismo ed ipocrisia. Evito, volutamente, di ricordare i nomi di quelle persone.

 

 

 

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La gelateria alpina di Malè

 

 

Finiti i Vespri, verso le ore 15, tutte le domeniche di estate, arrivava davanti alla chiesa di Varollo, il furgoncino della Gelateria alpina che aveva il laboratorio e la rivendita a Male’ capoluogo della val di Sole ad una decina di chilometri da Livo.

Si metteva in un angolo della piazzetta, apriva il portellone laterale del furgone che era adibito a rivendita ed iniziava la distribuzione dei gelati. Noi, ragazzini e ragazzine, avevamo conservato con cura le cinque o dieci lire per il gelato domenicale e ci si avvicinava a piccoli crocchi, al furgone, esibendo il soldino per avere un cono di gelato al gusto preferito, o a gusti misti, dipendeva da quante palline si era in grado di acquistare. Inizialmente, le dosi venivano distribuite con una paletta di metallo molto simile ed un calza scarpe, che veniva messa nell’ acqua calda perché il gelato si staccasse facilmente, poi , le dosi furono più perfette con l’ avvento dello strumento che produceva le classiche palline.

E poi lì, tutti seduti sui muretti che circondano la chiesa, a leccare di gusto il freddo gelato e fare i nostri bravi commenti sul sapore preferito di ognuno di noi.

A me piaceva e piace tutt’ ora, il gusto di cioccolato, ad altri il limone o il pistacchio o la fragola… Erano dieci lire , spese bene, che ti dissetavano e ti rinfrescavano, si mangiava tutto, fino all’ ultimo pezzetto di cono, poi ci si sciacquava le mani alla fontana e si era pronti per un nuovo gioco.

A volte, c’ era qualche bambino o bambina che non aveva il denaro per il gelato, allora, le donne dell’ Azione cattolica, in modo particolare la Violetta, tirava fuori dalla borsetta il portamonete e pagava lei il gelato, era l’ unica azione che ci piaceva dell’ azione cattolica… Il più delle volte, il furgone dei gelati faceva tappa sul piazzale di casa mia, parcheggiava all’ ombra dei grandi ciliegi, ed era l’ occasione per fare il bis approfittando della bontà di mia nonna che lo comprava per se e ne comprava uno anche a me e mio fratello. Uscivano tutti dalle porte, con un bicchiere di vetro, che veniva riempito di buon gelato con poche lire, c’ era mia madre, la Lisa, la Paola, la Carletta, la Luciana dai grandi seni, il Claudio, mia zia Lina i miei cuginetti Roberto, Sandro e Lino, poi venivano altre persone delle case vicine, veniva la Rita il Ferruccio, il Luciano la Nicolina, la Sabina con Arnaldo e Guido, mia zia Delfina con Alfio e Diego e il piazzale di casa diventava un centro sociale, dove la gente conversava del più e del meno e dei fatti accaduti nella settimana appena scorsa.

 

 

 

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L’ ciaresar

Il ciliegio

 

Sul piazzale di casa mia, crescevano rigogliosi due grandi alberi di ciliegio erano alberi secolari, con un tronco molto grosso e producevano delle ottime ciliegie. Uno era di mia proprietà e l’ altro era del mio vicino di casa Ettore. Negli anni buoni, producevano quintali di ciliegie, una qualità di un rosso scuro, dolci e saporite. Tutto il paese era a conoscenza dell’ esistenza dei due grandi ciliegi, e quando i frutti erano maturi, molte persone, la sera, venivano a chiedere il permesso di salire sulle piante per mangiare le ciliegie mature. Ricordo questo piccola parentesi, per fare una riflessione su come ai miei tempi era molto più sentito e diffuso il principio della condivisione.

Sarà stato perché allora tutti eravamo nella stessa condizione di povertà, che sentivamo più forte il bisogno di condividere quel poco che avevamo, con il resto del nostro piccolo mondo di allora, che finiva lì dove finiscono i confini del nostro paese. Mi sono chiesto, molte volte, come mai, noi che osiamo definirci una specie di animali più intelligente degli altri, come mai abbiamo bisogno della miseria e delle privazioni, per riscoprire e ritrovare il senso ed il valore della condivisione e della solidarietà.

Forse la risposta sta nel troppo valore che noi attribuiamo al denaro, alle cose materiali, che offuscano la mente, tolgono valore al tempo che viviamo, ci rendono schiavi del consumismo più sfrenato, che ci portano a calcolare un essere umano non per quello che è, ma per quello che ha, questa filosofia ci rende avidi ed insensibili ai bisogni degli altri, ci chiude in una botte di ferro che protegge i nostri averi, ma che ci isola, inesorabilmente dai veri valori della vita e ci impedisce di cogliere gli aspetti belli e felici che ci propone.

 

 

 

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Nostalgia di casa.

 

Vittorio Conter, dei “ ciari “, era un ragazzo come me, aveva un anno di più, lui però frequentava la scuola elementare di Livo, per cui non è mai stato un mio compagno di classe ma semplicemente un amico di Livo. All’ inizio di questo racconto, ho riferito che in quelli anni, anche qui da noi, era massiccia l’ emigrazione verso gli USA e verso altre destinazioni.

Qui non c’ era lavoro per tutti ed allora i più giovani cercavano la fortuna in America…

Così fecero i mie amici Vittorio assieme ai suoi fratelli, Luciana la ragazzina della porta accanto dai seni prosperosi con la madre Carla ed i due fratelli Rino e Claudio, i miei tre cuginetti Roberto, Sandro e Lino, assieme ai loro genitori e miei zii Livio e Lina. Quello che voglio ricordare è la grande nostalgia del proprio paese, che tutti avevano al momento della partenza. Ricordo la Luciana che mi salutava , con gli occhi lucidi, che diceva di andare in Canada, una terra ancora poco sfruttata, ma che partiva con lo sguardo che non riusciva a staccarsi dalla porta di casa… Ricordo Vittorio, coetaneo e molto amico di mio cugino Gianfranco, era venuto a salutarlo a casa sua, partiva con il cuore rotto dalla nostalgia… Ricordo i miei cuginetti, che non volevano partire e non si riusciva più a staccarli di dosso, dalla tanta nostalgia che avevano…

Questo paese, sia pure con i tanti problemi che aveva allora e il mal governo degli untimi anni, era comunque il loro paese. Forse questa comunità si è scordata troppo in fretta di questi suoi figli sparsi per i cinque continenti, a volte leggo delle storie struggenti di nostalgia scritte da alcuni di loro, bisognerebbe rilanciare i contatti in modo reale ed intelligente non basta il formalismo del giornalino comunale che arriva loro due volte all’ anno, ora con l’ immediatezza di internet, e le potenzialità della rete Web, con facebook che è un social network gratuito che raggiunge tutto il mondo, si potrebbero riallacciare quei rapporti umani interrotti molti anni fa.

Basterebbe avere la volontà di farlo !

 

 

 

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I filmini

 

Le scuole di allora, erano state dotate di apparecchiature visive che servivano ad integrare le lezioni con delle immagini, erano i primi e primordiali proiettori di diapositive slide, non come quelli attuali, che hanno il caricatore con diapositive singole ed avanzano automaticamente, ma la pellicola, dentellata, era tutta intera ed era contenuta negli appositi barattoli cilindrici con il coperchio di protezione. La messa a fuoco era manuale e l’ avanzamento pure. Con questo sistema, si poteva vedere l’ esperimento scientifico, la storia , la geografia, ecc.

Il proiettore era di proprietà della direzione didattica di Revò e veniva dato , in comodato d’ uso, alle scuole della sua giurisdizione, c’ era un solo apparecchio che serviva sia per la scuola di Livo che per quella di Varollo. Quando l’ apparecchio era nella scuola di Livo, qualora il maestro decideva di fare delle proiezioni, lo si doveva andare a prendere alla scuola di Livo.

Nella maggior parte dei casi, il maestro incaricava me ed il mio compagno Dolfo, allora ci si avviava per i sentieri di Gaggià verso la scuola di Livo, dove , ad attenderci c’ erano le maestre “ Crozze “ credo fossero sorelle, ma non ne sono certo, erano, anche loro, provenienti dal paesino di Bresimo, noi le conoscevamo solo di nome, ma a sentire i loro scolari, erano severe. Si portava il proiettore a scuola e poi, il giorno seguente, il maestro ci proiettava le immagini inerenti la lezione che avevamo in programma. Per poter avere delle immagini, però, bisognava prima oscurare l’ aula, si chiudevano allora tutte le tapparelle anche con l’ ausilio di grosse tele di pesante stoffa rossa, per avere un maggior oscuramento.

A quel punto, nella semi oscurità, si scatenavano i giochi più fantasiosi ed i dispetti più subdoli, specie tra i ragazzi più grandi di quarta e quinta, con risate estemporanee o gridolini di gioia, finché il maestro non perdeva “ le staffe “ ed accendeva la luce, all’ improvviso, con il metro di legno in mano, pronto a colpire il malcapitato che si fosse fatto beccare fuori posto.

 

 

 

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Le “ zorle “ ( i maggiolini )

 

Non so, se i giovani d’ oggi, sappiano o meno cosa siano le “ zorle “ , ma credo, da una piccola indagine fatta, che ne ignorino perfino l’ esistenza.

E’ vero che da molti anni ormai, questi coleotteri, sono spariti dalle nostre campagne, probabilmente per i molti trattamenti antiparassitari con fitofarmaci che la moderna agricoltura impone e , forse anche, per il cambiamento di coltura avvenuto negli ultimi 40 anni.

Per ogni buon conto, questo è il maggiolino, che nel nostro dialetto chiamavamo “ ZORLE “

 

Descrizione [modifica]

Adulto [modifica]

Gli adulti dei maggiolini, lunghi 20-30 mm, sono allungati e presentano elitre colore rosso-brunastro e protorace scuro (bruno-nerastro o verdastro).
Talvolta le
elitre di alcuni esemplari sono fittamente ricoperti di scaglie bianche (varietà farinosus).
La parte terminale dell'
addome (pigidio) è tipicamente di forma triangolare, con l'apice appuntito verso la parte distale e ricurvo verso il basso.
Le
antenne sono formate da un funicolo ed un ventaglio con un numero diverso di articoli a secondo del sesso. Nei maschi il funicolo ha 3 articoli ed il ventaglio, molto allungato, ricurvo ed appiattito, 7 articoli. Nella femmina il funicolo ha 4 articoli ed il ventaglio, molto corto e quasi globoso, ha 8 articoli.

Larva [modifica]

Larve di maggiolino

Le larve, lunghe fino a 40 mm, sono a forma di "C" (larve melolontoidi), biancastre, con il capo e le zampe arancioni e la parte terminale dell'addome molto ingrossata. Vivono nella rizosfera nutrendosi di radici.

Ciclo biologico [modifica]

Il maggiolino è un insetto con ciclo poliennale in cui gli adulti sfarfallano in primavera, a maggio (da cui il nome).
Gli adulti si nutrono degli apparati aerei delle piante, specialmente le latifoglie forestali, che infestano iniziando l'attività trofica all'imbrunire.
Dopo circa 15 giorni dallo sfarfallamento si ha l'accoppiamento e l'ovideposizione che avviene nel terreno a circa 20 cm di profondità.
Le larve neonate iniziano la loro attività trofica sulle radici, specialmente quelle più tenere, anche di piante erbacee spontanee. Alla fine del 1º anno, all'avvicinarsi dell'inverno, le larve si approfondiscono nel terreno e svernano; nella primavera successiva riprendono l'attività, trascorrendo tutto il 2º anno allo stadio larvale. Nella primavera del 3º anno le larve possono:

  • riprendere l'attività, come nel secondo anno, e quindi sfarfallare alla primavera del 4º anno;

  • impuparsi e sfarfallare nel maggio del 3º anno.

Il maggiolino, pertanto, completa il suo ciclo biologico in 3 o 4 anni solari (quindi 2-3 anni effettivi).

Importanza agraria [modifica]

Maggiolino

Il maggiolino è un coleottero diffuso quasi ovunque in Italia. Estremamente polifago, in una sacca della terra di Otranto nel Salento, si è adattato a nutrirsi degli aghi più teneri dei pini.
I danni vengono provocati:

  • dagli adulti che si nutrono di foglie e possono provocare forti defogliazioni alle piante colpite nel caso di gravi infestazioni;

  • dalle larve che si nutrono delle radici e sono particolarmente dannose ai vivai o alle coltivazioni erbacee, specialmente se ortive.


 

Questi animaletti, che si nutrivano di foglie, avevano la caratteristica di appiccicarsi, con le loro zampe, ai vestiti di maglia ed ai capelli della gente, specie delle donne, che, notoriamente abbondano .

Era un animaletto innocuo, non mordeva, non graffiava, se ne stava quatto, quatto, tutto il giorno sugli alberi di ogni genere, specie sui ciliegi, quando faceva presto notte, però, si staccava dalle piante e se ne andava a zonzo per l’ aria dolce della sera, emettendo un tipico ed inconfondibile ronzio.

Come si può dedurre dal loro nome, vivevano la loro breve esistenza durante il mese di maggio, mese notoriamente dedicato alla Madonna, che veniva celebrata ed onorata durante tutto quel periodo, con una celebrazione liturgica che avveniva sempre di sera, all’ imbrunire, nelle chiese della parrocchia con l recita del rosario, noi, ragazzini, di Scanna e Varollo, si partecipava, a modo nostro, alla funzione religiosa…

Il nostro divertimento, era quello di catturare le zorle con un assicella, metterle tutte assieme in un grosso barattolo di latta, di quelli della marmellata, e poi chiuderlo in attesa che la gente entrasse in chiesa.

Ricordo il ronzio del barattolo che conteneva decine di zorle, era molto simile a quello della gente che usciva dalla chiesa dopo la funzione religiosa, forse più intenso, era tutta la voglia di libertà delle zorle che volevano uscire da quella prigione.

Era solo questione di tempo , poco tempo , per loro, non dovevano aspettare ne amnistie ne indulti, bastava, semplicemente che il prete iniziasse il S. Rosario.

A quel punto, un” volontario “, prendeva il barattolo ed entrava in chiesa dalla porta grande, che rimaneva sempre socchiusa per via del gran caldo e dei tanti odori che la gente di allora si portava appresso, come l’ odore di stalla, del sudore e le donne di altre cose…

Allora, nessuno aveva il bagno, come lo si intende adesso, i cessi erano all’ aperto, annessi all’ abitazione, ed erano di un metro quadro di dimensione, strettamente a … caduta. Ci si lavava in un catino, con acqua riscaldata solo d’ inverno sul focolare a legna, si usava il sapone fatto in casa con soda caustica ed il grasso del maiale, altro che creme idratanti e tonificanti, come le donne usano adesso ! e , lasciatemi dire una cosa che forse non farà piacere a tante donne contemporanee, ma , allora le donne erano più belle più armoniose, nel corpo, anche se meno profumate di oggi.

Il volontario posava lentamente il grosso barattolo in un angolo oscuro della chiesa, poi toglieva il coperchio e , furtivo come era entrato, usciva.

Decine di zorle, uscivano,inneggiando alla libertà, e si alzavano al cielo , ronzando, allegre, ed andavano ad appiccicarsi sui capelli della gente, sulle magliette, sulle gonne delle donne, quando, non avevano l’ ardire, di infilarsi al di sotto…

Il rosario, a quel punto, si poteva dire concluso, perché tutti cercavano scampo da quelle irritanti bestiole, uscendo all’ aperto. Il prete, concludeva con la solita fatua verso i responsabili di tale gesto, ma quando chiedeva conto a scuola , per sapere i nomi dei responsabili, vigeva sempre la più totale e sicula omertà.

Durante la prima guerra mondiale, le zorle ebbero un importante ruolo nella sopravivenza del genere umano delle valli del Tirolo austriaco, mi raccontava, infatti, mia nonna, che durante gli anni di carestia prima e della grande guerra poi, le zorle venivano prese, essicate nel forno a legna e poi ridotte in farina con la quale si facevano degli impasti alimentari ricchi di proteine. Sembra una cosa d’ altri tempi, ma se ci informiamo bene, troveremo ancora oggi, dei popoli che si nutrono di insetti, formiche, serpenti, e lombrichi, noi che siamo abituati alle bistecche o all’ arrosto, ci sembra una cosa schifosa e repellente, in realtà, è soltanto una questione di abitudine.

 

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I frati

La presenza sul nostro territorio dei frati francescani, era costante e ben visibile, avendo , a poca distanza dal mio paese, ben due conventi, uno a Cles ed uno a Terzolas. I frati, secondo la mia opinione, ma per il fatto anche, ci averli conosciuti profondamente durante la mia permanenza tra loro, durata tre anni, è stata per i nostri paesi una presenza benedetta, sia dal punto di vista cristiano che dal punto di vista culturale. I frati, erano ,infatti, un valido aiuto per i parroci di tutte le parrocchie della valle, in modo particolare per le confessioni, infatti, tutti, uomini e donne, preferivano raccontare le loro avventure d’ amore, di tradimenti, ed altro, piuttosto ad uno sconosciuto ed anonimo frate, che al proprio Parroco, perché, segreto del sacramento della confessione a parte, meno sapeva il prete dei loro affari di cuore, meglio era. I frati, passavano di paese in paese, a raccogliere la carità del prossimo, alimenti, come uova, farina patate mele, insomma tutto quello che era frutto della terra, ricordando sempre i principi di S. Francesco, che, altro non erano che quelli del Vangelo di Cristo, incarnati, direi, nel modo più semplice e genuino, perché da sempre, i frati, tutto quello che hanno ricevuto dalla carità del prossimo, lo ridistribuiscono a quanti ne hanno bisogno, senza chiedersi se ne abbiano o no titolo o diritto. Così come raccoglievano alimenti per il corpo, in eguale misura cercavano anime disposte a condividere il loro messaggio ed il loro cammino e stile di vita, che si traduceva in due parole “ ora et labora “ prega e lavora. Bisogna anche sfatare il mito delle vocazioni facili che allora abbondavano, sembrava, che ai miei tempi, gli unti dal Signore fossero molti di più di oggi, e , numeri alla mano, il dato è indiscutibile: allora, un numero elevato di ragazzini, era indirizzato alla vita monastica. Le cause, invece, andavano ricercate nella endemica povertà che allora affliggeva tutto il territorio trentino e tutta la nazione. Una bocca in meno da sfamare e da far studiare, era una manna scesa dal cielo, per le famiglie povere dei villaggi , considerato il fatto che a quei tempi, parlare di programmare le nascite, non solo era tecnicamente impossibile, ma anche moralmente proibito da santa Madre chiesa. I profilattici erano quasi sconosciuti alla maggior parte degli uomini e delle donne, e poi, non c’ era il denaro per acquistarli…a tale proposito, voglio raccontare un aneddoto, un giorno mio padre, si recò a falciare il fieno in un prato adiacente al bosco, dove la stradina entra proprio nel fitto degli abeti, un posto tranquillo, mia nonna lo aveva seguito per aiutarlo a mettere il fieno al solo per seccarlo. Mentre con il rastrello raccoglieva il fieno ei confini del bosco, qualche cosa di strano ed elastico le si attaccò al rastrello, mio nonna si abbassò e lo raccolse, sembrava un ditale o la buccia di un wurstel, lo esaminò a lungo, ma non riuscendo a capire che cosa potesse essere quello strano aggeggio, lo portò a mio padre chiedendogli che diavolo fosse. Mio padre sorrise glielo tolse di mano e le disse che le avrebbe detto che cosa fosse non appena tornati a casa, ed aggiunse – Lavatevi le mani, che quella è anche una cosa schifosa ! - Era, chiaramente un profilattico, lasciato da qualche coppietta che aveva fatto l’ amore nel vicino bosco, la sera prima… mia nonna, non ne aveva mai visto uno e non so neppure se mio padre le avesse dato le informazioni promesse, ma credo di no. Mia nonna, infatti, aveva avuto nove figli e numerosi aborti spontanei, era ovvio che ignorasse l’ esistenza e l’ uso del profilattico. Così, un giorno di estate del 1962, a casa mia si presentò un frate francescano del convento di Campolomaso nelle vallo Giudicarie più precisamente nel Bleggio, mi parlò a lungo del convento, dei frati, della possibilità di studiare a tempo pieno le materie didattiche, anche con l’ ausilio di moderne tecniche audiovisive, ne rimasi affascinato, subito la mia sete di apprendere la mi voglia di avventura, di scoprire cose nuove e di partecipare ad esperienze nuove con compagni diversi, presero il soppravvento sulla nostalgia di casa e del mio paese, che dopo di allora, non sono più riuscito a sentire mio d ad amare, non lo odio, se non una parte, ma non sono riuscito mai più a considerarlo come il mio paese, ma bensì come il luogo in cui sono nato e sono obbligato a vivere.


 


 


 

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Il collegio

Prima di salire al collegio dei frati francescani di Campolomaso, nel Bleggio, nell’ autunno del 1962, mi ero ammalato di influenza, così, invece di arrivare incollaggio assieme a tutti gli altri ragazzi, vi arrivai quindici giorni più tardi, accompagnato da mia madre, scendemmo a Trento per prendere il pullmann che portava a Sarche e poi a Ponte Arche, dove c’è la diramazione per Fiave’ ed il Bleggio. Arrivammo a Ponte Arche, nella tarda mattinata di un lunedì di ottobre, salimmo a piedi, portando una grossa valigia, per la strada , tortuosa, che porta a Campolomaso, lentamente, per il peso della valigia e per la strada tutta in salita, con una bella pendenza. Mi ricordo, perfettamente, che ad un tratto apparvero, preceduti da un sibilo, due caccia dell’ aeronautica militare italiano, che in un batter d’ occhio, furono lontani, lasciandosi alle spalle un sordo brontolio. Ero partito, salutando la mia famiglia, mia nonna, mio fratello, che doveva essere lui destinato al collegio, visto che in estate vi era stato per un mese di “ prova “, ma evidentemente non era il suo destino… Salutai mia nonna e mio padre, del quale ho avuto molta nostalgia, per giorni e settimane, dopo essere giunto al convento. Finalmente arrivammo in vista del convento, verso mezzogiorno, stanchi ed affamati. Il convento mi apparve allora, come era nel 2008, ad oltre 40 anni di distanza, quando, prima dell’ intervento al cuore, decisi, che se avessi dovuto morire, volevo, prima, rivedere il convento di Campo. Per la stradina bianca, assieme a mia nipote Erika, ci avvicinammo al convento, anche allora, nell’ ala nuova si stava lavorando, un cartello diceva che erano in costruzione le scuole elementari del luogo, quando lo avevo visto, molti anni prima, quando ero un ragazzino, si stava costruendo un ala nuova di pacca, del convento. Qui ritorna il valore ed il senso del motto ora et labora, ed il messaggio, sempre attuale e moderno dei frati, che con una mano chiedono e con l’ altra restituiscono. All’ ingresso del convento, allora, c’ erano due enormi tigli secolari, proprio davanti all’ ingresso principale ed alla porta della chiesa, che diffondevano una bella ombra e davano un senso di austero e di sacro all’ ambiente. Quando stavamo per entrare, incrociammo un signore, alto, con i baffi, che usciva, quando ci vide, ci salutò e ci disse : - Questo è il ragazzo che stavamo aspettando…- quell’ uomo, sarebbe stato il mio maestro di quinta elementare e s i chiamava Ferrari, però non ricordo il nome. Entrammo nel convento e ci fecero subito accomodare in refettorio dove, gli altri ragazzi già mangiavano, ci fecero sedere e ci portarono il pranzo. Ricordo, che mangiai pochissimo, perché, come al solito, mi era venuto il mal d’ auto sul pullmann ed avevo vomitato per tutta la durata del viaggio. Un frate, poi , ci accompagnò in camerata, ( il posto dove si dorme ) e mi indicò il mio letto ed il mio armadietto, erano tanti lettini, tutti ordinati e puliti, una cosa a cui non avevo mai pensato e che mi ha subito affascinato. Poi, mia madre, mi lasciò, con un lungo abbraccio, piansi per un poco, ma poi arrivò mio cugino Sandro a rinfrancarmi ed a darmi le prime nozioni della vita in collegio.


 


 

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Ora et labora

Dopo alcuni giorni che era arrivato dai frati, avevo subito imparato le regole e la disciplina che traspirava da tutti i muri del convento, devo ammettere, che a anche a scapito della mia indole libera e ribelle, l’ armonia, ordinata e silenziosa, che si respirava in collegio, mi ha subito affascinato e preso, anima e corpo, amavo studiare, ma soprattutto, amavo mettermi in discussione ed in competizione con tutti, a partire dai miei compagni di classe, per non dire con la classe “ avversaria “ nella quale militava mio cugino. Ben presto, divenni il pupillo del padre Rettore, che era un “ fascistone “ delle zone del Duce, era un uomo che in latino le si può definire “ vir justus “ , ma mi piace di più usare un espressione tedesca, a me molto cara, per definire padre Quirico Mattioli, “ ein manche in whort ! “ ( un uomo, una parola ). Era un uomo asciutto, alto, con una forte personalità, secondo me , aquisita nei tempi del Duce, era un uomo giusto con se stesso e giusto con gli altri, con una spiccata umanità ed un grande senso della disciplina. Non ho mai pensato, nemmeno per un istante di rimanere tra le mura di un convento e farmi frate, eppure quell’ ambiente, fatto di regole ferree e di una disciplina militare, mi ha subito affascinato e mi è stato subito facile, quasi logico, accettare con entusiasmo tutte le regole e la disciplina della vita monastica, fino a diventare in breve tempo, capo squadra durante le ore di ricreazione e nelle lunghe passeggiate nei vicini boschi ed al torrente Duina. Ho sempre cercato di osservare quel mio ruolo di caposquadra, in modo semplice ed umile, cercando sempre di assolvere le richieste dei miei compagni di classe e di quelli della classe del maestro Calliari, Eravamo ancora dei bambini, dei ragazzini, era anche facile ottenere con poco, con una certa filosofia di pensiero, tutto quello che si voleva, Bisogna anche dire, che tutti quanti eravamo accomunati da una vita di povertà e di indigenza, ora impensabili ed inimmaginabili, per questa ragione, eravamo tutti lì, in mano alla carità cristiana ed all’ umanità dei frati. Nel tempo che sono rimasto con loro, infatti, non ho mai sentito nessuno lamentarsi per il cibo o per altre ragioni, dai frati ho imparato a conoscere cibi nuovi, che non fossero polenta e latte o patate arrostite con le cipolle ed un po’ di latte, i pasti erano abbondanti e completi e da loro, conobbi l’ esistenza della carne, della pasta asciutta, dei risotti e dei dolci come il budino ecc. Anche il riscaldamento era tutta un'altra cosa, c’ erano i termosifoni, allora si chiamavano così i moderni radiatori di calore centralizzati, avevamo il proiettore cinematografico e guardavamo i film di Olio e Stalio, film di guerra, tanto cari al padre Rettore, film di avventura o cartoni animati della Disney. Eravamo due sezioni distaccate della scuola elementare di Campolomaso, con i nostri bravi maestri, solo che a noi era imposto un tempo di studio maggiore, si studiava tutti assieme in un aula comune e c’ era una saggia ed onesta competitività tra le due classi, si faceva a gara a chi aveva i voti migliori o chi faceva le ricerche più approfondite, si sapeva , sempre, riconoscere la supremazia degli avversari ed ammettere la propria inferiorità, insomma, “ due più due faceva sempre quattro e non cinque, se il Duce lo vuole ! “


 

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Il padre Rettore

Si chiamava padre Quirico Mattioli ed era originario della Romagna, quella terra tanto rossa e tanto nera, politicamente, si intende. Era un uomo magro, asciutto, pieno di vita e di fantasia, ma soprattutto, aveva il Duce ne cuore. Era un uomo dalle grandi e prolifiche iniziative, a lui , infatti, si deva l’ ampliamento del convento, con una nuova e moderna ala, che sorgeva ad est del vecchio monastero, ed era in avanzato stato di costruzione nel anno 1962 – 63. consisteva in una moderna sala nel piano semi interrato che aveva funzioni polivalenti, era , infatti, adattabile a palestra, teatro, cinema e sala riunioni. La parte superiore, era adibita a scuola e laboratorio didattico con annessa biblioteca. Venne inaugurata nell’ estate del 1963, con una solenne cerimonia e festa pubblica, alla quale parteciparono le popolazioni del Bleggio e di Fiave’, in quell’ occasione, ebbi modo di ascoltare per la prima volta, il coro Castel campo, diretto da padre Costanzo, un musicista ed insegnante di grande talento musicale. Il padre Rettore, si era premurato di organizzare, in maniera meticolosa ed elegante, la cerimonia di inaugurazione della nuova ala, facendo stampare un libro con la storia del convento di Campolomaso, fin dai primi anni di vita, era stato fondato nel **** ed era passato alla grande storia anche per la nascita, nei tempi delle invasioni Napoleoniche, del grande poeta trentino Giovanni Prati e della costante presenza in luogo della poetessa Ada Negri, che ebbe modo di descriverlo nei suoi versi, Padre Quirico, era un “ fascista “ convinto, infatti non perdeva mai l’ occasione per narrarci dei fatti che aveva vissuto e, specialmente, di farci ascoltare, dal suo grande registratore a bobine Grundig, le svolazzanti ed orecchiabili canzoni del regime. Quando, poi, si andava a passeggio nei vicini boschi, e presso il torrente Duina, nelle vicinanze di catel campo, portava sempre con se il suo fucile ad aria compressa, con il quale ci esercitavamo al tiro a segno con un barattolo di latta. In quei luoghi, nella spianata adiacente il convento, durante l’ occupazione tedesca dopo l’ 8 settembre, fu predisposto un piccolo aeroporto militare tedesco, che naturalmente era preso di mira dai caccia anglo – americani che lo bombardavano e lo mitragliavano quotidianamente, c’ era ancora, a testimonianza dei fatti, una grossa buca provocata dall’ esplosione di una bomba alleata. Un agricoltore del luogo, che aveva un campo di patate vicino all’ insediamento militare tedesco, ci raccontò, in lacrime, che un giorno mentre con sua moglie erano al lavoro nel campo, arrivò velocissimo uno spitfire inglese e si mise a mitragliare dei camion sulla adiacente strada, lui, si buttò a terra in un solco, mentre sua moglie, terrorizzata, scappò verso la strada , venne colpita dalle raffiche del caccia e morì .


 

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Noci e patate

Il Bleggio, allora, era un territorio estremamente povero, con un alto tasso di emigrazione, nei paesini, sparsi sul territorio, dai nomi particolari che sembrava di essere nel new mexico, infatti c’ erano paesi che si chiamavano Bivedo, Larido, Duedo, Gallio, Santa Croce, Poia, erano composti da pochissime case, vecchie e malandate, e la gente del posto, coltivava, principalmente patate, poi c’ erano delle enormi e secolari piante di noce e noi , ragazzini del convento, nei momenti di libertà dallo studio, si andava ad aiutare la gente del posto a raccogliere le patate e le noci, poi, il proprietario, come riconoscenza, destinava una piccola parte del raccolto ai frati del convento di Campo. Ed ancora ritorna il principio fondante della filosofia francescana, con una mano si riceve e con l’ altra si dà. Era una gente umile e generosa, quella dei paesini del Bleggio, povera, di quella povertà materiale che però rende la gente cosciente della propria situazione ed aperta ai bisogni del prossimo, specie di chi aveva ancora meno di loro. Gente saggia, riflessiva , io ero solo un ragazzino, ma ho avuto modo di conoscere ed apprezzare quelle persone, umili, e disponibili a spezzare il loro pane con chi ne aveva bisogno in quel momento, altro che i miei co valligiani nonesi, avidi ed egoisti, attaccati , in modo fobico, al denaro ed alla ricchezza ed insensibili all’ altrui bisogno e dolore . Questo stato di cose, mi veniva sempre rimproverato dai miei compagni di collegio e noi nonesi, non eravamo ben visti dagli altri ragazzi. A Fiave’, c’ era una pescicoltura industriale, a volte ci andavamo in passeggiata e ci fermavamo ad osservare il lavoro di allevamento delle trote, era un territorio che voleva crescere e svilupparsi, ed era sulla via giusta per farlo, infatti, pochi anni più tardi, l’ economia di quei luoghi crebbe, anche favorita dal turismo di massa, che allora era agli albori, ma sarebbe cresciuto in seguito. In quei luoghi, infatti, ci sono le terme di Comano che ora danno il nome pure al comune che prima si chiamava Lomaso ed oggi si chiama Comano terme. E’ una gente che tiene molto alla loro tradizione ed alla loro cultura, infatti, quando sono tornato in convento nel 2008, dopo più di 40 anni, nel chiosco austero del convento, era esposta una bella mostra fotografica delle antiche abitazioni del luogo che avevano tutte una struttura architettonica particolare.


 

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Il Duina

Il Duina è un torrente che scorre a valle del convento di Campo, e va a confluire nel fiume Sarca, quello che alimenta poi il lago di Garda. Da sempre, l’ acqua è stata una grande attrazione per tutti i ragazzi, in ogni parte del mondo, forse, ricordo ancestrale dei nove mesi trascorsi nel liquido amniotico delle madri, ed anche perché l’ acqua è fonte della vita, animale e vegetale ed è, da sempre, un motivo di infiniti giochi e passatempi ed un perenne ristoro dalla calura estiva.

Così era anche per noi, giovani fraticelli, del collegio dei frati, ed appena iniziata la stagione calda, il padre rettore, con la sua inseparabile carabina ad aria compressa, Diana, ci portava a passeggio alla Duina. Prima della partenza, i frati preparavano degli zaini pieni di panini, la marmellata o la cioccolata erano confezionati a cubetti e portati a parte in un altro zaino. Si partiva, cantando delle canzoni scout allegre, qualche volta si cantava anche faccetta nera… così, incolonnati come bravi soldatini, si scendeva al Duina. Il torrente, scorreva in mezzo ad un bosco di abeti e pini, molto simile al nostri torrenti Pescara o Barnes, nel fondo valle. Quando si andava alla Duina, era sempre una festa, la fantasia di noi ragazzini, si liberava come un canto e trovava spazio nei giochi d’ acqua più disparati, dal classico bagno nel torrente, alla costruzione di una diga per formare un piccolo laghetto artificiale dove poi fare il bagno e giocare nell’ acqua. Alla fine della passeggiata, il padre rettore ci lasciava sparare con la carabina verso un bersaglio attaccato ad un abete. A metà serata, si mangiava un abbondante merenda a base di pane marmellata o cioccolata, che i frati sherpa avevano portato con loro e che distribuivano ordinatamente a tutti i fratini. Alla sera, si faceva ritorno al convento, stanchi da morire, per i giochi e le corse nel bosco, ci si fermava a bere ad ogni fontana che si incontrava, passando nei paesini del Bleggio, alla sera si cenava e poi a nanna, per un lungo sonno ristoratore ed il giorno seguente si riprendeva, con rinnovato slancio, gli studi e la scuola. Un giorno, mentre si “ esplorava “ la Duina, un gruppetto di miei compagni trovarono, nascosti tra i sassi, un centinaio di proiettili di mitragliatrice contraerea, messi lì da poco da qualcuno che se ne voleva disfare per timore delle leggi molto severe, vigenti in materia di residuati bellici. Il padre rettore informò subito i carabinieri locali i quali vennero e prelevarono i proiettili. Ci spiegarono che erano proiettili incendiari, infatti, avevano la punta di color rosso mattone, come la punta dei fiammiferi da cucina, ci dissero che appena trovato un ostacolo da perforare, come la carlinga di un aereo, subito con l’ attrito si incendiavano appiccando così il fuoco al velivolo. Grande fu per noi l’ emozione di poter toccare con mano la guerra appena conclusa e mi tornarono in mente le lezioni del buon maestro Ernesto Fauri, che ci raccomandava sempre di non toccare e non giocare con i residuati bellici.


 

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Il coro

Padre Costanzo, era il nostro insegnante di musica era una talento della cultura musicale, suonava vari strumenti tra cui l’ organo e il pianoforte. Aveva da poco fondato il coro polifonico maschile Castel Campo che tutt’ ora è attivo e vanta un bel repertorio di musiche popolari e di montagna. In previsione della feste del vicino Natale, con i suoi riti liturgici e la sua atmosfera di festa, per abbellire con il canto le cerimonie religiose, tra i fratini vennero scelte le voci che poi avrebbero formato il coro. Il metodo di selezione era molto semplice, a tutti veniva fatta cantare la scala musicale da un punto basso della tonalità, fino a salire a dove più di arrivava in alto, in case a questo , venivano scelte le voci ed attribuito un loro ruolo all’ interno del coro, bassi, contralti, tenori, soprani. Naturalmente, uno che per natura era stonato, non aveva nessuna possibilità di far parte del coro, le regole erano rigide e non si voleva perdere tempo con delle campane rotte. Ad ogni voce veniva insegnata, in modo autonomo e soprattutto isolato da altre voci, la propria parte musicale, la si doveva imparare bene, senza dubbi o indecisioni, quando dopo una quindicina di giorni tutti sapevano bene la loro parte musicale, ci mettevano insieme ed il coro, come per incanto, era pronto a cantare a quattro voci le melodie natalizie. Alla S. Messa di Natale, la chiesetta del convento era gremita di gente dei vicini paesi che venivano a messa dei frati, perché era una messa “ diversa “ nell’ atmosfera arcana e sobria del convento, con il suo fascino austero ed il clima di grande semplicità e povertà che si respirava in ogni suo angolo. La gente entrava imbaccuccata dai neri mantelli, da cappotti e giacche che a guardarli ti davano immediatamente il senso della loro appartenenza sociale, c’ erano delle vecchiette che con i loro abiti scuri e lunghi fino alle caviglie e con la veletta ed il fazzoletto sui capelli, sembravano mia nonna. Allora si era in un periodo “ conciliare “ era infatti in corso il concilio vaticano secondo, che con le sue decisione e scelte doveva ammodernare la Chiesa cattolica ed adeguarla ai tempi che mutavano e che proponevano ed imponevano scelte e soprattutto modi diversi, più moderni e più vicini al popolo e a una società in continua e rapida evoluzione. Credo che allora le messe fossero ancora recitate in latino con il celebrante ancora che dava le spalle al popolo. La S. Messa di Natale era così allietata dai canti del coro a quattro voci dei fratini del collegio del convento dei frati di Campolomaso, alla fine della liturgia del S. Natale, i frati offrivano ai fedeli che vi avevano partecipato, un bicchiere di vino brulè assieme a dei dolci tipici del periodo natalizio. Direi che era una grande emozione seguire questa liturgia con il bel canto polifonico di un coro di adolescenti, era anche un bel colpo d’ occhio vederci cantare, disposti a semicerchio, tutti vestiti con la tunica da futuri frati e tutti con il libro dei canti in mano, bisogna dire anche, senza falsa modestia, che si cantava in modo che a me pareva addirittura divino…


 

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I regali di Natale

Più volte, in questo racconto, ho parlato dello spirito dei frati francescani, che credo sia anche una peculiarità di tutti gli ordini monastici della terra, compresi quelli non cristiani, questi uomini infatti, passano tutto il tempo della loro vita a pregare e lavorare e tutto quello che hanno è il frutto della carità di gente che incrocia volutamente o per la forza del destino, un uomo, con i sandali ai piedi, vestito con un saio stretto da una cordicella a mo’ di cinta e con la parte pensante piena di nodi, quanti sono i voti che hanno pronunciato. Tutto quello che distribuiscono a chi ne ha bisogno in quel momento, è frutto del loro lavoro e della carità di molta gente. Così come i regali che ci vennero donati il giorno di Natale dell’ anno 1963 presso il convento dei frati di Campo… Fu una cerimonia semplice ma molto suggestiva, uno dei più bei ricordi della mia infanzia, fu una sorpresa ben orchestrata , perché nessuno aveva mai fatto menzione dei regali che ci sarebbero stati distribuiti. Dopo il succulento pranzo di Natale, fatto di tante cose buone e di tante novità culinarie, il padre Rettore ci accompagnò nella grande aula dove si era soliti studiare e lì la grande sorpresa : su ognuno dei banchi dove si studiava, c’ erano tanti regali, c’ erano materiale didattico, penne, matite, colori, poi ad ognuno era stavo aggiunto un regalo personalizzato, ricordo che il mio era un grande pezzo di stoffa pesante con la quale poi mi vennero fatti dei calzoni per l’ inverno. Nel pomeriggio, poi, nella camerata adibita a cinema, ci venne proiettato un film di avventura a colori, era il massimo che ci si potesse aspettare.


 


 


 

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La befana

Quell’ anno, nella ricorrenza dell’ Epifania, venne nel convento di Campolomaso il vescovo dell’ ordine provinciale dei frati minori, monsignor Recla, e per l’ occasione ci prepararono con una recita che si tenne nella camerata dei fratini, perché la nuova ala era ancora in costruzione e sarebbe stata ultimata per l’ anno venturo. Ricordo che a me venne data la parte di protagonista della breve recita, che era quella del frate che distribuiva i doni ai piccoli fratini addormentati, improvvisandosi nel ruolo della befana con un grande sacco, mentre tutto il silenzio avvolgeva la camerata, distribuivo i regali, commentando il ruolo della befana “ la befana, la dolce immagine… “ Quanto rimpiango quei giorni spensierati o, quando con una folata di vita tutti eravamo felici, quando bastava aver trovato una famigliola di ricci tra le foglie dei grandi castani, per essere felici di poter portare loro del cibo e badare che nessuno potesse far loro del male. Quando per essere felici bastava avere un pezzo di pane croccante, sottratto alla mensa del refettorio, da poter sgranocchiare in segreto durante le ore di studio o quando ti chiamavano in parlatorio perché era arrivata una visita per te, la mamma, il papà o dei parenti che ti portavano dei regali utili e ti raccontavano le ultime novità del borgo natio quelle che non ti avevano raccontato nell’ ultima lettera da casa…


 

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La morte di J.F. Kennedy

La sera del 22 novembre 1963, mentre eravamo tutti in fila fuori dalla camerata, in attesa che il padre Rettore ci facesse l’ ultima riflessione quotidiana, arrivò un frate con passo quasi di corsa, si avvicinò al Rettore che ci stava dando le ultime raccomandazioni, lo interruppe e gli parlò un attimo all’ orecchio. Padre Quirico smise di parlare, respirò profondamente come se volesse prendere forza da Dio guardò il soffitto, mosse le labbra come par mormorare una preghiera e poi con voce rotta da una emozione fortissima, si rivolse a noi e ci informò che era stato ucciso il presidente degli Stati Uniti d’ America John Fitzgerald Kennedy. Tutti rimanemmo in silenzio, tutti noi, infatti conoscevamo il Presidente in quanto una persona tra le più importanti del mondo, appena uscito dalla crisi militare di Cuba, dove si era sfiorata la terza guerra mondiale, ma soprattutto perché era il primo Presidente USA cattolico. Subito il padre Rettore, ci fece notare, da fascista ed anticomunista convinto quale era sempre stato, che Kennedy era l’ unico che aveva saputo tenere a bada i “ ROSSI “ della Russia di Kruschiov. Seguì poi una preghiera per il defunto Presidente, poi tutti andammo a letto, ma nessuno di noi riuscì a dormire tranquillo quella notte. Nonostante fossimo ancora tutti degli adolescenti, in materia di politica estera eravamo tutti ben ferrati e consapevoli degli sviluppi che la storia ci proponeva, eravamo attivi ed interessati a quanto succedeva nel mondo, specialmente in merito ai grandi conflitti tra le due super potenze America e Russia, perché il buon padre Quirico Mattioli ci teneva costantemente informati, aggiornati e documentati, sempre all’ ombra del Duce. Alcuni giorni dopo il tragico evento, nella chiesa dei frati si svolse una solenne cerimonia funebre in ricordo del defunto Presidente, alla quale partecipammo noi fratini, tutti i padri del convento e molta gente del luogo. Questo è uno dei ricordi più toccanti del periodo che ho trascorso presso il convento dei frati di Campolomaso e che porto ancora dentro il mio cuore “ fascista “ .Perfino Nikita non riusciva a dormire in quei giorni…


 

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Salgari

A Campolomaso sono ritornato, poi, nell’ estate dell’ anno seguente, quando già frequentavo la classe prima media a Villazzano un sobborgo alle pendici di Trento, dove c’ era il convento dei fratini di S. Francesco e dove erano ubicate le scuole superiori destinate a chi poi avrebbe indossato il saio francescano. Si tornava a Campo per rilassarsi e per studiare e ripassare le materie ma soprattutto a me piaceva un mondo leggere ogni tipo di lettura ma in modo particolare Salgari, con le sue avventure esotiche, e la fantasia lavorava a costruire le facce dei personaggi che poi avrei rivisto nella famosa serie televisiva con Kabir Bedi e gli altri protagonisti, Janes de Gomera, Kammamuri, Tremal naik e la bella Lady Marianna della quale mi ero innamorato… Occhi non più del tutto inibiti, occhi che cercavano delle risposte a domande che la vita ti poneva e la ragazzina che fino a ieri aveva giocato con te nei prati e dentro al fienile, in modo innocente, rotolandosi insieme a te nel fieno profumato, ora ti appare diversa, ora certe differenze le puoi notare, sono cresciute e se ti azzardi a toccare il tuo cuore batte più rapido, che ti sembra di impazzire, è una sensazione nuova che provi, è la natura che ti viene incontro e ti insegna che la vita ha bisogno del tuo contributo per perpetuarsi… ed allora il ricordo vola lontano, a quando la curiosità ci aveva indotto a guardare sotto le mutandine di una bambina per capire certe diversità ed ora si riusciva a capire anche la lezione sulla procreazione che con molta semplicità un frate ci aveva insegnato e che l’ anno successivo, quando in collegio vennero gli insegnati esterni, il professor Zucchelli durante le lezioni di scienze naturali ci aveva riproposto . E’ un gioco che regola il tempo e la vita di tutti, un gioco al quale è impossibile sottrarsi, perché è la vita stessa che ha bisogno di giocare in quel modo per continuare ad esistere.


 

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Padre Ugo

Era un frate minuto, gracile di costituzione, ma con una fede da gigante, incrollabile. Ora et labora, ritorna nella descrizione di questo uomo di Dio tutto il messaggio francescano, ma soprattutto, mi ritornano i miei dubbi su una fede che da anni ho perduto e tante volte mi chiedo . – Ma se avesse ragione lui ? - . Due episodi, voglio narrare, della sua fede, uno mi è stato raccontato ed uno l’ ho vissuto di persona. Padre Ugo era solito lavorare nei campi e nella vigna del convento, un giorno di primavera, dopo aver potato le vigne i frati facevano grandi mucchi con i residui delle potature per poi bruciarli un po’ per volta. Un giorno Padre Ugo appiccò il fuoco ad uno dei mucchi che iniziò a bruciare, di lì a poco, però, si alzò un forte vento che alimentò e propagò l’ incendio pericolosamente verso il vicino bosco e la montagna. Il frate provò inutilmente a spegnere le fiamme con un forcone, vista l’ impossibilità di arginare il rogo, si inginocchiò a terra e si mise a pregare, il vento cessò e le fiamme si spensero da sole. Verso la fine dell’ anno scolastico, si era soliti fare una gita in pullman in qualche località lontana, ci andava però solo quelli indenni dal mal d’ auto, quelli invece che a salire su un atutobus vomitavano, una piccola minoranza, tra i quali anche il sottoscritto, si andava a piedi alla Madonna di Pinè e poi al lago Serraia. Ci avviammo così di buon mattino, a piedi, verso l’ altopiano di Pinè che dista circa una decina di chilometri. Ad accompagnare i riformati naturalmente c’ era padre Ugo, con uno zaino di panini e bibite. Percorsi a piedi poche centinaia di metri, sotto il sole e nella strada deserta, ad certo punto ci raggiunse un furgone Volkswagen di quelli adibiti al trasporto del personale di una ditta edile, il conducente si fermò e chiese al frate dove fosse diretto. Padre Ugo disse che stavamo andando a Pinè per una scampagnata, il conducente disse che anche lui era diretto in quel posto aprì il portellone e ci fece salire tutti dietro mentre padre Ugo salì al fianco del guidatore. Fatte alcune centinaia di metri, dopo lo scambio di saluti, il guidatore si rivolse al frate con tono più serio e deciso e gli disse: - Senta, padre, io tempo fa ho trovato un portafoglio con dentro un ingente quantità di denaro, non c’ erano documenti di riconoscimento o nessun altra carta che potesse ricondurre al legittimo proprietario. Allora ho pensato di farlo rendere pubblico dal parroco al termine dell’ omelia della messa domenicale, se non che si sono presentati dal parroco due diverse persone che vantavano la proprietà del denaro. Allora ho detto al parroco che avrei dato ai frati il contenuto del portamonete. - Erano centocinquantamila lire di allora, era l’ anno 1964, capimmo tutti che era una grossa cifra, molti stipendi di un operaio di quel tempo. Il signore pretese che padre Ugo gli facesse una ricevuta da esibire ad eventuali creditori e poi consegnò il denaro al frate. Arrivati a Pinè, il frate chiese al proprietario di un ristorante vicino al lago, il permesso di sederci su una panchina di sua proprietà per poter mangiare un panino e bere una bibita. L’ albergatore si rifiutò categoricamente di farci sedere sulla panchina, e ci invitò ad entrare nel suo locale e passando vicino alla porta della cucina disse a cuoco di preparare il pranzo anche per noi… ha pagato tutto la fede incrollabile di padre Ugo.


 


 


 

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Il ribelle

Faceva ormai capolino nella mia mente, quello spirito ribelle, anticonformista, libero ed un pochino fascista, che mi avrebbe poi accompagnato per tutta la mia vita, determinando, nel bene e nel male, tutte le mie scelte. L’ aria del convento, con i suoi profumi di incenso e le sue ferree regole, cominciava , per me, ad essere irrespirabile, il profumo della libertà entrava in ogni fessura e mi spingeva verso un mondo esterno ancora tutto da esplorare e da conoscere. Come il tam tam dei tamburi indiani, si avvicinava sempre più il richiamo della natura che ci ha creati maschio e femmina, e che con un richiamo atavico ti invita a scoprire il fascino nascosto della donna, con tutti i suoi segreti, la sua dolcezza, la sua femminilità. Ti rendi conto solo allora, che il mondo è più grande delle mura di un convento, che, pur avendoti dato molto in sapienza, educazione e regole, ti preclude, però di fatto una vita normale con una compagna femmina, con tutte le sue gioie ed i suoi dolori. Ho riflettuto molto sul reale valore della vita monastica che è una scelta contro corrente, quasi suicida per certi versi, ma io che ci ho vissuto dentro per alcuni anni, la trovo affascinante pari ad una vita vissuta in maniera convenzionale, è una scelta che è soprattutto dettata da una grande fede e la fede è un dono, come la vita, si può avere come ti viene negata, è un salto nel buio, è un fidarsi ciecamente di un Essere superiore al quale si affidano tutti i nostri desideri ed il nostro pensiero, per Lui si sa vivere e si sa morire e se è fede vera e vissuta è gioia nel vivere e conforto nel morire. Ero abbastanza grande e consapevole delle scelte che avrebbero poi determinato la mia vita, non sono altresì , mai stato ipocrita da accettare, magari per convenienza, delle scelte che non condividevo. Così l’ anno 1965 lasciai il convento dei frati francescani di Villazzano per riprendere la vita civile , forse più anonima, di un comune studente di terza media alle scuole di Cles. Dei frati mi era rimasta la grande cultura che mi avevano insegnato nei tre anni di convento, la buona conoscenza della lingua latina che ora mi permette di scrivere in questa maniera ed il ricordo di anni felici e spensierati della mia adolescenza, trascorsi dietro le mura del convento. Ricordo che al momento della partenza, il rettore padre Marco Vanzetta, disse a quanti lasciavano definitivamente il convento . – meglio un buon uomo fuori, che un mediocre frate in convento . –

Finita l’ avventura con i frati, mi ritrovai rovesciato nel mondo che avevo lasciato da ragazzino e che era tonto cambiato ai miei occhi che erano stati abituati alle quattro mura del convento, inibiti ad ogni forma di vita esterna, compresa la vita sociale e politica. Non mi pareva neppure vero poter godere di tanta libertà e tanto spazio nella società. Era il 1966 quando frequentavo il terzo anno delle scuole medie all’ istituto Inama di Cles, erano gli anni precedenti i moti studenteschi, se ne poteva già respirare l’ odore acre dei lacrimogeni della polizia. Era anche l’ anno della grande alluvione in Italia che aveva messo in ginocchio l’ economia ed il patrimonio artistico. Si era vista , però , anche la grande solidarietà di molti popoli verso il nostro paese, in modo speciale ed encomiabile la presenza sul territorio di numerosi studenti stranieri che accorsero in massa a prestare il loro tempo ed il loro lavoro al salvataggio ed al restauro delle opere d’ arte danneggiate dall’ alluvione. Una simile convergenza di intenti non si sarebbe più vista dopo di allora, ci avrebbe poi pensato il ’68 a demolire sistematicamente, in modo capillare e scientifico, tutto quel mondo fatto di tanta ingenuità e tanto romanticismo ma capace di grandi atti di solidarietà nella giustizia, per dare il posto ad un mondo di egoismo, di trasgressione, come la droga, il libero amore ecc. , che ha poi portato lentamente al degrado sociale ed alla corruzione galoppante che si perpetua anche nel nostro tempo attuale. Fu’ anche il periodo della guerra dei sei giorni tra lo stato di Israele ed il mondo arabo, che ho vissuto con passione, stando dalla parte israeliana. Per me, frequentare la terza media a Cles non fu altro che un ripasso generale di tutte le materie che avevo studiato in collegio con l handicap della matematica, ma alla fine fui promosso con buoni voti, avrei potuto fare di più, ma il mio spirito ribelle ebbe il sopravvento…Finiti gli esami, dopo aver fatto tanti aeroplanini con le pagine del libro di matematica, potevo dare libero sfogo a tutto il mio spirito ribelle ed a tutte le forme di trasgressione che mi erano state impedite in convento, le prime sigarette vere, le prime puntate al bar a giocare a carte e bere un bicchiere di spuma, le prime occhiate maliziose al culo di qualche ragazza…


 

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Il mio primo lavoro

 

 

Finiti gli studi a 14 anni, era giunto il momento di contribuire al buon andamento della famiglia cercando di non essere una bocca parassita a carico di mio padre che aveva urgente bisogno di denaro per tentare di uscire dall’ endemica povertà che regnava sovrana da anni in casa Agosti.

Decisi allora di chiedere lavoro presso una segheria tra le tante in loco, quella del signor Orestino Bonani, che è situata appena dopo il ponte del Toflin sul torrente Barnes. Si iniziava alle 7 del mattino si faceva una pausa di un ora a mezzogiorno per il pranzo e poi si proseguiva fino alle 6 o a volte anche le 7 del pomeriggio. Il pranzo me lo preparava mia madre dentro una thermos e lo consumavo in estate all’ aperto vicino al torrente seduto su un grosso sasso piatto, mentre d’ inverno stavo all’ interno del laboratorio della segheria.

Ero giovane ed avevo tanta fame, tutto era così buono e saporito non avanzava mai niente.

Il mio lavoro consisteva nel preparare le varie componenti che servivano per costruire delle cassette per la frutta, di vari tipi e misure.

In un primo tempo il lavoro si faceva con il martello ed i chiodi, quante martellate sulle dita mi sono dato prima di imparare bene a colpire i chiodi !

Passato un periodo di tempo, il mio datore di lavoro mi insegnò ad usare le macchine che inchiodavano con dei grossi punti metallici le varie parti delle cassette. Sembrava di essere in guerra al fronte per via del rumore secco e cadenzato delle varie macchine, ta tan, ta tan.

La paga era una miseria di lire, tutto rigorosamente in nero, mi fanno ridere le attuali leggi sullo sfruttamento minorile e lo stato di taluni studenti universitari fuori corso che hanno trenta o più anni. Se l’ Italia ha avuto il grande boom economico degli anni sessanta, è stato anche per merito di tanto lavoro e privazioni di molti ragazzini ancora minorenni che hanno lavorato, sempre in nero, sempre sfruttati con delle condizioni di lavoro da schiavi, per costruire un economia forte ed un Paese prospero ed importante e ci eravamo riusciti pure fino a quando è sopraggiunta la disonestà e la corruzione di un sistema di amministratori sempre più avidi di denaro a costo zero, ed è iniziato un periodo di ruberie e di tangenti impressionante che non trova eguali in tutto il mondo per quantità di denaro rubato e numero di amministratori coinvolti e che dura a tutt’ oggi. In questo modo il paese si è indebitato per circa 2000 miliardi di euro, una cifra da capogiro che non riusciamo più a restituire.

 

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IL JUKE BOX

 

Quando si trattava di ascoltare la musica a livello collettivo, in modo particolarmente anelato, con le ragazzine che erano state le nostre piccole compagne di classe alla scuola elementare, che ora erano divenute il desiderio comune di tutti i “ muli “ così venivamo definiti allora dai grandi, … era madre natura che faceva il suo eterno corso fin dal inizio della vita nella notte dei tempi imponendo di fatto a tutte le forme di vita sulla terra: quello di riprodursi e moltiplicarsi, come per confermarlo dicono tutti i testi sacri di tutte le religioni dalla Biibia al Corano con sfumature diverse ma con la stessa sostanza. La bambina irrilevante che un giorno era la tua compagna di banco, a volte una seccatura vera e propria che non si riusciva a capire il perché della sua esistenza, ad un tratto era diventataa l’ oggetto del desiderio per noi maschietti che venivamo chiamati al ruolo che ci competeva in questo progetto di madre natura. Era il tempo delle mele, era il tempo della ricerca delle differenze che ci facevano diversi dalla ragazzina e ti spingevano verso lei con una forza misteriosa che si chiama vita. L’ antica TRATTORIA AGOSTI che da tempo aveva cambiato diversi proprietari ma era rimasta sempre una locanda e un Bar, il gestorre del bar di quel tempo ebbe la felice idea di ricavare nel locale una piccola tavernetta, allora tanto apprezzata dalla gioventù, ed attrezzò il locale con un apparecchio elettronico allora tanto di moda e tanto richiesto dalla gioventù di quei tempi: un JUKE BOX. Il j.b. era in parole povere un enorme giradischi con preselezione automatica , aveva al suo interno circa 50 dischi a selezione manuale a mezzo di una tastiera disposta sul lato anteriore dell’ apparecchio proprio sopra i grandi altoparlanti che diffondevano la bella musica di quel tempo. Per selezionare una canzone bastava INSERT COIN una moneta da 50 lire per una canzone e 100 lire per tre canzoni, digitare il codice che era visibile sull’ elenco es. OH LADY MARY – D – 4 ed il sistema meccanico andava a prendere con infallibile precisione il disco richiesto e lo metteva delicatamente sul piatto dove il pik up procedeva a leggere la musica e la diffondeva tramite i grossi altoparlanti. Per tutta la settimana si erano risparmiati i soldi del duro lavoro per poter far funzionare il juke box e poter pagare da bere alla ragazzina che ti faceva battere il cuore, poi finalmente arrivava il sabato sera e ci si presentava al bar coni pantaloni a zampa di elefante, la camicia a fiori e il giubotto di jeans i capelli lucidi di brillantina Linetti dal classico profumo che ti annunciava ancora prima dell’ ingresso nel bar. Nella cappa di fumo che come una nebbia fitta aleggiava nel locale distinguevi a stento le facce degli adulti che ti squadravano da capo a piedi con un aria mesta di rimpianto ( ora li capisco ) che ti accompagnavano come demoni affamati fino all’ ingresso della tavernetta che aveva una porta ad arco fatta di mattoni a vista rossio terra di siena ed una doppia tenda di grosso panno per evitare che la musica uscisse dalla tavernetta. Quando eri entrato ti sembrava di essere in paradiso, tanti amici, bella musica ma sopratutto la ragazzina che ti piaceva che andavi subito a salutare e a chiedere se volesse bere qualcosa sperando che non dicesse “ niente “ che era un liquore costoso, ma tutti eravamo comsapevoli delle nostre disponibilità finanziarie e ci si limitava a consumare bibita di poco costo. A me piaceva il ballo lento perché potevi tenere la tua bella stretta al tuo corpo facendola ballare lentamente sopra una sola mattonella ...

c’ erano tante musiche lente che venivano fatte girare sul piatto del juke box ma quella che mi piaceva di più era una dal titolo MONIA un valzer lento e sensuale che ti faceva impazzire accanto ad un fiore che potevi stringere a te … Così ci si divertiva ai miei tempi, così era il nostro sabato sera, un juke box che suonava, una ragazzina tra le braccia ed in mano una spuma ed una nazionale ed a mezzanotte tutti a casa perché il bar chiudeva … e arrivederci al sabato successivo. Di questi splendidi tempi trascorsi serbo un ricordo bello ed una struggente nostalgia di quel tempo di quamdo si apprezzava il sapore delle mele sensa conoscerne il contenuto, di quando stare assieme ai tuoi amici ti faceva sentire di essere qualcuno, ti appagava e ti faceva crescere assieme a loro in un amicizia spontanea , disinteressata e sincera che dura tutt’ ora. La domenica poi dopo aver partecipato alla S. Messa ed aver pranzato ci si ritrovava di nuovo per fare una passegiata tutti assieme nel bosco di Somargen per prendere un po di aria buona e fresca e restare nuovamente in compagnia. Qualcuno aveva un mangiadischi o un registratore a bobine “ castelli “ per ascoltare ancora la musica che avrebbe prolungato il sabato sera, altri appassionati sportivi del calcio si portavano la radiolina con l’ auricolare ed ascoltavano le partite e li vedevi delirare in silenzio per un fallo, per un rigore e per il goal. Molte volte le batterie si scaricavano ed allora si iniziava a chiacchierare dei problemi del paese, dei fatti di cronaca e dei sogni ad occhi aperti che ognuno di noi aveva nel cuore. E’ la gioventù che poi ha aderito al Gruppo Giovanile di Padre Alex Zanotelli, che ha fondato l’ Unione Sportiva Livo, la Pro Loco di Livo che ha dato a questo paese numerosi Amministratori nel Comune, nel Consorzio cooperativo agricolo e alimentare, nella Cassa Rurale nell’ Uso Civico, nel Consorzio Miglioramento Fondiario, nei VV FF di Livoed in altre istituzioni ed Associazioni ai quali và il mio sincero plauso e ringraziamento.

 

 

 

 

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Oh lady Mary

 

 

Con i soldi guadagnati nei miei primi lavori presso la segheria Bonani, dopo aver dato una parte cospicua alla famiglia, decisi di farmi il primo regalo della mia vita, una radiolina portatile a batterie.

Quella della radio era una grande passione della mia vita, seconda solo alla scrittura, che negli anni successivi trovò ampia forma nel mio hobby di radioamatore ed SWL. Mi ricordo che era una piccola radiolina della sony, tutta nera, con il suo bel fodero in pelle, non ricordo quante lire l’ avessi pagata, ma ricordo che ci vollero alcuni mesi di risparmio del denaro che mi veniva lasciato in gestione.

C’è da aggiungere che quelli erano tempi che le radio portatili erano di moda, quasi come i cellulari oggi, venivano propagandate sulle riviste per giovani ed esposte in bella mostra nelle vetrine dei negozi di materiale elettrico, allora l’ elettronica era agli albori. La comprai in un negozio di Trento, era una radio che aveva solo la gamma AM ampiezza modulata, quelle in FM c’erano ma erano molto costose, di giorno si poteva ascoltare solo il primo programma RAI , invece la notte, con la propagazione si potevano ascoltare delle Brodcasting di tutto il mondo, con un po di fortuna. Allora imperversava ed esempio radio Tirana dall’ Albania rossa e filo cinese, quante fregnacce raccontavano sul potere del popolo, sul marxismo, contro il capitalismo, cose che no stavano ne in cielo ne in terra, lo si capiva allora e lo si è constatato negli anni successivi con la crisi di quei regimi. C’ era poi la radio Vaticana, che sparava i suoi Kilowatt su tutte le frequenze a disposizione, con la S.Messa, il rosario e poi le continue prediche sulla morale sulla carità, le dure critiche al comunismo, l’ asservimento spudorato allo scudo crociato, gli anatemi contro il sesso libero e tutto quello che sapeva odore di donna… Anche questa loro ostinata concezione radicale ed a volte ipocrita, della società, và lentamente a sparire assieme ai predicatori di fumo, infatti, ora che più nessuno li ascolta, strizzano l’ occhio verso quel mondo di sinistra che hanno tanto combattuto, e che , per i valori del socialismo e del marxismo, sono quelli che meglio interpretano la solidarietà operaia e sociale, non c’ era bisogno di tanti kilowatt di potenza per insegnarlo…

Poi c’ era la radio spagnola, con quella bella lingua che assomiglia tanto al nostro dialetto, e lì mi fermavo ad ascoltare, tentando di capire il senso compiuto del discorso, poi c’ erano le radio tedesche, e con quelle mi arrangiavo a capire il senso di quello ce veniva detto, perché lo avevo studiato a scuola. Preferivo, però, ascoltare musica, come tutti i giovani di allora,erano i tempi di Morandi, Battisti, De Andre’ dei Beatles ecc. musica dolce, romantica, che ti faceva sognare le ragazzine, che a volte si ascoltava assieme, in religioso silenzio, perché l’ altoparlante era grande come una moneta da cento lire. Non era mica la musica del Pub che ho vicino a casa, che misurata è risultata par a 18, 5 decibel, roba da rincoglionire un sordo e poi quella musica che era solo rumore che pareva venire dall’ oltretomba.

Una sera, mentre a letto ascoltavo la mia radiolina con l’ auricolare, girando piano, piano la manopolina della sintonia, su una emittente straniera, mi pare fosse inglese, ascoltai una bella canzone romantica e parecchio orecchiabile, si intitolava OH LADY MARY, mi è subito entrata in mente, è stata poi ripresa, tradotto in italiano il testo, da Dalidà il titolo era rimasto uguale, ed a tutt’ oggi la riascolto con dolcezza e tanta nostalgia di quei bei tempi, dove per essere felici bastava una piccola radiolina sony.

 

Era iniziata la vita dei grandi, mi sentivo importante ed acculturato, riuscivo ad incantare per il modo elegante dei miei discorsi e per le cose che avevo imparato ed altri ignoravano, cominciavo ad esigere il mio posto nella società, cercando di dare , naturalmente, anche il mio contributo culturale, fu tempo perso perché la società civile del mio paese non volle e non seppe mai valorizzare la cultura, ne la mia, ne quella di altri, ha preferito dare in mano le sorti della popolazione a persone che erano solo ricche ed arroganti, con risultati a dir poco disastrosi.

Ma questa è un'altra storia.

 

 

 

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Le cose fatte

 

Ho raggiunto ora un’ età dove l’ esperienza maturata durante la vita che è una maestra inesauribile di idee, di esperienze vissute di sogni realizzati o bruscamente interrotti dal destino, ma che per tutto quello che mi ha dato è valsa la pena di vivere e per questo ringrazio il destino che mi ha concesso buona salute, un lavoro onesto , una donna che se pur per un tempo limitato mi ha voluto bene. E’ giunto il tempo dei bilanci di una vita, da fare mentre si è ancora relativamente giovani e con la mente ancora lucida ed attiva, con questi presupposti si riesce a fare un bilancio reale, puro, privo da quella forme di esagerato protagonismi giovanile o da quella forma di rassegnazione che volge alla pietà tipica della vecchiaia quando si tende all’ apatia del non ricordo a volte solo perché il ricordare diventa più doloroso e preludio della fine imminente.

Preferisco faro oggi un bilancio di quello che è stata la mia vita, con molta onestà ed in assoluta libertà.

Ho raccontato le fasi salienti della mia infanzia e della mia adolescenza, raccontando passo, passo tutti gli episodi importanti che la memoria mi restituiva poco alla volta, guardando una foto, un oggetto, tornando in una località o incontrando una persona.

Lo scorrere della vita non segue mai la nostra logica o i nostri desideri, ma è invece come un mazzo di carte che racchiude in se un gioco finito al suo interno, ma se mescolate il gioco rimane lo stesso ma viene spezzettato e distribuito in piccoli episodi che io chiamo destino e forse questo è il fascino del vivere, che rende la vita un avventura sempre nuova ed imprevedibile e questo io lo definisco: Gioia di vivere.

La vita infatti và presa e vissuta in tutti i suoi aspetti, in modo particolare la giovinezza. Perché è un dono bello e grande, è il dono che viene dato a tutti coloro ch la forza dell’ amore ha saputo generare, ma è un dono che si riceve una sola volta, quindi và custodito, amato e rispettato perché è un dono a termine on un codice a barre della scadenza che tutti noi abbiamo scritto in fondo al cuore dove nessuno a accesso per verificarne la lettura in anticipo, solo Lui sé la nostra scadenza.

Per fare un bilancio che rispecchi il più possibile la mia realtà, devo tener conto dei gravi limiti che madre natura mi ha attribuito, per primo e più importante tra tutti il mio handicap al braccio destro con ripercussioni negative anche al sinistro. Vista dall’ esterno sembrerebbe una cosa di poco conto, ma si un mancino, come mi diceva sempre mia madre…

Vi assicuro che visto dalla parte dell’ interessato non à da considerarsi affatto un difetto di poco conto, ma bensì un grave limite alle potenzialità di un uomo.

Per capire quanto disagio abbia comportato tutto questo nella mia vita, devo far ricorso alla teoria dell’ evoluzione della specie di Darwin che sostiene che tra le parti del corpo sviluppate in modi e formo diversi nelle migliaia di specie animali esistenti e che poi ne hanno determinato un grado superiore di intelligenza e di capacita creativa, sono le mani, le nostre mani con le dieci dita con il pollice che permette alla mano di chiudersi a pugno, perciò di impugnare la zappa, l’ ascia, l’ arco, la spada , il bisturi il fucile… forse non ci abbiamo mai pensato perché ci pareva tanto ovvio e naturale, solo chi ha problemi ad impugnare una penna, o alzare un bicchiere o stringere un laccio delle scarpe o tenere strette la mani ad una donna, lo può capire e può capire quanto aveva ragione Darwin con la sua teoria dell’ evoluzione della specie:

noi siamo stati capaci di essere animali superiori a tutti gli altri perché abbiamo potuto osservare il movimento delle nostre mani e capire quante infinite potenzialità ci derivavano da esse.

Con tanta fatica, tante umiliazioni ma con altrettanto ingegno, coraggio ed una ferrea determinazione, sono riuscito a superare tutti gli ostacoli derivanti dal mio stato di “ disgraziato “ come allora venivano definiti i casi come il mio.

C’ è poi da aggiungere la mio grave e progressivo deficit visivo che ora mi ha reso un semicieco, che ha pesato negativamente sul mio stato generale di salute e mi ha pesantemente condizionato sul mio lavoro, tanto da doverlo lasciare con alcuni anni in anticipo.

Nonostante tutti questi fattori pesantemente negativi, nonostante la perdita di mio padre quando ero ancora in giovane età, nonostante la grave crisi finanziaria che ci attanagliava nel periodo della mia adolescenza, nonostante la mia scelta radicale e controcorrente di aderire giovanissimo al Movimento Sociale Italiano DN nonostante tutto questo sono riuscito comunque ad avere una mia vita autonoma ed indipendente da tutti .

Avrei potuto scegliere la comoda e più redditizia strada dei compromessi politici con i grossi e grassi partiti di allora e starmene buono, buono come un loro pulcino sotto la grande chioccia democristiana, non mi sarebbe costato nulla ed avrei avuto tutti quei privilegi ed agevolazioni per le quali ora tanti sono inquisiti o in galera, io ero convinto allora, lo sono tutt’ ora e lo sarò anche domani, che uno Stato è grande e giusto solo ed esclusivamente se esso è e si dimostra nei confronti dei propri cittadini uno Stato di diritto, dove prevalgono sempre i diritti ed i meriti e non la corruzione e la clientela.

La ragione di cui legittimamente vado fiero nella mia vita è la ragione dell’ onestà e della coerenza, è il poter sputare in faccia a tutti coloro che ora si lamentano del malgoverno, della corruzione delle ingiustizie sociali, dopo averlo per anni determinate, avvallate e tollerate perché a differenza di loro io non ho mai appoggiato in nessun momento e per nessuna ragione quella filosofia italica del compromesso, della clientela e del mangia tu che mangio anch’ io.

Potevo anche senza scrupoli di coscienza , starmene a guardare l’ acqua scorrere sotto i ponti in attesa che passi il cadavere del nemico, invece per anni ho scelto di essere parte attiva tra qesta gente cercando di dare il mio modesto contributo alle Associazioni, ai giovani ed agli anziani.

Mi resta l’ amaro in bocca, l’ amaro di non essere stato capito da questa gente e di non essere mai stato proposto per un ruolo di amministratore pubblico in nessuna istituzione comunale, fatta eccezione l’ ECA che aveva in gestione i sussidi per i poveri del paese.

Inutile dire che non amo affatto questa gente e non solo per le ragioni appena esposte, ma anche e soprattutto per le gravi angherie perpretate alla signora Adelia Facini mia compagna di vita per 9 anni e per la furbesca e truffaldina gestione del Pub Gatto nero da parte del sindaco che ha concesso licenze che poi la Magistratura gli ha fatto revocare.

Good night, Livo !

 

 

 

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IL CAI – SAT DI LIVO

 

 

Di questa Associazione, posso parlare in prima persona, in quanto sono stato il fondatore ed il primo socio. Alla fine degli anni ’80, per dare libero sfogo alla mia passione per la montagna, mi sono tesserato ala Sezione SAT di Rumo, dove ho avuto modo di conoscere ed apprezzare il Presidente della Sezione, il signor Paolo Torresani, con il quale ho stretto una solida e proficua amicizia. Per alcuni anni ho seguito il programma della SAT di Rumo, partecipando alle loro escursioni in montagna e a tutte le altre iniziative che venivano promosse dall’ Associazione.

Durante le tante escursioni in montagna assieme all’ amico Paolo, si parlava tante volte dell’ importanza di questo sodalizio nella società, per il suo potere aggregante dato dal fatto che il CAI – SAT è un associazione apolitica, apartitica ed areligiosa, e che ha come scopo fondante il comune amore per la natura e per la montagna in modo speciale, che raggruppa ed omologa soci di età, sesso, religione, stato sociale e cultura diverse e li accomuna nella passione per la montagna, luogo dove la gente si sente più libera e forse anche migliore.

Fu l’ amico Paolo e i tanti amici di Rumo, a propormi l’ idea di formare un Gruppo CAI – SAT autonomo a Livo, ad incoraggiarmi con la promessa del loro incondizionato appoggio con tutta la loro decennale esperienza, allora accettai e mi misi a lavorare per la costituzione del Gruppo, l’ inverno tra il 1991 e il 1992, proprio 20 anni fa’.

Andavo alle riunioni del Direttivo di Rumo, per capire ed imparare la gestione dell’ Associazione, non disponendo dell’ automobile, mi recavo a Rumo con il mio Malagutti Trial, la sera andando piano per paura di incidenti in quanto la mia vista era già allora pesantemente compromessa. Predisposi ,così, quell’ inverno, tutta la parte burocratica per la costituzione del nuovo Gruppo di Livo, con un assemblea costitutiva, la campagna per il tesseramento dei nuovi soci e l’ elezione delle cariche sociali che determinarono a me la Presidenza del signor Agosti Marco la vice presidenza, alla signora Aliprandini Valeria il compito della segreteria ed alla signorina Zanotelli Marcella il ruolo di cassiera del nuovo Gruppo, non ricordo chi furono i primi consiglieri, ne quanti fossero.

Per raccontare questa storia, devo comunque fare ricorso solo alla mia memoria storica, in quanto non possiedo dei verbali scritti del Gruppo, pur avendo aquistato a suo tempo un bel libro verbali, e consegnato alla segretaria, ad una mia esplicita richiesta di informazioni e dati fatta lo scorso anno alla signora Aliprandini Valeria, mi è stato risposto che non era stato aggiunto nulla nel tempo, a quello che avevo scritto io all’ inizio dell’ attività. La cosa non mi meraviglia, anzi è solo la conferma di quanto ho sempre pensato, e di quanto aveva ragione il nostro illustre compaesano, don Luigi Conter, nel suo libro FATTI STORICI DI LIVO, quando lamenta e denuncia l’ incapacità di questa gente di conservare delle memorie storiche scritte, con le quali, poi, si possono ricostruire fedelmente tutti i passaggi delle attività svolte e dei mutamenti sociali e politici della nostra società, un peccato, perché è un pezzo di storia che è andato perduto. Della piccola cerimonia della consegna delle tessere ai nuovi Soci del neo costituito Gruppo di Livo, conservo, gelosamente, il video che ho masterizzato passandolo dal VHS al DVD, allora erano presenti anche il presidente la SAT di Rumo, signora Franca Bertolla che era da poco succeduta all’ amico Paolo Torresani che la affiancava come vice, ci avevano dato come sede sociale, una sala a piano terra della casa ITEA di Varollo, che condividevamo con la Polisportiva Tre comuni, era stata una bella cerimonia, semplice e sobria, in quell’occasione si era anche ufficializzato il calendario delle prime escursioni in montagna del nuovo Gruppo. (conservo ancora il manifesto originale)

Così,la primavera del 1992, iniziarono le escursioni in montagna dalla SAT di Livo, dapprima timidamente, in luoghi abbastanza vicini e privi di rischi, in quanto , allora, erano presenti molti bambini e giovani, figli o parenti di Soci, uno dei tanti scopi dell’ Associazione, era infatti la promozione della passione per la montagna ai giovani, come simbolo di sano divertimento per il corpo e per lo spirito. Alla fine delle attività, nel tardo autunno, veniva infatti organizzatala castagnata sociale, alla quale erano invitati tutti i Soci e vi partecipavano anche delegazioni di sezioni SAT dei paesi limitrofi come lo stesso Rumo,dal quale dipendeva il Gruppo autonomo di Livo, Bresimo ed altre, era il modo per scambiarsi impressioni, idee e fare un bilancio delle attività svolte. Nel 1993, oltre alla classica attività escursionistica, il Gruppo di Livo si è reso promotore assieme alla sezione di Bresimo e con l’ appoggio di Rumo, di una bella iniziativa, la ricostruzione del capitello al lago Trenta ( alplaner see) dedicato alla Madonna. Il primo , e ben più imponente capitello, era stato edificato nel 1973 , su iniziativa del missionario Padre Alessandro Zanotelli di Livo, venne però realizzato in un posto troppo esposto alle valanghe e l’ inverno successivo una di queste se lo portò via… rimase solo un mozzicone di altare e la madonnina che venne fortunosamente recuperata da don Pio Dallavo l’ allora parroco di Bresimo che la conservò e venne poi riutilizzata nel nuovo capitello, molto più modesto del precedente, ma inespugnabile dalle valanghe. Tutto il lavoro di costruzione del capitello, venne ripreso dalle telecamere di Ezio Silvestri e Danilo Datres, quelle belle immagini sono poi servite per il montaggio di un bel video dal titolo LA MADONNINA DEL LAGO TRENTA, che venne presentato al pubblico in una serata organizzata dal Gruppo SAT di Livo,il 26 agosto 1993 .

Altra bella ed interessante iniziativa che mi piace ricordare, è la proiezione di filmati della montagna del compianto amico cineamatore Gilberto Daprai di Bolzano, innamorato delle nostre montagne e di una donna di Scanna, la signora Sandra Antonioni. Organizzata dal Gruppo di Livo e dalla Sezione di Bresimo, venne proposta nella sala consiliare del comune di Bresimo, fu una manifestazione apprezzata dalla gente, in quanto le riprese erano state fatte sui nostri monti e gli attori erano la nostra gente montanara e semplice. Voglio sottolineare un piccolo particolare, che la dice lunga sul difficile rapporto che corre tra la frazione di Preghena ed il resto del mondo, la proiezione dei filmati era prevista nella piazza principale di Livo, si dovette ripiegare su Bresimo, per il fatto che a Preghenac’ era la sagra di S. Anna, patrona di quella parrocchia e la manifestazione di Livo sarebbe stata vista come un boicottaggio a Preghena, era così prima di allora, e stato così allora ed è così anche adesso.

Il piccolo gruppo di Livo, cominciò ad essere conosciuto nel circondario ed anche fuori, per la sua attività semplice ed umile ma efficace e mirata e cominciò a crescere il numero dei Soci anche provenienti da fuori paese. Decidemmo, allora, di chiedere alla locale Cassa Rurale un contributo, ci venne pagata la carta intestata e ci venne dato un contributo per l’ aquisto di materiali vennero aquistati dei bastoni da montagna e mi pare delle magliette per i più giovani, era un incentivo alla partecipazione alle nostre attività, voglio ricordare che il CAI – SAT, vive con il finanziamento che proviene dal tesseramento sociale, del quale una parte và alla sede centrale, non ricordo la percentuale, ed un'altra resta alle sezioni per la normale amministrazione.

Avevamo iniziato anche ad organizzare delle gite in pullman, ricordo la prima in Svizzera nel cantone dei Grigioni, molto partecipata e ben organizzata. Potevo contare su validi collaboratori e collaboratrici, una in particolare voglio ricordare, per la sua grande affidabilità, la sua competenza e la sua dedizione, la signora Marcella Zanotelli, che era la cassiera del gruppo, ma che fu quella che più aveva capito la filosofia che esso rappresentava e proponeva.

L’ ultimo evento che ho organizzato, come responsabile del Gruppo di Livo, è stata la castagnata sociale del i993 , venne preparate nella sala parrocchiale a fianco la vecchia sede della Cassa rurale a Varollo, come al solito mandai l’ invito ai Soci, alle Sezioni limitrofe ed invitai, per riconoscenza, il Presidente il CDA della Cassa rurale, signor Maninfior Benito ed il Direttore la medesima signor Agosti Gianantonio, il quale, alcuni giorni prima, mi chiamò presso la banca e mi disse che se per noi non era un problema, alla castagnata sarebbe venuto tutto il CDA, che era convocato proprio per quella sera, una decina di persone in tutto, e che se avessimo avuto delle spese in più le avrebbe sopportate la banca, mi disse che darebbero arrivati abbastanza tardi, verso la mezzanotte, per bere un bicchiere di vin brulè e mangiare alcune castagne, ma soprattutto per concludere in allegria ed armonia l’ anno,

Naturalmente io accettai la richiesta, anche per il fatto che ci avevano dato un cospicuo finanziamento di recente, ma soprattutto per lo spirito di filantropia e di amicizia che animava la SAT, dissi la cosa alla direzione del gruppo, non a tutti, e mi sembrò tutto a posto. Non avevo però fatto i conti con i vecchi dissapori e le vecchie piccole e meschine lotte di potere e di competenze che da sempre hanno rovinato la vita sociale e politica di questo paese, infatti arrivato il momento di attendere l’ arrivo del CDA della Cassa rurale, cominciò a serpeggiare un clima fatto di piccole battute, di ironia, si disse che non sarebbe venuto nessuno, che ormai era tardi … insomma non c’era la volontà di attendere che i consiglieri della Cassa rurale arrivassero come avevano chiesto, ed alla spicciolata tutti se ne andarono lasciandomi solo, forse avrei dovuto comportarmi da “ fascista “ ed imporre la mia volontà, ma ho preferito lasciare andare le cose come dovevano andare. Il CDA della Cassa rurale arrivò circa venti minuti dopo che eravamo andati via noi, trovarono la sala chiusa e furono costretti a tornarsene a casa col becco asciutto. L’ indomani, ricordo, che trovai il Direttore a Livo, visibilmente scocciato mi chiese delle spiegazioni, gli raccontai come si erano svolti i fatti e, devo dire, che lui capì subito il problema perché conosceva bene questo modo ci comportarsi delle persone senza spina dorsale…

Il Giorno 14 dicembre 1993, scrissi due lettere: una di scuse al CDA della cassa rurale di Livo, che consegnai personalmente al Direttore, il quale si preoccupò che questa vicenda non mi provocasse dei problemi con l’ Associazione, lo tranquillizzai dicendogli che non ci sarebbero più stati problemi o malintesi, avevo , infatti, in tasca la lettera di dimissioni irrevocabili di responsabile del Gruppo SAT di Livo che consegnai alla segretaria signora Aliprandini Valeria, non mi fu mai risposto nulla in merito, nessuno si scusò mai del fatto che vennero messi alla porta dei benefattori del gruppo, ancora una volta la logica assurda e perdente delle piccole ripicche personali, dei piccoli rancori per un prestito negato o per un presunto torto amministrativo , avevano avuto la meglio sul ragionamento, sul buon senso, sul dovere di essere riconoscenti nei confronti di tutti coloro che ci hanno fatto, in qualsiasi modo, del bene.

 

Qui si apre un vuoto di informazione e di cronaca che è proseguito nel tempo, fino ai giorni nostri e che, credo, prosegue tutt’ ora, è stato un vero peccato che la Segretaria del gruppo non abbia trovato il tempo, o non abbia ritenuto opportuno, riportare, anche per sintesi, di anno in anno l’ attività svolta, le idee, i pensieri dei soci le decisioni prese o non prese…

Conservo ancora molto materiale dei primi anni della SAT, come avvisi, programmi ed in modo particolare tutti i video delle escursioni ed il video integrale della realizzazione del capitello al lago Trenta, video storici che ormai hanno venti anni bello sarebbe stato avere un archivio di documenti ed immagini da poter ora consultare o rivedere, e non mi stupisce che con il passare del tempo, anche i toponimi cari ai nostri padri ed ai nostri nonni e tanto contesi dai cacciatori, cambino di dizione, come ad esempio, la malga Binaggia che è diventato Binasia.

 

Dopo un vuoto di venti anni, durante i quali ho perso il contatto con la SAT e non solo, per la mia libera scelta di isolarmi da questo mondo che non mi ha mai capito e che mi ha profondamente deluso, quest’ anno, 2011, ho accettato l’ invito della SAT a partecipare alla cerimonia di inaugurazione del bivacco Binagia, ho partecipato volentieri e la mia collaborazione è stata il servizio fotografico ed il comunicato stampa ai quotidiani locali, al Bollettino Sat, al periodico NOS magazine ed al giornalino del Comune di Livo Mezalon. Riporto qui sotto, l’ articolo che racconta la cronaca di quella giornata in montagna, dell’ inaugurazione del bivacco, della festa che ne è seguita, dei discorsi delle Autorità, del fatto che l’ attuale Presidente Marco Agosti, mi abbia voluto vicino, e per me è stata una gradita sorpresa, al momento del taglio del nastro del manufatto, un’ opera bella e necessaria, realizzata con tanto lavoro volontario donato dai satini e da simpatizzanti il Gruppo SAT di Livo, ora divenuto adulto, quella creatura che vent’ anni or sono avevo contribuito, con tanto sacrificio, a far nascere.

 

Altra nota stonata, che denota un endemica e strisciante ignoranza che imperversa, incontrastata, in questo paese, la si può racchiudere e stigmatizzare in questo piccolo episodio, al momento dell’ invito a partecipare alla cerimonia di inaugurazione del bivacco, con relativo spuntino, mi sono premurato di consegnare al capogruppo Marco Agosti, un piccolo simbolo della mia partecipazione, da esporre nel bivacco. Ho pensato ad un quadretto con una pergamena dentro con una breve riflessione sulla montagna, che è stato appeso ad una parete del bivacco. Un altro simbolo, che è presente in tutti i rifugi ed i bivacchi d’ Italia, è la bandiera nazionale.

Avevo in casa una piccola bandiera, di quelle in nylon, che non sbiadiscono e non si deteriorano con il tempo, sulla banda centrale, bianca, si poteva leggera una scritta in lingua russa, inneggiante alla pace, l’ aveva scritte la mia amica Polina che avevo ospitato con i bambini di Chernobyl nel 1998. Sarebbe bastato una piccola asticella , anche di legno, da porre all’ ingresso, come avevo suggerito…

Non de ne fatto poi niente, perché un componente il Direttivo sat ha preso la cosa come un fatto politico, così mi è stato riferito del capo gruppo Marco Agosti, de questo non è ignoranza, ragazzi… anche se mi sorge , legittimo, un sospetto, che oltre alla marcata e grave ignoranza che si evince in questo episodio, non ci sia stato anche un altrettanto grave pregiudizio nei miei riguardi, considerato il mio passato di militante in un partito di estrema destra, al quale ho aderito sin da giovane e di cui vado fiero ed orgoglioso.

 

 

 

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FESTA DI INAUGURAZIONE DEL BIVACCO

 

BINAGGIA

 

Domenica 31 luglio, allietata da una splendida giornata di sole, da un cielo limpido ed azzurro, tipico dei nostri monti, presso la malga Binagia di Livo ,ha avuto luogo l’ apertura e la presentazione ufficiale al pubblico , dell’ omonimo bivacco.

Ricavato nel lato ovest della malga, dato in gestione dall’ ASUC di Livo al locale Gruppo S.A.T. che ha provveduto ad arredarlo in modo essenziale e piacevole .

Dopo la S. Messa celebrata dal parroco montanaro, don Ruggero Zuccal ed accompagnata dal coro parrocchiale di Tassullo, è seguito l’ intervento del Presidente il Gruppo SAT di Livo, Marco Agosti, che ha fatto una breve retrospettiva storica del manufatto: da una malga d’ alta quota, grazie all’ aiuto di tanti volontari che hanno prestato la loro opera, si è potuto ricavare un luogo di ristoro e di riposo per tutti gli amanti delle lunghe escursioni in montagna.

Realizzato su proposta dell’ ASUC di Livo, ed auspicato dalla SAT centrale di Trento, il bivacco Binagia risolve definitivamente i problemi di transito sul sentiero più lungo del Trentino, il numero 133 Aldo Bonacossa, garantendo un sicuro riparo a chi lo percorre, ed un comodo rifugio per la notte.

Quando entri nel bivacco, guarda in alto, vedrai una Croce, con un Cristo, ricavato da una radice di Ginepro, che madre natura ha forgiato con le caratteristiche di un Crocifisso.

Nella travatura sottostante, puoi leggere una frase che dice :

Questo bivacco per oggi è casa tua, trattalo come tale. Grazie “

Rispettali !

 

Unanime ed incondizionato il plauso delle Autorità presenti, il Sindaco di Livo Franco Carotta ha evidenziato il feeling tra l’ ASUC e la SAT, che ha permesso la costruzione del bivacco e l’ impegno profuso da Marco Agosti e dei Satini nella realizzazione dell’ opera, congratulandosi, poi, per l’eccellente organizzazione e le numerose persone presenti, fatto per nulla scontato, ma dovuto al grande amore per le montagne.

Sono intervenuti, inoltre, il Presidente dell’ ASUC di Livo e Consigliere della Cassa rurale Tuenno val di Non, Flavio Conter, che ha ricordato l’ impegno del Comitato frazionale e della CRA. Il Consigliere Regionale Zanon Gianfranco, ha portato il saluto del Presidente la Provincia di Trento Lorenzo Dellai.

Sandro Magnoni che ha portato il saluto della S. A. T centrale di Trento, ha sottolineato il ruolo attivo del Gruppo SAT di Livo, sempre presente dove e quando serve, e il sindaco di Cis, Mengoni Fabio.

Al taglio del nastro, il Presidente Marco Agosti ha voluto vicino a se il fondatore del locale Gruppo, Bruno Agosti.

La serata, è poi proseguita con uno spuntino offerto dalla SAT di Livo ed allietata da tanta musica ed allegria.

 

Per la SAT di Livo

Bruno Agosti

 

 

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IL BIVACCO

 

 

Bivacco: sinonimo di precarietà nella vita, della necessità di riposare , dopo una lunga marcia. Si bivaccava la notte, in tempo di guerra, dopo una marcia estenuante di ore, sotto il peso dello zaino, del fucile,del munizionamento, e si passava la notte nei bivacchi di fortuna, spesso una tenda, in attesa dell’ alba, dove ad attenderti c’era solo il destino, ed un nemico che aveva le tue stesse paure e le tue stesse preoccupazioni, era diverso solo nel colore della divisa…

 

Bivaccare, era anche quando i nostri nonni, salivano le nostre montagne per falciare il fieno, si portavano la falce , il martello la plantola e la preda, la moglie, fedele, lo seguiva portando la farina per fare la polenta, una lucanica e del formaggio, il latte e l’ acqua veniva regalati dai pastori delle malghe. Dopo una giornata di duro lavoro, calava la sera e si faceva notte e si trovava rifugio nel bivacco più vicino, ed il giorno successivo si riprendeva il lavoro della fienagione, e tante volte salivano in due, e ritornavano a valle in tre…

 

Bivacco, un luogo sacro, da onorare con il rispetto dovuto ad un grande vecchio amico che ti sa dare ristoro, che ti ospita per una notte, tu con la tua morosa, e custodisce i segreti più intimi con un cuore grande e puro come quello di un bambino, che ascolta i tuoi pensieri più profondi e ti invita ad uscire e guardarti attorno, per trovare quelle risposte che solo qui puoi trovare, perché sei tanto vicino al Cielo.

 

Ultima nota triste che propongo all’ attenzione dei lettori, che racchiude in se ed è emblematica del clima di sospetti, invidie e veleni, che hanno da tempo impregnato le vita sociale ed amministrativa di questa comunità, è il traumatico cambio ai vertici dell’ Associazione. Infatti, il capogruppo, Marco Agosti, che per ben 18 anni ha retto, con lodevole ed unanimemente riconosciuto impegno, l’ Associazione, è stato quasi cacciato dal suo ruolo,con pesanti accuse, con il solito clima di sospetti e di maldicenze, ordito, per lo più, da coloro che prima avevano solo saputo criticare il suo operato e che ora, preso il suo posto, non riescono a fare neppure quello che aveva fatto Lui.

In questo paese chi ha la buona volontà di prestare il suo tempo, il suo sapere e la sua esperienza a favore del sociale, viene quasi sempre alla fine accusato di averci >” mangiato sopra “, e questo ha generato un clima di sospetti che mai nessuno ha saputo o voluto stroncare sul nascere, alimentando ed avallando in questo modo le dicerie e le fregnacce popolari.

Nulla invece si è mai eccepito sul fatto che il Sindaco ( 1500 euro al mese ) di turno la sua Giunta ed i consiglieri comunali, vengano ben retribuiti con soldi pubblici, molte volte per gestire una politica sociale completamente assente e realizzare delle opere pubbliche di dubbio valore architettonico e funzionale ed invise alla maggioranza della popolazione che quando è chiamata a scegliere con il voto riconferma le stesse persone che proseguiranno poi così, indisturbate, gli stessi errori e le stesse scelte sbagliate delle legislature precedenti.

 

Con cinica ipocrisia, si è pensato , poi, di sanare il tutto, donandogli una targa come simbolo di riconoscenza, in una manifestazione pubblica, indetta dalla SAT. Ho dato io , al signor Claudio Agosti, le foto del bivacco, con le quali è stato ricavato il quadro. C’ è da dire , per onore della verità, che tutta questa operazione, si è tenuta in aperto ed evidente contrasto con la moglie di Marco, la signora Ferrari Annamaria, la quale , per protesta, il giorno della consegna del riconoscimento, era assente, impegnata altrove…

Come da copione, c’è da rilevare, che in questo paese i problemi, da sempre, si tenta di risolverli prendendo il toro per la coda, anziché per le corna.

Auguri !!!

 

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LA TRAGICA FINE DI MARIA DEPEDER

 

(Racconto biografico)

 

 

La storia che ora vado a narrare, me l’ha raccontata mio padre, quando io ero ancora ragazzino, e devo dire che mi ha colpito nel profondo dei sentimenti di un uomo sensibile al dolore ed ai drammi umani, come si può classificare questo episodio.

Maria Depeder, era una ragazza di Bresimo, aveva 22 anni, era nata nel 1931, una bella ragazza, che però ebbe la sfortuna di incappare in una di quelle storie, frequenti in quei tempi, dei matrimoni cosiddetti combinati. In altre parole, era il risultato di un compromesso tra i parenti della sposa e quelli dello sposo, per arrivare ad un matrimonio di convenienza tra due persone di sesso diverso, che non si amavano di amore proprio, ma gli veniva imposto da terze persone, per la maggior parte dei casi, per conto del marito, che non riusciva a trovare moglie, ma che aveva abbastanza ascendente e potere per potersene procurare una, anche contro la volontà della ragazza interessata. Il vero dramma di questa vicenda sta proprio nel fatto che Maria Depeder non amava per nulla il marito, ma era stata costretta a sposarlo per il gioco ignobili e medioevali dei suoi parenti.

Nei piccoli paesini di montagna, specie in quelli dove la strada termina per lasciare il transito a mulattiere che portano alle malghe, dove la gente deve convivere ed ha rari rapporti con il resto del mondo, in queste comunità nascono e prosperano i fiori del pettegolezzo, dell’invidia, della maldicenza e dell’infedeltà coniugale.

Così un certo Dallatorre Serafino si divertiva a raccontare strane storie sentimentali che sarebbero intercorse tra lui e la signora Maria moglie dello Zogmeister, contribuendo così ad accrescere la gelosia fortemente presente nell’uomo dal carattere instabile ed insicuro e questo pettegolezzo ben presto circolò tra le comari del paesino con effetto devastante sulla psiche tormentata dell’uomo.

 

Per ricostruire questo episodio tragico, mi sono avvalso di un giornale dell’epoca che ricostruisce fedelmente l’intero episodio, mi sia consentito anche fare un breve cenno sui giornalisti di allora, che sapevano descrivere gli avvenimenti in maniera semplice ed esaustiva, senza lasciare spazi ad alcuna altra interpretazione o speculazione, raccogliendo le notizie alla fonte e di prima mano, per poi raccontarle con precisione e dovizia di particolari al pubblico, verso il quale si sentivano legati da un patto, mai scritto, di reciproca fiducia, in nome della libertà di stampa e della veridicità delle notizie, come allora fece l’ inviato dell’ “ALTO ADIGE”, Massimo Infante.

 

Ad imporre una breve tregua al tormentato rapporto dei coniugi Zogmeister, forse, ci pensò la piccola Carla, nata nel 1953, ma fu una tregua breve, poi ripresero, naturalmente, le incomprensioni, le diffidenze, di una coppia costretta a convivere senza quell’amore e quella passione che da vita nuova, giorno dopo giorno, alla coppia e permette che l’unione tra due sessi diversi si concretizzi e trovi le giuste dimensioni dettate dall’desiderio e dall’amore reciproco. Il giorno 15 gennaio 1954 Maria assieme al marito Dario decidono di recarsi al mercato di Cles per fare degli acquisti e dei regali per la piccola Carla.

Scendono a piedi fino a Preghena, dove salgono sulla corriera della linea privata di Vender Livio, che copre la tratta da Rumo a Cles, ma che non transita per Bresimo per via della strada che passa nell’abitato di Preghena e che, a causa dei “ponti” che sovrastano la strada, rende impossibile il transito a camion e autobus. Durante il tragitto a piedi da Bresimo a Preghena il signor Zogmeister incontrò un abitante di Bresimo il signor Fauri Angelo con il quale si mise a chiacchierare del più e del meno, ad un certo punto allo Zogmeister venne sete ed allora aprì lo zaino per prendere una bottiglietta di vino e dissetarsi, fu allora che il signor Angelo notò che nello zaino assieme alle poche cose c’era una grossa lima senza il consueto manico in legno che serve da impugnatura e gli sorse spontanea una nella mente una domanda : - Ma che se ne n’ faral po dre de na lima se l’ bà al marcjà ? – (cosa gli servirà la lima se va al mercato?) e rimase con questo interrogativo senza chiedere spiegazioni all’uomo. (Questo particolare riguardante la lima l’ho scoperto per caso molti anni dopo parlando con il figlio del signor Angelo Fauri, per questo il giornale riporta una versione diversa: quella del ritrovamento casuale dell’utensile.)

Arrivati a Cles, fanno gli acquisti che avevano previsto, poi si recano presso il ristorante “Centrale” dove consumano un pasto caldo prima di riprendere la corriera che porta verso Preghena e la strada per Bresimo. Nulla fa pensare che tra poco una tragedia si sarebbe abbattuta sulla coppia di giovani sposi.

Scesi dal pullman, alla fermata di Preghena, i due sposi si fermano, nuovamente, in una locanda del luogo, dove consumano ancora un pasto prima di intraprendere la strada per Bresimo.

Passando davanti alla bottega del calzolaio Augusto Corazza, la cui moglie è compaesana di Dario Zogmeister, l’ uomo si ferma per un saluto, intanto si erano fatte le 2 del pomeriggio, quando l’uomo lasciò il calzolaio per dirigersi verso un trattore adibito al trasporto di legname, che portava , casualmente, i viandanti verso Bresimo, Dario fece cenno al conducente di fermasi, ma il trattore era già carico di gente a sufficienza ed i due coniugi non poterono salire; sul mezzo era salito pure il parroco di Bresimo don Bruno Marini.

- Non importa, disse Dario - con un’alzata di spalle “

I coniugi Zogmeister, si avviarono così, a piedi, verso Bresimo che dista da Preghena circa 5 chilometri, ma la tragedia che si sarebbe compiuta di lì a poco, era molto più vicina, poco più di un chilometro di strada, durante questo tragitto, ii due sposi, probabilmente si sono messi a discutere di qualche cosa di molto importante e personale, Maria era incinta da poco di un secondo figlio, stato confermato poi nell’autopsia eseguita dal prf. Rigon, sembra che l’uomo fosse una persona dal carattere instabile, che molto spesso si allontanava da casa per parecchi giorni senza dare spiegazioni, il giornalista dell’“Alto Adige” lo definisce un tipo “ozioso”, ma, a mio parere, tutto quello che doveva essere e che mancava in modo assoluto, in quella coppia di sposini, lo si può riassumere in una sola parola: tra i due, mancava l’AMORE.

Arrivati all’altezza della attuale cava di sabbia, dove la strada aveva una serie di strette curve e passava sopra un piccolo ponte di pietra e sul lato sinistro c’era una piccola radure con delle conifere, la discussione tra i due, degenerò in lite e l’ uomo preso dall’ira, forse per la gravidanza non voluta, forse per delle altre accuse che gli venivano contestate dalla moglie, in merito al suo comportamento e altro ancora, tirò furi una lima che aveva portato con sé da casa, e con la parte appuntita, dove viene inserita l’impugnatura in legno, inizio a colpire la povera Maria, in modo selvaggio e violento, con un ira furibonda e cieca. La donna venne colpita in più parti del corpo, al petto alla schiena, ma il colpo che risultò essere stato mortale fu quello alla gola che le recise la carotide. L’uomo trascinò poi la moglie agonizzante nel bosco sottostante, abbandonandola al suo destino di una morte per dissanguamento, e si diede alla fuga.

Scese verso valle, attraverso il bosco, fino a raggiungere il torrente Barnes, seguì il corso del torrente, verso valle, fino a raggiungere la segheria del signor Oreste Bonani, dove venne morso dal cane da guardia mentre scappava in direzione di Mostizzolo.

Incontrò un suo conoscente di Bresimo che si chiamava Arnoldi Ezio, al quale chiese un passaggio sulla sua motoretta fino a Cles, arrivato nel capoluogo Anaune, si recò presso l’autofficina Calai dove noleggiò un’automobile con la quale si diresse verso il passo della Mendola dove si trova il suo paese natale.

Il maresciallo Filetti, comandante della stazione dei carabinieri di Rumo, avvertì telefonicamente la tenenza di Cles che istituì dei controlli: ormai tutte le strade della zona erano pattugliate da decine di carabinieri e poliziotti ed il cerchio attorno allo Zogmeister si faceva sempre più stretto. Dopo una notte passata all’addiaccio nei boschi della Mendola ancora innevati, i carabinieri del tenente Russo, lo arrestarono mentre tentava di avvicinarsi alla sua casa natale.

Finiva così la fuga di Dario Zogmeister, che venne rinchiuso nel carcere mandamentale di Cles, per poi essere processato per omicidio volontario.

Qui finisce il racconto, dettagliato e preciso del giornalista dell’Alto Adige, e finisce anche la storia di un amore mai nato, imposto da una logica assurda e barbara che niente ha a che vedere con il vero amore. Che nasce, spontaneo, tra un maschio ed una femmina, ch non ha una logica ed una misura che noi possiamo capire, che non ha età e non ha distanze, che non ha un colore della pelle, un’etnia o una politica, che nasce perché la natura ha bisogno di questo amore per poter proseguire nel tempo e portarsi dietro tutti gli esseri viventi.

 

 

Alla fine di questo dramma, vorrei fare una personale considerazione riguardo allo stato sociale ed umano della donna nei secoli scorsi fino all’avvento del benessere economico negli anni ’70 – ’80.

Allora esistevano le famiglie così dette patriarcali, tutte numerosissime di componenti, dove ci si faceva carico di tutti i componenti fino alla loro morte o fino a quando le figlie non trovavano merito e lasciavano definitivamente ed in modo irreversibile la casa materna per doversi adattare alla casa del marito e di tutti i componenti di un'altra famiglia patriarcale che diventava di fatto anche la sua nuova famiglia con pari diritti e doveri, ma talvolta non con pari dignità. Nella maggior parte dei casi la donna lasciava la casa paterna per seguire il grande amore della vita, sogno di tutte le femmine, ma c’erano poi dei casi in cui la donna era costretta ad andarsene dalla casa paterna per varie ragioni come la mancanza di spazio o di cibo per tutti o per dissidi tra famigliari allora le alternative erano due: - o ti sposi o vai suora -. Nella maggior parte dei casi la donna andava in sposa ad un uomo che non era proprio il suo principe azzurro, ma faceva buon viso a cattiva sorte e col tempo le cose si aggiustavano con una convivenza tranquilla. I casi peggiori e più odiosi erano quelli dei matrimoni combinati a tavolino da parenti e amici e poi imposti alla donna con minacce e ricatti come nel caso che qui ho narrato. Quando si parla di violenza sulla donna fino al femminicidio bisogna distinguere tra i comportamenti di oggi dove la donna è più emancipata ed auto indipendente e la scelta di sposarsi o di convivere non è più una scelta definitiva per Legge e neppure per etica, ecco che allora ogni piccolo screzio o incomprensione diventa motivo di liti, di separazioni e nei casi peggiori di femminicidio. Nei secoli scorsi la donna che lasciava volontariamente o sotto pressioni di altri la casa paterna era consapevole di una scelta definitiva ed irreversibile, non poteva dire: - Torno da mia madre – perché sapeva di non essere più accolta in quella casa, ed allora faceva di tutto per adattarsi alla nuova situazione famigliare. Non mancavano neppure allora le violenze dei mariti verso la moglie, ma per la maggior parte dei casi erano dovute alla miseria economica e sociale per la quale tanti maschi cercavano rimedio passeggero nell’alcool e quando tornavano a casa ubriachi se la prendevano pure con la donna e dopo aver magari rotto piatti e stoviglie il giorno dopo a mente serena andavano al negozio e li ricompravano facendo altri debiti… I casi di femminicidio erano rarissimi, tutto si aggiustava, non si buttava nulla e si continuava la solita vita con la donna che partoriva un figlio all’anno, che doveva lavare i “pangei” alla fontana, che doveva cuocere la polenta, che doveva governare le mucche nella stalla e la sera a letto doveva pure accondiscendere alle richieste sessuali del marito, allora la vita era così, grama e dura, ma forse più umana e serena con una frotta di bambini da sfamare e da accudire,

le scuole materne ed i nidi vennero molto più tardi seguiti poi dalle “Leggi di civiltà” del divorzio e la Legge 194. Difficile in tragedie come questa cercare delle attenuanti, dei se e dei ma, sembra un pozzo nero senza soluzione di continuità, eppure a guardare con attenzione in tanto buio si può scorgere una tenue fiammella di vita, il martirio di Maria non è stato inutile, lei ha lasciato che la sua vita continuasse con la piccola Carla che si è fatta una bella famiglia ed è il segno che la vita, nonostante tutto, continua ancora e continuerà per sempre…

 

Fonte delle informazioni: giornale ALTO ADIGE – Cittadini del luogo.

 

Bruno Agosti

 

 

 

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TILT – GAME OVER

 

tra i numerosi simboli della riaquistata libertà importati dagli Stati Uniti nel dopo guerra c’ erano i giochi dapprima eleettrici e poi elettronici che avevano invaso i bar ed i locali riservati ai ragazzi della scuola media e superiore. Tra quelli che ebbero maggior diffusione e maggior successo di pubblico c’ era il FLIPPER che ora vado a descrivere. Il flipper era un apparecchio elettrico a contatti dalla forma di una sedia allungata sulle gambe dallo schienale dritto a 90 ° a dal sedile allungato e leggermente inclinato di poche gradi in avanti era montato ad un altezza di circa un metro su quattro gambe in acciaio che lo alzavano da terra, avevano tutti in comune due pulsanti alla base che azionavano due leve poste in basso in un passaggio obbligato e servivano per mantenere in gioco una pallina di acciaio che veniva respinta verso l’ alto dalle due leve, insomma come un portiere nel gioco del calcio o dell’ hokei. Il gioco consisteva nel mantenere la palla dentro un labirinto di vie e viuzze costellato di funghi e corridoi con deigli ostacoli che si aprivano al passaggio della pallina e determinavano il punteggio finale del gioco. Il tema dei giochi dei flipper era il più svariato e fantasioso ma si svolgeva sempre alla stessa maniera: prima operazione indispensabile che ti indicava il display era “ insert coin “ e bisognava mettere una moneta da cento lire poi il gioco iniziava e la infernale macchinetta ti metteva a disposizione cinque palline sul lato destro in una canaletta e per metterle in gioco bisognava tirare mediante un grosso bottone una molla che spingeva di brutto la pallina verso l’ alto ed iniziava a scendere urtando nei vari ostacoli e dandoti dei punteggi, quando si avvicinava al canale di uscita bisognava essere pronti ed abili con i pulsanti a far scattare le leve che la rimettevano in gioco che proseguiva fino all’ esaurimento di tutte le palline luccicanti. La bravura e l’ esperienza del giocatore consistevano anche e sopratutto nel muovere la macchinetta per direzionare la pallina senza che questa andasse in “ tilt “ che era la parola maledetta che ti appariva quando muovevi troppo il flipper e la partita si interrompeva di brutto togliendoti i punti e le cento lire ed appariva la grande scritta sullo schermo “ game over “ avevi perso, il gioco era finito. Bisogna ammettere e dare lode al flipper perché era un gioco che non ha mai creato ludopatia nei giocatori e che in caso di vittoria guadagnavi una nuova partita da giocare ed in caso di tilt ti si interrompeva il gioco ma in entrambe i casi spendevi sempre cento lire. Oggi ci sono dei giochi diabolici che ti obbligano ad investire tanto denaro con l’ illusione di grandi vincite che possono cambiarti la vita, ed infatti te la cambiano perché nel 99 per cento dei casi perdi il denaro che hai investito e ti interstardisci nel continuare a giocare finché il gioco non diventa una vera e propria ossessione che degenera in una patologia detta ludopatia che è ormai divenutta una piaga sociale dai costi umani e finanziari notevoli, che hanno costretto la sanità pubblica ad aprire dei Centri di assistenza e disintossicazione da gioco. In molte famiglie dove è presente in uno dei componenti detta patologia si possono verificare degli episodi di violenza per la mancanza di denaro che il giocatore pretende sempre più insistentemente per poter soddisfare la sua fobia del gioco, con la pandemia di COVID 19 il problema si è ulteriormente aggravato fino a divenire una vera e propria emergenza sociale. Noi non siamo un popolo abituato a questi cambiamenti repentini nella società, non siamo in grado di sostenere questo tipo di società all’ americana che dopo averci propinato la gomma, il fast food ed altre diavolerie ci vende l’ illusione di un rapido e facile arricchimento tramite il gioco d’azzardo che ora imperversa anche on line. Benedetto il caro e vecchio flipper. Del flipper ora è rimasto in uso comune nel lessico italiano il termine “ tilt “ usato per descrivere una forma di interruzione improvvisa della normalità di una persona, di una macchina o di un sistema sociale, ed è un termine usato con sempre più frequenza. Segno dei tempi che cambiano velocemente …

 

 

 

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LA CHIESA PARROCCHIALE DI VAROLLO

 

Chiesa della Natività di Maria (Livo, Trentino-Alto Adige)
Storia
Edifici preesistenti
Forse già dal I secolo, o più probabilmente dal IV, sul sito della chiesa medievale esisteva una torre di avvistamento romana. Indagini archeologiche localizzate all'esterno di una cappella hanno individuato resti di un altro edificio, databile entro il VI secolo. Ulteriori ricerche hanno poi permesso di ricostruire la presenza, entro il X secolo, di una primitiva chiesa con orientamento verso est e con un'area adibita a camposanto nella sua parte posteriore.
Edificio medievale
La prima struttura riferibile alla chiesa in seguito documentata in modo specifico venne edificata probabilmente tra l'XI e il XIII secolo, e si trattò di una chiesa di maggiori dimensioni con orientamento verso sud. Sembra verosimile che tale edificio inglobasse la preesistente piccola cappella. La prima documentazione di questo edificio venne riportata implicitamente dal plebano di Varollo nel 1214 (forse anche nel 1208[2]) anche se la documentazione che cita in modo specifico la chiesa arrivò solo nel 1309.[1]
All'inizio del XIV secolo la chiesa fu oggetto di un ampliamento che portò ad una sala di dimensioni paragonabili a quelle che ci sono pervenute e ad una nuova zona absidale che comprese l'antica costruzione. Dopo l'ampliamento iniziò una fase di arricchimento decorativo. Vennero così realizzati affreschi sulla facciata e negli interni: Madonna con Bambino, Santa Maddalena, San Giorgio e la principessa, San Cristoforo, Deposizione e Sant'Antonio. I primi eseguiti attorno al XV secolo e alcuni riferibili a maestri bergamaschi legati ai Baschenis. La campana più antica venne fusa nel 1463.[1] Edificio moderno
Tra il 1516 ed il 1570 venne edificata la cappella laterale della confraternita di San Fabiano e San Sebastiano. Poi parte dell'edificio venne demolito per essere riedificato di maggiori dimensioni anche in altezza. Nuovi ampliamenti vennero realizzati nel XVII secolo, come la nuova grande sacrestia. Una nuova e più grande campana venne fusa nel 1630 e nello stesso anno si iniziò a rifare la pavimentazione della sala.[1]
Affresco nella loggia della chiesa della Natività di Maria.
Durante la prima metà del XVIII secolo venne rivista l'area presbiteriale che venne dotata di una nuova pavimentazione e venne restaurata in varie parti poi, nella seconda metà, venne completata la torre campanaria con una nuova cuspide in legno e fu costruito il pulpito nella sala.[1]
Col nuovo secolo venne rifatta la pavimentazione della sala poi, nel 1824, dal punto di vista della giurisdizione ecclesiastica Varollo venne legato alla Val di Non. Negli anni quaranta parte delle grandi vetrate fu sostituita e il perimetro interno della sala venne rivestito con marmo rosso trentino.[1]
Negli anni cinquanta fu rivista la pavimentazione della sacrestia e si iniziò un restauro ultimato nel decennio seguente che ripristinò l'aspetto della sala, togliendo le lastre di marmo, e curò le parti esterne attorno all'edificio, oltre al rifacimento delle tinteggiature. A partire dal 1971 i tetti della chiesa e della torre vennero rifatti utilizzando scandole in larice, furono elettrificate le campane e l'intera struttura venne consolidata. Vennero anche riportati alla luce gli affreschi della facciata. Gli ultimi lavori si sono conclusi nel 2008. La facciata venne dotata di una tettoia con copertura in piombo e acciaio. La pavimentazione della sala venne rinnovata e vennero risanate le intonacature con interventi per la protezione contro la risalita dell'umidità.[1]
Descrizione
La navata è in stile gotico-rinascimentale. I tre altari lignei sono barocchi, dorati e finemente intagliati. Sull'altare di sinistra tela di Gabriel Kosler. L'altar maggiore monumentale è opera di Domenico Bezzi (padre di Bartolomeo) mentre la pala è attribuita a Carlo Pozzi.

 

LA MACABRA SCOMMESSA

 

durante le lunghe ed afose sere d’ estate i giovani del luogo usavano riunirsi nella piazza principale del villaggio per socializzare tra loro, scambiarsi le impressioni ed i commenti sul lavoro svolto quel giorno e su quanto avrebbero dovuto fare il giorno seguente. Ognuno raccontava, vantandosi , del lavoro svolto e della grande fatica ed impegno che gli erano costati, ma nessuno mai si lagnava e prometteva solennemente che il giorno dopo avrebbe fatto di meglio … perché ad ascoltarli erano arrivate le fanciulle del paese tutte ben pettinate, con le lunghe gonne scure ricamate con grandi fiori multicolori, ben strette alla cinta onde mettere bene in evidenza i seni prosperosi che attiravano lo sguardo ed il desiderio dei giovanotti tanto da renderli più baldanzosi ed audaci. Era stato così da sempre prima per i loro avi ed ora per loro, era l’ eterno miracolo della continuazione della specie che iniziava il suo corso per finire in certi casi in uno “ stabel “ colmo di fieno profumato e caldo per la fermentazione in corso. Era la vita che continuava, imperiosa, e chiedeva la collaborazione dei due sessi per poter continuare ad essere. I maschi facevano a gara per dimostrare alle femmine il proprio coraggio e la propria forza esibendosi in prove collettive di abilità, di forza ed astuzia per impresssionare le ragazze ed attirare la loro simpatia e qualche altra loro concessione che non andava mai oltre il classico bacio sulla guancia. Piano piano i ragazzi tra le chiacchiere intervallate da fragorose risate si avvicinarono alla chiesa e si sedettero sui muretti e sulla gradinata vicina all’ ingresso principale detto anche “ la porta granda “. mentre proseguivano le schiacchiere e le risate un gruppetto di ragazzi si allontanò dirigendosi verso il lato opposto della chiesa dove c’ era il cimitero con le croci di ferro battuto nere e poche lapidi monumentali appartenenti alle classi più benestanti del luogo, il cimitero

era disposto a semicerchio su tutto il lato sud dell’ edificio sacro che lo oscurava quasi per intero alla luce della luna piena di quella sera afosa di luglio rendendo il luogo ancora più spettrale, percorsero velocemente la stretta stradina di ciottolato a fianco alle tombe e si fermarono un attimo davanti ad una a cui mancava la croce ed l’ alto tumulo di terra fresca indicava una recente sepoltura. Uno di loro disse che lì era stata sepolta qualche giorno prima una povera donna del villaggio che viveva da sola e che era malata da tempo. Il gruppetto di ragazzi riprese la strada a ben presto sbucò nuovamente presso la gradinata dove gli altri giovani stavano tranquillamente conversando e ridendo di gusto e riferirono loro quanto avevano notato nel cimitero la sepoltura recente e l’ assenza della croce, per un momento si fece un silenzio quasi religioso tra i presenti, poi prevalse la spensieratezza e la vitalità giovanile e tutti ripresro i propri discorsi . Il giorno seguente i giovani come d’ abitudine ormai consolidata, si ritrovarono nuovamente nella piazza del paese per raccontarsi la giornata di lavoro trascorsa nei campi sotto il sole torrido di quella estate, la maggior parte di loro era stato impegnato nella trebbiatura del grano che a quei tempi si faceva a mano con il falcetto detto in dialetto nostro “ sesla “ , sul dosso di Barbonzana che a quel tempo era tutto coltivato a grano e patate, forma di coltura che durò fino al 1970 poi con l’ avvento dell’ irrigazione a pioggia tutti riconvertirono la produzione in mele molto più redditizia… ma ora siamo ancora nel 1800 e l’ agricoltura era finalizzata al sostentamento alimentare delle famiglie ed alto era il numero dei paesani emigrati nelle Americhe del nord e del sud in cerca di un lavoro e di migliore e fortunata vita e direi che molti ci riuscironoe fecero anche fortuna. Intanto i “ muli “come scherzosamente erano definiti dai grandi i più giovani, proseguivano a piccoli crocchi il loro passatempo serale con risate, canti da osteria e piccoli innocenti scherzi nei confronti delle ragazzine. Dopo alcuni minuti da una stradina laterale sbucò un ragazzo biondo che portava in spalla qualcosa di strano simie ed un piccone visto da lontano, ma man mano che si avvicininava la cosa apparve più chiara e ben visibile a tutti : era il figlio del falegname che portava una piccola croce in legno con scritto il nome della povera donna morta da poco; a quel punto il silenzio scese sulla piazza e tutti si radunarono in cerchio al giovane figlio dell’ artigiano il quale rivelò loro che ne aveva parlato con suo padre del fatto che la tomba della poveretta era senza il simbolo religioso della croce mentre tutte le altre ne erano provviste e nessuno avrebbe provveduto a fargline una in quanto non aveva nessun parente in vita . Tutti apprezzarono il gesto di grande umanità e generosità del falegname e così decisero di recarsi tutti in gruppo al cimitero per piantare la piccola croce di larice alla tomba della signora morta in povertà. Si avviarono per la stradina che portava alla chiesa ed al cimitero mentre già imbruniva , tutti in silenzio come in una processione liturgica, le ragazze avevano rubato dagli orti dei fiori per posare sulla sepoltura. Ad un tratto da una delle corti sbucò una vecchietta dal lungo abito scuro e la veletta calata sul volto nella quale si intravvedevano a stento i lineamenti ma si vedevano bene solo i suoi occhi pieni di curiosità. Chiese ai giovani dove fossero diretti e che cosa intendevano fare con quella croce, allora il figlio del falegname informò la vecchietta su quanto stavano facendo. La donna allora alzò il velo e affermò che tutto ciò era cosa buona e meritevole di grazia di Dio e sorrise al gruppo in segno di consenso ma poi improvvisamente cambiò espressione ed il suo volto divenne scuro come se fosse preoccupata da qualche cosa di terribile, richiamò a gran voce i giovani e ordinò loro di seguirla nella corte dove la luna poteva illuminare la zona e raccontò loro questo fatto : “ mia nonna mi ha narrato che quando lei era giovane come loro ed anche al suo tempo i “ muli “ si divertivano in piazza come oggi, una sera per dimostrare chi di loro fosse stato il più coraggioso proposero una scommessa : sarebbe stato il più coraggioso colui o colei che fossero andati al cimitero a piantare su una tomba una piccola croce di legno che avevano in precedenza costruito con due assicelle inchiodate tra loro ed appuntita dal lato che doveva essere piantata. Si recarono sulla scalinata della chiesa e lì chiesero se qualcuno era disposto a mostrarsi coraggioso ed andare nel vicino cimitero a piantare la croce. Vado io esclamò una ragazza , così quello l’ non potrà più dire che sono una fifona che ha paura di tutto, esclamò rivolta ad un ragazzo… prese la croce nelle mani e si avviò decisa verso l’ angolo della chiesa nella stradina buia che affianca le tombe e sparì alla vista. Passarono pochi minuti e poi si sentì la giovane urlare di terrore e chiedere aiuto in un pianto disperato che niente aveva più di umano. I giovani corsero verso di lei a vedere che cosa le fosse successo, la trovarono ormai impazzita dal terrore che si dimenava sopra la tomba senza riuscire ad alzarsi da terra. Era successo che per piantare la piccola croce si era inginocchiata sula tomba e complice l’ oscurità, aveva infilato la punta del legno nella lunga gonna inavvertitamente, quando fece per rialzarsi si sentì trattenere al suolo come se qualcuno la stesse tirando a se e venne presa dal terrore. A nulla valsero i tentativi degli amici di calmarla e riportarla alla ragione ed alla logica, morì dopo alcuni giorni senza più riprendere conoscenza “. i ragazzi rimasero molto colpiti da questa storia ma la vecchietta disse loro di andare tutti assieme a piantare la croce e posare i fiori alla povera morta “ e diseje su na rechia ancja par mi !

 

(Questo racconto è un episodio realmente accaduto in questo paese che ho potuto riportare grazie alla testimonianza della signora Zanotelli Nicolina del casato dei “ Tripoi “ )

 

Bruno Agosti

 

 

 

 

 

 

Bruno Agosti

v. Scanna, 17

38020 Livo –Tn-

e.mail: dux2000@live.it

3336072322

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I giorni delle bacche acerbe

 

 

Racconto autobiografico

 

 

di

 

Bruno Agosti

 

 

 

DEDICA

 

Alle mie amate donne, vive e morte, vicine e lontane, reali e virtuali, per la sincera e profonda amicizia che ho avuto da loro.

Dal loro esempio e dal loro coraggio ho imparato ad essere migliore.

 

 

INFORMAZIONE AI LETTORI

 

Ogni singolo brano di questo testo è separato da questo simbolo ***    ***

 

 

 

 

 

PROLOGO

 

 

I motivi che mi hanno spinto a raccontare, passo, passo, tutta la mia vita sin dalla nascita sono molti, ma soprattutto è un mio bisogno, un mio desiderio innato di voler raccontare tante storie e fatti di vita vissuta che ricordo , che mi sono stati cari o che comunque mi hanno accompagnato, fino a qui in questa mia vita tormentata dai miei tanti problemi.

I ricordi, a me restano solo i ricordi sbiaditi dalla luce, dal tempo che mi ha consumato gli occhi rendendomi quasi cieco, eppure quei ricordi di infanzia sono per me una fonte inesauribile di dolcezza, di puro confronto con la realtà bella di quando ero fanciullo e , spesso, la triste e tragica situazione del mio vivere attuale.

Ora io sono pensionato da due anni, ho lavorato una vita da disgraziato, ora verrei definito con il termine molto più elegante di diversamente abile,ma , credetemi non cambia nulle nella sostanza e per essere fascista fino in fondo, preferisco il termine

disgraziato “ che rendo meglio il mio stato .

Ho anche il braccio destro afflitto dalla “ sindrome extrapiramidale “ che tradotto in parole povere sono dei tremori involontari ed incontrollabili al braccio.

Scrivo da sempre con la mano sinistra ed ora faccio fatica anche con quella, per fortuna che c’è il pcc che mi da una grande mano, a scrivere ed a leggere in quanto ingrandisce tutto fino a farmi leggere senza grossi problemi, poi c’è l E. book che mi legge tutti gli scritti in pdf.

A dare il giusto peso alle mie potenzialità hanno contribuito la pubblicazione nel 2010 del mio primo libro di poesie dal titolo A CHI che a dato in pasto al grande pubblico i miei scritti, poi un grande aiuto l’ ho trovato su internet dove posso disporre di due pagine fb ed un Blog personali che uso solo per la pubblicazione della mie poesie e dei miei racconti.

Qui desidero aprire una parentesi per ringraziare pubblicamente mio nipote Lorenzo per la fattiva ed intelligente collaborazione che mi ha dato nella gestione della parte informatica dedicata al mio hobbyes.

Non appena messe in rete alcune mie pubblicazioni, ho avuto la netta sensazione e percezione che i miei scritti erano graditi al pubblico dei navigatori e questo per me è stato uno stimolo determinante per incentivare e proseguire questa mia grande passione che coltivo fin da ragazzino e che ora mi permette di presentare al pubblico del web il mio modo di osservare, amare, ricordare la mia vita e di descriverla come potrebbe fare un pittore in un suo quadro ma usando al posto del pennello una composizione di parole affiancate tra di loro che possono trasmettere colori, musica gioia e dolore.

E ritrovo la gioia di vivere, descrivendo le piccole cose, le emozioni, i pensieri d una vita di dolore, e mi prendo anche il tempo e la soddisfazione di ritrovare e riscoprire oggi quei piccoli piaceri che la vita e le condizioni sociali mi avevano negato a suo tempo, quando agli occhi della gente benpensante del mio borgo natio altro non ero che un povero illuso ed anche disgraziato, ora ho trovato, altrove, delle persone straordinarie che mi hanno saputo dare il giusto peso, mi hanno creduto ed hanno saputo leggere nei miei scritti tutto il dramma di una vita fatta di solitudine e di sconfitte. A queste persone, che non nomino una per una per non scordarne nessuna, a questi angeli virtuali e no, và il mio eterno ringraziamento, ed è a loro che voglio dedicare questo mio scritto.

 

 

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LA MIA FAMIGLIA

 

 

 

Mio padre

 

 

Ricordare mio padre per me vuol dire entrare tutto trafelato come dopo una corsa tra i prati, in un mondo incantato fatto di favole vere, di gradi esperienze di vita vissuta raccontate con dovizia di particolari, con una grande fede nei confronti di Dio e della nostra Patria, nonostante tutto…

Quando avevo modo di stare da solo con mio padre, ero il ragazzo più felice del mondo, lui mi sapeva raccontare le sue avventure di vita vissuta con grande senso di responsabilità, in ogni suo racconto lui sapeva farmi trovare il lato giusto e buono della vicenda e me lo indicava come esempio da seguire nella vita che mi attendeva. Era giusto negli elogi come nelle punizione, sapeva capire i problemi e le opinioni degli altri con grande saggezza e senza mai giudicare o condannare.

Per capire quanto mio padre mi volesse bene, anche in considerazione del mio handicapp al braccio destro e della mia vista debole, ricordo un episodio, era il primo Natale che frequentavo la scuola e la maestra ci aveva insegnato a fare un lavoretto per gli auguri ai genitori. Era un semplice rametto di abete con attaccata una pigna che al quale tutti avevamo attaccato un bigliettino con il nostro nome. Lo portai a casa e lo consegnai ai miei genitori, mio padre si commosse molto e mia madre mi disse che quella notte pianse molto…

Per capire quanto io volessi bene a mio padre e quanto grande fosse la paura di perderlo, racconto ora un mio pensiero, una mia assillante preoccupazione che nutrivo nella mia mente ancora fanciulla e priva di qualsiasi esperienza di vita vissuta.

In località Zura, sui ripidi costoni che fanno da sponda sinistra la lago artificiale di Santa Giustina, avevamo un vigneto di circa due ettari che mio padre lavorava con tanta passione ed esperienza.

La vigna finiva proprio dove ora passa la strada interpoderale, più sotto il sito prosegue fino alle profonde rocce che fanno da spenda al lago una cinquantina di metri di strapiombo sull’ acqua.

Dal lato opposto scendono ripidi i boschi di conifere del none Faé che a loro volta finiscono a strapiombo sul lago. Mio padre era anche boscaiolo e per guadagnare una lira in più, assieme ad altri boscaioli del luogo, molto di frequente prendevano un lotto di legname da tagliare e fatturare, bene io ero terrorizzato dal fatto che mio padre potesse un giorno andare a tagliare del legname nelle zone ripide sopra il lago e potesse cadere dentro l’ acqua… Piccole fantasie della mia mente fanciulla che era tanto affezionata a mio padre.

Mio padre si chiamava Arturo, era nato il 21 maggio del 1921 e faceva parte della grande famiglia di Bortolo e Teodora e quando penso alle marachelle ed ai dispetti che diceva aver compiuto nella sua gioventù, mi torna alla mente il mio comportamento ed il mio animo ribelle ed anticonformista che devo aver ereditato da lui, così come da lui ho ereditato duella dolcezza e quello spirito di osservazione verso le natura e verso tutto quello che profuma di novità ed ancora da scoprire.

All’ età di venti anni mio padre fu mandato in guerra in Libia con la divisione di fanteria Brescia con le batterie di cannoni anticarro da 75/13 da Marsa Matruk a Tobruk fino ad El Alamein che vide solamente passando su un autolettiga per essere rimpatriato perché gravemente malato di dissenteria provocata dalla colite per aver bevuto acqua inquinata.

Venne sbarcato a Napoli dalla nave ospedale e venne curato nel vicino ospedale civile di Cles dove guarì, venne allora richiamato ed inviato in Sicilia, combatté nella battaglia di Gela arruolato nella Divisione di fanteria Livorno, a contrastare lo sbarco degli Alleati sotto il fuoco dei loro cannoni, impari lotta fino alla resa quando fino a quando lo fecero prigioniero e gli proposero di combattere con loro contro i tedeschi. Mio padre si rifiutò dicendo loro che lui la sua guerra l’ aveva fatta in Libia e che quella che gli veniva proposta non era la sua, allora lo adibirono a polizia militare con il compito di controllare un tratto di strada, la sera però doveva rientrare in un campo addetto ai prigionieri di guerra. Mi diceva che con gli americani di stava bene si mangiava bene che gli americani erano un esercito bene organizzato, bene armato e senza troppa burocrazia militare.

La voglia di libertà però era sempre forte ed una notte prese il sopravvento, così assieme ad un gruppo di altri prigionieri dopo aver immobilizzato una sentinella se ne scapparono dal campo.

A nulla valsero le incessanti e rabbiose raffiche delle mitragliatrici e lo sciabolare delle potenti fotoelettriche, il gruppetto riuscì a fuggire ed a guadagnare la libertà.

Tornato a casa dopo poco tempo vennero i carabinieri a cercarlo per arruolarlo di nuovo questa volta nelle file della Repubblica sociale italiana, ma mio padre stanco della guerra si rifiutò di partire e si nascose e fu così che oltre al danno ebbe anche la beffa di vedersi trattare come renitente alla leva e disertore. Quando a guerra finita fece richiesta di porto d’ armi per la caccia, non gli venne concesso perché risultava avere precedenti penali gravi. Così per pulire la fedina penale da questo “ reato “ dopo la guerra dovette rivolgersi ad un legale e spendere del denaro.

Sarebbe stato molto più facile entrare in uno dei tanti gruppi partigiani, imboscarsi fino alla fine del conflitto e poi uscire da trionfatore per aver “ liberato la patria dal nemico invasore nazista e fascista “, mio padre non odiava neppure i tedeschi con i quali aveva condiviso pane e morte in Africa e per i quali nutriva molta stima ed ammirazione.

Della sua avventura bellica in Africa, mi resta un agendina, il suo diario di guerra scritto a matita con una grafica sottile e piccolissima, dove annotava giorno per giorno tutto quello che gli accadeva attorno tra una battaglia e l’ altra nel rovente deserto africano.

Mio padre era un uomo molto attivo nel sociale era stato consigliere nelle ASUC, presidente della società del caseificio, consigliere alla SCAF ad famiglia cooperativa ed era anche direttore del coro parrocchiale di Livo. Era anche un accanito cacciatore, allora si andava a caccia con la doppietta ed i cani che dei quali riusciva a riconoscere tutti i vari stadi dei latrati quando inseguiva una lepre od una volpe , era un tipo di caccia più povero dove erano determinanti la fortuna e la grande abilità nel tiro in movimento e mio padre in questo era un campione.

Mio padre si ammalò di cancro nel 1967, una cancro allo stomaco provocato dai residui di quella grave infezione intestinale contratta in Africa, venne curato a Cles e poi su consiglio del prof. Enrico Nardelli venne operato a Padova presso la clinica universitaria. Si provò mentre era ancora in vita,a fargli ottenere una pensione di invalidità per cause di guerra che alla sua morte sarebbe stata reversibile a mia madre, fu tutto inutile e come ultima amara beffa alcuni giorni dopo la sua morte si presentarono a casa i carabinieri per notificargli che la pensione gli era stata assegnata ma era troppo tardi.

Lascio ai lettori ogni commento su questa italica vicenda.

Mio padre morì il 27 febbraio del 1969 all’ età di 48 anni.

 

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Mia madre

 

 

Mia madre si chiamava Elena Zanotelli nata il 23 agosto 1924 era figlia di Martino e Sparapani Maria una donna che proveniva dal vicino paese di Preghena, era della famiglia dei “ Lassi “ ma non sono mai riuscito a capire l’ esatto grado di parentela.

Parlare di mia madre per me non è affatto facile, è quasi parlare di una persona che la mia mente tende a rimuovere quasi fosse un corpo estraneo che viene rigettato sull’ organismo come una cosa che non gli appartiene. Era della famiglia dei “ tripoi “ e come tutti loro era un tipo con la testa dura, quasi insensibile al mondo che la circondava, lei vedeva solo se stessa e le sue ragioni, tutto il resto sembrava non appartenere alla sue sfera di interessi e di affetti. Con questo non voglio dire che era cattiva ma che difettava molto nella sensibilità. Inutile dire che il rapporto tra mia madre e mia nonna era molto difficile e le liti abbondavano e bastava poco per accenderle visto che anche mia nonna era un tipo molto orgoglioso ed autoritario.

Attribuisco a mia madre il merito di avermi messo al mondo, no le attribuisco colpa alcuna per i miei handicap, è madre natura che si sbizzarrisce allora come succede oggi nonostante si disponga di maggiori controlli prenatali e post natali.

A mia madre non perdonerò mai il fatto di essersi intrufolata nella mia vita, dapprima costringendomi a subire delle cure psichiatriche stupide quanto inutili nel tentativo fallito di recuperare il braccio malato, e qui posso assolverla con il dubbio della buona fede. Ma per avermi rovinato tutte le scelte che io stavo per compiere a livello affettivo in modo rozzo, egoista ed invadente non ci sono attenuanti.

Mia madre morì l’ 8 maggio 2007

Riposa in pace.

 

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Mia nonna

 

La mia nonna paterna si chiamava Teodora Stanchina e veniva da Varollo, lei diceva che era lontana parente della famiglia nobile dei de Stanchina ma questo non ho voluto mai appurarlo in quanto attribuisco a questo stato un importanza quasi nulla.

Mia nonna era nata nel 1888 ed aveva sposato mio nonno Bortolo all’ età di 19 anni, erano poi emigrati in America agli inizi del 1900 in cerca di lavoro che trovarono a Lafferty in Ohio in una selle tante miniere di carbone della zona.

Mia nonna lavorava in casa ed era un ottima cuoca ed in America preparava il pranzo per un gruppo di minatori colleghi di mio nonno.

Era una donna dalla morale rigida ed inflessibile, dotata di una grande ed indiscussa fede in Dio, dove trovava il coraggio per una vita di stenti e la sintesi e la soluzione a tutti i suoi problemi .

Durante gli anni di permanenza in America, ebbe tre dei nove suoi figli, Rosy, Mary, e Nik. Tornarono in Tirolo nel 1913 giusto in tempo per mio nonno di essere arruolato nell’ esercito imperiale di Francesco Giuseppe e venire spedito a combattere su uno dei numerosi fronti di battaglia verso est. Ritornò dopo quattro anni con una nuova patria che lo attendeva ma con i problemi di sempre nella vita quotidiana.

Mia nonna ebbe altri sei figli, Lino, Arturo, Mario, Lina, Sandra e Ada.

Per tutto il mese di maggio , ogni sera mia nonna pretendeva ed imponeva e tutti la recita del S. Rosario, allora si recitava in latino perché non c’ era ancora stato il rinnovamento del Concilio vaticano ll°, poi quando io tornavo a casa dal collegio dei frati dove mi veniva insegnato anche il latino, ero in grado di distinguere l’ aberrante interpretazione e distorsione che mia nonna aveva elaborato nel tempo con la lingua latina, roba da purgatorio !

Nonna morì sorretta dalla sua incrollabile fede nel dicembre del 1969 volando dritta in cielo tra i suoi figli che l’ avevano preceduta da poco.

 

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Mio fratello Paolo

 

 

Mio fratello Paolo è nato il 08. 10. 1953 quindi ha ora 60 anni, il rapporto che ho avuto e che tutt’ ora ho con mio fratello, lo si può paragonare con quello acido e distante che ho avuto con mia madre.

Mio fratello infatti assomiglia caratterialmente a mia madre, ma vorrei dire alla famiglia di provenienza di lei: i Tripoi. Gente ottusa egoista ed arrogante nella maggior parte dei casi.

Era infatti fin da ragazzino il figlio privilegiato, prima di tutto perché nato sano e senza i gravi handicapp che io mi porto appreso, poi perché la sua indole menefreghista, arrogante e strafottente lo collocavano di diritto al primo posto nella categoria dei “ furbi “ ai quali tutto era concesso in nome e per conto della sua superiore astuzia.

Da ragazzino i rapporti erano tendenti dimostrare la sua indiscussa superiorità nei lavori e nello studio, perché madre natura non lo aveva penalizzato e riusciva a fare tutte quelle cose che il mio handivapp non mi permetteva di fare e per questo lui è sempre stato visto con un occhio di riguardo specie da mia madre.

Anche dopo la morte di mio padre gli fu concesso di continuare gli studi professionali per diventare congegnatore meccanico, con grandi sacrifici anche da parte mia che allora avevo iniziato a lavorare se pur saltuariamente, la mancanza di mio padre si rivelò in tutta la sua drammaticità, mancava quella persona che aveva sempre saputo tenere un giusto equilibrio in famiglia dando il giusto peso a tutti senza privilegiare o penalizzare nessuno. Noi alla morte di mio padre eravamo entrambi ancora minorenni e la gestione della famiglia passò a mia madre che era negata per questo tipo di incarico, mio fratello in questa fase se ne avvantaggiò moltissimo, approfittò dell’ incapacità di mia madre di gestire con equità la famiglia ed appena trovato un lavoro che gli dava un indipendenza economica e garantiva a mia madre un flusso di denaro contante, si mise a fare il bullo del paese forte del silenzio assenso che mia madre gli dava pur di poter accedere al suo portafoglio, e cominciò giovanissimo a bere ed a sperperare il denaro per se e per gli altri compari di merende.

Quando entrò in ferrovia le cose peggiorarono di brutto, perché lui prendeva degli stipendi molto elevati. Visto che lavorava a Bolzano in trasferta da Verona.

In quella fase inizio e fu evidente a tutti la “ sua superiorità “ si era fatto una cerchia di “amici” giovani e meno giovani, ai quali il “ferroviere” pagava da bere , tornava poi a casa completamente ubriaco ed iniziava a comandare a tutti, ma soprattutto a mia madre che era stata la fonte e l’ ispirazione di tutte le sue virtù.

Qui si nota tragicamente la mancanza di mio padre che da uomo saggio e parsimonioso avrebbe impedito di imperio questo stato di cose. Incapace di gestire da solo la sua vita economica e lavorativa, si dimostrò altrettanto incapace e subalterno ad altre persone nella vita sentimentale e nella scelta di una donna, al punto che fu costretto ad accettare un meschino compromesso ordito da un suo collega di lavoro napoletano Antonio Capasso, che gli “ scelse e gli presentò “ la futura moglie proveniente dai bassi fondi della cultura napoletana che lui in tre mesi conobbe e sposò.

Quante matrici di assegno della locale Cassa rurale ho distrutto con la causale “ 100 mila lire Alessandri Antonio bar “, quando finalmente se ne andò ad abitare a Cles in affitto, lui che aveva soldi per tutti non era riuscito a farsi una propria abitazione.

Andato ad abitare a Cles le cose peggiorarono rapidamente per via della continua assunzione di alcool e della sudditanza finanziaria impostagli dalla moglie una vera e propria sanguisuga finanziaria.

Un giorno venne ricoverato in preda ed una crisi di coma etilico ed i medici gli indicarono la via del trattamento in un centro di recupero per alcool dipendenti dove si trovo in buona compagnia con gli ex compagni di merende.

Parve per un po’ di tempo che le cose si fossero messe per il verso giusto, riuscì a smettere di bere ed iniziò a ristrutturare la sua parte di casa la soffitta e gli stabli, per far questo ricevette un piccolo contributo conto capitale da C6 che logicamente non bastò, si iniziarono a vendere allora gli immobili di famiglia i terreni agricoli uno alla volta per potersi pagare i lavori e le spese pazze della signora Maiello, così se ne andarono tutti i terreni lasciati da mio padre e poi anche quelli di mia madre re credo che a tutt’ oggi non sia ancora riuscito ad estinguere il mutuo ipotecario che grava ancora sulla sua porzione di casa.

Ora è semicieco ed è ancora dipendente dall’ alcool che gli viene somministrato un bicchiere ai pasti e poi il rimanente viene nascosto per non consentirgli l’ abuso.

Dal matrimonio sono nati tre figli, Erika, Lorenzo e Jonathan, ma di loro ne parlerò più in dettaglio.

Scrivere questo pezzo devo ammettere che mi è costato molto…

 

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Zia Ada

 

Tra le numerose donne che porto a vario titolo, nel mio cuore, zia Ada occupa un posto in prima fila. E mi viene naturale quasi spontaneo parlare di lei, della mia vera madre, si è vero io ho avuto come tutti la mia che si chiamava Elena Zanotelli, era una donna di media cultura e forse per questo non siamo mai riusciti a capirci, forse per quel suo rifiuto nei miei confronti, per quel suo senso di colpa per non essere riuscita a farmi come tutti gli altri…

Riposa in pace mamma, io non te ne voglio, non è stata colpa tua ne di Dio, è madre natura che a volte ci gioca con la vita e fa piccoli esperimenti, ti rovina un braccio, ti abbassa la vista per farti vedere più da vicino le piccole cose della vita, quelle che contano, che non costano ma che sanno renderti uomo maturo, consapevole e felice. Riposa in pace mamma.

Zia Ada è stata per me la figura di donna che ha sostituito mia madre in tutto, fatta l’ eccezione del parto, ancora bambino lei mi ha accudito come una madre nutrendomi con infinita pazienza, quella pazienza che mancava a mia madre, all’ età di pochi anni mi venne una piaga sul collo forse per una piccola infezione non curata in modo adeguato e mia zia mi medicava tutti i santi giorni cambiando ogni volta le garze infette e pulendo la piaga con acqua ossigenata e disinfettante, ci vollero molte settimane per ottenere la completa guarigione.

Al momento di andare a scuola ho avuto nella zia Ada un formidabile apporto didattico, in quanto lei era molto giovane ed aveva da poco smesso di frequentare la scuola ed aveva ancora ben chiari i metodi di insegnamento e di apprendimento scolastico. Appena iniziato a frequentare la scuola ci si era resi subito conto del grave handicap al braccio destro di cui ero evidente portatore e subito lei si premurò di aiutarmi tenendomi la manina malata per fare con la matita le prime aste e linee, i primi rudimenti della scrittura. Ancora oggi ho nella mente quei momenti di serenità e di dolcezza che zia Ada mi sapeva trasmettere, con la sua infinita pazienza e rispetto per i miei gravi problemi fisici.

Era molto brava nelle materie letterarie ma anche in tutte le altre materie, era andata alla scuola del Duce, quella scuola dove regnava la meritocrazia, dove chi era capace emergeva di luce propria, dove alle femmine venivano insegnate materie come l’ economia domestica , il cucito, l cucina ecc. e non come ora che viene insegnato loro ad applicare il profilattico …

Mia zia Ada alla sera mi leggeva dei racconti o delle storie vere che prendeva dalle riviste di allora ed io stavo in silenzio ad ascoltare quelle storie mentre la mia mente fanciulla era tutta un turbinare di fantasia creativa che dava un volto ai personaggi ed a tutt’ oggi rimango ancora affascinato come un bambino davanti ad un racconto o ad una favola e quando cerco di raccontare qualche fatto o qualche personaggio, ancora adesso mi sembra di sentire la buona zia Ada che con la sua voce dolce ed espressiva mi suggerisce delle frasi o dei commenti particolari che danno più vita ai miei scritti.

Ricordo la grane tristezza per me quando zia Ada è partita per il Belgio a raggiungere e sposare il suo amore Tullio, un minatore nostro compaesano partito molti anni prima a cercare lavoro in Belgio.

Ero troppo piccolo per capire il gioco dell’ amore che si intrufola tra un uomo ed una donna e li lega per sempre , un gioco che non si impara a scuola, che non ha bisogno di essere cercato ma che ti avvolge come il vento della primavera e ti trascina con se per la vita. Non capivo ed ero molto amareggiato nel vedere partire una persona tanto cara ed utile per me, ma quel vento del destino se l’ è portata a nord in quella terra pianeggiante e dal sole malto.

Con zia Ada c’è sempre stato un grande rapporto di sincera amicizia e stima reciproca che và oltre il comune rapporto di parentela che ci lega, sono stato più volte in Belgio suo ospite sempre trattato come un principe, ci sentiamo spesso al telefono e ci raccontiamo i nostri vecchi ricordi.

Nel suo primo viaggio di ritorno in Italia dopo sposata, mia zia mi portò una macchinina rossa decapottabile che si muove con un movimento meccanico, ci ho giocato per tutta la mia infanzia ed ora che sono adulto la conservo come una reliquia come il ricordo più bello di mia zia Ada.

Dalla zia Ada ho imparato i primi rudimenti della scuola assieme ad una continua e reale lezione di vita, ho imparato ad amare con dolcezza, ad apprezzare quel poco che allora c’ era, a rispettare tutti specie i vecchi ed i più deboli, perché non ero ancora cosciente di far parte di una di quelle categorie, i deboli, i disabili, che più di tutti necessitano di amore, amore gratuito senza altre finalità e che sanno poi ricambiare l’ amore ricevuto rovesciandolo verso tutte quelle persone che il disabile sente di dover aiutare, così semplicemente, come fosse la cosa più naturale che si possa fare, per perpetuare così un gioco d’ amore.

Sono certo che dalla buona ed amata zia Ada, io abbia imparato quella dolcezza che ora mi consente di esprimere in versi che raccontano con dolcezza e realtà un tempo che è ormai passato, ma che resta vivo nella mia memoria come il tempo più felice della mia infanzia, nonostante tutti i miei problemi.

Sono arrivato così ben disposto e preparato al mio primo giorno di scuola. Quando fui più grandicello da poter capire, mia zia mi leggeva delle favole e dei racconti da riviste e giornali, ricordo un racconto di mare che mi commosse alle lacrime, si intitolava “ Mare forza nove “,, era il racconto di una donna che aspettava invano il suo uomo pescatore durante una tempesta, mentre la radio trasmetteva il bollettino dei naviganti.

Quando zia Ada scriveva al suo amore in Belgio, finita la lettera la rileggeva ad alta voce, come se io potessi fare da tramite o da ambasciatore per rendere più gradita la missiva, forse , per certi versi, è stato così perché mia zia ebbe una vita coniugale felice, ha amato ed ha avuto ricambiato tutto l’ amore che ha saputo dare a me, dall’ uomo che ha sposato, per lunghi anni, fino alla fine, con un termine che adesso và tanto di moda, tante volte a sproposito, “ per sempre “ .

 

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Zio Tullio

 

L’ amore che ho descritto al quale zia Ada scriveva le sue lettere a me tanto incomprensibili quanto assurde per la mia menta fanciulla, ma come la zia se ne vuole andare e per giunta lontano in un paese dove dicono piove sempre e non esce mai il sole a riscaldarti, ma come non stavi bene qui tra noi ? che cosa ti manca qui che guardi con insistenza il portalettere per vedere se ti porta una qualche missiva da quel lontano e freddo paese…

Già cosa ti manca, e che cos’è quella strana malattia che ti spinge a verso quella creatura lontana, che se non risponde per un ritardo della posta sembra che ti manchi il fiato e nulla ha più senso,poi arriva quella benedetta lettera e tutto passa il sogno riprende, come quando ti svegli la notte dopo un bel sogno e non vedi l’ ora di riprendere sonno con la speranza che il sogno continui.

Il sogno di zia Ada si chiamava Tullio era un uomo del paese emigrato in Belgio per lavorare in una miniera di carbone nella zona francofona del paese in un borgo che si chiamava Maurage.

Si conobbero un estate che zio Tullio era tornato in Italia per le ferie estive, zia lo vide e se ne innamorò.

Seguì una fitta corrispondenza epistolare che durò per tutto il tempo che furono fidanzati, zia mi dice ch conserva gelosamente tutte le lettere della loro relazione e che a espresso il desideri che vengano messe dentro il cofano funebre alla sua morte perché l’ amore è un segreto imperscrutabie e che non trova spiegazione nella mente umana, l’ amore và solo accettato, condiviso e vissuto.

Fu un grande amore quello tra zia Ada e zio Tullio, un amore di quelli che sanno colmarsi a vicenda che non manca niente per essere felici perché l’ amore vero è perse un modo di felicità, tutto il resto che ti circonda sono piccoli ed insignificanti dettagli.

Io ho avuto l’ onore ed il grande piacere di conoscere zio Tullio, un uomo dalle rare doti umane di una onestà ed integrità morali uniche, un lavoratore modello dotato di uno spiccato senso del dovere e sostenitore dei diritti dei lavoratori in ogni sede.

Dal matrimonio nacquero due figli Jean Luc e Beatrice che furono i gioielli di famiglia di zia Ada e zio Tullio, sono stati il loro orgoglio e la loro legittima soddisfazione per il lusinghiero risultato degli studi prima e la invidiabile carriera lavorativa poi.

Poche famiglie furono così legate tra loro come è stata l famiglia di zio Tullio e zia Ada, unita in tutto nella gioia e nel dolore, che ha colpito duramente la famiglia quando zio si è ammalato di cancro all’ inizio degli anni ’90.

La malattia se lo è portato via il 13 aprile 1997 era nato il 9 agosto 1923.

 

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ZIO PACIFICO

 

 

Pacifico Sparapani originario di Preghena aveva sposato una sorella di mio padre, Sandra ed erano subito andati ad abitare a Cles. Pacifico era un uomo saggio e giusto, era pacifico di nome e di fatto. Ha lavorato dopo essere tornato dalla guerra, per la Ditta Ossana di Cles come commesso nel negozio di ferramenta, prima nel vecchio negozio in corso Dante all’ angolo della stradina che porta alla farmacia e poi nel nuovo negozio in viale Degasperi.

Ancora oggi molti ricordano la sua cordialità e la sua grande competenza nel suo lavoro. All’ avvento della seconda guerra mondiale, Pacifico arruolato nel corpo degli alpini, venne mandato dapprima sul fronte francese per un breve periodo fino all’ armistizio con la Francia , venne poi mandato in Jugoslavia dove venne ferito. Alla data dell’ 8 settembre venne fatto prigioniero dalle truppe d’ occupazione tedesche e mandato come tanti militari italiani, in Germania in un campo di concentramento con lo stato di internato militare quindi senza le tutele della Croce rossa internazionale e trattati come schiavi e traditori .

Quel periodo trascorso nei lager tedeschi segnò profondamente la vita di zio Pacifico, l’ esperienza tragica e traumatica della prigionia resterà per sempre nella sua mente, come un incubo notturno che lo ha accompagnato fino alla sua morte.

Nel campo di prigionia zio Pacifico si mise ad incidere una scritta sul gavettino che tutti i soldati usavano per bere e portavano con se : “ IN RICORDO DI MIA PRIGIONIA “. Tornò a casa portando con se solo dei miseri stracci ed il gavettino che ricordava quei suoi terribili giorni trascorsi nei lager nazisti.

Le violenze subite e viste nei campi di prigionia tedeschi, le privazioni e gli stenti forgiarono e temprarono però il carattere di Pacifico, come se dopo quella tragica esperienza nulla di più negativo gli potesse accadere nella vita e tutto il tempo che gli rimase lo dedicò alla sua famiglia ai sui figli ed ai suo hobby dell’ intaglio del legno e del mosaico. Era un uomo dall’ ingegno e dalla fantasia senza pari, sapeva ricavare dalle piccole cose dei grandi capolavori di artigianato.

Faceva parte attiva della Sezione Alpini di Cles e quando giunto alla meritata pensione aveva maggior tempo a disposizione lo prestava la nel volontariato degli alpini e il periodo di Natale collaborava attivamente alla realizzazione del presepio alpino una tradizione ormai consolidata in quel di Cles.

Era anche molto impegnato nel sociale era componente il coro parrocchiale di Cles, membro del Gruppo alpini di Cles e responsabile di zona per gli ex internati nei lager nazisti.

Zio Pacifico era molto amico di mio padre, si aiutavano a vicenda , quando mio padre si ammalò di cancro nel 1967 zio Pacifico gli fu sempre vicino e quando nel 1968 mio padre venne mandato a Padova per tentare un operazione chirurgica per asportare la neoplasia zio Pacifico si prese un permesso dalla ditta Ossana dove lavorava e seguì mia madre all’ ospedale per alcuni giorni fino a quando mio padre non venne dichiarato fuori pericolo.

Non abbiamo mai dimenticato tutto questo e lo abbiamo additato come esempio ai nostri amici , parenti, ma soprattutto ai miei nipoti che hanno avuto il piacere e l’ onore di aver conosciuto lo zio ed aver apprezzato la bontà cristallina di un uomo di altri tempi, un uomo capace di grandi sacrifici personali per aiutare un amico, con il sorriso sulle labbra, senza mai chiedere nulla in cambio. Dopo mangiato zio Pacifico tirava fuori dalla tasca la sua cara e vecchia pipa con il tabacco profumato ed era bello ammirare quel suo armeggiare nel caricare e comprimere il tabacco nella pipa, era un vero e proprio rito poi accendeva un fiammifero di quelli di legno che sono più lunghi ed hanno più durate , lo avvicinava alla pipa ed aspirava ed il fuoco sembrava piegarsi alla su volontà e spariva nella pipa mentre un fumo profumato e denso usciva dalla bocca formando delle piccole nuvolette o dei cerchietti che poi svanivano nell’ ambiente lasciando il caratteristico profumo del Clan.

Il solo guardare questa scena mi provocava una grande sensazione di serenità e di pace nell’ anima, ed ancora adesso quando mi prede la tristezza penso a zio Pacifico, alla sua umiltà, alla sua innata bontà d’ animo al suo eterno sorriso di uomo buono e giusto e mi ritorna la serenità nel cuore.

Grazie di tutto zio e goditi il meritato premio eterno dove non ci sono ne bombe ne reticolati, ma solo un infinito prato verde con tanti fiori.

 

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Zia Rosy

 

 

Credo che zia Rosy fosse la figlia maggiore dei nove che ebbero i miei nonni paterni, era nata in America nell’ Ohio a Lafferty quando i miei nonni erano emigrati lì alla fine dell’ 800.

Zia Rosy era nata il 10 maggio 1907 e si era sposata con Agosti Basilio, + 10. 01. 1903 * 12. 01. 1983, un agricoltore di Scanna.

Basilio era un uomo pieno di complessi, un timido per natura nonostante la sua grossa mole, era un uomo all’ antica, rimasto ancorato saldamente ai vecchi concetti conservatori dell’ ‘800 dove tutto doveva andar bene così come era e niente si doveva cambiare per nessuna ragione al mondo. Col trascorrere degli anni e l’ avanzare inesorabile di nuove tecnologie e nuove innovazioni in tutti i settori della vita, anche lui si dovette adeguare al mutare dei tempi e giocoforza adattarsi ai nuovi ritrovati, ricordo che anche le più piccole innovazioni tecnologiche erano vissute da lui come un dramma, una tragedia che sconvolgeva la sua esistenza fatta di ricordi del passato che non riusciva a cancellare per far posto al vivere presente.

Tutto in casa di zia Rosy era vecchio ed obsoleto, ricordo la cucina con la “ cjaudera “ per bollire il pasto per il maiale, il vecchio focolare a legna con l’ enorme camino che occupava un terzo della stanza di sopra, la “ stua “ stube con l’ antico fornello a “olle” verde con sfumature bianche con disegni in bassorilievo molto simile a quello che si può ammirare nell’ Agritur Mirella Rumo, quella era la stanza migliore che aveva e nelle lunghe sere d’ inverno assieme a mio padre, mia madre e mio fratello minore molte volte ci recavamo da zia Rosy a giocare a tombola o a carte nella stua al caldo della vecchia stufa ad olle.

Zia Rosy non ebbe figli, fu l’ unica sorella a non averne e questo per lei fu come un peccato originale che si portò dolorosamente con se per tutta la vita, assieme alla colpa di essere una donna sterile come recitava allora il copione per ogni donna che non era in grado di procreare. Quanta ignoranza e quanti preconcetti c’ erano a quei tempi nei confronti della fecondazione e del ruolo del maschio all’ interno della coppia. A quei tempi non esistevano dei test atti a verificare la fecondità o meno della donna ma soprattutto del maschio che si è sempre ritenuto infallibile per cui se un figlio non arrivava era sempre colpa della femmina, l’ unico modo per provare il contrario era che la donna avesse dei rapporti sessuali con un altro uomo, come fece ad esempio la signora Giuditta Carotta, anche lei “proclamata” dal marito e dalla gente sterile, che ebbe poi un figlio da un prigioniero di guerra russo.

Zia Rosy rimase fedele a suo marito fino alla fine, non si era mai sognata neppure lontanamente di tradirlo per dimostrargli che non era lei incapace ma lui, si portò dietro in silenzio questa “ colpa “ come tante donne di quel tempo.

Dopo alcuni anni di tentativi per avere un figlio proprio, zia Rosy prese in casa il figlio maggiore di sua sorella Lina che si chiamava Gianfranco lo tennero come un figlio loro senza però dargli il loro cognome, l0 allevarono lo nutrirono e lo mandarono a scuola come fosse un loro figlio e quando morirono lasciarono tutta la loro sostanza in eredità a lui.

Quello che ricordo con tanta tenerezza e nostalgia della zia Rosy, era il Natale: allora lei ci preparava dei piccoli regali, un fazzoletto colorato con motivi natalizi che ripiegava ed annodava come un piccolo sacco e dentro ci metteva un mandarino alcuni cioccolatini un torroncino, quanta gioia per noi ragazzini abituati al tanto del niente, era una gioia vera autentica genuina che non ho più provato negli anni successivi.

Grazie zia Rosy per la tua semplicità e la tua bontà che mi hai sempre dimostrato anche quando avevi il cuore gonfio di dolore…

Zia Rosy morì il 29 maggio 1983.

 

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Zio Lino

 

 

Era uno dei tre fratelli di mio padre, era nato malato con una serie di patologie che lo hanno reso fragile fin dall’ infanzie e soggetto a numerose malattie prima dell’ infanzia e poi anche nell’ età adulta.

Quando è morto io avevo tre anni e di lui ho solo un ricordo molto vago ed evanescente, ricordo che era un uomo molto alto e magro e che mi teneva spesso in braccio e mi faceva giocare con delle assicelle di legno con lo quali mi costruiva dei piccoli oggetti come coltelli ed altri attrezzi da cucina.

Si spense lentamente come un cero il ****

 

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Zia Lina

 

 

Zia Lina era un'altra sorella di mio padre era nata ****** ed aveva sposato un uomo che si chiamava Livio, un uomo piuttosto burbero ed irascibile con lei, era stato con gli alpini in Russia durante la seconda guerra mondiale e ne era tornato provato nella psiche, sovente si ubriacava specie quando era senza soldi e picchiava la zia.

Da quella unione non tanto felice, nacquero quattro figli , Gianfranco, Roberto, Alessandro e Lino. Era stato un periodo in Svizzera poi negli Stati uniti dove aveva richiamato la zia e tre dei suoi figli Roberto , Sandro e Lino però anche lì non ebbe fortuna e pochi anni dopo tornò in Italia lui la zia ed il figlio Roberto nato disabile, rimasero in America gli altri due.

Appena sposati gestivano una trattoria e osteria ed è in quel contesto che zia Lina ha iniziato a bere. Noi abitiamo letteralmente a due passi da dove abitava zia Lina e mia nonna sovente le portava da mangiare quando sapeva che non aveva soldi abbastanza per fare la spesa .erano tempi duri per tutti e la clientela della locanda spendeva poco così dopo poco tempo dovette chiudere per tentare una improbabile fortuna all’ estero. Rimasero sempre poveri e poveri morirono, zia Lina mori di cirrosi epatica nel 198*.

Due dei miei cugini, Sandro e Lino rimasero in America nel Conneticut, ed appena raggiunta la maggiore età essendo liberi di decidere in proprio per se e per gli altri, pensarono bene di far ternare in Italia gli anziani genitori ed il fratello Roberto gravemente handicappato per non avere più brighe ed essere finalmente liberi di godersi l’ America con tutte le sue sfaccettature e le sue libertà e le formidabili potenzialità ce essa offriva mentre da noi si iniziava allora a crescere molto lentamente, era l’ inizio degli anni ’70.

Tipi strani i miei cugini, con Sandro avevo frequentato assieme le scuole in collegio, prima a Campolomaso e poi a Villazzano, eravamo molto attaccati una forte amicizia che si è spenta al suo arrivo in America, quando era ancora un ragazzino intrattenevamo una fitta corrispondenza epistolare, ma pio man mano che è cresciuto ed ha cominciato a frequentare i movimenti pacifisti contro la guerra in Vietnam ed a frequentare le ragazze americane tutto si è spento.

Mio cugino Lino un uomo di bassa cultura e di basso profilo umano e sociale, capace di scroccarti il pranzo o la cena come faceva quando era un ragazzino qui in Italia, sfacciato ed arrogante.

Sono libere scelte che hanno fatto loro io non ho nessun diritto di obbiettare, però alcune considerazioni mi prendo il diritto di farle : non perdonerò loro mai il fatto di non aver tenuto con se i genitori ed il fratello disabile,l’ America è una grande nazione e per due giovani lavoratori non sarebbe stato un peso insopportabile il tenere con se i propri genitori, voglio ricordare che loro avevano saputo bene o male badare a loro fino a quando erano maggiorenni, pur essendo molto poveri, sono invece stati letteralmente cacciati da quella nazione dove avevano riposto le ultima loro speranze di riscatto economico e sociale, proprio dai loro figli. Di questo ignobile comportamento attribuisco maggiore responsabilità a mio cugino Sandro in quanto più vecchio e maggiormente acculturato avendo frequentato anche alcuni anni di liceo presso il convento di Villazzano.

Trovo anche assurdo che ora in un mondo divenuto un orticello grazie alla tecnologia digitale ed ad internet, basti pensare ai social network come facebook o twitter, dove riesci a ritrovare e ricontattare gli eredi di gente che era partiti nei secoli scorsi e dei quali non si sapeva più nulla, niente loro non si fanno proprio trovare… ho provato a cercare Sandro su fb e penso di averlo anche identificato con precisione si fa chiamare Al Rodegher ma quello che mi ha convinto che dietro a quel profilo fb completamente bloccato verso estranei ci sia proprio lui, è il fatto che al posto della foto ha uno stemma del Milan che era la sua squadra del cuore quando era in collegio con me.

 

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Zio Ernesto

 

 

Era il fratello vivente più vecchio di mia madre, il più vecchio in assoluto se lo era preso la guerra sul fronte Greco – Albanese dove una raffica di mitragliatrice gli aveva spezzato una gamba ed il bacino, morì nell’ ospedale da campo per le gravi ferite riportata il 14 marzo 1941 era nato il 07 ottobre 1914.

Zio Ernesto era diverso da tutti gli altri fratelli e sorelle di mia madre e diverso anche da lei, era un tipo solitario anche per via della sua grave e progressiva sordità per la quale tendeva ad isolarsi da tutti.

Era nato il 1915 e non si era sposato durante la seconda guerra mondiale era stato impegnato in Jugoslavia come guardia alla frontiera, dopo l’ 8 settembre ’43 venne fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in un lager del terzo reich come forza di lavoro coatto fino al 1945 quando venne liberato dai soldati dell’ armata rossa che gli resero la libertà.

Fin qui la storia della sua vita in breve, ma quello che mi preme osservare del carattere bonario dello zio e del fatto che fosse una mente molto più aperta di tutti i suoi fratelli e sorelle che ho conosciuto ho sempre tentato di dare delle spiegazioni caratteriali senza trovare risposte, non era neppure emigrato all’ estero da poter assumere una diversa cultura ed un diverso stile di vita, la spiegazione l’ ho trovata guardando il suo patrimonio di libri, riviste, giornali e fumetti che teneva gelosamente custoditi in casa sua.

Zio Ernesto era “ diverso “ da tutti i suoi fratelli perché leggeva molto, leggeva di tutto dai romanzi ai fumetti e si era fatta una cultura autodidatta ed era una persona di notevole spessore culturale ed umano.

Alla morte di mio padre ci aiutò moltissimo sia con il lavoro manuale in campagna che con delle donazioni in denaro, comprò a mia madre la prima lavatrice e quando eravamo senza soldi non si è mai rifiutato di darcene o di prestarcene. Mia madre non sempre sapeva essere riconoscente al modo giusto, spesso lo era solo in virtù dei favori e del denaro che zio Ernesto metteva a disposizione.

Aveva una grande passione nel cuore, quella per le moto da strada, si era comprato un “ galletto “ della Guzzi che teneva sempre lucido come uno specchio e per ogni piccolo segno di mal funzionamento lo portava dal meccanico. Con la moto la domenica lo zio si faceva dei lunghi viaggi in regione ed anche fuori ed andava a visitare e toccare con mano tutte quelle realtà e quei luoghi che aveva letto sui libri o sui giornali. La notevole quantità di denaro che mio zio possedeva, derivava dalla vendita al comune di Livo di una particella fondiaria in località Gaggià dove nei primi anni ’60 venne edificato il nuovo e moderno plesso scolastico per gli alunni di Livo, Vaeollo e Scanna, per intenderci le attuali scuole che sono ancora in sevizio alla data odierna, nonostante i proclami del Sindaco sull’ imminente trasloco nel costruendo plesso scolastico di Livo.

Io andavo molto d’ accordo con zio Ernesto e forse riuscivamo a capirci meglio per via dei nostri problemi fisici,alla fine degli anni ’80 zio fu colpito da un ictus che gli paralizzo il lato sinistro del corpo e dovette essere ricoverato all’ ospedale geriatrico di Cles dove gli vennero praticate le cure del case ed una energica terapia riabilitativa, si era ripreso abbastanza bene e venne ospitato da mio fratello in cambio di molto denaro che elargiva a mia cognata sempre più avida di soldi. Dopo un po’ di tempo fu colpito da un secondo ictus che gli immobilizzò anche il lato destro rendendolo invalido totale e bisognoso di continua assistenza di giorno e di notte.

Ho avuto la grande fortuna di trovare in tempi rapidi un posto presso la casa di riposo di Pellizzano in val di Sole do zio si trovò subito a suo agio, circondato da un personale premuroso ed umano e dove fece amicizia con un malato molto più giovane di lui al quale erano state amputate le gambe per via del diabete, s chiamava Ravelli.

Zio si trovò così a suo agio in quella struttura che non volle più scendere in paese, neppure per le festività natalizie o pasquali, lui diceva che quella era la sua nuova casa.

Morì serenamente il

 

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Zio Gigi e zia Anetta e zia Sandrina

 

Zia Anna ( Anetta )

 

 

Per raccontare la storia biografica di zia Anetta, devo , per certi tratti, fare ricorso al sentito dire dei dialoghi che intercorrevano tra mia nonna paterna e suo figlio, mio padre. La zia Anetta era una sorella di mia nonna, e di cognome si chiamava Stanchina come lei, era una donna piccola ed esile al momento che la descrivo, era però una donna di grande cultura generale, era poliglotta e sapeva leggere e scrivere le lingue inglese, francese, spagnolo, r dava lesioni private a studenti ed a gente che intendeva emarginare in paesi dalla lingua diversa dalla nostra.

Viveva assieme a suo fratello Luigi nella vecchia canonica di Varollo, lavorava da sarta per la gente del luogo che chiedeva il suo lavoro. Era molto religiosa, fin troppo legata a vecchi concetti quasi medioevali, ricordo che usava le ortiche per auto infliggersi delle pene corporali, era anche molto debole di psiche.

Quando lasciò la vecchia canonica di Varollo venne ricoverata nella vecchia casa di riposo di Cles, rimase lì per un breve periodo poi le sue condizioni di salute mentale si aggravarono e venne portata all’ ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana dove venne curata e soprattutto nutrita perché il suo stato di salute derivava soprattutto dalla malnutrizione e dalle privazioni alle quali lei si sottoponeva volontariamente per via delle sue credenze e delle sue fobie religiose. Guarita da questo stato depressivo venne ospitata nella casa di riposo per anziani Santo Spirito di Perdine Valsugana, dove fu di valido aiuto ai medici ed al personale per la traduzione di lettere e testi in lingue straniere che lei conosceva bene. Morì il ********* Per sua espressa volontà volle essere sepolta nel cimitero di Varollo, pensò l’ Amministrazione comunale di allora con il sindaco sig. Penasa Carlo a coprire le spese di inumazione.

 

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Zio Luigi ( Gigi )

 

 

Anche zio Gigi era un fratello di mia nonna paterna ed era un uomo mite ed umile, di lui so poco era stato soldato nella grande guerra al fianco dalle truppe imperiali di Francesco Giuseppe imperatore d’ Austria ed Ungheria, mi raccontava che durante il suo periodo bellico aveva spesso dovuto usare la maschera anti gas durante gli attacchi al gas nervino del nemico e che nel dopoguerra aveva lavorato in una fonderia di piombo dove aveva subito una grave ustione ad un piede.

E’ sempre vissuto di piccoli lavori agricoli prestati per lo più a persone molto abbienti. Viveva assieme alla sorella Anna nella vecchia canonica che sorgeva dove adesso c’è il piazzala a piano terra al lato est dell’ attuale nuova canonica.

Era una vecchia casa medioevale data in comodato gratuito a questi due miei prozii, era stata fino agli anni 30 la dimora dei parroci e curati della pieve di Livo, venne demolita ad opera del Comune alla fine degli anni ’60.

Mi piace qui descrivere , per quanto ancora mi conforta la memoria, questa casetta in pietra viva con la muratura quasi a secco, una casa di dimensioni molto ridotte, forse un quarto dell’ attuale canonica, con buona parte dell’ intera struttura restante in legno compresi i solai e le tramezze, quando è stata demolita per ricavarne un campetto da gioco per l’ oratorio del parroco di allora don Michele Rosani , nessuno ebbe l’ intuizione e la saggezza , che non ha mai dimorato in questo paese, di opporsi alla demolizione e conservarla come museo di un periodo storico dove la Chiesa aveva fin troppi poteri e dove un parroco aveva anche messo incinta la sua perpetua che si chiamava Filippi Rosa ( Rosinella ) la quale partorì una femminuccia che credo sia tutt’ ora vivente nel milanese.

Se fosse stata conservata così come era al tempo che la ricordo io, sarebbe stata già allora un museo di storia locale, erano infatti conservati , in ottimo stato, tutti i mobili del parroco dalla cucina allo studio alla stanza da letto, un vero delitto è stato demolirla, come un delitto attribuibile a don Michele Rosani è stata la totale demolizione del vecchio e storico cimitero tedesco che affiancava il lato sud – est della chiesa di Varollo.

Aveva ragione don Luigi Conter che scriveva nel suo libro FATTI STORICI DI LIVO che noi siamo della gente che non sa conservare la propria storia.

Dopo la demolizione della vecchia canonica, zio Gigi venne provvisoriamente ospitato in un piccolo appartamento ubicato nelle vecchie scuole elementari di Varollo, ora ci sono gli appartamenti ITEA e poi venne ricoverato nella veccia casa di riposo di Cles ora demolita da tempo pure quella , ogni tanto prendeva l’ autobus e veniva a trovarci a casa nostra anche dopo la morte di mio padre e quando ritornava in paese mia madre non mancava di fargli trovare per pranzo polenta e crauti che gli piacevano tanto.

 

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Zia Sandrina

 

 

Era sorella di Anna e Luigi e di mia nonna paterna, non l’ ho conosciuta di persona perché morta che io ero giovanissimo, ma no ho sentito parlare molto. Di professione faceva l’ attrice di teatro, era una bella donna ed i paesani la ricordano perché quando tornava in paese per qualche periodo di riposo, era sempre vestita alla moda di quel tempo con abiti lussuosi e di grandi firme italiane e francesi.

 

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La mia casa

 

 

La mia casa ora è un abitazione confortevole dotata di tutti i moderni confort di cui dispone la tecnologia.

La mia porzioni di casa si trova al lato sinistro guardando l’ atrio di ingresso,io abito al piano rialzato e mio fratello al primo piano al quale si accede mediante una scala in cemento armato.

Ma non è sempre stato così, quando ero ragazzino la casa era di quattro proprietari diversi Agosti Luigi (mori) , Agosti Tullio , Agosti Bortolo mio nonno paterno e Filippi Andrea Andy.

Era tutto un meandro di piccole porzioni , a partire dalle cantine fino al sottotetto, che rendeva praticamente impossibile ogni qualsiasi lavoro di ristrutturazione se non fatto di comune accordo con altri proprietari. L parte di proprietà di Agosti Tullio venne acquisita nell’ immediato dopoguerra da Agosti Luigi che venne a detenere così quasi la metà del fabbricato il restante era di proprietà di mio padre e del signor Filippi Andy che era in America da molti anni, quindi era disabitata.

Negli anni ’50 venne ad abitarci una vedova che prima abitava in una casa al Toflin, il marito era morto sul lavoro mentre prestava la sua opera per il rifacimento della strada che porta a Bresimo subito dopo il devastante incendio del 1955.

La signora si chiamava Carla ed aveva tre figli due maschi Rino e Claudio ed una femmina Luciana.

Vennero ad abitare nell’ appartamento del signor Andrea Filippi Andy che era fratello di Carla.

All’ inizio degli anni 60 Carla emigrò in Canada con tutta la famiglia, fu allora che il proprietario mise in vendita la sua porzione che venne acquistata da Agosti Luigi e si poté poi passare ad una divisione materiale con una logica che guardava non più alle piccole porzioni di proprietari diversi ma alla struttura globale dell’ abitazione, vennero così cancellate tutte quelle piccole porzioni che avevano impedito fino a quel momento di intervenire in modo razionale sulla ristrutturazione del fabbricato e si poté così procedere negli anni successivi alla globale ristrutturazione e risanamento dell’ edificio.

Ci vollero molti anni e molto denaro per renderla così come si presenta ora alla vista, togliere tutte le parti in legno degli stabbli rifare il tetto per ben due volte consolidare e rinforzare, ora è una casa rurale con al suo interno tutte quelle comodità e quelle innovazioni tecnologiche ce hanno tutte le case di oggi, nella mia porzione ho voluto lasciare i vecchi avvolti di un tempo a me tanto cari e direi che oltre ad essere esteticamente belli, sono molto caldi d’ inverno ed estremamente freschi d’ estate perché hanno i muri di spessore molto grosso molto isolante.

Sono passati i tempi quando da questa abitazione uscivano schiere di ragazzini di famiglie diverse che uscivano da ogni buco della casa dove si fosse potuto mettere un letto o un materasso, erano altri tempi, è vero, erano tempi dove ci si doveva accontentare dove la parola tedesca “ muss “ bisogna – si deve , era ancora abbondantemente di moda, quando pidocchi e cimici erano i compagni silenziosi ma schifosi della notte dei bambini e le madri prima di mandarli a scuola li dovevano ispezionare meticolosamente perché non restasse a bordo qualche sgradito ospite clandestino.

 

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I soldatini

 

 

Nella vecchia cucina annerita dal fumo e dal forte odore di caligine a causa del focolare che fumava sempre e molte volte mia nonna lasciava i cerchi aperti e la fiamma usciva libera e scoppiettante portandosi dietro una buona dose di fumo, perché mia nonna era convinta che così facendo il fuoco scaldasse di più l’ ambiente.

Il focolare era appoggiato alla finestra della cucina che guardava nella “ cort “ sottostante dove erano ubicate le “ buse de la grassa “ che altro non era che il deposito del letame delle stalle nostra e del signor Luigi nostro condomino.

In inverno con le finestre chiuse e con il freddo fuori, l’ odore del letame era appena percettibile, ma in estate con la finestra aperta protetta solo dalla reticella anti mosche, vi assicuro che l’ olezzo caratteristico del letame che fermentava faceva compagnia a tutto il nucleo famigliare, i numerosi gatti erano più furbi di noi, mangiavano a sazietà dopo la loro bella e sonora litigata per guadagnarsi a forza di artigli il boccone più grosso, metterselo bene tra i denti e poi sparivano fino a nuova fame e si rifugiavano sul fieno morbido, profumato e caldo per la fermentazione in corso.

Ritornavano quatti, quatti la sera per pretendere la loro razione di cibo e per dimostrare tutte le loro capacità di felini predatori ed il loro impegno civico di guardie fedeli e ligie ai propri obblighi, molte volte portavano tra i denti un topolino ancora vivo, terrorizzato per la fine che lo aspettava. Entravano in cucina e subito liberavano il topolino che per pochi attimi poteva assaporare il profumo della libertà, ma la cosa durava poco, quando la povera bestia si credeva al sicuro sotto la vetrina, ecco che uno sguardo sadico e feroce, il gatto gli piombava addosso ed una zampa munita di bianche ed affilatissime unghie lo riagguantava e lo tirava fuori da sotto per poi rilasciarlo ancora libero per alcuni attimi, fingendo ostentatamente di non accorgersi della nuova direzione presa dal topolino.

I gatti debbono aver imparato i metodi più atroci e sadici della tortura dalle SS o dalla Sacra inquisizione, il più delle volte era mio padre a porre fine alle inutili e gratuite sofferenze del topo schiacciandolo con un pestone dei suoi scarponi. Di solito allora mia nonna cacciava via tutti i gatti che dopo un attimo si ripresentavano fuori dalla finestra dopo essere scesi dalle “ spleuze “ fino al poggiolo per la struttura di legno, allora mia nonna davo loro degli avanzi di cibo e ricominciava una lotta furiosa per il boccone preferito.

Secondo me i gatti hanno un loro linguaggio sonoro per capirsi con annesse una sequela di parolacce ed il ripasso quotidiano delle litanie di tutti i loro santi saliti in cielo al termine della loro settima vita…

Verso le 10.30 mia nonna si preparava per fare l’ immancabile polenta gialla di farina di mais, prima di tutto apriva il portellone del focolare e con “ l’ fer del foglar “ un ferro con all’ estremità una curva che a me è sempre sembrato il simbolo della lira, faceva scendere la cenere spenta nel cassetto sottostante lasciando soltanto le braci ardenti, poi riempiva il crogiolo di legna buona “ de foja “ cone acacia, e faggio, poi richiudeva il portellone.

Preparava poi l’ acqua nel grande paiolo di rame lucidato con sabbia di mare ed aceto, che sembrava uno specchio, ci metteva una “ chjaspa “ di sale grosso e nel frattempo il fuoco aveva preso ad ardere bene , crepitando di gusto con qualche schiocco più forte.

Allora nonna toglieva i “ cercli “ del focolare fino a quando nel buco ci passava il culo del paiolo fino al punto dove era nero delle cotture precedenti.

Ci metteva sopra un grosso coperchio ed aspettava paziente che fratello fuoco facesse la sua opera miracolosa di far sfregare l’ idrogeno con l’ ossigeno fino al punto di bollitura dell’ acqua. Allora toglieva il coperchio ed iniziava una fase delicate e determinante affinché la polenta risultasse cotta giusta ma soprattutto senza “ gropi “.

Mia nonna era molto abile ed aveva una grande esperienza nel fare la polenta, prendeva una “ minela “ di farina gialla oro, era uno spettacolo da ammirare, un quadro di colori con tinte forti attenuate dal vapore che saliva allegro, prendeva la “ glava “ e cominciava a versare piano il contenuto della minela nell’ acqua bollente mentre con la glava mescolava velocemente la farina per impedire che si formassero dei grumi ( gropi ), era l’ operazione più veloce e più delicata che si doveva eseguire in modo impeccabile per avere un risultato finale ottimo.

Nel paiolo la farina scendeva veloce e poi prendeva a girare come in un vortice dal colore giallo sembrava la caldera di un vulcano dove tutto ribolle , schizza e scoppietta, finito di mettere la farina la nonna rimetteva il coperchio al paiolo per lasciare riposare l’ impasto e dava una ravvivata al fuoco.

Dopo poco toglieva definitivamente il coperchio ed iniziava a “ mesdar la polenta “ con la glava facendo attenzione di alternare il senso del movimento un po’ a desta ed un po’ a sinistra e lentamente la polenta prendeva forma, consistenza, profumo e sapore.

E tra il fumo profumato di polenta, come le vecchie immagini sfuocate di quei vecchi film in bianco e nero, ritornano il ricordi di quei bei tempi, e sono ricordi autentici che si portano appresso anche l’ odore inconfondibile della polenta che cuoce lentamente al fuoco dei grossi ceppi di acacia, che piano, piano sui bordi alti del paiolo si formavano le “ groste “ di un colore giallo intenso e quando cominciavano a staccarsi dal recipiente si desumeva dall’ esperienza secolare della civiltà contadina, che la polenta era cotta al punto giusto.

Era il momento solenne ed importante nel quale ci voleva tutta l’ abilità di mia nonna, il momento di scodellare la polente sul “ tavel “, allora prendeva due canovacci per non scottarsi le mani, afferrava il paiolo con la mano sinistra per il manico lo toglieva dal fuoco e lo appoggiava in un angolo del focolare, richiudeva in fretta i cerchi e lasciava aperto solo il tappo cieco, poi prendeva il paiolo e si avvicinava al tavel e con un movimento deciso e rapido scodellava la polenta sul cerchio di legno che stava in mezzo al tavolo, poi ricopriva la polenta fumante con una panno di cotone per evitare che evaporasse troppo in fretta e facesse la crosta sopra. La polenta era cotta !!!

Rimanevano sul fondo annerito e rovente del paiolo di rame delle piccole scintille di un rosso vivo che spiccavano in un modo particolare sulla nera fuliggine del fondo del recipiente, la particolarità di queste piccole scintille era che continuavano a muoversi come a cercare nuovi spazi vitali, nuovi posti da esplorare.

A me sembravano tutto quello che restava di una vita lontana alla quale veniva tolto lo spazio per esistere ancora, eppure il fondo del paiolo era molto ampio, ci sarebbe stato spazio a sufficienza per tutte e ne sarebbe pure avanzato, ma niente, tutte si ostinavano a voler restare strette in quei pochi centimetri di fuliggine nera. E rimanevo attento ed affascinato ad osservare questi soldatini, così li chiamava mia nonna, che si urtavano, si spingevano via, poi chi rimaneva isolato piano, piano si spegneva… non avevano divise diverse, erano tutti uguali rossi come il fuoco e rimanevo ad osservarli fino a quando l’ ultimo non moriva. Non c’ erano stati ne vinti ne vincitori, il culo del paiolo mi sembrava un mappamondo in lutto, tutto nero senza più segno di vita, senza che nessuno più rivendicasse uno spazio vitale, un territorio, un cortile, un “ heimat. “

Forse aveva proprio ragione mia nonna a chiamarli soldatini, che avevano combattuto per un ideale, per una bandiera, che avevano cercato un territorio grande come un impero ed erano morti tutti in un angolo di terra bruciata dal fuoco.

La radio trasmetteva allora le “ voci “ della guerra che iniziava in medio oriente tra Arabi ed Israeliani, un conflitto breve che durò solo sei giorni ma che avrebbe poi creato una grande e grave crisi tra le nazioni arabe e lo stato ebraico e che a tutt’ oggi a distanza di 50 anni non se ne intravvede una fine ne diplomatica ne militare. E i soldatini sul fondo del paiolo continuano a morire allora come ora per una striscia di terra bruciata dal sole e da tanta indifferenza ed ipocrisia.

Allora per consolarmi cominciavo a togliere dall’ interno del paiolo le croste saporite ed ancora calde della polenta e me le mangiavo adagio, ripensando sempre a quei poveri soldatini che erano morti pure prima di ricevere il rancio…

 

 

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IL MULINO SUL “ LEC “

 

Quando ero un ragazzino negli anni ‘50 il sistema di irrigazione dei prati e dei campi consisteva in una miriade di fossi, il più delle volte scavati nel terreno senza l’ anima di cemento, che si diramavano come una ragnatela tra i prati e portavano l’ acqua del torrente Pescara dalla presa che si trovava in alto vicino all’ abitato di Rumo. Tutta questa rete di fossi dalle dimensioni più disparate si chiamavano nel nostro dialetto “ LECI “ al plurale e “ LEC “ al singolare, tutti sfruttavano la pendenza minimale del terreno per poter portare l’ acqua al massimo livello di altitudine dei terreni agricoli e permettere una produzione ottimale anche negli anni di siccità. Il lec di SAUDERN o di PRA POSIN che serce il CC di Livo è stato rifatto in calcestruzzo negli anni ‘30 da veri maestri muratori locali che senza la moderna strumentazione ottica ed elettronica attuale , furono in grado usando paline in legno, l’ occhio umano e la grande esperienza, di dare una cadenza continua al manufatto del 3 per mille dalla presa fino alla vasca di decantazione che si trovava a monte del abitato di Preghena ad una quota di circa 800 mt. Slm. , una vera e propria opera d’ arte dell’ ingegno umano. La cementificazione dei leci si era resa neccessaria anche per le continue e numerose frane provocate dall’ esondazione dei condotti che si intasavano facilmente con lo scorrere dell’ acqua, come narra don Luigi Conter nel suo libro FATTI STORICI DI LIVO. Ora i leci sono stati sostituiti da robuste condutture in acciaio ed in PVC che distribuiscono l’ acqua con parsimonia tra le colture dei meleti mediante impianti a goccia sottochioma, in sostituzione degli impianti a pioggia molto più dispendiosi e spreconi di quell’ aacqua indispensabile per ogni forma di vita e che diventa sempre più scarsa e costosa. Tutti noi ragazzini avevamo dei prati attraversati dal lec la cui acqua fresca serviva per dissetare le mucche, tenere la bottiglia di vino al fresco e per noi bambini fonte inesauribile di giochi ed esperimenti. Io ero tra i fortunati ad avere un ruscello naturale in un prato vicino al torrente Barnes in località Pongel, scaturiva spontaneo da sotto un grosso masso erratico ed attraversava tutta la parte pianeggiante del prato per poi confluire nel torrente, era il posto dei miei divertimenti … ricordo che costruivo a casa le pale di un piccolo mulino, bastavano due assicelle delle cassette delle mele incastrate tra di loro come a formare una croce, poi al centro si mettevano due lunghi chiodi che fungevano da perno di rotazione ed il mulino in miniatura era pronto per essere messo in moto. Arrivati vicino al ruscello si tagliavano due rami di nocciolo a forma di Y che si piantavano alle rive del ruscello, profonde quel tanto che le pale sfiorassero l’ acqua ed il piccolo mulino si metteva a girare per tutta la giornata ed era una felicità immensa vedere quel piccolo proggetto che avevi sognato la notte ed avevi saputo realizzare con le tue piccole mani ma con grande intuito ed ingegno , vederlo ruotare lentamente spinto dall’ acqua del tuo ruscello.. e restavi per ore a guardare la ruota che girava e il gorgogliare placido dello scorrere dell’ acqua che ti dava una sensazione di grande serenità e tranquillità con gli uccellini che dal vicino bosco sembrano cantare per te la loro gioia al creato e sei uguale a loro e non cerchi altro dalla vita che ti concede di vivere queste meraviglie un cielo limpido, un ruscello che scorre , il tuo mulino che gira ed il fragore del Barnes. Poi arrivava quasi sempre una mia parente che abitava al Toflin e che portava con se la sua nipotina più o meno della stessa mia età, come tutte le femmine curiosa di vedere quell’ opera di alta ingegneria che era il piccolo mulino che girava spinto dall’ acqua , e si accucciava dal lato opposto del ruscello per ammirarlo da vicino … ed era allora che potevi guardare le sue mutandine bianche sotto la sua gonnelina rossa, ai miei tempi era fatto divieto alle femmine di indossare abiti maschili, ed era il momento che il cervello cercava di darti delle spiegazioni ma come un cubo di rubig più lo giri più si incasina, così entravi nella più totale confusione tra le spiegazioni rubate dai discorsi degli adulti, le poche nozioni imparate a scuola ed i tanti taboo riguardanti il sesso, ma era anche quello un momento di crescita e della consapevolezza che esistevano due sessi che come due calamite si attraevano l’ un l’ altro, ed è sempre stato così fin dall’ inizio della vita. Poi arrivava mio padre tutto sudato con la falce in mano a riempire d’ acqua il “ cozzar “ per bagnare la “ preda “ che affilava la falce come un rasoio ; si fermava un momento si toglieva il cappello e si chinava a bere alla sorgente del grande masso dove l’ acqua sgorgava fresca e pulita e non dimenticava mai di ricordarmi il valore infinito di quel liquido benedetto e quante volte nell’ arido deserto della Libia aveva sognato le fresche sorgenti della malga Binaggia quando era pastore prima della guerra, poi si rimetteva il cappello e tornava a falciare di lena il prato. Ho avuto modo durante la mia vita di raccogliere le testimonianze di molti reduci di guerra, della prima e seconda guerra mondiale: i combattenti sul fronte africano lamentavano tutti la mancanza di acqua e la grande sete patita, quelli del fronte russo il grande freddo che li paralizzava e li congelava lentamente … e tutti maledicevano la guerra, forse ai giovani d’ oggi non è stato volutamente, per ragioni politiche, insegnata la storia contemporanea ed oggi ne paghiamo tristemente le conseguenze. E l’ acqua continuava a scorrere ed a far girare il piccolo mulino, con l’ amichetta ci siamo tolti i sandali ed abbiamo immerso i piedini nel fresco rivo con un sorriso e dei gridolini di felicità per il sollievo dato dall’ acqua che ti scorreva tra le dita provocando una piacevole sensazione di sollievo e di benessere. Il prato a Pongel ora è di proprietà dei miei cugini di Bolzano ed è un fitto bosco di abeti rossi che avevo piantato per conto di mio zio negli anni ‘70 , nei primi anni da pensionato un giorno mi è presa la nostalgia e la curiosità di rivedere quei luoghi che avevano reso felice la mia infanzia, nonostante i miei handicap fisici, e mi sono recato a Pongel, ho attraversato il fitto bosco dirigendomi verso il grande masso da dove sgorgava il ruscello, arrivato lì ebbi la più grande delusione della mia vita: la sorgente si era prosciugata ed il ruscello non c’ era più. Probabilmente i lavori di scavo per la costruzione di una centralina elettrica poco distante avevano tagliato la falda acquifera che alimentava il ruscello … tornai a casa piangendo. D’ estate poi ci si accodava ai “ grandi “ che erano studenti di 6° elementare o che avevano frequentato le scuole presso degli Istituti religiosi ed avevano imparato molto più di noi piccoli, sapevano la fisica, la tecnologia che sperimentavano nel bosco di Somargen e presso il torrente Pescara, così vedevi nascere una piccola centrale idro – elettrica fatta con una grossa dinamo con un meccanismo di ingranaggi e mossa da delle pale molto più grandi che sfruttavano la corrente impetuosa del torrente, il tutto serviva per illuminare una piccola baita costruita rigorosamente con il legno abbondante del bosco in una località che si chiamava “ Splazze “ che era un tratto pianeggiante del bosco privo di vegetazione un prato dove si portava il bestiame al pascolo. Allora non c’ erano telefoni o cellulari, per ritrovarsi valeva il tocco della campana che segnava l’ ora e il nome della località, noi conoscevamo il bosco ed i suoi segreti, conoscevamo strade e sentieri come le nostre tasche, lo si frequentava di giorno e di notte, si faceva riferimento a delle pietre particolari o ad alberi dalle forme strane e non ricordo che qualcuno si sia infortunato gravemente in quel periodo, al di là dei consueti graffi dei rovi o qualche ginocchio sbucciato per una caduta … non oso neppure immaginare quello che potrebbe succedere se si mandassero nel bosco i bambini di oggi. Questa era la vita povera ma felice di noi bambini degli anni ‘50 eravamo accomunati dalla povertà che allora regnava sovrana in tutte le case, che determinava un uguaglianza sociale di fatto, nessuno possedeva qualche cosa che l’ altro non avesse e che poteva essere fonte di invidia o di superiorità, tutti al mattino mangiavano le “ patate rostide “ con il latte e caffè di orzo e a pranzo polenta e quello che il convento offriva … ma sono stati giorni di grande serenità e di profonde e sincere amicizie che sono durate nel tempo fino ai giorni nostri e non di rado quei fanciulli di un tempo ora anziani quando si ritrovano rivangano con la memoria e tanta nostalgia quei giorni felici sulle rive di un fosso a guardare l’ acqua che scorre ed un mulino che và ...

 

 

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L ‘ CJANTON DI “ BOROMEI “

 

(L’ angolo dei “ Boromei “)

quando ero ragazzino delle elementari età in cui si comincia a capire il senso della vita, il trascorrere delle stagioni, i disagi di un infanzia di privazioni e umiliazioni, quando si cominciavano a capire le differenze sociali tra i ricchi e i poveri, quando gli infissi di casa erano tamponati da carta e stracci per evitare gli spifferi freddi e per fare pipì dovevi usare il “ cesso a caduta “ di legno sporgente dalle case gelato come i moderni freezer, allora la stagione più lunga e odiata che non finiva mai era l’ inverno. Allora nelle case c’ erano tre stanze abbastanza riscaldate ed erano la cucina, la stube foderata in legno ( la stua ) e la stalla che era riscaldata dal fiato delle mucche. L’ inverno si impadroniva dei tuoi piedini e ti provocava le bujanze ( i geloni ) che ti arrossavano e ti gonfiavano le dita provocandoti molto dolore e la sensazione che le scarpe fossero strette, poi ti gelava le mani anche se avevi i guantini o le manopoledi lana che ti aveva fatto la nonna, quando ti svegliavi al mattino e la finestra della tua cameretta era divenuta un quadro artistico naturale con arabeschi fiori di ghiaccio … c’ è da aggiungere che ai miei tempi l’ inverno era tosto con tanto freddo e tanta, tanta neve. Ecco la neve con il suo eterno fascino, che imbianca tutto che muta in una notte il paesaggio proprio come nelle fiabe che ci raccontava il buon maestro Ernesto a scuola e ci diceva sempre il saggio proverbio della cultura contadina tramandato dalla notte dei tempi e a tutt’ oggi ancora valido ed attuale: “ Sotto la neve pane, sotto l’ acqua fame … “ se per gli adulti la neve provocava qualche disagio e la scocciatura di dover fare “ la rotta “ per noi fanciulli era un motivo di grande gioia perché si poteva andare a slittare sullo stradone; alla prima nevicata si preparavano le slitte, si rervisionavano affinché fossero in piena sicurezza ed efficienza con l’ aiuto dei più grandi o del papà. Le slitte che usavamo noi ragazzini di allora erano fatte come un carretto con la parte posteriore fissa e dotata di lamine di acciaio e la parte anteriore mobile anch’ essa con le lamine di acciaio ed il manubrio simile a quello di una moto, la slitta mancava però di un sistema di frenatura autonomo la frenata avveniva con i piedi dei viaggiatori che raschiavano la neve al bisogno. Per poter “ slittare “ in modo ottimale bisognava attendere che sullo stradone fosse passato lo ” slitton “ che proveniente da Rumo faceva la rotta fino al bivio di Scanna. Il passaggio dello slitton era un vero e proprio spettacolo da fiaba come si vedevano certe immagini sui libri di scuola, era composto da un grande cuneo ferrato anteriore che fendeva la bianca coltre di neve fresta e dietro due enormi, pesanti tavole di legno fissate al cuneo anteriore con delle robuste cerniere in acciaio, era fantastico vedere avanzare i cavalli sbuffanti e sudati nella neve che trainavano lo slitton, uno spettacolo degno di un grande film Disney che ancora adesso rivedo col pensiero e con infinita nostalgia di quei tempi da fiaba e tanta libertà. Si attendeva con ansia la fine delle lezioni e poi si tornava a casa con gli accordi preventivi con chi possedeva una slitta e quali passeggeri avrebbe preso a bordo, si trainavano le slitte con una cordicella di canapa fino a Preghena sullo stradone reso uno specchio scintillante dal passaggio dello slitton e poi si giravano i mezzi e si era tutti pronti a partire diretti al bivio di Scanna. Prima di partire correva di bocca in bocca un monito severo di attenzione al pericoloso angolo dei “ Boromei … “ Stet atenti al cjanton di Boromei !!! “ , perché giunti a Scanna nei pressi del “ morar di Tripoi “ la strada si faceva pianeggiante per un tratto rallentando la velocità delle slitte, allora si decideva preventivamente di scendere dritti per la ripida e tortuosa stradina che taglia il paese di Scanna, accorcia e sbuca di nuovo sullo stradone a cento metri dal bivio sulla SS 42 ed a questo punto bisognava prestare la massima attenzione all’ angolo dei Boromei … le slitte scendevano veloci con il classico rumore dei pattini sulla neve battuta e gelata come un rumore di lontani cavalli al galoppo, tutti ci tenevamo attaccati con le mani ai bordi, una slitta dietro l’ altra a velocità folli, arrivati al morar di Tripoi le slitte imboccavano il primo budello della strada di Scanna con un tonfo per via dell’ improvviso cambio di pendenza, poi giù verso il fatidico cjanton di Boromei. Venti metri più a valle della chiesetta di Scanna dove la stradina gira a destra c’ era il temuto angolo, lì la strada si fa stretta e ripida bisogna fare attenzione a non viaggiare troppo a destra per via dell’ ingresso a gradino di una stalla e poi c’ é subito il cjanton che sporge a barbacane dalla casa… lì bisognava essere piloti esperti e dal sangue freddo tipico di quella età barbara ed incosciente che è la giovinezza. Le slitte passavano rombando ad una ad una guidate da mani esperte, rasentando l’ angolo in modo pauroso per poi immettersi nel budello finale tra la casa dei Ciatti e quella dei Ferari poi giù di nuovo nello stradone fino ad arrivare a destinazione Bivio di Scanna. Si riprendeva poi il cammino di ritorno verso nord ed ognuno raccontava con ampia gesticolazione la sua avventura, i momenti più brutti ma sopratutto quelli più belli ed affascinanti della giovinezza spensierata e serena della nosta stupenda età …

 

 

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La “ poina “

 

( La ricotta )

 

 

Era la parte meno nobile della filiera della trasformazione del latte, prima veniva prodotto il burro, poi il formaggio e dal siero del latte veniva infine ricavata la “ poina “.

La tradizione in italiano di questo prodotto e ricotta, e porta nel nome stesso la sua origine ed il suo sistema di lavorazione, infatti la ricotta veniva prodotta da una seconda caliata del siero dove prima si era prodotto il formaggio.

Il siero residuato del formaggio, seguiva lo stesso procedimento del latte che veniva nuovamente riscaldato a 35/ 37 gradi, ci veniva messo del nuovo callio che coagulava i residui di latte e grassi rimasti dalla prima cotta nella quale si era ricavato il formaggio.

Naturalmente quello che ne derivava erano delle forme di piccole dimensioni e dal contenuto estremamente povero di grassi: la poina. Ora credo venga prodotta solo nelle malghe di montagna e messa ad affumicare sopra delle tavole di legno nella casera vicino al pai nei pressi dell’ uscita del fumo verso il camino, prendono così un colore ed un sapore tutti particolare ed è divenuta un prodotto di elite consumato da pochi fortunati che la prenotano in tempo ai pastori o al casaro della malga.

Ai miei tempi era uno dei condimenti che spesso accompagnavano la misera polenta di tutti i giorni, aveva un sapore ed un odore tutti particolari impossibili da descrivere per chi non ne abbia mai avuta l’ occasione di mangiarla almeno una volta nella vita. La poina era un alimento estremamente magro e quasi privo di calorie, andrebbe bene adesso per tutte quelle signore in sovrappeso che si arrovellano per trovare una dieta o un prodotto che le faccia dimagrire, senza rinunciare alla buona tavola ed all’ abitudine forchettata, spendendo montagne di denaro per poi piangere ogni volta che salgono su una bilancia pesa persone.

Basterebbe una bella e poco costosa dieta alimentare basata sulla polenta e poina ed avremo fatto di tutte le donne italiane delle siluette. Quando ai miei tempi si era costretti per la mancanza assoluta di denaro ad alimentarci con la poina, tutti la odiavano perché sapeva di fumo e di sale e qualche volta ospitava anche qualche inquilino invertebrato di colore bianco panna che usciva allegramente dal pezzo tagliato di fresco, ti faceva un saluto e poi attraversava strisciando il tuo piatto facendoti perdere immediatamente l’appetito ed il più delle volte dicevi di non aver fame o di non stare tanto bene per non dover mangiare anche gli abitanti clandestini della poina.

Per la gente di montagna è stato uno degli alimenti poveri della classi meno abbienti come i contadini di allora che erano costretti a vivere con l’ esclusivo ricavato dei prodotti della terra, dai quali bisognava togliere il meglio della produzione che veniva venduto per poter ricavare del denaro per l’ acquisto di generi che non venivano prodotti in loco, vestiti, scarpe, farmaci ecc., così il burro veniva venduto, come pure parte del formaggio, i vitellini nella stalla. Con l’ incedere del benessere portato dal boom economico italiano degli anni ‘ 60 , la gente cominciò ad avere maggiore disponibilità di denaro frutto di un economia italiana che cresceva assieme al paese, si passò presto dall’ autarchia alimentare famigliare alla forma di commercio più pratica dell’ acquisto dei generi alimentari presso i negozi che erano sempre più riforniti con tutte le soluzioni e le novità che il mercato proponeva.

Con questo nuovo sistema l’ autarchia famigliare non h avuto più ragione di esistere, sono andate così definitivamente perse numerose tradizioni inerenti la produzione dei generi alimentari che si potevano comodamente acquistare nei negozi, dapprima sfusi e poi confezionati in unità di misura varie.

Chi non aveva produzione propria, il latte lo andava a prendere con un secchiello al caseificio, fresco appena munto, poi le leggi si sono fatte più restrittive e tutto quello che fino a ieri era un prodotto genuino acquistabile direttamente dal produttore, il giorno dopo non era più a norma e doveva essere venduto confezionato, prima in bottiglie di vetro e poi in tetrapac, rigorosamente pastorizzato UHT.

Così è stato piano, piano per tutti gli altri prodotti alimentari ed è nata così una catena di produzione al dettaglio che ha teso a confezionare tutti i prodotti alimentari in contenitori per la maggior parte in plastiche di vario tipo con il risultato di aver dato il via ad una colossale produzione di rifiuti che ora è divenuta una vera o propria emergenza nazionale, ma non importa tutto deve essere a norma CEE dalle confezioni alimentari, alle quote latte, alle produzioni di origine DOC e DOP, alla nomenclatura dei vini ecc.

La vecchia e gloriosa poina è divenuta ormai u attrattiva turistica per quelli che amano le escursioni in montagna con una sosta presso le malghe che ancora lavorano il latte, a chiedere una fetta di poina come se fosse il boccone più prelibato che ci sia.

Viene anche usata negli agritur come se si trattasse di tartufo o di caviale, e ritorna forte assieme all’ inconfondibile profumo di poina affumicata, il ricordo ed il rimpianto per quei tempi di miseria nera che per anni ci ha obbligato ad avere come piatto principale polenta, patate e poina, quando nessuno nel paese la sera prima di andare a letto chiudeva a chiave la porta di casa, certo che nessuno sarebbe entrato a violare la sua proprietà o i suoi beni, quando se uno aveva bisogno di un favore , piccolo o grande che fosse, bussava alla porta del prossimo vicino di casa certo che l’ amico lo avrebbe aiutato . io ho avuto tante disgrazie nella vita, tante umiliazioni ed angherie, ma ho avuto la grande forma di essere nato in un epoca in cui i rapporti umani erano migliori, la gente era molto più solidale ed onesta, non esisteva l’ ipocrisia di adesso nella vita sociale e de uno ti prometteva una parola quella era perché la comune povertà di quell’ epoca metteva tutti allo stesso livello ed a pranzo tutti mangiavano polenta e poina.

 

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Le patate rostide

 

 

Uno dei principali alimenti che costituivano il nutrimento di noi ragazzini di allora e che veniva preparato tutti i giorni della settimana, servito a tavola fresco o riscaldato, da solo od accompagnato da una ciotola di latte caldo, erano le patate rostide.

Per una volta credo che non ci sia bisogno di traduzione per capire che si tratta di patate arrostite.

Era un alimento semplice ed allo stesso modo molto economico, infatti il prodotto base principale erano le patate che venivano coltivate a tutte le famiglie della comunità in grande abbondanza nei campi attorno al paese. La pezzatura del tubero di patata variava a seconda della piovosità o della siccità della stagione, se era una stagione piovosa le patate maturavano con una pezzatura bella grossa, ma se al contrario la stagione era scarsa di pioggia o in certi anni il terreno pativa la siccità, allora tutto il raccolto, patate compresa erano di dimensioni molto piccole a tal punto che mio padre le paragonava con il suo linguaggio colorito e tagliente ai “ cojoni di grii “ ( alle palle dei grilli ).

Le patate rostide si preparavano con gli avanzi di quelle lessate per il pranzo, si pelavano e si schiacciavano con le mani in una grande scodella, mia nonna era un genio nel confezionare questo pasto, lei ci metteva un poco di latte ed una cipolla tagliata a spicchi che faceva rosolare dentro una enorme tegame di rame assieme a dello strutto ( grasso di maiale ), quando il grasso friggeva e le cipolle avevano preso un bel colore rossastro, venivano messe dentro il tegame le patate schiacciate e gli veniva cosparso un pizzico di sale, si lasciavano così rosolare mescolandole con un mestolo di legno per una decina di minuti, il tempo che si amalgamassero con il grasso fuso e la cipolla, quando avevano preso anch’ esse un bel colore giallo oro e profumavano di lardo e cipolla, allora si pressavano con un mestolo sempre di legno che assomigliava ad una paletta per far giocare i bambini, alla fine ne risultava come una grande torta alta due o tre centimetri, pronta per esser servita a tavola al mattino con il latte caldo misto a caffè di orzo rigorosamente tostato in casa con il “ brustolin “ che era il tosta caffè fatto in casa, mia nonna mi faceva girare la manovella mentre il fuoco abbrustoliva l’ orzo in una nuvola di fumo che invadeva la cucina nonostante la finestra e la porta fossero spalancate.

Alla fine dell’ operazione, assomigliavo più ad un diavolette puzzolente di fumo nei capelli e nei panni, mi mancavano solo due piccole corna ed ero un perfetto figlioletto di satana.

Invece la sera a cena. Le patate rostide venivano proposte con un menù diverso: con la minestra di orzo anche quella rigorosamente scaldata perché avanzata dalla sera precedente.

Così crescevo, un po’ gracilino e sottopeso, ma crescevo e non andavo a cercare altre soluzioni culinarie, sarebbe stato un inutile perdita di tempo perché quello era tutto quanto offriva il convento della famiglia Agosti, basti pensare che i primi budini, le prime banane il primo latte con il cioccolato, la prima gianduia da spalmare, ( l’ attuale nutella ), le ho potute mangiare solamente alcuni ani dopo quando andai a studiare presso il convento dei frati di Campolomaso.

Erano tempi duri, era inutile anzi controproducente lamentarsi della qualità del cibo, perché mio padre ch era una persona saggia e giusta, mi faceva notare, prendendomi in braccio, che c’ erano dei bambini che non potevano disporre neppure delle patate rostide.

Io non ho mai sofferto la fame, mio padre e mia madre piuttosto che io e mio fratello fossimo privati della giusta razione di cibo, si privavano loro per darlo a noi.

Erano tempi dove era evidente e palpabile il bisogno della reciproca solidarietà tra i membri di questa Comunità, che ha avuto momenti di alto spirito filantropico e solidale, nessuno allora si vantava più di tanto e non metteva tanto in mostra ne faceva pesare all’ altro il fatto di AVERE più dell’ altro, eravamo tutti poveri economicamente, quindi tutti eravamo nello stesso identico stato sociale, si dava allora molta più importanza all’ ESSERE, e si sapeva dedicare molto più tempo all’ educazione morale e civica dei propri figli, ogni giorno si trovava un momento per fare il punto della situazione scolastica, e ci venivano chieste spiegazione sul fatto che il maestro aveva informato mio padre sul mio andamento scolastico ed il Parroco gli aveva parlato della prossima cerimonia per la prima Santa Comunione… si trovava anche il tempo per la recita del rosario tutte le sere di maggio, per ascoltare mio padre che ci leggeva un buon libro o per ascoltare tutti assieme, in rigoroso silenzio, il radiodramma che veniva trasmesso dalla radio.

La vita ai miei tempi sembrava scorrere più lenta, meno piena di inutile e deleteria rincorsa ad avere più prestigio, che ora si identifica nell’ appartamento lussuoso, nei vestiti firmati che costano un patrimonio ed hanno la stessa utilità di quelli che mi porta a basso prezzo la mia amica marocchina Widad.

Non serviva l’ automobile di grossa cilindrata o il suv per avere più prestigio e rimorchiare qualche ragazza, e neppure il tanto sbandierato titolo di studio che faceva poi diventare il suo possessore un “ impiegato “ come se l’ agricoltore ed allevatore del nostro paese fosse uno sfaticato senza lavoro invece di un esperto ed instancabile lavoratore, non c’ era le televisione che è un formidabile strumento educativo se ben usato, ma diventa una piaga di asocialità e di profondo egoismo e futilità se usata in modo selvaggio e senza regole o controlli.

Ora uno conta se ha una bella casa, una automobile potente, se ha un profilo facebook con almeno 300 amici che gli sparano cazzate condivise da mezza Italia, quando non sono vere e proprie pesanti volgarità sessuali… poi non si è più capaci di avere con una donna dei momenti di dolcezza di vera intimità che alla lunga può anche portare ad un rapporto sessuale, ma ci si arriva dopo un percorso di conoscenza reciproca che il fare l’ amore diventa la logica conclusione di un percorso di vita insieme, senza più bugie, ne taboo ma un esigenza naturale che conclude un positivo percorso di vita dedicato alla procreazione ed alla continuazione della specie umana, che è forse l’ unica ragione per la quale il Creatore e madre natura ci hanno concesso questa breve parentesi sulla terra.

Anche per gli anziani e per i disabili , quando io ero un ragazzino il trattamento era molto diverso da quello attuale, allora tutte le famiglie erano dette patriarcali in quanto al loro interno trovavano posto tutti i loro membri, sani e malati, vecchi e giovani, ed il proprietario della casa era obbligato ad ospitare gli anziani genitori e i figli e le figlie che non si erano maritali. In casa la più alta autorità era del patriarca , il nonno che aveva il diritto di mettere la parola finale sugli affari economici ed amministrativi del nucleo familiare ed anche sulle piccole diversità di opinione o i piccoli diverbi tra le donne.

Ora tutto questo è divenuta stretta competenza dell’ Ente pubblico con i suoi Servizi sociali, la sua burocrazia, la sua organizzazione molto discutibile ed arida di umanità e carità cristiana. Ora , come tutto , anche noi anziani siamo dei numeri, degli oggetti che producono lavoro e reddito, ora le signore di adesso, dalle lunghe lingue e unghie rosse,non vogliono più brighe e scocciature in casa, ora tutte vogliono stare comode dopo il lavoro, nessuno le deve disturbare quando sono in chat su face book o al telefonino a mandare SMS alle tante amiche di turno che ha appena visto senza neppure salutarle, ma un messaggio e un post e che diamine, quello ci vuole, se no che amiche siamo !

 

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Le erbe commestibili.

 

 

Un abitudine ereditata dagli anni in cui la miseria aveva ridotto la popolazione alla fame, era quella, nelle primavere dei miei tempi, di andare per i prati a mangiare i “ panciuchi “.

Erano delle erbe grasse che crescevano per lo più nelle zone ed alta umidità dei prati, erano delle erbe simili agli asparagi che bisognava cogliere quando erano allo stadio iniziale perché poi diventavano legnose e non più commestibili.

Avevano un sapore acidulo, si strappavano e si mangiavano a pezzetti direttamente nei prati, allora eravamo in grado di riconoscere e distinguere quasi tutte le erbe che crescevano nei prati ed anche le numerose specie di fiori che crescevano allora nei prati e nei campi, molte della quali ora non ci sono più a causa del repentino cambiamento di coltura che ha portato di fatto ad una discutibile monocoltura fatta esclusivamente di mele golden delicius , che ha imposto un sempre maggior trattamento delle piante con anti parassitari, ed anti crittogamici fino ad arrivare ai limiti di avere un terreno talmente inquinato che si può definire tranquillamente fito - tossico.

Allora si potevano raccogliere , senza timore di intossicazioni, anche i denti di cane o denti di leone che era ed è un ottima verdura che và raccolta all’ inizio della stagione primaverile togliendo dal terreno la radice ed i primi germogli, perché poi la pianta cresce s fa dapprima un bel fiore giallo che si trasforma poi in semi simili a tanti paracadute che il vento disperde per continuare la specie.

Mia nonna mi raccontava che durante la prima guerra mondiale la popolazione affamata per sopravvivere aveva cercato tra le erbe dei campi e dei prati quelle commestibili o utili per compensare le carenze alimentari e di altro genere imposte dalla guerra, come le ortiche per mangiare o per fare filati ed altre erbe talvolta medicinali, come l’ erba medica “ medeck “ o la radice anziana che si raccoglie in montagna.

Ora i empi sono cambiati e ci siamo abituati a comprare le verdure dal fruttivendolo, dando per scontato che le coso rimangano così, immutabili, ma niente è più dinamico della natura che ha una grande forza di adattamento al mutare delle condizioni climatiche, ma è anche molto sensibile agli sfregi che l’ uomo quotidianamente le sottopone, perciò tutto quello che è stato può ripetersi con conseguenze catastrofiche neppure immaginabili per il genere umano, con guerre per il controllo dell’ acqua o grandi emigrazioni di massa che possono sconvolgere l’ intero pianeta.

 

 

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I crauti

 

 

Nella tradizione alimentare contadina del nord est in modo particolare nelle zone adiacenti al Sudtirol dove si parla come madrelingua il tedesco, uno dei piatti tradizionali della stagione invernale sono i crauti. Questo ottimo e gustoso alimento viene prodotto usando come unico componente il cavolo cappuccio che cresce in abbondanza da noi e matura nella stagione autunnale.

Il par giò i crauti era un vero e proprio rito di tutte le famiglie contadine, i crauti infatti sono un genere alimentare a lunga conservazione, dura praticamente tutto l’ inverno fino a primavera inoltrata.

Non appena finita la raccolta del cavolo cappuccio che avveniva in ottobre, non appena i campi erano stati liberati da altri prodotti come patate, bietole, rape ecc. , questo veniva trasportato in casa nella benna del carro, veniva sempre raccolto in una giornata ventosa per favorirne l’ asciugatura all’ interno delle foglie ed evitare così che marcissero.

Una parte veniva conservato in un luogo fresco e ventilato e con gli altri cappucci si facevano i crauti.

Si procedeva in questo modo, si puliva molto bene prima il recipiente di legno fatto come un barile ma aperto da un lato con un coperchio di legno rimovibile che serviva alla fine dell’ operazione. Serviva poi la “fletarola” che altro non era che una grande affettaverdure con la lama ad inclinazione variabile per affettare i cavoli con diversi spessori, sopra la quale scorreva una piccola tramoggia dove veniva inserito il cappuccio che veniva fatto scorrere sopra la lama e ne usciva sotto tutto affettato e cadeva direttamente dentro in barile.

Sopra ogni stato di cappuccio affettato veniva cosparso un po’ di sale da cucina quanto bastava per dare ai futuri crauti un giusto gusto salino. Finiti i cavoli era finita anche l’ operazione crauti, bastava mettere dentro il barile il grosso coperchio di legno a contatto con il prodotto ed aspettare per circa 40 giorni fino a quando nel giro di una notte i crauti facevano l’ acqua che saliva fin sopra il coperchio per alcuni centimetri, allora era il segnale che i crauti avevano finito la loro fermentazione ed avevano acquistato quella classica acidità caratteristica di questo prodotto alimentare.

Il modo più classico di gustare i crauti, è cuocerli in acqua con l’ aggiunta di pancetta, cotechino e puntine di maiale diventano un piatto delizioso e ricercato , lo si trova facilmente negli agritur, nelle malghe di montagna ed in molti ristoranti ed alberghi trentini.

Devo aggiungere che sono ottimi anche mangiati crudi o scaldati in un panino.

 

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Ordine e disciplina

 

 

Erano tempi dell’ immediato post-fascismo dove ancora imperava il senso di Patria, del dovere e della disciplina che comportavano un obbedienza alle Autorità costituite ed una rigida disciplina verso i superiori, a prescindere che questi la meritassero o meno, tutto questo non si poteva neppure mettere in discussione.

Avevo e tutt’ ora ho molti dubbi sulla riverenza, a volte anche troppo marcata che rasentava l’ adulazione, verso personaggi che a mio parere non ne erano degni per il loro passato fascista o per la loro discutibile vita morale.

Tanti sarebbero i nomi da fare di gente voltagabbana ruffiana e molto lesta a cambiare il saluto romano con il pugno chiuso, perché solo in questo modo sapevano di contare qualcosa e di estorcere il rispetto che non si meritavano per luce propria. così come è stato per molti sessantottini pronti a nazionalizzare il paese alla Ugo Chavez e divenuti poi la peggior feccia di questo comune, ma è meglio se sto zitto ma è in questo modo che questo paese e la sua Comunità sono stati penalizzati nella cultura, nel rispetto reciproco, nella solidarietà, nel recupero delle tradizioni, nell’ interesse per la storia e soprattutto nella conservazione e manutenzione dei documenti storici di ogni tipo che avrebbero potuto dare il modo di ricostruire la nostra storia passata con maggiore certezza e dovizia di particolari, come lamenta il Prete scrittore don Luigi Conter.

L’ argomento in questione era la disciplina ed il senso del dovere , del rispetto dovuto alle autorità e per autorità per prime io intendo la famiglia con i componenti più vecchi, dal nonno al padre alla madre e perfino agli zii.

Allora si dava ancora del voi alle persone più anziane, un eredità del fascismo voluta dal gerarca Starace.

E questo sistema di ordine era riconosciuto ed accettato da tutti, vecchi e giovani, era una forma di rispetto assodata e praticata da tutti. Quando a scuola entrava in classe il signor Parroco, o il signor medico il dottor Tenaglia o qualsivoglia altra autorità, tutti gli alunni erano obbligati ad alzarsi in piedi e salutare la nuova presenza con la parola “ Riverisco “, e bisognava rimanere in piedi fino a quando l’ ospite non dava l’ ordine di sedersi e rimanere in assoluto silenzio; solo il nuovo venuto aveva il diritto di mutare questo stato e di fare domande ed esigere risposte.

Tra i ragazzini maschi di allora, si giocava spesso alla scuola guida in quanto l’ automobile era una cosa molto ambita tra i giovani di allora tutti quanti biker e appiedati.

Una delle domande classiche che venivano rivolte agli aspiranti ad avere la patente di guida era questa :

se ti ferma la polizia in autostrada tu cosa fai ? “

La risposta era immediata e decisa :

tolgo la chiave dalla macchina e quella si ferma ! “

 

 

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il filò

 

 

credo che la parola “ filò “ trovi la sua giusta collocazione etimologica nel verbo filare, tanto usato nel passato per raccontare il lavoro umile ed importante di tante donne che con infinita pazienza filavano la lana ed alti tipi ci filato come il cotone ed il lino, per poter dare un vestito al proprio uomo ed ai propri figli. Forse non ci abbiamo mai pensato a quanto sia stato utile nei secoli questo lavoro , questo impegno femminile, che sapeva creare da una materia prima organica o vegetale , dapprima i tessuti per gli abiti per ripararsi dal freddo e dalle intemperie per poi arrivare con la genialità tipica delle donne a dei veri e propri capolavori artistici come i tappeti ed i variopinti abiti che la tradizione di ogni cultura ci propone con le tante e variopinte varianti. Da questo lavoro meticoloso della filatura che spesso vedeva le donne i comunità con la possibilità di scambiarsi idee, consigli e parlare della vita di tutti i giorni con tutti i suoi aspetti, dalla dolcezza di una donna innamorata e gelosa del proprio uomo, alla gioia infinita e legittima di una giovane madre, al sorriso dolce e beffardo di una donna che ha avuto l’ amore. Alla tristezza di quella che è stata lasciata dal suo uomo, fino al dolore senza fine di una vedova che ancora giovane cerca un amore ma che certe leggi di un’ assurda e medioevale morale glielo vietano.

Ci si trovava la sera sulle immancabili panchine esposte all’ ingresso di quasi tutte le abitazioni a raccontarci la vita che era scorsa quel giorno nel paese, e l’ argomento che dapprima poteva essere banale , come l’ analisi del tempo atmosferico o i convenevoli di rito, piano, piano si faceva più dettagliato quando qualcuno proponeva un argomento o un fatto recente di comune interesse che suscitava la curiosità, ed a volte anche la morbosità, di tutti. Il filò era come una specie di telegiornale fatto in casa dove la notizia nel maggior numero dei casi era tutt’ altro che certa e se anche lo fosse stato difettava e discordava nei dettagli tra una panchina e l’ altra, allora, nell’ incertezza e con la curiosità delle femmine, una trovava sempre una valida scusa per spostarsi da una panchina all’ altra per poter carpire maggiori dettagli e segreti per poi venderli a caro prezzo alle comari di un altro rione.

Tutto era regolato da leggi mai scritte e da limiti invalicabili quali il buon senso e la segretezza di certi argomenti che era possibile sentire ma guai a chi li avesse ripetuti ad altri. Così era possibile che un argomento restasse il segreto assoluto di proprietà di coloro che frequentavano una determinata panchina e che venisse poi reso obsoleto dopo pochi giorni e poi completamente archiviato dal cervello attivo e fervido delle comari assetato di altre novità da discutere ed elaborare.

Per fare un esempio che avvalora e rende bene l’ idea di questo comportamento nella pratica del filò, basti pensare che a distanza di 50 anni tramite un amica che allora era un’ adolescente sono venuto a sapere che una mia coetanea era stata violentata da un “ bullo “ del paese…

Il filò aveva però anche il suo aspetto positivo e sociale, innanzitutto favoriva le relazioni umane tra gli abitanti di questa comunità ed anche di quelle limitrofe, perché non era difficile trovare su una panchina un ragazzo proveniente da un paesino vicino al nostro, magari a piedi o se era fortunato in bicicletta od in moto e potevate stare certi che su quella panchina c’ era anche una ragazza, tirata a nuovo con i cappelli ben pettinati un cenno di rossetto sulle labbra ed un profumo violento che lo sentivi a dieci metri di distanza, serviva anche a coprire l’ immancabile odore di stalla che tutti ci portavamo addosso e per le femmine certi odori che in primavera con il tepore del sole si ravvivavano , allora non erano disponibili gli assorbenti intimi e tutta quella gamma di prodotti per l’ igiene intima della donna, c’ erano sole delle pezze ricavate da vecchie lenzuola di cotone o di lino, che finito il loro lavoro non venivano buttate ma venivano lavate a mano alla fontana e riutilizzate.

Un altro valore che io trovo giusto attribuire al filò, era quello della solidarietà umana che passava anche quella attraverso il filò, era quasi impalpabile come il vento di primavera che , ancora fresco ti ricorda che tornerà l’ inverno con tutti i disagi che si porta appresso. Così nasceva con semplicità ed il legittimo orgoglio di poter dare una mano a chi in quel momento ne aveva effettivamente bisogno, una gara di solidarietà verso il prossimo, che poteva essere un abitante del posto, di un paese vicino o un problema più grande come gli incendi delle case che allora erano una piaga, per arrivare alle grandi tragedie mondiali come la fame o i terremoti e le guerre.

E la risposta era unanime e generosa, perché tra quella gente tutti erano poveri, tutti avevano visto almeno una guerra e tutti avevano dei congiunti emigrati. Ognuno dava con il cuore quello che era nelle sue disponibilità e nessuno poneva mai dei dubbi sulla destinazione finale dell’ offerta, era un altro mondo, un mondo fatto di gente semplice ed onesta che si sapeva accontentare di quello che aveva, che non si sarebbe mai permessa di rubare qualche cosa al vicino di casa, povero come loro, che non avrebbe mai pensato di finire in un mondo fatto di amministratori incapaci , disonesti e ladri, che hanno saputo carpire la loro buona fede solo speculando sui drammi della guerra appena trascorsa che aveva provocato lutti e divisioni ideologiche non ancora sanate perché ancora oggi alimentano le divisioni e favoriscono il malgoverno e la corruzione nella classe politica locale e nazionale.

Benedetto filò…

 

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Il cuore grande della mamma.

 

 

Desidero raccontare un aneddoto che mi è capitato oggi 18 maggio 2013 e che mi ha dato l’ esatta misura con la quale si può valutare l’ amore di una madre verso i propri figli. E’ un amore grande, unico, spiegabile solo con il fatto che una madre ha portato nel suo grembo una vita nuova, unica ed irripetibile, per nove mesi, sopportando disagi che solo una madre riesce a tollerare e sopportare, per l’ amore infinito che prova per quel piccolo batuffolo che porta dentro di se.

Mai come oggi, in questo piccolo episodio che tra poco inizierò a raccontare, ho avuto la sensazione netta e palpabile di quanto amore sappia dare una madre per i propri figli e quanto dolore essa possa provare e debba sopportare se una di queste sue creature venisse a mancare.

 

Per capire questo episodio bisogna fare un passo indietro di una settimana e raccontare un tragico e mortale fatto di cronaca nera, una settimana fa infatti in un incidente stradale perdeva la vita un ragazzo che aveva lo stesso nome e cognome del figlio della parrucchiera che al bisogno viene in casa mia a tagliarmi i capelli .

Oggi, previo appuntamento, è venuta per il suo lavoro a casa mia ed alla fine prima che se ne andasse mi sono permesso di chiederle come si fosse sentita a vedere un annuncio funebre con lo stesso nome e cognome di suo figlio…

Pur avendo fretta si è fermata sulla porta per un attimo come se questa domanda le avesse impedito di proseguire e meritasse una doverosa risposta. Dopo avermi raccontato delle innumerevoli telefonate ricevute dagli amici del figlio che chiedevano notizie sull’ incidente, della telefonata preoccupata di una zia di Trento, dopo la visita inaspettata dei genitori anche loro in ansia per le notizie appena date dai telegiornali locali, appurato con una telefonata che suo figlio che era andato a pescare stava bene, spiegava ai parenti che si trattava di un caso di omonimia e che conosceva il ragazzo deceduto che abitava in un altro paese.

Questa è solamente la cronaca di questa tragedia che ha stroncato una giovane vita, quello che mi ha profondamente colpito e che desidero raccontare è il lato umano della vicenda e la riflessione di una madre davanti a questa triste vicenda.

La risposta con parole lente e pacate che denotavano un grande senso di sollievo e di liberazione per un pericolo evitato,è stata che per un attimo si è sentita come sfiorata da quella tragedia, come se la morte le avesse alitato molto da vicino.

La mattina presto si è recata a rifare la cameretta del figlio e tra una spolverata ed un sistemare le cose, al momento di rifare il letto per la prima volta si è sentita felice di questa quotidiana continuità ed a pensato a quelle mamme che debbono fare le pulizie disfare il letto per l’ ultima volta perché il proprio figlio non tornerà più…

 

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I miei vicini di casa

 

 

Della Carletta Filippi posso dire poco, perché è arrivata in casa quando ero ancora bambino e se n’è andata in Canada che ero adolescente. Lei mi pare facesse la sarta ma non mi ricordo bene, il figlio più grande che si chiamava Rino e lei aveva avuto prima del matrimonio con suo marito che si chiamava Ernesto Conter ed abitavano in quella casa appena prima del ponte sul torrente Barnes, scendendo da Livo e che era morto d’ infarto sul lavoro, era molto più grande degli altri due .

Luciana era del 1950 era una bella ragazzina dal seno prosperoso, erano le mie prime attrazioni sessuali di quando non hai ancora le idee chiare e ascolti con attenzione i discorsi degli adulti per capire quello che devi fare ma resta sempre molto vago e confuso e rimani a guardare quelle enormi differenze e quando si sedeva sui gradini della scaletta dove dormivano i miei genitori, con le gambe divaricate allora fingevo di giocare a terra per riuscire a vedere le mutandine cianche e strette senza nessun rigonfiamento, strano che però a me un certo rigonfiamento lo provocava… stavo diventando uomo ma dovevo imparare ancora molto dalla vita.

L’ altro fratello si chiamava Claudio, era molto più piccolo di noi per cui da noi veniva considerato come un ragazzo che partecipava ai nostri giochi, nulla più.

Anche lui all’ inizio degli anni 60 se ne andò in Canada con il resto della famiglia, Carla è morta che aveva 90 anni era del 1915 ?

 

La famiglia con la quale abbiamo condiviso , nel bene e nel male , la nostra abitazione, fu la famiglia di Agosti Luigi ( dei mori ) che aveva sposato una donna di Livo che si chiamava Conter Elisa ( dei Ciari ).

Luigi era un uomo molto colto ed intelligente, era un tipo molto progressista ed aperto alle innovazioni tecnologiche, era stato emigrato in America e credo avesse anche avuto un ruolo di comando nella miniera dove lavorava. Leggeva molto riviste e quotidiani ed era informato su quanto succedeva in Italia e nel mondo. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale ed aveva visto scorrere la seconda.

Per dare il senso e la misura di quanto Luigi fosse attento ai cambiamenti che la tecnologia proponeva, mi ricordo che un giorno lesse su un quotidiano la notizia che un aereo militare, un caccia dell’ USAF aveva superato in fase di collaudo i 1000 chilometri all’ ora e ce lo fece notare come un avvenimento di grande portata tecnologica e militare che avrebbe condizionato il modo di combattere ed aggiunse – mili chilometri al’ ora : “ vardà popi che le nar ve “ .

Da poco ho saputo una notizia eccezionale che avvalora ulteriormente la mia descrizione del pensiero progressista e socialista del signor Luigi Agosti mio coinquilino, ho saputo dal nipote G.Luigi Zanotelli, che negli anni ‘ 20 in uno dei suoi rientri in Patria il signor Luigi un giorno venne con un compagno di viaggio che fu poi ospitato dal signor Agosti Eugenio dei “ Turi “, ospite illustre e sfortunato, destinato poi ad essere un simbolo del socialismo e di quel pensiero anarchico non violento e quasi sentimentale che prese piede in Europa dopo la prima guerra mondiale. Bartolomeo Vanzetti ( 11 giugno 1888 - 23 agosto 1927 ) assieme a Nicola Sacco ( 22 aprile 1891 - 23 agosto 1927 ) vennero infatti accusati negli USA di essere anarchici e di aver commesso l’ omicidio di un contabile di un calzaturificio ( Slaten and Morilli ) ci furono subito molti dubbi sulla loro effettiva colpevolezza, ma la Giustizia americana li mise a morte nonostante le molte proteste dell’ opinione pubblica di allora.

I dubbi si rivelarono in seguito fondati e a 50 anni esatti dalla loro esecuzione il governatore del Massachussets Michael Dukakle li riabilitò con questo solenne proclama : “ io dichiar che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti “

Sono trascorsi 63 anni della mia vita prima di venire a conoscenza di questa notizia che trovo eccezionale per la storia drammatica del signor Vanzetti, ma soprattutto mi piace sottolineare con un pizzico di orgoglio, lo spirito di solidarietà umana ed il pensiero progressista in ogni circostanza del signor Luigi Agosti, un Agosti come me.

Elisa era una donna buona e semplice, era una donna attiva e curiosa di sapere ogni minimo particolare delle vicende che accadevano, era con un termine che non vuole essere offensivo ma che descrive il carattere di un intera famiglia, era una “ ciara “

Per rendere chiaro quanto fosse una donna buona, saggia e generosa, voglio raccontare due episodi che mi hanno toccato di persona e che ricordo con particolare senso di gratitudine e di serenità.

Quando mi ustionai accidentalmente, fatto che ho già ampiamente descritto, accorse immediatamente appena mia nonna e mia madre la chiamarono e fu lei a darmi il primo soccorso e portarmi degli oli adatti alle ustioni e fu lei a consigliare mia madre e mio padre di portarmi dal dottor Tenaglia.

Ai miei tempi nessuno chiudeva a chiave la porta della propria abitazione e nessuno si sognava di prendere qualcosa che non fosse di proprietà, attrezzi agricoli o altre cose, ricordo il signor Luigi che in età molto avanzata, ebbe a dire che non aveva memoria nella sua lunga vita che gli fosse stato rubato qualche cosa di sua proprietà.

Al momento della morte di mia nonna avvenuta nel dicembre del 1969 Elisa era presente assieme a noi ed ai figli di mia nonna, elisa e mia nonna avevano una fede incrollabile, cosi che mentre mia nonna se ne stava lentamente andando in cielo, lei continuò a pregare fino alla fine per accompagnarla degnamente in quel Regno che è la patria finale di tutti e quando mia nonna spirò lei disse con tanta saggezza e tanto realismo : Lei questo passo l’ ha fatto !

Luigi ed Elisa ebbero quattro figli Luisa, Maria, Ettore e Paola. Maria morì di difterite che era ancora giovane , Luisa si sposò con Zanotelli Tullio, Paola con Inama Celestino ed il figlio maschio Ettore rimase celibe, ebbe una lunga relazione con una donna sposata di qualche anno più vecchia di lui, la relazione iniziò quando Rita era ancora maritata, proseguì dopo la morte del marito e finì con la morte di Ettore nel 2007.

Ora la casa l’ ha ereditata un nipote di Ettore, zanotelli Gianluigi architetto e pupillo dello zio, sono passati presto sei anni ma è ancora vuota.

 

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La volpe

 

 

Nel cortile di casa vicino all’ orto c’ era il “ bait “ delle galline dentro un grande recinto di rete metallica che consentiva loro di avere un sufficiente spazio a disposizione dove potevano vivere libere e nutrirsi del becchime e degli avanzi di casa. Rispetto agli allevamenti intensivi e barbari di oggi, si può tranquillamente dire che erano delle galline privilegiate, avevano la loro casa, il posto dove deporre le uova e lo spazio dove poter razzolare libere e felici. Naturalmente quando erano vecchie e smettevano di fare le uova, prima che dimagrissero troppo, un colpo di accetta gli staccava di netto la testa e finivano in pentola, ma almeno avevano vissuto una vita agiata.

Ci fu una notte che le galline fecero un baccano del diavolo, svegliando tutti i condomini della casa che continuavano ad affacciarsi alle finestre per capire quello che sta succedendo, senza però trovare una ragione a tutto questo sconquasso.

Il buio infatti non consentiva di vedere lontano più di tanto ed a quel tempo le torce a batteria erano il lusso di pochi ricchi.

Il baccano durò fino all’ alba quando io e mio fratello decidemmo di andare a vedere quello che stava succedendo nel pollaio.

Il rosso dell’ alba che stava tornando come ogni mattino, illuminava a sufficienza la zona del pollaio e dopo esserci guardati attorno, improvvisamente, in un angolo vicino alla rete metallica del recinto scorgemmo una piccola volpe malata che stava accucciata immobile accanto al pollaio. Con grande inesperienza e molto rischio, trascinati dallo spiriti di avventura che non ci vedeva fuggiaschi davanti a nessun pericolo, prendemmo sollevammo piano la volpe e la deponemmo dentro una vecchia gabbia che serviva per l’ allevamento dei conigli, poi salimmo a casa , prendemmo del latte ed un piatto e ne versammo un poco alla volpe che iniziò a bere con avidità.

Ci venne in mente uno scherzo da infarto da propinare al nostro gatto di casa, lo prendemmo in cucina e lo portammo giù nell’ aia vicino alla gabbia dove era rinchiusa la volpe facendo un tragitto alternativo in modo che il felino potesse vedere la volpe solo all’ ultimo istante appena avessimo girato l’ angolo della casa.

Arrivati all’ angolo dove dietro stava la gabbia con la volpe ci fermammo, il gatto continuava il suo tranquillo ron ron e non immaginava neppure lontanamente la visione terribile che di lì a un attimo avrebbe visto. Girammo di scatto l’ angolo ed avvicinammo d’ improvviso il gatto alla gabbia, l’ animale in un batter di ciglio raddoppiò di volume con una cresta sulla schiena e la coda che sembrava una grossa spazzola, poi soffiò verso la volpe mentre le unghie erano uscita dalle zampe lunghe e bianche in un battibaleno si era divincolato lasciandoci in regalo non pochi graffi ere r salito sulla enorme e alta pianta di pero che era nel prato confinante andando a posizionarsi nel punto più alto possibile e restandovi immobile con lo sguardo minaccioso ed una impagabile sete di vendetta nei nostri confronti per lo spavento subito.

Chiamammo poi il cugino Ginfranco che era cacciatore per vedere il da farsi con la volpe, poi passò per caso il signor Agosti Ottone che come mio cugino ci consigliò di abbattere la volpe perché poteva essere ammalata e magari contagiarci con la rabbia e così facemmo quindi la portammo nel vicino bosco dove scavammo una buca e la sotterrammo.

 

 

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L’ “ MORAR DEI TRIPOI “

 

( il gelso della famiglia Zanotelli )

 

 

Proprio dove si incontrano le due strade che tagliano l’ abitato di Scanna, al lato est della casa vecchia dei “ tripoi “ appena dentro il bel cancello in ferro battuto che recinta tutto il piazzale interno, cresce un gelso secolare e di proporzioni notevoli. I vecchi della famiglia Zanotelli proprietari della casa di cui fa arte integrante il secolare gelso, affermano che i loro nonni sostenevano di averlo visto sembra così, maestoso e fiero, osservare immobile e silenzioso il trascorrere del tempo che si trascina dietro con se la vita delle persone e le abbandona poi quando il loro tempo è scaduto, ma come una grande ruota che gira senza mai fermarsi non ha un inizio ed una fine ed è pronto ad accompagnare novelle vite nel percorso obbligato dell’ esistere, dove tutto comincia con un atto di amore reciproco e finisce accolti dall’ Amore divino.

La lunga vita del gelso si deve, a mio parere, anche alla sua posizione strategica vicino alla strada ed alla casa dei proprietari, sommando infatti questi due fattori si può evincere che non sono mai esistite delle vere ragioni o delle cause per le quali si sarebbe dovuto sacrificare la pianta che è potuta vivere in buona salute, accudita amorevolmente dalla dinastia Zanotelli fino all’ epoca nostra e c’è da scommettere che morirà di vecchiaia e vedrà passare ancora numerose generazioni delle famiglie che compongono la saggia, silenziosa e laboriosa comunità di Scanna.

Un episodio in particolare merita di essere citato per l’ alto senso civico della famiglia Zanotelli nella difesa e salvaguardia del vecchio gelso,

alcuni lustri or sono della nostra storia più recente, i signori Zanotelli decisero di dotare la propria casa agricola di un moderno ed ampio garage per i mezzi da lavoro e per le automobili. Nessun problema od ostacolo di qualsiasi genere impediva di fatto la realizzazione di quest’ opera, anche per il semplice fatto che il garage veniva realizzato interamente interrato. Questa opzione deve aver provocato un senso di angoscia e smarrimento al grande gelso dalle lunghe radici, profonde e diramate, che gli hanno garantito la sua sopravvivenza durante i secoli, ma con un ingegnosa operazione di aggiramento e messa in sicurezza che ha impegnato il progettista e la Ditta di costruzioni, il gelso venne così protetto e salvato .

il gelso ha da sempre esercitato su di me un grande fascino e per questo pel lui ho una speciale devozione come per un grande vecchio silenzioso che custodisce dentro il suo animo nobile i segreti di un intero paese, le gioie dei matrimoni e delle nascite, il trascorrere della vita dal ritmo lento e tradizionale dei tempi passati dove il trascorrere del tempo era scandito dalle stagioni che segnavano il momento della semina e quello del raccolto e c’ era pure il tempo per fare filò, alla frenesia del movimento che contraddistingue la gente dei mostri tempi, sempre di corsa, sempre con il telefonino in mano senza più una meta, senza più un ideale, uno è solitudine, due sono troppi, e via su fb o su twitter a cercare nuove amicizie senza manco salutare quello che gli cammina al fianco…

Non so spiegarmi la ragione ma quando passo davanti al maestoso gelso, l’ animo si rasserena ed un grande senso di pace mi pervade, sarà che il gelso nota che sto invecchiando e che la grande ruota del tempo si avvicina inesorabile.

 

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IL CROCIFISSO DI SCANNA

 

 

 

Il crocifisso di Scanna è una riproduzione in legno di Cristo in croce, ed è per quanto ho potuto seguire la storia dellla frazione di Scanna del comune di Livo, in stretta concorrenza con la nostra piccola ed umile chiesetta, il simbolo più evidente e venerato dalla gente che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere, soprattutto quanti non sono più tra noi fisicamente ma che vivono tra noi nei nostri ricordi e nella preghiera dei credenti.

Per uno che non conosce la zona del Mezzalone e viene a Livo per la prima volta, non è affatto difficile localizzare con assoluta certezza il crocifisso, infatti quando si lascia la strada statale SS 42 Tonale Mendola e si imbocca la provinciale N° 68 che porta a Livo e poi prosegue per Rumo o Bresimo, percorsi circa 200 metri salendo sul lato destro della strada si incontra una prima croce in legno senza alcuna effigie, posta sulla destra della sede stradale al ampio bivio che porta nelle campagne più basse del paese. Per trovare il crocifisso del quale narrerò la storia, bisogna salire altri 150 metri circa fino ad arrivare al curvone che devia la strada provinciale di 90 ° per poi entrare per poche decine di metri nell’ abitato di Scanna. Alla fine della grande curva, anche qui sul lato destro della carreggiata, si trova il nostro crocifisso, posto in un angolo di un prato a valle dell’ imbocco della strada interpoderale che porta a Barbonzana ed a Barn, confinante con il prato dove è posto il crocifisso a valle si può notare la casa di abitazione del signor Zanotelli Ivo.

La croce in legno di larice è stata da poco restaurata compreso il capitello in scjandole sempre di legno di larice al quale è appesa una lanterna ad olio perennemente accesa.

Il Cristo invece ha una storia più antica e molto affascinante che mi è stata narrata dagli eredi dei proprietari che erano i “ masadori “ una delle numerose famiglie Agosti che popolano la frazione di Scanna. Masadori erano detti perché lavoravano ed abitavano nel periodo della stagione agraria in un maso della zona vicino al torrente Pescara ed erano dei mezzadri agricoli che lavoravano la terra di altri proprietari ricavandone la metà del raccolto.

Mi racconta il signor Romano Agosti dei masadori che il crocifisso era originariamente di loro proprietà ed era appeso in casa loro, si parla almeno di due secoli or sono, poi i fratelli Agosti divisero la casa in più parti per ricavare più alloggi, al termine di tutta questa operazione risultò che non si trovava più del posto per poter appendere il crocifisso. I signori Agosti allora decisero di comune accordo ritrovare una spazio in una loro proprietà ed esporre il crocifisso alla fede dei loro compaesani e dei numerosi viandanti che allora passavano sulle nostre strade.

Venne allora costruita una grande croce di legno, molto simile alla attuale considerato che si è sempre copiato dalla precedente opera per ogni restauro effettuato nei tempi che ne seguirono, Come appena accennato al Cristo venne messo un lume ad olio che si poteva abbassare tramite una cordicella ed una piccola carrucola per poter aggiungere del nuovo olio alla lampada.

Anche riguardo all’ olio che alimentava la piccola lanterna i fratelli Agosti del casato dei masadori, si erano diviso l’ onere di procurarsi, un anno per ciascuno, lì olio necessario per perpetuare la fiammella che ardeva davanti al Cristo in croce. La decisione di esporre il crocifisso in un luogo aperto in una loro proprietà, va classificato e trasmesso alla storia come un atto di grande consapevolezza maturato da una profonda fede in Dio; avrebbero potuto vendere il crocifisso che era comunque di notevole valore artistico e di vetustà e sicuramente sarebbe stato ben pagato anche a quei tempi.

Alla fine del 1983 o nella primavera del 1984 qualcuno rubò il prezioso crocifisso che la famiglia Agosti avevano esposto al pubblico, il furto avvenne in pieno giorno probabilmente da intenditori d’ arte che lavoravano su commissione. A nulla valsero le indagini subito avviate dai carabinieri di Rumo ed anche in seguito non dettero alcun risultato le ricerche nelle refurtive e nelle aste di oggetti di antiquariato dove era stato segnalato mediante delle fotografie. La piccola comunità di Scanna rimase profondamente colpita da questo evento delittuoso che la aveva privata di un punto di riferimento artistico e di fede, ricordo infatti i vecchi che si toglievano il cappello in segno di riverenza quando passavano vicino alla croce e l donne e le ragazze facevano a gara a fare delle composizioni di fiori presi negli orti che poi depositavano ai piedi della croce.

Mia nonna quando tornava da Barbonzana si fermava sempre alla Crozza e raccoglieva un mazzolino di garofani selvatici che poi attaccava con dei fili d’ erba ai piedi del Cristo morente, erano forme di fede popolare molto profonda e radicata nella cultura della mia gente, gente umile e povera ma piena di amore e di cristiana carità.

Era desolante vedere la croce priva del Cristo ed in paese non si faceva che parlare di questo furto sacrilego con molta indignazione e tanti dubbi e domande sugli autori che avevano agito in modo così strafottente in pieno giorno.

Con uno scatto di orgoglio mosso anche dalla fede profonda che la anima, la piccola ma saggia comunità di Scanna seppe reagire a quella situazione e decise di acquistare un nuovo crocifisso da appendere alla grande croce all’ ingresso del paese, in una riunione con il parroco di allora don Flavio Menapace si decise di finanziare l’ aquisto con una colletta tra la popolazione della frazione di Scanna.

Prima si informò la popolazione del paese a mezzo di un volantino fatto recapitare a tutte le famiglie e poi nella data stabilita il signor Alessandro Agosti ed il sottoscritto passarono per le famiglie a raccogliere le offerte.

Fu una bella esperienza di fede e di contatto umano, la gente rispose molto bene all’ iniziativa ed in un batter d’ occhio si raccolsero i fondi per l’ aquisto del nuovo Cristo opera dell’ artigianato del legno della val Gardena.

La riproduzione attuale somiglia molto a quella precedente perché venne realizzata sulle indicazioni fotografiche e sulla descrizione visiva.

In quella occasione si è provveduto anche al rifacimento di tutto il legno della croce con una nuova travatura in larice ed una nuova copertura del capitello con scjandole residue usate per la copertura del campanile della chiesa parrocchiale di Varollo, opera eseguita negli anni ’70.

Così il giorno 8 dicembre 1984 festa dell’ Immacolata Concezione alla quale è dedicata la chiesetta di Scanna ed occasione di grande festa nella frazione, alla presenza della popolazione il parroco don Flavio Menapace procedeva alla solenne benedizione della nuova croce.

Il signor Alessandro Agosti lesse una preghiera scritta per l’ occasione invocando la protezione di Dio per la popolazione e per tutti coloro che di lì si trovassero a passare .

Fu una cerimonia semplice ma sentita dalla gente perché era stata coinvolta in prima persona prima dal furto che l’ aveva rattristata d offesa nei sentimenti più profondi e personali come la fede, poi era stata attrice consapevole e generosa dell’ aquisto della nuova immagine del Cristo che ora li ripagava con lo sguardo morente dall’alto del legno della grande croce all’ ingresso dell’ abitato di Scanna.

 

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IL SENTIERO DEL GIAN MOLINAR

 

 

E poi lasci la strada statale SS 42, lasci il traffico rumoroso che echeggia tra le forre profonde del torrente Pescara là proprio dove le sue acque che hanno percorso fragorose il lungo tragitto che dalle natie Maddalene le ha portate fino a trovare una meritata pausa di riposo nelle acque tranquille e profonde del lago di Santa Giustina; lì, se vuoi, puoi assaporare un angolo di pace e di tranquillità che solo il bosco profondo e quasi selvaggio ti può regalare con un percorso all’ interno del suo grande cuore , formato da alberi di conifere che si elevano al cielo maestosi in cerca di luce e sotto un fittissimo sottobosco di piante di ogni tipo e di verdeggiante erba che cresce rigogliosa nel bosco ricco di vitale acqua.

Il sentiero del Gian Molinar inizia proprio in quel punto preciso e si tuffa nel fitto bosco tagliandolo come una spada con un comodo e dolce discendere tra i suoni, gli odori ed i colori che il bosco ti dona lungo tutto il percorso che dura all’ incirca 15 minuti e che poi sbocca come in tutte le favole che si rispettano, in una verde radura dove sorge nascosta tra fitti abeti una bella e comoda baita in legno.

Dalla casetta nel bosco per arrivare ai ruderi del vecchio mulino del Gian molinar il passo è breve, basta scendere verso il torrente e seguire il suo percorso verso valle per un centinaio di metri e si arriva nel fittissimo sottobosco alle rovine del vecchio mulino.

Arrivati qui si può trovare la logica spiegazione dell’ utilità del sentiero che serviva al Gian molinar per il trasporto della farina verso i luoghi abitati per la sua consegna alla gente che gli aveva dato il grano da macinare.

Originariamente il sentiero aveva una deviazione a metà del suo percorso attuale, ben visibile tutt’ ora, che scendeva verso il ponte romano che attraversava la forra del torrente Pescara e portava verso la terza sponda di Anaunia, era un ponte ad arco romano bello da vedere, aveva superato indenne tutte le avversità e le calamità del tempo fin dall’ impero romano ai moderni anni ‘ 70 per finire la sua grande e nobile storia demolito da questa civiltà meccanizzata ha cercato inutilmente di ostacolare con la sua presenza l’ avanzare di questo assurdo ed inutile progresso pagando il tributo a questa “ civiltà “ affamata di false illusioni e di una discutibile forma di progresso.

Da sottolineare che tutte quelle Istituzioni che tanto a parole difendevano il nostro patrimoni culturale ed artistico, impedendo magari l’ apertura di una indispensabile nuova finestra nei centri storici, nulla hanno fatto per impedire questo vergognoso scempio di un autentica opera d’ arte e di ingegneria dell’ uomo. Tristezza ed amarezza che provo ancora oggi quando ci penso…

Meglio infilarsi di nuovo nel fitto ed amico bosco e lentamente arrivare al vecchio mulino, tra le “videzze” ed i “noselari”, tra “ovene e rubini” le felci di un verde intenso, tra piante ormai morta schiantate sul terreno ormai stabile alloggio di formiche ed altri piccoli insetti, per arrivare dopo pochi minuti di ricerca al vecchio mulini ormai preda di guerra del bosco e dei suoi abitanti.

Lo trovi quasi all’ improvviso e subito ti stupisci dell’ imponenza di quei ruderi fatti di sola pietra tagliata e costruita a secco senza nessun tipo di malta legante, è una muratura che racconta come doveva essere originariamente il mulino, con nella parte interrata il cuore del movimenti idraulico fatto di ruote dai diversi diametri e direzioni di marcia regolati da un sistema di chiese che controllavano l’ acqua nel volume e nella direzione di marcia per dare il movimento e la vita alle macine ed agli altri strumenti che servivano a far funzionare l’ intera operazione di macina.

Sopra ci dovevano essere altri due piani dell’ edificio, si notano infatti nei muri portanti i fori simmetrici delle imposte che portavano una robusta travatura in legno che formava i piani superiori, uno dei quali adibito ad abitazione del mugnaio e della sua famiglia.

Il mulino era stato ideato e costruito a pochi metri dal torrente ma a proteggerlo a valle dalla forza del torrente nei periodi di piena ci sono dei grossi massi che nessuna piena del torrente avrebbe potuto smuovere dando così certezza e sicurezza all’ edificio. Guardando dall’ obbiettivo della fotocamera, mi è sembrato per un attimo di immaginare come doveva essere bello il vecchio mulino nel pieno del suo vigore giovanile ed ho provato un misto di ammirazione e di nostalgia per quei tempi quando il tempo aveva un ritmo più lento, quando le stagioni dell’ anno e della vita avevano un sapore di attesa misto alla meraviglia per il loro passare scandito da una vita tranquilla e legata strettamente ad un comune destino di sopravvivenza reciproca e solidale. Mi avvicino con Rodolfo al più imponente dei massi dove sotto romba minaccioso il Pescara formando un ansa con l’ acqua che ruota in un gorgo profondo attorno al masso formando un profondo “boion”, cadere lì significherebbe essere trascinati via in un attimo guardiamo affascinati per un attimo, ma poi prevale il buon senso e torniamo verso il mulino.

Questi edifici dovevano essere numerati in modo progressivo forse a partire dalle origino del torrente lassù nei nostri monti, infatti su una pietra posta alla basa di un muro portante posto a nord del mulino si può vedere ancora ben conservato dal tempo un numero leggermente intagliato in una pietra e dipinto di un colore rosso ruggine il numero identificativo di quel manufatto: il numero 32.

Facciamo il viaggio di ritorno lungo i resti in muratura di quello che era il canale di alimentazione del mulino che gli portava la preziosa acqua che alimentava il movimento dell’ intera fase della macinazione del grano, si vede ancora molto distintamente il percorso del canale che poi si perde nuovamente nel fitto bosco mentre noi proseguiamo lungo il sentiero che ci riporta alla radura ed alla baita nel bosco.

A pochi metri dalla casetta, ancora nel fitto bosco, con un po’ di attenzione si può scorgere alla base di due grossi abeti cresciuti gemelli, una piccola Madonnina che sembra spuntare dal muschi verde intenso che sta alla base degli abeti sopra un grosso masso che le fa da base.

Rodolfo aveva sognato una Madonnina posta tra due abeti ed ha voluto dare vita a quel sogno ed alla sua fede verso Maria.

 

 

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RAI – RADIO TELEVISIONE ITALIANA

 

Questo vuole essere una testimonianza diretta ed una denuncia sulla carenza endemica dei segnali radio e TV nel Comune di Livo, vissuta in prima persona e che ho contribuito in modo attivo se non a risolvere totalmente, almeno a sostituire la vergognosa assenza dell’ Ente RAI che gestiva il monopolio della rete televisiva italiana. Il segnale della radio bene o male arrivava in onde corte dapprima, poi in onde medie ed infine in modulazione di frequenza, il problema grossoera che per effetto della legge della propagazione molte stazioni si riuscivano a sentire solo di notte, poi con l’ arrivo della modulazione di frequenza almeno una o due reti nazionali erano stabili giorno e notte. Nel 1954 la RAI diede inizio alle trasmissioni televisive in bianco e nero e qui iniziarono i problemi comuni a tutte le zone montagnose, inizialmente e per molti anni il Trentino e l’ A.A erano serviti da pochi trasmettitori e ripetitori di segnale: c’ era il trasmettitore della Paganella e quello del monte Penegal la filosofia era quella di servire i grossi centri come Trento e Bolzano, poi chi aveva la fortuna di essere in linea ottica con il trasmettitore poteva vedere in modo ottimale le immagini coloro che avevano la sfortuna di avere dei monti che ostacolavano il passaggio del segnale si dovevano accontentare di vedere le immagini doppie o triple sovrapposte ed un effetto neve fastidioso dovuto al segnale debole, c’ erano gli amplificatori di segnale che andavano montati sull’ antenna ma il più delle volte se il segnale era doppio amplificava anche il disturbo. Questo grave problema si protrasse fino agli anni ‘ 70 senza che l’ Ente radio – televisivo, la Provincia ed il Comune facessero qualcosa per ovviare al disagio degli utenti che nonostante tutto continuavano a pagare il canone RAI. Nel frattempo vennero istallati altri ripetitori di segnale ma tutti che non riuscivano a coprire la zona se non in parte dal ripetitore del monte Peller ma le frazioni di Varollo e Scanna rimasero sempre scoperte. All’ inizio degli anni ‘ 70 due privati , Silvano Menapace rivenditore e Bruno Vigolo radiotecnico installarono nel comune di Cis un piccolo ripetitore che usava il segnale proveniente dal Peller, lo convertiva in 274 mhz e lo sparava verso Scanna e Varollo, qui veniva montatoin antenna un altro convertitore che lo convertiva in una frequenza libera sui televisori. Questo impianto migliorò la ricezione a livelli quasi ottimali e tutto sembrava risolto, anche il colore passava bene senza disturbi, ma come si dice quando le cose sembrano prendere il verso giusto c’ è sempre qualcosa che và storto … infatti venne installato da un rivenditore di Malé un ripetitore gemello in località Samoclevo per ripetere il segnale a colori della TV tedesca ZDF per gli utenti di Malé con l’ effetto indesiderato che questo segnale veniva a disturbare quello irradiato dal mini ripetitore di Cis . A nulla valsero le proteste dei proprietari dell’ impianto di Cis per far spegnere il disturbo si tentò di spostarsi di frequenza ma con scarsi risultati il disturbo continuò provocando grosse righe ondeggianti sullo schermo simili a quelle provocate dai radio amatori quando sono molto vicini. Anche la locale Pro Loco tentò di risolvere il problema istallando sopra l’ abitato a nord di Preghena in località Greggi, un impianto simile a quello di Cis ma iso ondacioè ripeteva il segnale senza convertirlo , il ponte venne realizzato dal radiotecnico Ugo Fanti per conto del rivenditore Vittorio Dallavo di Cles ma anche questo sistema si rivelò pieno di limiti e di problemi, poi il suo riammodernamento e manutenzione passò ad un altro radio tecnico Luca Marinelli ma poi l’ impianto risultò, per via di una denuncia, essere irregolare e fu fatto spegnere dalla Polizia postale di Trento, per non abbandonarlo del tutto venne temporizzato si accendeva alle 18: 00 e si spegneva alle 06 : 00 … Finalmente nel 1984 intervenne la Provincia Autonoma di Trento che realizzò 45 nuovi ripetitori su tutto il territorio provinciale tra questi anche quello sul monte Ozolo che serve numerosi centri tra cui Livo e Bresimo la storia di questo impianto rasenta il ridicolo, inizialmente lo si voleva costruire nei pressi di Bresimo vicino alla frazione di Bevia prendendo il segnale già scadente del Peller solo l’ intervento deciso dei rivenditori locali e dei loro tecnici impedirono tale errore e convinsero la RAI a realizzare l’ impianto del monte Ozolo. Finalmente dopo 40 anni dall’ inizio delle trasmissioni si potè avere un segnale ottimale direttamente da un ripetitore dell’ Ente televisivo italiano. La vera perfezione la si ebbe con il digitale satellitare con una miriade di canali e con l’ alta definizione. Questa è la storia tragicomica della ricezione televisiva nel Comune di Livo.

 

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LA MACELLERIA ZANOTELLI DI LIVO

 

 

Quando ero un ragazzino delle elementari, mia nonna che era la cuoca ufficiale di casa Agosti, di tanto in tanto mi mandava alla “becjaria” (macelleria) a Livo a comprare mezzo chilo di “retai” così le chiamavamo noi le frattaglie di carne erano dei pezzi di poco valore come polmone o fegato o parti insanguinate, con quella carne mia nonna riusciva comunque a ricavare degli ottimi piatti, complice anche il nostro insaziabile appetito giovanile che a volte si poteva anche declinare in fame vera e propria.

La macelleria era ubicata nel castello di Livo che a quel tempo era tutto di proprietà privata ed ospitava numerose famiglie di Livo. Il locale adibito a macelleria era stato ricavato al piano terra della torre a ovest del maniero, con l’ ingresso proprio all’ inizio della piazza dove la strada gira ad angolo retto e prosegue verso la Villa di Livo.

Era una stanza ad avvolto, ossia con il soffitto ad archi romani, le mura erano molto spesse oserei dire più di un metro di spessore, la porta esterna era in acciaio verniciata di minio rosso, c’ era poi una seconda porta in legno con delle finestrelle di vetro, appena entrati si scendeva un paio di gradini e fatti due passi ti trovavi davanti al bancone da macellaio. Sulla parete di destra, all’ altezza di circa due metri, c’ erano dei grossi ganci in acciaio dove venivano appesi i pezzi più grossi di carne, a destra della porta di ingresso c’ era un piccolo banco da lavoro attrezzato con una tritacarne e la sega elettrica per il taglio delle ossa, il locale era piccolo ed era servito da una sola finestra con una grossa inferriata, che guardava sulla strada che porta alla villa.

A destra del bancone c’ era un'altra porta che poteva essere a tenuta sprangata, assomigliava molto ad una porta blindata ad un portellone a tenuta stagna dei sommergibili. Dietro quella porta c’ era la zona refrigerata ad acqua corrente che conteneva una piccola riserva di carne, ricordo che si sentiva un continuo rumore di acqua che scorre movimentata da pompe. Allora il bestiame veniva macellato in modo autonomo dal rivenditore che acquistava per lo più in zona degli allevatori locali le bestie da macellare.

C’ era un grosso ceppo di larice che serviva a reggere il colpo della grossa mannaia che tagliava di netto l’ osso delle braciole, le costine e gli osso buchi, la merce era esposta in piccola quantità, sopra il bancone, allora non c’erano i frigoriferi e quando serviva della nuova carne il macellaio apriva la grossa porta del deposito e ne tagliava un altro pezzo da mettere in vendita.

Al centro del bancone c’era una bilancia analogica di colore rosso, con il piatto grande rettangolare fatto come una scodella e il contrappeso dal lato opposto rotondo e più piccolo e il quadrante fatto a semicerchio con la lancetta che segnava il peso con una risoluzione di un grammo.

Bene in vista campeggiava un cartello con la seguente scritta: “ PER DECENZA ED IGIENE E’ VIETATO TOCCARE LA MERCE ”.

La macelleria era aperta tutti i giorni, però in certe fasce della giornata era disponibile a chiamata, infatti all’ esterno della porta in legno c’ era il pulsante di un campanello, bastava premerlo e dall’ abitazione poco distante scendeva qualcuno ad aprire ed a servire il cliente che aveva chiamato.

Il titolare del negozio si chiamava Zanotelli Alessandro ed era di Livo del casato dei “ Vati “ era un uomo molto calmo e tranquillo, con l’ avvento dei mezzi di trasporto motorizzati, si era dotato di un furgoncino fiat credo che fosse anche dotato di refrigerazione ma non ne sono certo, con il quale si spostava nei paesini limitrofi a giorni stabiliti per vendere la carne anche in quei luoghi.

Per incartare la merce allora non esistevano i sacchetti in plastica o la carta speciale adatta per gli alimenti, la carne veniva incartata in un tipo di carta color giallo molto ruvida ed assorbente, era un tipo di carta ricavato dalla paglia del grano, era un colore inconfondibile e molto particolare, ora si usa per confezionare i regali di Natale o in particolari occasioni.

Ai miei tempi, non si guardava tanto alla qualità della carne, si preferiva molto di più una grossa quantità anche a prezzo inferiore ed anche se non era una parte pregiata . la macelleria rimase nella “ toresela “ fino al 1985, poi dopo la morte del signor Alessandro, i figli Ernesto, Alfonso e Carlo costruirono a poca distanza una nuova e moderna macelleria dotata di tutti i sistemi innovativi che la tecnologia del settore mette a disposizione, ora il negozio è grande ed accogliente dotato di cella frigorifera e nel retro bottega c’è il laboratorio per la lavorazione della carne, anch’ esso funzionale e moderno, ci sono poi nelle cantine i locali adatti alla stagionatura ed affumicazione dei salumi, pancette, coppe e spck di lavorazione e produzione propria dal gusto particolare frutto dall’ esperienza dei fratelli Zanotelli ereditata dal padre e perfezionata in Sud Tirolo dove Alfonso ha lavorato per anni.

Mi è doveroso ora aprire una parentesi per ricordare Ernesto, il maggiore dei fratelli morto prematuramente.

Era un uomo mite, buono e giusto, un grande amico personale, aveva sempre sulle labbra il sorriso di eterno bambino quale era, sempre con una battuta ironica e bonaria con tutti i clienti. Un cuore dì oro, di una generosità unica, se avevi bisogno di un favore era sempre disponibile, un lavoratore instancabile, dotato di quella scrupolosità e di quell’ onestà della gente di una volta. Voglio ricordare un piccolo ma emblematico episodio della grande generosità di Ernesto, era il 1997 quando le comunità dei paesi di Bresimo, Cis, Livo e Rumo si apprestavano ad ospitare i bambini bielorussi reduci dal disastro nucleare di Cernobyl. Avevamo organizzato un concerto di Natale, per sensibilizzare l’ opinione pubblica, con la partecipazione di cinque gruppi, come d’ abitudine al termine delle esibizioni si offriva uno spuntino ai componenti i cori, capitai in macelleria alcuni giorni prima e come mi vide, Ernesto levò dai ganci una grossa pezza di spek e me la diede. Era il suo modo di fare, il suo stile di donare a chi ne aveva bisogno, il suo essere credente nei fatti, senza che nessuno lo avesse chiesto fece un gesto che mi è rimasto impresso nel profondo del cuore e che a tutt’ oggi mi rimane ad esempio di Cristiana carità in mondo pieno di ladri ed ipocriti. Questo è stato il caro amico Ernesto, questo è il ricordo che porto nel mio cuore, assieme al suo sorriso ed alla sua rande bontà.

Alfonso, molto amante della musica, al quale avevo venduto la mia prima chitarra, ora dirige un gruppo musicale composto da ragazzi e ragazze molto giovani, cresciuti alla sua scuola di canto che interpretano brani musicali sacri e profani in modo moderno e con ottima qualità polifonica.

Il Gruppo musica insieme, si può considerare l’ unica associazione veramente attiva nel paese.

Di Carlo mi piace ricordare la nostra grande amicizia nata in età giovanile quando si poteva discutere di politica tra persone di idee opposte ma che si rispettavano e trovavano una ragione di vita nella condivisione di un libero pensiero. Di lui ho ampiamente parlato in un capitolo a parte.

Lavoratrice instancabile la signora Maria Alessandri moglie di Alessandro e mamma dei fratelli Zanotelli, ora è anziani con tutti gli acciacchi che questa età comporta, colpevole anche il tanto lavoro prestato per il funzionamento della macelleria quando i figli erano ancora giovani era lei che nella maggior parte dei casi che quando suonavi il campanello veniva ad aprire la porta della macelleria ed a darti quello le chiedevi, mi pare ancora di rivederla, con lo scialle sulle spalle che arriva ad aprire la porta .

Ora vedo la signora Maria quando vado in macelleria, non lavora più ma ogni tanto la si vede dietro il bancone che taglia a pezzetti delle frattaglie per gli immancabili gatti che stanno alla porta ad aspettare… Ora le frattaglie le mangiano solo loro, segno dei tempi che sono cambiati in meglio, ma rimpiango i tempi felici e spensierati di quando mia nonna mi mandava “n’ becjaria” a comprare un chilo di frattaglie…

 

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Le scuole di Livo e la loro storia

 

 

La storia degli edifici scolastici del Comune di Livo, la si può qualificare, senza ombre di retorica, una vera e propria odissea, per le storie contorte ed anacronistiche che descrivono la loro realizzazione ed il loro mutamento nei tempi.

Ma iniziamo per epoche .

Quando andavo a scuola io alle elementari, nel 1956, gli edifici scolastici nel Comune di Livo, erano tre , uno a Preghena, uno a Livo, ed un terzo plesso a Varollo, io che sono di Scanna, ho frequentato la scuola a Varollo, che copriva il fabbisogno delle frazioni di Scanna e di Varollo.

Gli altri due edifici servivano le utenze di Livo e di Preghena. Il plesso di Livo era ubicato nel vecchio caseificio, dove ora c’è la scuola materna, quello di Preghena era dapprima situato nella canonica, poi, venne costruito un nuovo edificio a valle del paese, proprio all’ ingresso, ma queste sono storie di cui mi occuperò in un secondo tempo, ora voglio descrivere la scuola di Varollo che ho frequentato fino alla quarta elementare, poi ho continuato gli studi nel collegio dei frati francescani di Campolomaso.

La scuola elementare di Varollo, era ubicata nella casa della “ fredaglia “ che era una confraternita religiosa, all’ inizio dell’ abitato, proprio vicino alla chiesa parrocchiale della natività di Maria, di Varollo.

Questo edificio era anche servito nei secoli scorsi, come ospedale, ora appartiene all’ ITEA che ha ricavato cinque appartamenti ed una sala riunioni a piano terra.

Questo edificio ha visto transitare all’ suo interno, generazioni di alunni, fino alla fine degli anni ‘50, quando l’ amministrazione comunale , allora era Sindaco il dott. Lorenzo de Stanchina, preso atto dei tanti limiti che avevano gli edifici scolastici di Livo e Varollo che erano obsoleti, piccoli e non si prestavano più alle nuove e più moderne esigenze didattiche, ed il mantenimento di tre strutture in un Comune era un peso finanziario non più sostenibile, decise di costruirne uno nuovo, più ampio e moderno, che potesse contenere anche gli scolari di Livo.

Si procedette, allora, alla scelta del luogo dove costruire l’ edificio, non fu una scelta ne facile ne priva di polemiche, come è sempre stato questo paese, dove tutti tendono a conservare il loro orticello, con i privilegi che ne derivano, e non si riesce a guardare più avanti della punta del proprio naso, ripiegando in tal modo su scelte derivanti da meschini compromessi e che sono sempre risultate poi nel tempo, strutturalmente carenti, riduttive e di basso profilo pratico e sociale. Ci si scontrava, ancora, con la mentalità conservatrice ed ottusa di alcuni personaggi di Livo, che ancora una volta mettevano al primo posto della scala dei valori, il loro egoismo e l’ incapacità di essere “ comunità “ che guarda al vero interesse dei propri figli, ad una crescita collettiva nei valori sociali ed umani.

Questa piccola minoranza tentò di opporsi al nuovo plesso scolastico al quale era stata finalmente trovata una equa soluzione, in un prato a metà strada tra Livo e Varollo, ma per questo gruppetto di ribelli, che non volevano mandare i loro figli in quella scuola, il posto scelto era ancora troppo lontano dalla loro abitazione e dalle loro intenzioni medioevali e retrograde.

Queste persone, proposero perfino un referendum popolare che avrebbe deciso la sorte del nuovo plesso, ed in caso di un risultato favorevole ai promotori, si sarebbe vanificato il lavoro di anni di trattative e perso definitivamente il posto in graduatoria per il finanziamento dell’ opera da parte della Provincia di Trento.

Dall’ alto della sua cultura e del suo buon senso, il cav. De Stanchina Lorenzo, sindaco di Livo, ritenne giusto e democratico coinvolgere la popolazione, informandola con una lettera del 24 giugno 1961, che fece recapitare a tutte le famiglie delle frazioni di Livo, Varollo e Scanna, dove spiegava le ragioni di quella scelta, i costi economici e gli incalcolabili benefici , sociali ed umani, che questa scelta avrebbe portato nel futuro delle generazioni di alunni che l’ avrebbero frequentata.

Si costruì l’ edificio a Varollo, in località “ Gaggià “ su un terreno che era di proprietà di un mio zio che si chiamava Zanotelli Ernesto, ed il tempo diede ampiamente ragione alla scelta saggia del buon sindaco dott. Lorenzo de Stanchina.

I lavori di costruzione durarono due anni, per un costo complessivo di 30 milioni di lire, così ripartito

Contributo delle Stato italiano Lire 22.267.350-

Contributo del BIM, (Bacini Imbriferi Montani), L.6.000.000-.

Per un totale di Lire 28.267.350- quindi il contributo del Comune si limitava a Lire 1.732.650-

Le nuove scuole furono inaugurate nel 1963, quando io ero già in collegio a Campolomaso, con l’ avvento poi del nuovo parroco, don Michele Rosani, in un ala del plesso venne ricavata la scuola materna, che negli anni 90 trovò poi sistemazione , come già detto, nell’ ex caseificio di Livo.

Per circa una trentina di anni la scuola , così come era, bastò alla popolazione scolastica di Livo, Varollo e Scanna, fino a quando il Comune decise di chiudere la scuola di Preghena, anche in questo caso, con tante inutili polemiche che rispecchiavano , nel merito, quelle di Livo degli anni 60, con la chiusura imposta dalla Provincia, delle scuole di Bresimo e di Cis, e con l’ arrivo in paese di numerose famiglie di immigrati e dei loro tanti figli, nonostante l’ intervento dell’ amministrazione Filippi, che nel 1985 ristrutturò la scuola di Varollo, predisponendola anche per il rialzo di un secondo piano, il problema dello spazio si ripresentò puntuale.

L’ amministrazione Filippi, era propensa a risolvere il problema alzando di un piano l’ edificio, che avrebbe di fatto raddoppiato le aule essendo il piano terra adibito a mensa e palestra, e , secondo me, sarebbe stata la soluzione migliore e meno costosa.

Poi Filippi nel 2000 perse le elezioni e la nuova amministrazione guidata sa Franco Carotta, optò per un polo scolastico molto più grande e costose ( 6 milioni di euro ) a Livo, a nord del campo di calcio, al bivio della strada provinciale che porta a Cis.

Di tale opera se ne sente parlare per la prima volta, ufficialmente, nella propaganda elettorale della lista Carotta Franco, già nel 2000, ma allora l’ ubicazione prevista era un'altra, lo volevano fare nell’ area dell’ ex SCAF, appena demolita ed in cerca di una nuova destinazione, ma non se ne fece nulla. Poi, molti anni più tardi, se ne riparlò, sul bollettino comunale “ MezAlon “ nel numero di settembre 2007, con una breve descrizione a firma del Sindaco ed un progetto di massima, iniziale, finanziamento pubblico di 3.501.894,38- euro, pari al 90% della spesa complessiva e 280.000,00- euro per l’ acquisizione dei terreni, pari al 80% della spesa complessiva. I lavori in oggetto, dovevano essere terminati entro il 2010

Poi una serie di anni di ritardo, con il terreno che doveva ospitare il polo ancora tutto un meleto che veniva potato quando era in corso la fioritura, all’ ultimo momento quando il proprietario capiva che anche per quell’ anno non gli sarebbe stato espropriato.

Alla scadenza elettorale del 2010, puntualmente , viene riproposto , a mezzo stampa ( l’adige di domenica7 febbraio 2010) ed in tutta la propaganda elettorale di questa amministrazione, il nuovo progetto di un polo scolastico con annesso parco tematico, per un costo totale di 6 milioni di euro .

L’ opera ha finalmente inizio nel 2010 e viene ampiamente messa in rilievo in un articolo, a firma di Gianantonio Agosti, sul numero di dicembre del bollettino comunale MezAlon del 2010.

Ora la Ditta che aveva vinto l’ appalto d’ asta, sembra abbia dato fallimento, i lavori sono fermi da tempo ed il Sindaco si è affrettato a comunicare che anche il prossimo autunno gli studenti di Livo, Bresimo e Cis, andranno ancora nella scuola di Varollo e speriamo almeno loro abbiano imparato la lezione che i loro padri, ora amministratori, pur essendo stati alunni in quella scuola per 50 anni ed aver potuto constatare di persona tutti i suoi limiti, non hanno ancora imparato:

che a chiacchiere ed a promesse elettorali, non si fanno lavori !

Voglio anche evidenziare un fatto che la dice lunga sulla democrazia diretta e partecipativa tanto sbandierata a parole da questa Amministrazione comunale, che fin dall’ inizio si era presentata con al primo punto del suo programma, la democrazia diretta, il coinvolgimento della popolazione nelle scelte amministrative importanti, tante belle parole rimaste lettere morte.

A differenza di adesso, 50 anni fa, un Sindaco più democratico e più progressista, davanti a delle forme di dissenso di una piccola minoranza e di alcuni amministratori, si è sentito in dovere, pur non essendo obbligato a farlo per legge, di informare la popolazione dei pro e dei contro che quell’ opera pubblica avrebbe portato, tutto questo in tempi dove anche il costo di una lettera era soppesato, per non incidere sul bilancio del comune, ora, nell’ epoca di internet, dei social network, della stampe facili, non si è pensato di farne un uso corretto, si sono pubblicate da parte di un Associazione comunale, la Pro loco, piuttosto delle pesanti volgarità offensive del pudore, delle donne e delle religioni, questo è un atteggiamento arrogante ed ottuso che fin da subito ha identificato questa Maggioranza ed i suoi supporter, che ha dimostrato e dimostra una scarsa sensibilità verso la democrazia e la condivisione delle scelte.

Altra importante osservazione che mi piace fare, è il fatto che si sia perso così tanto tempo prezioso per una decisione che avrebbe potuto cambiare radicalmente in meglio le attività didattiche, ludiche e sociali e la stessa vivibilità della popolazione scolastica, studenti ed insegnanti, per una migliore qualità delle attività scolastiche e ricreative. Forse si tende erroneamente ad attribuire una scarsa importanza al ruolo educativo e sociale della scuola, che, assieme alla famiglia, ha un ruolo fondamentale nella crescita culturale e civica dei bambini e non deve essere una formalità dovuta, o una perdita di tempo, ma deve trovare un ruolo centrale e primario per una società che si proclama civile.

 

Non si è sentito neppure la necessità ed il dovere morale nei confronti dei propri figli, la partecipazione diretta ed attiva dei genitori alla realizzazione di un opera così importante per l’ educazione dei bambini.

Si poteva infatti costituire un Comitato di genitori con l’ incarico di seguire i lavori di progettazione dando il loro consiglio ed il loro parere al Progettista, certo è un bell’ impegno, ma vorrei ricordare che è in questo modo che una Comunità esprime il proprio interessa e la propria partecipazione alla vita politica e sociale della Comunità ed alle scelte sia ideologiche che strutturali che l’ Amministrazione propone.

Il ruolo di una Comunità attiva, non deve limitarsi a scegliere i propri amministratori con una x sulla scheda elettorale, ma li dovrebbe seguire ed affiancare per l’ intera legislatura per capire e controllare che quello che fu promesso in campagna elettorale venga poi mantenuto nei fatti.

 

La nuova scuola soltanto dal 2013” così recita il titolo del pezzo che il quotidiano L’ Adige ha dedicato al ritardo dovuto alla sospensione dei lavori da parte della Ditta Pasqualini che doveva eseguire e terminare i lavori con il classico metodo delle chiavi in mano. Così il tempo passa e il “ paio di mesi di ritardo acquisito “ sono diventati un anno e non si sono visti neppure “ il lati positivi “ di questo fallimento come auspicava il Sindaco, insomma è ancora tutto in alto mare, inutile quindi sperare che durante le vacanze scolastiche del prossimo Natale. Si possa procedere al trasloco dalla scuola di Varollo a al nuovo plesso scolastico di Livo. E’ vero che il fallimento dell’ Impresa costruttrice non lo si può attribuire all’ Amministrazione guidata da Franco Carotta, ma la responsabilità oggettiva dei ritardi di anni che hanno preceduto la fase di progettazione a quella dell’ inizio dell’ esecuzione dei lavori, quella si. Si sono persi anni preziosi, quando ancora non si intravvedeva l’ attuale pesante crisi economica, per l’ acquisizione del terreno e questo lo si notava dalla potatura delle piante di melo che avveniva sempre fatta nel tempo della fioritura degli alberi, all’ ultimo momento.

E’ uscito da poco il periodico MezAlon senza che nel numero di Natale la Maggioranza e l’ Opposizione che amministrano questo paese, si siano sentiti minimamente in dovere di rendere conto alla popolazione del problema del nuovo edificio scolastico, neppure una parola, anzi il Sindaco dice che non serve rendicontare sul giornalino, mentre il consigliere di maggioranza Agosti Gianantonio auspica una maggior presenza dell’ Amministrazione sul periodico… almeno si mettessero d’ accordo.

Concludo con una domanda che rivolgo sia ai Consiglieri di maggioranza che a quelli di opposizione :

 

Anche se qui nessuno parla davanti al degrado sociale e strutturale sempre più evidenti che ormai regna sovrano in questo paese e per il quale si possono individuare oggettivamente delle pesanti e gravi responsabilità, pensate di avere o no una benché minima responsabilità in tutto questo sfascio, o date sempre la colpa ad altri ? “

Nell’ ottobre 2013, si aggiunge alla vicenda travagliata del nuovo edificio scolastico di Livo in costruzione, un altro grave ed inquietante episodio che la dice lunga sull’ effettivo sistema “ democratico “ dell’ attuale Amministrazione comunale retta dal sindaco Carotta Franco.

In data 05 ottobre 2013 sono stati destituiti i consiglieri ed assessori comunali Aliprandini Rosaria, Fanti Luciano ed a seguito di questo provvedimento deciso dal Sindaco ed inoltrato agli interessati via e. mail, il giorno 07 ottobre si dimetteva anche il terzo Assessore Agosti Gianantonio.

Le ragioni e le cause di questa paradossale vicenda, vanno cercate propri nella gestione della costruzione del nuovo plesso scolastico e nei malumori ed incomprensioni dettate dalla cattiva e non tanto trasparente gestione dell’ intera opera.

Sembra infatti che i mal di pancia siano di vecchia data , ma quello che ha fatto traboccare il vaso è stata l’ idea venuta al Sindaco ed ad altri, di voler proseguimento in modo autonomo i lavori di completamento del polo scolastico, interrotti dal fallimento della Ditta Pasqualini.

Tutta questa operazione avrebbe comportato l’ acquisto da parte del Comune della gru, ponteggio, box prefabbricati, recinzioni, per un totale di 62. 00. 00 euro, e la contestuale rinuncia alla copertura finanziaria ( fideussione ) a favore del Comune 176. 198. 00 euro.

La giunta è stata rimpastata con tre nuovi elementi e la delibera è stata approvata consentendo così la ripresa dei lavori.

Tardiva quanto inutile la presa di coscienza e di distanza dei tre consiglieri destituiti, da tempo infatti era noto a chi guardava con gli occhi dell’ obbiettività il sistema di amministrazione vigente nel Comune di Livo, che da tempo si era accorto di chi veramente amministra e decide…

Indegna anche del ruolo che gli elettori le avevano attribuito l’ opposizione, silente davanti a tanto scempio di democrazia e sempre più ruota di scorta dell’ attuale fallimentare maggioranza.

Auspicabile per sanare tutte queste anomalie e questo sistema di meschina sudditanza, sarebbe il lasciare commissariare per un lungo periodo di tempo questo infelice Comune, devastato strutturalmente e socialmente, affinché forze nuove e libere possano in futuro riportarlo ad una degna e democratica amministrazione ed ad una civile ed umana convivenza.

Non so se vedrò tutto questo…

Arrivederci alla prossima puntata di questa incredibile farsa.

Con le dimissioni di 8 consiglieri, tre di maggioranza ( Agosti Gianantonio, Aliprandini Rosaria e Fanti Luciano ) e cinque di opposizione ( Betta Massimo, Conter Aldo, Conter Luca, Zanotelli Francesca e Zanotelli Lino ) si è finalmente posto fine alla peggiore amministrazione comunale che io ricordi.

L’ ormai ex sindaco Franco Carotta, se ne và nel modo identico di quando era stato eletto, dopo un pareggio elettorale con il suo antagonista Giulio Filippi che aveva portato il comune di Livo nell’ anno 2000 al commissariamento per sei mesi ed a una nuova e decisiva tornata elettorale che aveva visto prevalere Carotta. Nell’ ottobre 2013 si era poi avuta la defezione dei tre consiglieri della sua maggioranza, che hanno pesato in modo determinante alla sua caduta, ed ora il comune sarà nuovamente commissariato per sei mesi.

Da subito si era capito che l’ opposizione guidata da Aldo Conter, che aveva perso alle elezioni del 2010 per una manciata di voti, era un opposizione imbelle e rinunciataria, lo si può evincere dal momento iniziale della legislatura quando ha votato in toto il programma della maggioranza.

Nel corso di questi quattro anni poi parecchi sono stati gli episodi di sostegno alla sempre più traballante maggioranza di Carotta, insomma una stampella ed una ruota di scorta della maggioranza.

Che dire dei tre consiglieri ribelli, se da un lato si può dare atto del grande senso di responsabilità democratica della loro uscita dalla maggioranza prima e delle dimissioni che hanno determinato la fine anticipata della legislatura, di contro c’è da rilevare la loro pesante ed ingiustificata responsabilità nell’ avere tenuto in piedi per 14 anni una maggioranza politica legata mani e piedi a dei poteri esterni, che a loro dire hanno determinato delle scelte amministrative sbagliate togliendo di fatto potere decisionale al consiglio.

Più volte infatti hanno chiesto sia in aula che a mezzo della stampa locale e del giornalino Comunale MezAlon. Di ridare la voce ed il potere al consiglio comunale. C’è da rilevare inoltre, alla luce dei risultati elettorali che in ogni tornata hanno evidenziato una pesante spaccatura all’ interno del paese con quasi la metà dei consensi all’ opposizione, segno inequivocabile che metà della popolazione aveva capito in anticipo verso quale tipo di politica si sarebbero imbarcati, perché a volte la gente ha più “naso” e più buon senso dei loro amministratori, peccato che poi, come nel caso in questione, la popolazione sia stata colpevolmente assente da ogni tipo di dibattito o di posizioni critiche nei confronti dell’ amministrazione in tutti questi 14 anni.

Continuate a dormire, buona notte !!!

 

 

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LA BOTTEGA DEL CALZOLAIO

 

 

Al piano terra dell’edificio scolastico dove frequentavano i bambini di Scanna e di Varollo, sull’angolo a ovest, proprio dove c’era la scala di accesso alle aule scolastiche, c’era una piccola stanzetta alla quale si accedeva direttamente dalla strada principale che era stata affittata dal Comune a dei calzolai dell zona.

Ai miei tempi quando una cosa si rompeva, si riparava anche più volte prima di decidersi a buttarla, cosi si facevano per le camicie, i pantaloni gli ombrelli , le pentole ed anche con le scarpe. Tutto allora si aggiustava, anche i piccoli dissidi famigliari che insorgevano tra moglie e marito e che quasi sempre degeneravano in litigi anche violenti, dove a farne le spese erano la moglie e le stoviglie ed il giorno dopo si potevano notare le donne con i lividi ed il marito che andava a comprare nuove stoviglie al negozio. La causa di tutto si può riassumere in una sola parola: miseria.

I calzolai che lavoravano nella bottega sotto la nostra scuola erano due fratelli che si chiamavano Guglielmo e Giuseppe Carotta, in un primo momento ci lavorava il signor Giuseppe poi alla sua morte il fratello si trasferì in quella bottega che era più comoda e più vicina al centro del paese.

Già quando entravi dalla porta del corridoio dove a due passi sulla sinistra c’ era la porta di accesso al locale, ti veniva incontro quel odore classico del bostik di quella colla che usavano allora i calzolai, a me quel odore piaceva perché era un odore deciso, intenso ed era uno di quelli che poi ti ricorderai per sempre e che ti portano alla mente quei giorni spensierati dell’ infanzia e della giovinezza. Poi si arrivava dopo due passi, davanti alla porta di ingresso della bottega che era a metà corridoio sulla sinistra e dovevi salire di un gradino, poi come aprivi la porta, di colpo l’ odore si faceva più intenso, quasi insopportabile, non ho mai capito come facessero a lavorare tante ore avvolti da quell’ odore così forte, forse ci si erano abituati…

Il ciabattino stava seduto su una piccola sedia in legno vicino all’ unica finestra dello stanzino, sopra la sua testa era appesa una lampada elettrica con un paralume rotondo di metallo smaltato di bianco, la lampada poteva essere abbassata o alzata con un sistema di carruccole e di contrappesi. La finestra che dava all’ esterno guardava verso la strada principale e verso la val di Sole.

Alle pareti c’ erano degli scaffali di legno dove erano allineate la scarpe rotte da una parte e quello riparate e pronte alla consegna da un'altra.

In mezzo c’ era il banco con gli attrezzi da calzolaio, spaghi, colle, borchie di rame, chiodini di varie misure.

C’ erano poi una serie di sagome di piedi in ferro di misure diverse che si andavano ad innestare su un supporto sempre in ferro e servivano a ribadire i chiedi all’ interno della scarpa.

C’ era poi una macchina da cucire la pelle più morbida mentre per cucire il cuoio si usava uno strumento molto simile ad un grosso ago ricurvo con il manico in legno che si chiama Subla.

In una gabbietta appesa in un angolo c’ era un uccellino, credo che fosse un canarino, che teneva compagnia al buon Beppi durante le ore di lavoro nella bottega e con il suo cinguettare rendeva meno monotona la giornata, Giuseppe era un uomo di statura medio bassa, era un bravo calzolaio ma era anche molto apprezzato per il compito che svolgeva in ambito ecclesiastico, era infatti l’ organista della chiesa, era perciò molto amico di mio padre che era direttore del coro parrocchiale di Livo.

Ricordo poi anche in quella bottega il signor Guglielmo Carotta che era padre di due miei compagni di scuola, Silvano e Ilario, era un uomo magro e leggermente gobbo per il tanto lavoro a per una malattia ai polmoni per la quale venne ricoverato credo nel sanatorio di Arco. Ricordo che quando eravamo chierichetti insieme ad Ilario, don Giuseppe Calliari chiedeva spesso informazioni al ragazzo sullo stato di salute del padre. Guglielmo era sposato con Stanchina Augusta di Livo, una signora simpatica e sempre allegra che vive ancora nella sua casa di Livo ed è prossima a festeggiare i 100 anni. Guglielmo morì molto giovane credo negli anni 70 – 80.

 

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CORAZZA AUGUSTO E LINA N. LARCHER

 

 

Tra le persone che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere e che mi hanno fatto dono della doro conoscenza e della loro esperienza ci sono i coniugi Augusto e Lina Corazza.

Persone umili e modeste, educate alla vita di povertà dagli eventi della storia che a volte sa scrivere pagine difficili per chi le vive, ma che per chi ne sa cogliere il senso profondo, diventano vere lezioni di vita, da dove attingere a piene mani e far tesoro dei veri valori che veramente contano nella vita di un uomo.

Augusto era un uomo di Brez che si era trasferito a Preghena negli anno ’60 quando si stava ammodernamento la strada provinciale n°68 che dal bivio di Scanna si dirama dalla SS 42 e prosegue fino a Rumo. Augusto era un manovale in quella occasione, ma era anche un artigiano calzolaio, lavoro che sapeva svolgere molto bene. Lina era una casalinga ed era originaria di Tret in alta valle di Non. Augusto e Lina ebbero tre figlie femmine, Daniela sposata a Cis, Faustina sposata a Preghena e Laura nubile che abita a Preghena.

La mia conoscenza e poi la mia profonda amicizia con i coniugi Corazza inizia all’ inizio degli anni ’80 quando io ero presidente dell’ E.C.A. di Livo (Ente Comunale Assistenza ) che si occupava in modo diretto da parte dei comuni del fabbisogno economico delle persone meno abbienti. Dopo il lavoro sulla strada provinciale, Augusto si era fermato a Preghena dove viveva in affitto nella casa di proprietà dei signori Vender, quel periodo fu molto tormentato per loro in quanto i proprietari non vedevano di buon occhio gli inquilini e frequenti erano i litigi.

Augusto lavorava da calzolaio in un locale al piano terra della canonica e quando quel lavoro scarseggiava prestava le sue braccia per lavori nei campi o nei boschi, ricordo che quando io ero poco più di un ragazzino e lavoravo da manovale all’ ammodernamento della strada interpoderale di Barbonzana, c’ era anche il signor Augusto sul cantiere a lavorare. In quel periodo nell’ abitato di Preghena si era costituito una specie di comitato formato da gente locale, che aveva come scopo dichiarato la cacciata dal paese della famiglia Corazza, questo particolare mi venne riferito dal parroco Don Pio Dallavo che aveva da poco sostituito il vecchio parroco don Pietro Bisoffi. Inutile ogni commento.

I coniugi corazza dovettero lasciare la casa dei signori Vender e trovarono alloggio presso un appartamento nella vecchia canonica al primo piano, era un appartamento fatiscente, le pareti divisorie in pannelli di legno pressato che con la presenza delle stufe a legna rendeva molto pericoloso l’ abitarvi.

Un giorno mi convocò in comune l’ allora Sindaco il signor Carlo Penasa che mi informò, molto preoccupato, che stavano cercando di sfrattare i coniugi Corazza in base alle perizie dei tecnici del Comprensorio che erano intervenuti per verificare la staticità della casa.

In quel momento l’ Amministrazione Penasa stava concludendo il passaggio di proprietà delle vecchie scuole di Varollo con l’ istituto per l’ abitazione popolare ITEA della Provicia di Trento e si poté garantire in base alla graduatoria un appartamento decoroso e riscaldato alla famiglia Corazza.

Questa è la storia cruda della famiglia Corazza, soggetta ad ogni sorta di privazioni dalla vita e di angherie dai loro compaesani per il solo fatto di essere poveri. E questa povertà materiale, la vita ha forgiato e ferrato con chiodi di sofferenza, in Augusto a Lina un carattere mite e tranquillo, una generosità che solo ai poveri ed ai puri di cuore viene concessa, una gioia di vivere che solo chi non ha più niente da perdere è capace di trasmettere con grande semplicità perché era l’ unico dono di cui disponevano in abbondanza e non costava loro nulla regalarlo al prossimo.

Lina allevava conigli che teneva negli scantinati messi a disposizione dal Parroco, come pure l’ orto dove coltivava un ben di Dio di ortaggi di vario tipo e patate, e quante volte mi hanno regalato un coniglio e dei cesti di verdura, riconoscenti per quello che avevo fatto per loro. Quando vennero ad abitare nella casa ITEA di Varollo, non scordarono mai la vecchia canonica di Preghena, anzi vi si recavano tutti i giorni, Augusto a lavorare da calzolaio e Lina ad accudire i conigli e l’ orto.

Nella casa accogliente di Varollo non ebbero la fortuna di abitarvi a lungo perché morirono entrambe relativamente giovani.

Voglio concludere con le parole usate dal Parroco all’ omelia della Santa Messa funebre di Augusto :

Se guardiamo la tua vita dal punto di vista del fare soldi, possiamo dire che sei stato un fallimento…”

E sono sempre i fallimenti che ci insegnano nuovi motivi di vita.

 

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UNIONE SPORTIVA LIVO

 

 

Negli anni ’70 quando il paese era in grande espansione e crescita economica, ed il sistema sociale era molto più aperto ed attivo di adesso e permetteva degli ottimi rapporti umani tra le persone, un dialogo schietto ed un continuo mettersi in discussione senza timore che l’ altro non ti capisse o facesse prevalere il suo stato economico o sociale per garantirsi di avere sempre ragione, in paese erano nate delle belle Associazioni come la Pro Loco e l’ Unione sportiva.

L’ Unione sportiva fu una bella e sana associazione che introdusse di fatto lo sport organizzato per tute le età dei bambini e dei ragazzi. L’ attività sportiva si sviluppava in due branchie : l’ atletica ed il calcio, devo dire che nel settore dell’ atletica dove mi ero impegnato a lavorare assieme ad altre valide persone che ricordo con molta stima ma che svito di nominare per non dimenticare nessuno, si era riusciti a raggruppare circa 60 bambini e ragazzi di tutte le età a partire dai cuccioli fino ai seniores che praticavano il podismo ed in modo specifico ed organizzato molto bene da Comitato di valle, la corsa campestre.

Era uno sport “povero” al quale potevano accedere tutti, bastavano un paio di scarpe da ginnastica ed una tuta. Per i bambini che non potevano disporre dell’ auto dei genitori, ci eravamo organizzati con il pulmino che portava i bambini alla scuola materna con l signora Amelia Alessandri, che li portava per i vari paesi della valle dove le locali Associazioni avevano organizzato una prova del Campionato valligiano di corsa podistica nel loro paese. Abbiamo organizzato più volte nelle 4 frazioni di Livo delle gare di campionato con esiti molto lusinghieri e con l’ unanime plauso di organizzatori ed atleti di tutta la valle.

Allora l’ Unione sportiva non disponeva di una sede sociale propria, ci si riuniva in delle salette messe a disposizione nei vari locali pubblici della zona ed era una necessità urgente alla quale si diede una concreta risposta chiedendo ed ottenendo dal Comune la disponibilità del locale che era stato adibito a bottega del calzolaio che ho ampiamente descritto nei minimi particolari in un capitolo a parte e che ora, con la dismissione dell’ attività si era reso disponibile.

Fu un bel lavoro di recupero e di restauro della vecchia bottega al quale contribuirono molti artigiani e muratori della zona, in modo del tutto volontario e gratuito, tutti mossi da un comune pensiero mirato ad una causa nobile e socialmente molto utile, quella di dare a tutti i nostri giovani la possibilità di fare dello sport sano ed a poco prezzo.

Si lavorò per un intero inverno fino alla primavera successiva ed alla fine ne risultò un bel locale arredato con mobili di recupero con delle panche di legno ai lati di tre pareti che servivano per le assemblee o per ospitare dei Dirigenti o dei Responsabili di altri sodalizi.

Le pareti erano state intonacate e tinteggiate, rifatto il pavimento con mattonelle, bene illuminato da luci al neon, una bella e massiccia scrivania in legno, un armadio e in alto sopra le panche un giro di mensole dove erano esposti i trofei e le coppe vinte nelle varie discipline e categorie.

L’ Unione sportiva Livo ebbe così la sua bella sede sociale, in un locale ristrutturato dal lavoro prezioso e gratuito di tanti volontari che avevano saputo credere nei valori della solidarietà e dell’ amicizia che lo sport povero porta con se ed avevano capito l’ importanza sociale e culturale dello stare assieme per fare comunità e per crescere insieme e percorrere la via della giovinezza intrisi di valori veri e duraturi nel tempo che poi sono quelli che fanno la differenza nella vita adulta. Venne inaugurata nell’ estate dell’ anno successivo alla presenza del sindaco di allora signor Carlo Penasa, delle persone che vi avevano lavorato e degli atleti del sodalizio.

Con il crescere del benessere economico però si è assistito ad un graduale lento declino della Società sportiva, come della società civile del mio paese, con il conseguente lento declino di tutte le forme associative organizzate, poi le vecchie scuole vennero acquisite dall’ ITEA ed ora nella vecchia e gloriosa sede dell’ Unione sportiva Livo, nuovamente ristrutturata e molto più grande della precedente, ci sono gli Alpini del Gruppo di Livo.

Mi piace concludere con un dato di fatto che costringe ad una conseguente riflessione :

In quelli anni ruggenti e fortunati per lo sport di massa della val di Non, faceva parte del Comitato Valligiano Corsa Podistica anche una società di un paesino dall’ altro lato della valle al confine con la provincia di Bolzano, la società sportiva Novella di Tret, alla cui guida c’ era Alessandro Bertagnolli.

Ma mentre la nostra Società sportiva ed anche civile da noi rallentava e perdeva quote di valore sempre più importanti fino alla completa staticità, dall’ altro lato della valle, dove finisce la coltura delle mele ma è rimasta e si è rafforzata la cultura dello sport e dell’ ospitalità, il signor Bertagnolli assieme al suo staff ha saputo inventare una nuova e redditizia attività sportiva che è cresciuta negli anni fino a vedere attualmente la partecipazione di oltre seimila atleti provenienti da tutta Europa ed oltre.

La manifestazione si chiama Cjaspolada.

 

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La scuola materna di Varollo

 

 

Dopo la costruzione del nuovo e moderno plesso scolastico a Varollo, fatto che ho ampiamente descritto, verso il 1968, con l’ aiuto determinante dell’ allora parroco don Michele Rosani che fece intervenire l’ ONAIRC che era un istituzione legata al clero che si occupava della gestione delle scuole materne, venne istituita la Scuola materna di Livo che ospitava tutti i bambini del Comune di Livo.

Inizialmente la parte di edificio che ospitava i bambini dai 3 ai 6 anni, era situata nell’ ala sud – est dell’ edificio, ben soleggiata con un bel giardino con una fontana in mezzo.

Naturalmente per la gestione di una struttura quale era il nuovo asilo, servivano delle maestre e del personale di supporto per la mensa e tutti gli altri lavori connessi come il lavare e stirare tovaglie tovaglioli e lenzuola.

La prima maestra del nuovo asilo di Varollo fu Moratti Mariateresa di Tuenno seguita da Bevilacqua Claudia di Termenago ( val di Sole ) la terza fu Dapoz Pia Grazia di Cles.

Vorrei ricordare qui, con l’ ausilio della mia amica e coetanea Renata Aliprandini, le persone che hanno svolto questo ruolo che sono : Aliprandini Valeria, Aliprandini Renata, Conter Dina, queste per brevi periodi di tempo, la donna che ebbe un ruolo più lungo in quella attività e che ha visto passare decine di bambini che ora sono genitori e nonni, è stata la signora Agnese Sparapani di Preghena sposata con Agosti Giuliano e residente a Livo.

La signora Agnese ha cominciato il suo servizio di cuoca ed inserviente presso la scuola materna di Varollo nell’ anno **** fino all’ anno **** data della sua collocazione a pensione.

Voglio qui soffermarmi e descrivere il ruolo ed il lavoro delle inservienti in modo particolare la signora Agnese con la quale ho avuto il piacere e mi sia concesso anche l’ onore di conoscere personalmente sul suo luogo di lavoro quando prestavo la mia opera al servizio del Comune di Livo negli anni ’80.

Persona umile e riservata la signora Agnese prestava il suo determinante lavoro come cuoca ed inserviente in modo silenzioso e riservato, la ricordo davanti al grande focolare ed al piano di lavoro preparare decine di pasti per quella folla di piccoli sempre affamati, la colazione, il pranzo e la merendina.

Partiti quei diavoletti, nel pomeriggio c’ era da riordinare le sale, pulire i pavimenti e stirare la biancheria, insomma non ci si poteva fermare un attimo. La scuola è come una piccola famiglia, una società allo stato infantile, e spesso diviene il crogiolo naturale per un infinità di storie umane , diverse tra loro, ma che racchiudono in se un infinità di gioie e di dolori, e così troviamo la signora Agnese la cui vita non si può dire tra le più fortunate avendo perso il marito Giuliano ancora giovane e la storia di tanti bambini come quella di Franco Pancheri, gravemente handicappato dalla nascita che frequentava l’ asilo assieme a tutti i ragazzi normodotati e che dimostra tutt’ ora la sua voglia di vivere, la sua gioia per la vita partecipando alle iniziative che il giornalino MezAlon propone con i suoi scritti.

Coraggio Franco che fino a quando qualcuno ci legge vuol dire che siamo vivi ed attivi, continua a scrivere…

 

Mi viene raccontato da Aliprandini Renata un fatto riguardante la sua permanenza come inserviente alla scuola materna di cui ero parzialmente a conoscenza e che ora posso raccontare per intero.

La signorina Renata a quel tempo aveva 17 anni e fu assunta all’ asilo anche grazie all’ interessamento che ebbe nei suoi confronti l’ allora parroco e decano del Mezzalone don Michele Rosani.

La gente però mormorava che l’ interessamento del prete nei suoi confronti non fosse esclusivamente a livello di lavoro, ma che sotto ci fosse stato un desiderio proibito per i preti nei confronti della giovane e bella ragazzina. Tutto questo rese invisa la signorina Renata nei confronti soprattutto della maestra Moratti ma anche di altre persone del paese che non vedevano di buon occhio il presunto atteggiamento del prete.

Per questo motivo alla ragazza venne resa impossibile la vita sul posto di lavoro con continui ed ingiustificati controlli ed altre vessazioni psicologiche, ma considerato il carattere testardo e deciso di lei non tiuscirono a farle perdere il lavoro, se ne andò lei quando si sposò nel 1972.

Allora erano tempi di grandi cambiamenti sociali tra i giovani, eravamo tutti impegnati in prima linea per tentare di eliminare tutte quelle ingiustizie sociali che a noi pareva fosse piena la nostra società, ci si costituiva in gruppi normalmente pilotati dai preti come il Gruppo giovanile di P. Alessandro Zanotelli del quale facevamo parte sia Renata che io, così quando c’ era da scrivere qualche cosa sul locale giornalino, prendeva la mia “ Olivetti LETTERA 32” ed andavo da Renata che mi apriva la porta laterale dell’ asilo e mi faceva entrare e mentre lei stirava assieme mettevamo giù le nuove idee che avrebbero dovuto cambiare il mondo in meglio togliendo ingiustizie e corruzione… sono rimaste purtroppo delle belle illusioni, dei sogni calpestati dalle generazioni consumistiche ed egoiste che seguirono.

Renata come me era una ragazza vivace e ribelle, ma di carattere dolce e buono, aveva avuto una profonda e buona educazione dal padre Antonio uomo saggio ed onesto, per cui non credo che anche se provocata dal prete avesse risposto alle sue attenzioni, certo che poi bisogna ammettere che in materia di donne e di sesso il clero ne sa una più del diavolo, compreso don Michele Rosani, poi ci sono quelli che incapaci di chiedere sesso ad una donna matura, approfittano dei minori negli oratori… povero Cristo, dovrebbe scendere dalla croce e prenderli tutti a calci nei coglioni.

Dimenticavo, non mi sono mai permesso di fare neppure una avance a Renata, forse anche per questo la considero una delle migliori amiche.

 

 

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A scuola

 

 

Il primo giorno di scuola, è stato, per me, una delle più grandi emozioni della mia vita, che , tutt’ oggi, conservo nel cuore come un episodio bello, unico ed irripetibile.

Devo dire, che a renderlo un avvenimento atteso, desiderato ed emozionante, ci aveva pensato mio padre, che era amante della cultura, pura e fine a se stessa, capace di fare la differenza tra le persone, la società ed i popoli, più tardi avrei capito il lungimirante messaggio di mio padre, uomo di grande cultura, assimilata a scuola e sperimentata nella sua breve ma intensa vita, fatta di onestà nella miseria più totale, mai una volta che fosse stato tentato di superare questo stato di cose con l’ illegalità, ma nemmeno con le più puerili forme di astuzia o di furbizia, oggi molto di moda, specie tra i politici e gli amministratori.

Ricordo un episodio, che prendo a prestito ogni volta mi si presenta l’ occasione di poter evadere gli obblighi e gli impegni che la società si è data :

era la fine degli anni ’50 o forse i primi anni ’60, quando mio padre, dopo essere tornato tardi una sera da una riunione del Comitato ASUC di Livo, del quale faceva parte come consigliere, raccontando a mia madre gli esiti della riunione, disse di essere pi felice di aver vinto al lotto per aver contribuito alla decisione di acquistare la malga di Montanzana, che era di proprietà dei nobili de Stanchina ed era stata acquistata dall’ Ente pubblico.

Era allora presidente il signor Alessandri Giuseppe, uomo saggio e giusto.

 

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Il primo giorno di scuola

 

 

Al primo giorno di scuola, che allora era all’ inizio di ottobre, c’ era mio padre, che mi accompagnò, a piedi, da casa fino al piazzale della scuola, che a quel tempo era a Varollo nella casa dove adesso c’ è la casa ITEA .

Quello che ricordo bene, e con tanta emozione, è stato il ritrovare tutti i miei amici e tanti altri bambini che conoscevo, tutti insieme davanti alla scuola, con la maestra ed il maestro che ci aspettavano.

Fu un momento solenne della vita, ancora oggi ne colgo l’ importanza che gli veniva attribuita, c’ era la bandiera alla quale era da poco stato levato lo stemma dei Savoia, i maestri ci diedero il benvenuto e ci elencarono i diritti ed in modo particolare i doveri degli scolari, poi , tutti salimmo nelle due randi aule che ospitavano le classi dei “ piccoli “ prima, seconda e terza e dei “ grandi “ quarta, quinta e sesta, allora non c’ era l’ obbligo di frequentare le scuole medie.

 

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La mia maestra.

 

 

La mia maestra per gli anni che ho frequentato la prime tre classi elle elementari, si chiamava Teodora Depeder e, come tanti maestri ed insegnanti di quel tempo, proveniva dal paesino montano di Bresimo, dove la miseria era ancora più radicata e stabile in quella Comunità svantaggiata, da suggerire ai genitori di far studiare i propri figli per poter avere un lavoro ed un futuro che potesse garantire la sopravivenza stessa della comunità di Bresimo.

Era una donna piccola, minuta, aveva sposato un uomo locale che si chiamava Maninfior Giulio, credo, ma non ne sono certo e comunque non ha nessuna importanza, che avesse aderito al fascismo negli anni del regime, ma di questo lei non ne fece menzione alcuna e, secondo la mia opinione, riuscì a scorporare da quel pensiero politico e dalle manifestazioni del ventennio, tutte quelle cose positive che esso ha proposto ed inculcato agli italiani, come la lealtà, il rispetto della parola data, la cura del corpo e della mente e la disciplina.

Se avesse saputo fare altrettanto l’ intero popolo italiano, a quest’ ora saremmo il Popolo più educato e colto, progressista, tecnologicamente avanzato e progredito del mondo. Abbiamo pensato bene invece, assieme ai momenti, gagliardetti e camicie nere, di bruciare in toto anche quei valori positivi che il regime fascista aveva prodotto durante i venti anni della sua storia.

Così la buona maestra Teodora, ci prese in consegna, amorevolmente, specie i nuovi arrivati, ci fece salire al piano di sopra , dove c’ era la nostra grande aula, e ci fece accomodare ai nostri posti, i più piccoli davanti, la seconda e la terza dietro di noi.

Le aule avevano il pavimento in legno, fatto con tavole logorate dal tempo, talune erano talmente sconnesse da avere delle grandi fessure nelle quali, sovente, cadevano matite, pennini, e pezzi di carta.

La manutenzione era ridotta all’ essenziale, perché già allora si stava pensando alla costruzione del nuovo plesso scolastico, il Comune, infatti, era già in trattativa per l’ acquisto del terreno.

La buona maestra Teodora, si accorse subito del mio problema al braccio destro e non fu che la triste conferma di quanto a casa avevano sempre sospettato ed esorcizzato, faticavo molto ad impugnare la penna e mi era difficile tracciare dei movimenti sulla carta per colpa dell’ instabilità dell’ arto.

Con infinita pazienza, la maestra mi prendeva la manina malata e la accompagnava sul quaderno a tracciare le prime aste, poi i tondi, via, via fino a quando prendeva forma una A o un numero.

Ricordo, con emozione e con grande riconoscenza, il lavoro didattico di mia zia Ada, che con tanta pazienza ed infinita tenerezza mi insegnava come una seconda maestra e mi teneva la mano tremante, per farmi tracciare bene le aste ed i cerchi.

Imparavo in fretta ed assimilavo bene tutte le materie, ero un po’ debole in matematica, ( lo sarei sempre stato ) ma per il resto imparavo tutto e bene.

Ricordo, con entusiasmo, un piccolo episodio, era verso la fine del primo anno scolastico, ed avevo imparato a leggere sillabando le parole, un giorno mio padre mi portò con lui al bar di Varollo, sul tavolino c’ era un quotidiano locale, presi il giornale e mi misi a leggere le parole più grandi, i titoli, era presente, per caso, un figlio della mia maestra, che si chiama Irio, il quale lo riferì alla madre ed il giorno seguente, a scuola, la maestra mi elogiò pubblicamente.

Tra gli episodi più belli e dolci che ho ricordo nel tempo trascorso con la buona maestra Teodora, alcuni mi sono rimasti impressi nella mente, come una poesia, dolce, che si narra al fuoco del camino, durante le sere d’ inverno, quando fuori cade la neve e le cose più care le tieni strette al cuore, in uno spazio angusto, con forza, sono i ricordi, che nessuno ti potrà mai rubare, nessuno, perché gli unici proprietari sono il tuo cuore, la tua mente, la tua anima.

Il 22 marzo 1959, è stato il giorno, solenne, della mia prima S. Comunione. A lungo ci aveva preparati il nostro parroco don Giuseppe Calliari, insegnandoci , alla maniera pre conciliare, la Bibbia, con i suoi Profeti, i suoi racconti, che mi parevano tratti da un libro di favole, poi il Vangelo, con tutta la storia di Cristo, dalla sua nascita al Calvario e poi la resurrezione.

Anche la mia maestra, ci aveva seguiti ed aiutati per questa solennità, come fossimo dei suoi figli, ci ha accompagnati lei alla S. Messa quel giorno, ed a me, forse perché ero il suo preferito per via dei miei problemi fisici, mi regalò i santini, piccoli, come era in uso a quei tempi, sul primo, che conservo ancora gelosamente, come un caro ricordo di lei, aveva scritto, a penna, con la sua impeccabile calligrafia: “ Varollo, 22 – 3 – 1959, nel giorno della tua l° S. Comunione, la tua maestra Teodora Maninfior “ .

 

Poi ricordo, con dolcezza un periodo precedente le feste di un S. Natale, forse era la festa di S. Lucia, quello che ricordo con un grande senso di gioia, ancora oggi, a distanza di 50 anni, è la sorpresa che provammo nel trovare sotto il nostro banco scolastico, un pacco con dei doni dentro, c’ erano quaderni, colori, matite, degli aranci, nessuno si aspettava una simile sorpresa, così l’ emozione e la gioia raddoppiarono, bastava poco per essere felici davvero…

 

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Le ustioni

 

 

Un giorno, di domenica, quando mia madre e mia nonna si erano assentate per andare alla S. Messa delle 7, io e mio fratello più piccolo ci alzammo e decidemmo di fare il caffè.

Allora, non esisteva la moka, ma lo si preparava con un pentolino nel quale si faceva bollire l’ acqua e poi si aggiungeva un cucchiaio di caffè macinato con un macinino a manovella.

Non ricordo bene come sia successo, forse il mo braccio instabile, o non so, il pentolino mi scivolò dalle mani e l’ acqua bollente mi si rovesciò sulle gambe provocandomi delle serie ustioni di primo grado, sopra il ginocchio, con delle vesciche che crescevano a vista d’ occhio. Mio fratello mi mise dell’ olio da cucina sulla parte ustionata, poi corse a chiamare mia madre e mia nonna, che erano ancora in chiesa e che, alla notizia, si precipitarono a casa.

Mia madre mi portò a Livo, dal dottor Tenaglia, il quale mi medicò e mi applicò una pomata adatta alle ustioni, poi disse che sarei guarito , lentamente, da solo, bastava tenere pulite le piaghe che non si infettassero. Ci volle un periodo lungo e doloroso, bisognava cambiare le bende due volte al giorno, togliere le incrostazioni e mettere nuova pomata.

Tornai a scuola e la mia maestra si preoccupò in ogni modo di farmi sentire a mio agio e mi lasciava tornare a casa per la medicazione diurna.

Dopo parecchie settimane, sono guarito dalle ustioni e ho potuto riprendere a pieno ritmo la scuola, e sono così, rapidamente trascorsi i primi tre anni, era giunto il momento di passare nell’ altra aula per frequentare la quarta e poi la quinta elementare.

 

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Il mio maestro

 

 

Ero divenuto più grandicello, più vispo e monello, alle classi superiori era insegnante un maestro che si chiamava Fauri Erneso, pure lui proveniente da Bresimo, ara un uomo severo ma molto buono e comprensivo, aveva combattuto in Russia durante la seconda guerra mondiale, era tenente degli alpini e spesso ci raccontava degli episodi di quella sfortunata e tragica avventura bellica, come le battaglie sul fiume Don e la famosa battaglia di Nikolajewka.

Quando perdeva “ le staffe “ come usava esprimersi lui, tante volte usava come metodo di convinzione, il metro, quello di legno, per capirsi, eravamo dei veri e propri monelli, sempre pronti ai dispetti ed agli scherzi, anche pesanti, ma mai cattivi.

Ricordo tutti i miei compagni, uno per uno, ricordo anche le ragazzine, eravamo tutte classi miste, con i loro camici neri, che indossavano sopra le gonne, nessuna, allora, vestiva con pantaloni o jeans, tutte avevano sotto il camice la gonnellina.

I maschi vestivano con pantaloni lunghi fino a maggio, poi , verso la fine della scuola i pantaloncini corti, nessuno sapeva che cos’ era un capo firmato, ma tutti avevamo almeno una toppa sui calzoni.

Si è sposato con una donna di Varollo che si chiamava Ravina Bice verso la fine degli anni ’50, ed ebbero due figli maschi Pierluigi e Gabriele, ricordo che alla nascita del primo figlio, i nostri genitori fecero una colletta e comprarono un completino per il neonato, ricordo che venne incaricata la nostra compagna Gina assieme a Rodolfo per la consegna del regalo che avvenne una mattina all’ inizio delle lezioni appena entrato in classe i miei due compagni si alzarono e portarono al maestro il regalo dicendo che era da parte di tutti noi. Lui ringraziò tutti visibilmente commosso fino alle lacrime e disse che lo avrebbe fatto indossare al piccolo al momento del battesimo.

Del mio maestro ricordo pure che anche dopo aver finito gli studi ho sempre mantenuto una bel rapporto di grande amicizia e stima fino alla sua morte,

quando venne a conoscenza delle mie simpatie politiche di destra, un giorno sorridendo, mentre stavamo discutendone con il figlio maggiore Pierluigi, ci disse. – basterebbero alcuni giorni di Russia o di Albania per farvi passare di colpo queste idee!

Non ho cambiato la mia scelta politica, ma ho sempre ricordato le parole del mio maestro come una grande lezione di vita e durante tutto il mio percorso umano, sociale e politico ho sempre avuto il massimo rispetto per le scelte e le opinioni politiche e no degli altri, ho imparato a capire ed apprezzare le altre forme di cultura, la diversità delle razze e dei popoli e le ragioni degli altri.

Devo annotare con un filo di amarezza, che pochi dei miei compaesani hanno saputo e voluto fare altrettanto nei miei confronti, molte volte sono stato vittima della loro ignoranza socio politica e della loro endemica povertà culturale causata dalla loro sete insaziabile di denaro, di profitto a tutti i costi che alla fine li ha resi schiavi della loro stessa condizione.

 

 

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Il dottor Tenaglia

 

 

Una volta al mese, veniva a far visita alla scuola il nostro medico condotto che si chiamava Giovanni Battista Tenaglia, era un uomo severo e lunatico, aveva aderito al fascismo ed era un gerarca locale, era molto amante del radio ascolto ed era sempre aggiornato su quanto succedeva in Italia e nel mondo.

Ricordo che fu lui a portare la notizia della grande catastrofe naturale del Vajont.

Entrava in classe e si impossessava subito del metro, poi, scendeva tra i banchi e ci chiedeva di mostrare le mani, mettendole disteso sul piano del banco, se le trovava pulite tutto passava liscio, se invece erano sporche colpiva le mani del malcapitato con il metro e che dolori erano. A volte, ci spiegava come si propagano le malattie, ci diceva dei batteri e dei virus, e ci diceva dell’ importanza della pulizia del corpo e della disinfezione delle piccole ferite.

Un paio di volte all’ anno, si presentava a scuola con tutto l’ occorrente per fare le vaccinazioni: aveva una siringa di vetro molto grande, con lo stantuffo di metallo lucido, aveva un fornelletto elettrico, di quelli che si vedevano le resistenze che scaldandosi diventavano rosse, una vaschetta di alluminio che riempiva di acqua e poi ci metteva tre o quattro aghi, che a pensarci mi vengono ancora i brividi da come erano grossi e lunghi, quando l’ acqua bolliva, con una pinzette prendeva un ago e lo metteva sulla siringa. La riempiva di siero vaccino ed iniziava la vaccinazione di massa. Separava i maschi dalle femmine e poi faceva entrare prima le femmine tutte in un aula, mentre i maschi aspettavano fuori nei corridoi o giù nel piazzale, finite le femmine toccava a noi, ci faceva mettere in fila, in ordine alfabetico, per via dei documenti che poi compilava, ci faceva abbassare i calzoni e le mutandine, prendeva un ago bollito e sterilizzato dalla vaschetta ed iniziava con il primo, che ero sempre io, per via del cognome e nome A B, iniettava una dose di siero guardando le tacche sul vetro della siringa, appena finito con un bambino, toglieva l’ ago e lo sostituiva con uno sterilizzato dall’ acqua che bolliva, finito il vaccino nella siringa, faceva il pieno da un grosso flacone che teneva in disparte nella sua borsa in un luogo fresco.

A volte penso alle tante, forse troppe precauzioni che si prendono adesso, alle tante denuncie per mala sanità, se ripenso a quei tempi, credo che saremmo tutti da vaccinare se si fosse stati obbligati a rispettare solo la legge della privacy, guai a chi si lamentava per la puntura o mostrava di aver paura, allora erano Madonne da sprofondare il cielo… siamo tutti ancora vivi e chi non c’è più non è certo per colpa del burbero ma capace dottor Tenaglia.

 

Trascorreva così, il mio tempo nella scuola, il tempo in cui mi veniva dato l’ apprendimento delle cose elementari, quelle che poi ti serviranno nella vita che hai davanti, nei contatti con il mondo, nei rapporti con la gene che ti circonda, e , secondo la mia opinione, è proprio in questa fase della vita che ricevi una certa istruzione, uno stimolo per essere migliore in una delle tante materie che ti vengono insegnate, e questo, secondo me, dipende molto dall’ atteggiamento di chi insegna, dalla sua sensibilità, dal suo modo di esporre la materia, dell’ entusiasmo che ci mette per farsi capire, dipende l’ apprendimento facile o refrattario dell’ alunno, chi insegna, secondo me, deve avere in se un carisma, un talento speciale, deve saper trascinare l’ alunno in quel mondo fantastico della ricerca, tipico dell’ essere umano, che ha un desiderio innato ed ancestrale di conoscere il mondo che lo circonda, di sapere da dove viene e dove và, di sapere sempre di più, perche questo è il principio, il destino , la differenza tra l’ essere umano e l’ essere animale : la conoscenza, il sapere di esistere, la cognizione di causa, il saper essere consapevoli e responsabili delle proprie azioni, del proprio agire, nel bene e nel male, lì essere consapevoli che ci aspetta una fine, che tutti siamo destinati a morire, questa è la differenza che fa di noi umani una “ razza padrona “, inferiore a tutte le altre specie animali, perché , con l’ intelligenza che ci è stata concessa, non siamo stati in grado di superare in AMORE tutte le altre specie animali, dotate solo dell’ intelligenza dell’ istinto di conservazione.

 

Tra gli episodi di vita didattica che mi sono maggiormente rimasti nella memoria e nel cuore, ne citerò , adesso, alcuni:

 

 

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La scatola delle scarpe

 

 

Era l’ anno 1962 mi pare, ma non ne sono del tutto sicuro, ero ancora un bambino delle elementari, affascinato dalla natura e da ogni tipo di cambiamento che si poteva notare. Non passò , infatti, inosservato, il fatto che la pancia di mia madre fosse un po’ cresciuta, al primo momento, dopo un rapido consulto con mio fratello più giovane di me di due anni, stabilimmo che poteva essersi ingrassata un po’, ma con il passare del tempo, la pancia continuava a crescere, ed allora mia madre, accortasi delle nostre continue attenzioni, un giorno ci chiamò e ci disse che avremmo avuto un altro fratellino o sorellina.

La notizia ci riempì di gioia, e già si pregustava il momento della nascita con tutte le conseguenze, poi il battesimo, si sarebbe dovuto trovare un bel nome e poi bisognava accudirlo e via dicendo.

Che non lo si fosse trovato sotto un cavolo e neppure lo avesse dovuto portare la cicogna, questo lo sapevo, verità rubate nell’ ascoltare i discorsi dei grandi, ed osservando tante di quelle pance di donne crescere e poi d’ un colpo te le trovavi per strada, di nuovo snelle come prima e con una carrozzina sgangherata con dentro un pupo che dormiva o che piangeva, il come fosse entrato nella pancia e soprattutto come facesse poi ad uscire, era uno dei tanti dilemmi ai quali non ero riuscito a dare ancora una risposta, era anche severamente proibito restare nella stalla quando partoriva una mucca…

A dare risposta a tutti questi interrogativi, ed appagare così la mia sete di sapere, ci pensò alcuni anni più tardi, un frate del convento di Villazzano, che ci spiegò , con molta calma e con grande sensibilità, il miracolo dell’ amore che da poi inizio ad una nuova vita e devo dire che a tutt’oggi, resta per me uno dei momenti della vita che ancora mi affascina e mi meraviglia.

Quando fui più grandicello, mio padre mi permise di assistere al parto di una mucca, fu per me una grande emozione, soprattutto quando , dopo essere stato asciugato con della paglia, il vitellino veniva consegnato alla madre, che dolcezza e che tenerezza, se lo ripuliva per bene con la lingua, mentre, ancora traballane, lui prendeva possesso delle mammelle della madre ed iniziava a succhiare di gusto.

Un giorno mia madre, disse che non si sentiva bene, chiamò mio padre il quale la accompagnò, con l’ automobile di un amico, al vicino ospedale di Cles, a noi disse che doveva fare degli esami e dei controlli.

Rimase lì alcuni giorni, mio padre riprese i suoi lavori nei campi, ma era sempre pensieroso ed a tratti preoccupato, finché un giorno, mentre eravamo in un campo, arrivò mia zia Lina a cercarlo, mio padre non disse niente, lasciò gli attrezzi nel campo e disse che doveva andare con urgenza all’ ospedale.

Tornò la sera, con una scatola di quelle che contengono delle scarpe, chiusa e legata con uno spago su tutti i lati, come a formare una croce. Era visibilmente addolorato, parlò un attimo con mia nonna nella sua stanza da letto, poi ci chiamò tutti e due, io e mio fratello, e ci disse che mamma aveva provato a fare un fratellino, ma che non ci era riuscita, ci spiegò, poi, che era un maschio e che era già formato nelle sue sembianze umane, non ritenne di dover aprire la scatola per non provocarci dei traumi e ci disse che il giorno dopo lo avremmo sepolto, in forma privata, nella tomba di famiglia nel cimitero.

La nonna recitò la preghiera dell’ angelo custode e ci disse che questo nostro fratellino era anche lui un piccolo angioletto che volava attorno a Dio, ci ricordò anche un suo detto, che ripeteva sempre nelle occasioni tristi o liete : “ L’ uomo propone e Dio dispone “. Poi scese nell’ orto, raccolse dei gigli bianchi ne fece un bel mazzo e lo depose sopra la scatola delle scarpe.

Non fu possibile battezzarlo e dargli un nome, perché era nato morto, così il giorno successivo, di buon mattino, ci recammo al cimitero del paese con una zappa ed una pala, io portavo la scatola mentre mio fratello portava il mazzo di gigli bianchi, arrivati alla tomba, mio padre scavò una piccola fossa, abbastanza profonda, prese la scatola e ve la depose dentro con delicatezza, poi , cominciò a ricoprirla di terra con le mani fino a quando la scatola scomparve alla vista, finì poi il lavoro con la pala ed alla fine rimase un piccolo cumulo di terra, smossa , sul quale deponemmo i fiori, poi, mio padre ci fece recitare di nuovo la preghiera dell’ Angelo custode, tutti con gli occhi lucidi di pianto.

Questo episodio, ha segnato profondamente il mio modo di pensare alla vita, al concepimento, la mia netta contrarietà all’ aborto, ho sempre pensato e fantasticato su questo mio fratellino: a chi avrebbe assomigliato ? che voce avrebbe avuto ? adesso avrebbe circa dieci anni meno di me, e cosa sarebbe diventato ? e poi, sicuramente sarebbe stato sano e più fortunato di me, senza tutti quei problemi che mi hanno rovinato l’ esistenza… A volte, penso, che la natura, la vita, siano come un gioco, una lotteria, dove per vivere bene bisogna anche avere fortuna.

Così, ogni volta che passo davanti al cimitero, penso sempre a quel mio fratellino che non è mai vissuto, ma che è andato dritto in cielo senza passare per questo calvario chiamato vita, in questo breve sogno nel quale ci è concessa la libertà di esistere, che noi consideriamo eterna, rendendo così difficile con il nostro egoismo, lo stesso nostro vivere.

Il sapere, che tra le tante persone che mi hanno voluto bene e che ora sono in cielo, troverò anche questo mio fratellino, è per me motivo di grande serenità.

 

 

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Compleanno alla malga Binaggia

 

 

Era il giorno di sabato 16 agosto 1958 , era ancora notte fonda ed il villaggio era ancora immerso nel sonno quando venni svegliato da mia nonna che era venuta quatta quatta nella mia cameretta dove dormivo come un ghiro: sveglia, che l’è ora de nar su la malgjia ! .

Era un sabato e mio padre aveva deciso di andare a raccogliere funghi in alta quota dove difficilmente passavano i rari cercatori di funghi di quei tempi e poi era il periodo giusto per la raccolta dei finferli e delle brise ed altre specie di miceti.

Mio padre preparò nello zaino dei viveri e delle bevande, quel tanto che bastava per il viaggio perché poi in malga i pastori che conoscevano mio padre , avrebbero pensato loro a rifocillarci e darci da dormire.

Ero troppo piccolo allora per immaginare quanto fosse lontana da casa la malga Binaggia e poi lo spirito di avventura ed il fascino dell’ ignoto mi diedero tanto coraggio e tanta forza per affrontare i 20 chilometri che ci separavano da casa alla malga.

Passando a Livo verso le 04 del mattino, ci fermammo dal panificio Comini a comprare il pane per il viaggio, ricordo che mio padre mi comprò anche una cioccolata, cosa imprevista e che mi mise subito addosso tanta allegria.

Poi ripartimmo svelti verso Bresimo che da Livo dista circa 6 chilometri, fino lì non ci sarebbero state altre tappe la strada infatti si inerpicava tra i boschi e non si incontrava anima viva.

Albeggiava quando entrammo nell’ abitato di Bresimo dove mio padre conosceva molta gente ed era anche ben visto dalla popolazione, si può dire che era un eccezione particolare perché noi dei paesi di Livo e Preghena non eravamo ben visti dalla popolazione e le ragioni andavano ricercate in vecchi rancori riguardanti la proprietà del monte Forzio un monte che confina con le proprietà di Livo. Dieci anni più tardi si sarebbe aggiunta anche la bega della caccia sulla Malgaccia che sarebbe durata 40 anni con un infinità di ripicche da entrambe le parti. Ma questa è un'altra storia.

Ci fermammo in una locanda a conduzione famigliare, credo che si chiamasse “ L’ auscela “ , ma quello che non scorderò mai furono le coccole di una donna molto premurosa che mi fece ingerire quasi a forza un uovo fresco sbattuto nel latte e zucchero, una vera delizia per “ qual popin “ .

Rifocillati riprendemmo la strada verso la valle de Ciamp dove ebbi la fortuna di assistere ad uno dei più belli ed affascinanti spettacoli della natura.

Era il momento dell’ alba ed il sole scendeva lento lambendo i monti a larghe fasce ad illuminare uno scenario da fiaba. Il colore dei pascoli cambiava rapidamente da un verde scuro ad tenue verde pisello, i gialli botton d’oro che sembravano assopiti dal buio della notte sembravano come rialzarsi per scrollarsi di dosso il sonno, e si lasciavano baciare dal nuovo sole, scrollandosi di dosso la rugiada mattutina e mostrando tutto il loro splendore nel verde del pascolo con un effetto policromatico da mozzafiato e tutto il pascolo riprendeva la vita man mano che veniva riscaldato dai raggi del sole, tornavano a svolazzare le farfalle con le ali multicolori, i grilli e le cicale iniziavano il loro canto assordante, le cavallette saltavano con lunghi balzi da un posto all’ altro e la rugiada che si asciugava al sole si trasformava in una nebbiolina evanescente impregnata di profumi, che durava pochi istanti giusto il tempo per poter odorare quei profumi di fiori freschi e di prato che la natura ci regalava.

Si camminava così sulla stradina sterrata che attraversa la valle di Campo ammirando quel paesaggio da cartolina, ogni tanto la stradina era attraversata da un rigagnolo di acqua limpida e purissima e là dove il ruscello aveva una portata d’acqua maggiore veniva fatto scorrere in un fosso più profondo e la strada passava sopra un ponticello di legno tanto carino da sembrare quello dipinto sui libri di scuola. Ero al mio secondo anno di scola e cominciava il tempo delle grandi scoperte nel infinito scenario della vita, che propone a chi sa osservare con occhi fanciulli tutte la meraviglie di cui dispone e tutti quei magici effetti che escono dal meraviglioso cappello magico di madre natura. Non ho mai scordato quei luoghi incantati da quelli scenari da favola, la mia fervida ed attenta memoria di fanciullo ha raccolto e rinchiuso nel cuore quei fiori e quei profumi di quei giorni indimenticabili di gioia di vivere.

Ora che sono adulto torno spesso il quei prati nella valle di Campo e mi piace camminare ancora sulla vecchia stradina a fianco ai verdi pascoli e di tanto in tanto entrare per un breve tratto nel prato a risentire l’ odore inconfondibile dell’ erba fresca.

Si camminava spediti per la stradina che si faceva e tratti molto ripida, di tanto in tanto ci si fermava a bere dalle numerose fontanelle naturali che zampillavano acqua limpida e fresca delle sorgenti alpine.

Ogni tanto mio padre guardava il cielo che si stava annuvolando con nube nere dense e minacciose quelle che normalmente precedono un temporale estivo in alta quota. Ed il temporale arrivò improvviso e violento proprio mentre avevamo appena iniziato a salire la ripida stradina che porta alla malga Binaggia e che si distacca con un bivio dalla strada che porta alle malghe Bordolona e Malgazza una stradina irta e stretta transitabile solo a piedi da uomini ed animali che portavano in quota il necessario per far funzionare la malga. Tuoni violentissimi s succedevano con rapidità e grande fragore seguito poi dell’ eco che si spargeva tra le gole dei monti, si continuò a salire sotto un vero e proprio bombardamento di saette, poi, improvvisa e violenta arrivò la pioggia che ci investì in pieno, gli alberi a quella quota di quasi 2000 metri erano rari e molto piccoli e poi mio padre mi disse che durante un temporale era molto pericoloso rifugiarsi sotto un alberi, specie sotto un larice e così proseguimmo a testa bassa e con il berretto calato sugli occhi, meglio bagnati che colpiti da un fulmine esclamò mio padre.

Dopo una mezz’ oretta il temporale cessò ed in cielo riapparve il sole assieme ad un grande arcobaleno che andava da un monte all’ altro, eravamo bagnati fradici e non avevamo vestiti di ricambio, allora mio padre mi spogliò dei vestiti inzuppati di acqua e mi fece camminare soltanto con le mutandine che a quel tempo erano cucite a mano ed erano molto grandi da sembrare dei pantaloncini .

Arrivammo in vista della malga nel primo pomeriggio e subito i pastori che conoscevano molto bene mio padre ci vennero incontro a ci fecero accomodare all’ interno della casera dove ardeva un bel fuoco di grossi ceppi di larice che scoppiettavano e spargevano scintille , ci fecero sedere e subito scaldarono del latte mentre misero ad asciugare i panni bagnati vicino al fuoco. Mi fecero bere una grande tazza di latte caldo con dentro il toccasana per ogni tipo di male ossia un cucchiaino di grappa ed un poco di miele, lo bevvi con avidità a piccoli sorsi perché ancora molto caldo, ma quel latte dal gusto un po’ strano e particolare mi ridiede subito calore e forza, mi spogliarono del tutto e mi misero addosso una grande giacca di uno dei pastori, mi infilarono le maniche nelle gambe ed il resto me lo avvolsero come una coperta, poi prepararono un posto con del fieno su un letto a castello e mi deposero lì. Mio padre tolse dallo zaino la cioccolata e me ne fece mangiare la metà, poi addormentai quasi subito perché ero molto stanco dal viaggio e che era stato molto faticoso ed avventuroso anche a causa del violento temporale nel quale eravamo incappati.

 

Mentre io dormivo beato, nella malga ferveva il lavoro della mungitura delle mucche, allora non esistevano le moderne mungitrici meccaniche, si mungeva il latte a mano nei secchi metallici zincati perché più igienici e pi facili da pulire, il “ pai “ il grosso paiolo nel quale veniva prodotto il formaggio e le bacinelle dove veniva conservato il latte al fresco perché venisse a galla la panna, invece erano di rame.

Mio padre aiutò i pastori a mungere sia la sera che il mattino successivo, ricambiando così la cortesia che di avevano fatto scaldandoci e rifocillandoci. Tutto avveniva alla luce delle lanterne a petrolio, ai miei tempi la corrente elettrica cominciava ad essere un lusso in molte abitazioni ma non tutti ne erano ancora provvisti, c’ era chi ancora usava le candele e le lampade a petrolio.

Arrivò l’ alba di domenica 17 agosto 1958 quando mi svegliai rilassato ed arzillo dopo quel lungo sonno ristoratore, mio padre mi accompagnò a fare i bisogni nella stalla in un angolo dove mancava una mucca, poi mi aiutò a vestirmi con i panni belli asciutti e caldi mi mise i berretto in testa e mi portò fuori dalla porta della malga. L’ aria era frizzante a 2213 metri di quota, ma valeva la pena rimanere all’ aperto per ammirare uno degli spettacoli più belli e più affascinanti che madre natura concede tutte le mattine: L’ alba.

Era di un rosso fuoco e pareva che le montagne bruciassero divorate da alte fiamme che piano, piano le avvolgevano di luce, una luce sempre più intensa con un crescendo che se ci mettevi la sinfonia dell’ inno alla vita di Beethoven si abbinava in un modo plastico e meraviglioso. Rimanemmo lì a guardare quello spettacolo affascinante seduto sullo steccato che delimita il pascolo fino a quando il sole aveva divorato i monti ed ora ci baciava con il suo calore.

Mio padre mi consegnò l’ altra metà della cioccolata dicendomi : buon compleanno figliolo !

Avevo raggiunto l’ età di sette anni ed ero salito a piedi per la prima volta fino alla nostra malga, superando anche la terribile prova del violento temporale in montagna ed ero anche riuscito a bere il latte con la grappa, ormai ero un uomo !

Non ricordo i nomi dei pastori che erano in malga al nostro arrivo, ma di loro ricordo la grande semplicità e disponibilità che ebbero nei nostri confronti accogliendoci e rifocillandoci, ancora oggi rivedo quelle facce con la barba lunga, la pelle scura bruciata e rinsecchita dal tanto sole di montagna e dal fumo costante del fuoco aperto che invadeva i locali della casera e della zona dove c’ erano i miseri giacigli di paglia e fieno dove dormivano.

A colazione mi prepararono del latte con il caffè da orzo e in via del tutto eccezionale perché era il mio compleanno, ci misero due cucchiaini di zucchero, mi augurarono in coro Buon compleanno e mentre io mangiavo di gusto loro si facevano un grappino versando dalla bottiglia che aveva portato mio padre dal paese come omaggio per la nostra presenza.

Verso le nove ci preparammo per scendere lungo il pascolo e raccogliere funghi come avevamo stabilito, salutammo e ringraziammo di cuore tutti i pastori della Binaggia e piano piano zigzagando tra l’ erba per meglio vedere la presenza dei funghi, ci allontanammo dalla malga . per un po’ ci voltavamo a rivederla ed a salutare di nuovo, era sempre più piccola con l’ immancabile filo di fumo che saliva dal camino, fino a quando dopo essere scesi ancora per un ripido pendio, sparì del tutto dalla nostra vista.

Intanto si era aggregato a noi il signor Rodegher Giulio di Varollo anche lui in zona a raccogliere funghi

Questa fu la mia prima grande avventura della mia vita di fanciullo, un avventura da poter raccontare ai miei compagni di classe ed al mio maestro, erano state due giornate indimenticabili, mi sentivo cresciuto, quasi un uomo, non era da tutti infatti aver fatto un tragitto così lungo a piedi a sette anni.

Tornati a Bresimo ripassammo dalla signora che mi aveva preparato l’ uovo sbattuto il giorno precedente e ascoltata la terribile storia del temporale me ne fece mangiare un altro questa volta ci mise un cucchiaino di marsala per : “ far crapar forza a qual popin “

 

 

 

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IL TELEFONO DA CAMPO DELLA WEHRMACHT.

IL “ FELDFERNSPRECHEN 33

 

 

Come ricorre più volte in questo scritto, si era nel periodo appena successivo alla fine della seconda guerra mondiale, nelle case era rimasta una notevole quantità di residuati bellici lasciati dai soldati del Fuhrer nella loro tragica ritirata del 1945 per tornare nella loro Patria e trovarla demolita dai bombardamenti degli Alleati ed invasa ad est dalle truppe dell’ Armata rossa ed ad ovest dagli stessi alleati. Durante la ritirata le i soldati tedeschi ripercorrevano la stessa strada statale 42 che avevano percorso i loro camerati della prima guerra mondiale, nel 1918, sconfitti pure loro.

Un esercito in fuga ha un solo ed unico obbiettivo, quello di tornare in patria al più presto con il minor danno possibile, quindi prevaleva tra quelle truppe soltanto l’ istinto di conservazione e nulla di più, considerato anche che tutto il resto era perso. Succedeva allora che i soldati abbandonassero nel loro passaggio tutto quello che non era strettamente indispensabile alla loro sicurezza e che era solo di ingombro e di ostacolo perché la ritirata fosse il più possibile rapida ed indolore. All’ altezza dell’ muraglione che sorregge la statale in località Zura la colonna si fermò per liberarsi del rimorchio di un camion carico di gassogeno, che era della legna da ardere tagliata corta che serviva per produrre gas per alimentare i motori dei camion considerato che la benzina era ormai introvabile per l’ esercito tedesco. Il rimorchio venne fatto accostare al ciglio della strada dove il muro è alto una decina di metri, poi con un camion venne spinto fuori strada fino a farlo cadere nel nostro terreno coltivato a vigneto. Il pesante rimorchio precipitò nel vuoto, rimbalzò due o tre volte, perdendo il suo carico di legna, fino a fino a finire nel fitto bosco di acacie sopra il torrente Noce, che delimitava la parte coltivata da quella incolta.

Altre cose vennero abbandonate lungo la strada della ritirata, si narra anche di cose si valore come oro ed opere d’ arte trafugate durante la campagna d’ Italia, si racconta anche di persone che si sono arricchite con questi tesori che hanno loro cambiato la vita e da poveri che erano si sono ritrovati ricchi sfondati proprio come nelle favole.

A noi però non rimase che la legna da raccogliere sparsa per tutto il vigneto, qualche attrezzo da meccanico, molto ferro che venne recuperato facendolo a pezzi con la fiamma ossidrica del buon Mario Conter che era idraulico ed aveva pure lui un vigneto poco distante dal nostro.

L’ unico oggetto di un certo valore più che altro storico che venne recuperato in quella occasione, ma non sono a conoscenza del luogo del ritrovamento, è stato un telefono da campo della wehrmacht che vado a descrivere : era una scatola nera di metallo delle dimensioni di cm. 30 x 20 x 15, con il coperchio montato su delle cerniere che si chiudeva con una chiusura a scatto e si apriva premendo la levetta che fungeva da serratura.

All’ interno del coperchio, dove era stato ricavato il vano per la cornetta anche essa rigorosamente nera come erano tutti i telefoni di quel tempo, c’ era una targhetta con elencato l’ alfabeto fonetico tedesco ad esempio per definire la lettera H bisognava pronunciare la parola Hitler.

Al suo interno c’ era la cornetta collegata all’ apparecchio, dei cavi con dei puntali ed una manovella. La manovella andava inserita in un foro all’ esterno dell’ telefono e serviva per azionare e far funzionare una piccola dinamo che produceva l’ energia elettrica necessaria per farlo funzionare, e che producesse energia elettrica lo si poteva testare premendo un pulsantino bianco che azionava un campanello elettrico. Era un gioiello di tecnologia al servizio della guerra e serviva, collegato con un cavo ad un apparecchi gemello, per tenere i collegamenti telefonici tra una postazione e l’ altra ad esempio tra delle batterie di cannoni per la direzione del tiro.

 

Per anni, durante le vacanze estive, veniva d noi la mia cuginetta e coetanea Giuliana di Cles e restava da noi l’ intera estate, dormiva assieme alla nonna nella stanza dove ora dorme Widad.

Con lei abbiamo molto giocato per i prati e nel vicino bosco assieme agli altri ragazzini del paese ed a mio fratello Paolo.

E’ stata proprio lei verso Natale 2013 . a ricordarmi il telefono da campo, perché era una mia particolare passione quella di scendere con lei nel “ vot “ dove c’ erano gli attrezzi agricoli e il banco da falegname di mio padre con attorno appesi tutti gli attrezzi per lavorare il legno.

Stavamo per ore a giocare con il telefono da campo tedesco, con la mia cuginetta che telefonava alle sue amichette e ci voleva un bel po’ di tempo prima che il telefono si liberasse per poterci giovare. Abbiamo ripercorso con il ricordo quei tempi lontani più di mezzo secolo ed abbiamo concordato che erano stati veramente dei tempi memorabili dove all’ infanzia non veniva rubato nulla, dove il gioco era creatività e fantasia, quando per divertirsi bastava poco, quando si era ancora troppo acerbi come le bacche nel bosco per pensare ad altri giochi che avremmo imparato poi negli anni a venire, quando i sogni ed i desideri passavano per la cornetta di un telefono da campo tedesco per restare chiusi in quella scatola nera.

A liberare quei sogni da troppo tempo rinchiusi in quella scatola, ci pensai alcuni anni dopo, quando la fantasia si mescolò alla mia insaziabile sete di conoscenza, di voler vedere come sono fatte le cose dentro, con una curiosità ed una voglia insaziabili di svelare nuovi misteri alla ricerca sempre più dettagliata della conoscenza.

Fu così che un po’ alla volta smontai pezzo per pezzo il telefono da campo, con la stessa passione ed ansia con la quale si spoglia una donna per la prima volta, e così tra una sorpresa e l’ altra potei appurare in prima persona cosa c’ era dentro un telefono da campo tedesco, c’ era il campanello con la bobina, i componenti per la trasmissione della voce, ed il sistema di alimentazione autonomo composto da una bella dinamo con il magnete rosso con impresso l’ aquila tedesca che porta una svastica tra le zampe, questa è l’ unica cosa che ancora conservo del apparecchio telefonico tedesco della seconda guerra mondiale.

 

 

 

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IL PROFUMO DEL FIENO

 

 

-Si va a Pongèl, domani si va a Pongèl !-

Per me il prato nel fondovalle del paese, vicino al torrente, verde punteggiato di fiori dalle policromie diverse e circondato da un vasto bosco di conifere ed un fitto sottobosco di piante di nocciolo, di acacia , acero ed altre specie di flora verdeggiante , era la forma di esistenza che più mi affascinava e mi rendeva felice al sol pensiero di poterci andare.

Mio padre preparava gli attrezzi adatti allo sfalcio del fieno ancora la sera prima, batteva la falce con il martello e la “plantola“, preparava la “preda“ nel “cozzar” e si portava appresso anche una bottiglietta di aceto da aggiungere all’acqua nel “cozzar”, perché la “preda” affilasse meglio la falce.

Il tutto veniva messo nello zaino assieme alla lampada a petrolio con il serbatoio pieno di quel liquido infiammabile e puzzolente. Si preparava anche il carro dalle grandi ruote con i raggi di legno ed un grosso cerchio in ferro che li stringeva come in una morsa; si controllavano i ceppi di legno dei freni, si lubrificavano con la “ songia “ le “sil “, ovvero gli assi portanti del carro, affinché le ruote scorressero meglio. Si preparavano, inoltre, le funi il pelle ben ripiegate sulla “spora“, le grandi lenzuola di iuta ove veniva raccolto il fieno essiccato e si dava un'occhiata a tutto l’ occorrente per

tacjar sot” le mucche.

La notte non riuscivo a prendere sonno per l’ emozione che mi aspettava il giorno dopo, che non era solo quella del fascino che suscitava in me quella località, ma c’era anche altro di molto più interessante...

Si partiva alle tre del mattino con la luna di agosto che ci illuminava la via fino alla stradina che poi scende ripida verso il torrente. Quello che a me è sempre sembrato strano era il fatto che arrivati lì di notte si sentiva il rumore della roggia molto distintamente, mentre di giorno era coperto dei rumori del lavoro della gente dei campi o forse, più semplicemente, non ci si faceva caso presi da altri pensieri o discorsi.

Si scendeva veloci alla luce della lanterna a petrolio, mente lo scrosciare del torrente si faceva più vicino e l’ odore caratteristico della palude, che era molto vicina al mio prato, si insinuava nelle narici come per darci il benvenuto. Si camminava per un tratto di strada ai margini della palude dove crescevano delle piante simili a dei piccoli pini e un' erba che aveva delle foglie enormi, più grandi di un ombrello, sempre piene di lumache.

Arrivati nel prato, stormi di lucciole si alzavano nell’aria frizzante dell’alba che stava per sorgere, come un pullulare di tante lanterne cinesi sospese magicamente nel cielo ancora buio: uno spettacolo unico ed affascinante, una meraviglia della natura che ti obbligava a fermarti per un po’ ad osservare ed a meditare su questo evento.

Mio padre apriva la falce, la fissava stretta con la chiave, si avvicinava al ruscello e riempiva di acqua i “cozzar”; quindi vi versava alcune gocce di aceto che serviva per fare aderire meglio la preda al filo della falce, poi dava un'energica affilata passando rapidamente la “preda” sul filo della falce.

Se rimanevi zitto potevi sentire le voci degli abitanti del bosco vicino e del prato ai tuoi piedi, potevi sentire il cinguettare di decine di uccelli che già scorgevano l’arrivo dell’alba e migliaia di grilli , cicale e cavallette che parevano darti il benvenuto con il loro gracchiare insistente che aumentava di intensità man mano che il rosso dell’alba si faceva più intenso. La falce tagliava l’ erba con un rumore cadenzato e si poteva capire quando tagliava e quando tornava indietro per ripartire con un altro taglio; quel rumore strisciante e leggero della falce di mio padre mi faceva sempre pensare alla morte, quella dipinta sul grande gonfalone che veniva usato nei funerali e sul quale si esaltava indiscusso il trionfo di questa.

Mi venivano i brividi.

A scacciare tutti questi cupi pensieri ci pensava il sole che piano, piano faceva capolino , facendosi largo , tra i monti e le conifere e proiettando una lunga ombra sul prato che assumeva forme geometriche diverse e mutevoli man mano che questo cresceva.

In un attimo era giorno, le cicale cambiavano il tono della voce, meno triste di prima, i grilli continuavano il loro canto alla vita e gli uccellini nel bosco vicino avevano intonato un concerto degno di una grande orchestra filarmonica. Me lo chiedevo e chiedo tuttora: “Ma perché non prendiamo esempio dagli animali di qualsiasi specie, che ad ogni sorgere del sole, tutti i santi giorni, sanno capire il fascino e l’ importanza di questo evento che si ripete da sempre, ma che tutte le volte rappresenta un giorno nuovo?”.

Eppure noi ci vantiamo di essere i possesso di un'intelligenza superiore a tutte le altre specie animali che vivono sulla terra, senza riuscire ad essere umili e saggi come loro. Dio ci ha mandato perfino suo Figlio per tentare di farci capire l’ importanza di questi valori universali che ci permetterebbero una vita degna di essere vissuta , con la pace interiore e la carità verso il prossimo.

Vicino alle due grandi piante di noce c’era un masso dalle dimensioni notevoli alla cui base sgorgava, come dal nulla, un piccolo ruscello di acqua limpida e pura che si poteva bere. Il rivoletto scendeva verso il torrente come un piccolo affluente, passando sul retro del “bait”, una piccola casetta fatta tutta di tavole di legno che aveva costruito mio padre per ripararsi dalle improvvise intemperie estive o per riposarsi dopo aver pranzato ed in attesa che il sole facesse essiccare il fieno.

A fianco della piccola costruzione cresceva rigoglioso un grande abete rosso che ombreggiava tutta la zona del bait.

Sul retro della piccola casetta di legno, c’ era il posto dove venivano lasciate riposare le mucche all’ombra dell’abete vicino al ruscello dove cresceva un'erba verde e rigogliosa e si potevano dissetare nella grande pozza che avevamo predisposto affinché il rivolo d’ acqua formasse un piccolo stagno dove le bestie potessero bere. Io consideravo quel luogo come il paradiso terreste: infatti c’ era tutto l’ occorrente per poter vivere con la quiete e la pace della natura intorno, un piccolo “eden” al quale ero molto affezionato.

Il taglio dell’erba procedeva velocemente, mio padre era un lavoratore instancabile, si fermava solo per affilare la falce ed allo stesso tempo ne approfittava per dissetarsi con un bicchiere di “acarol” che altro non era che la seconda bollitura dell’uva; poi riprendeva con slancio il lavoro.

Il prato lentamente cambiava di aspetto ed i fiori e l’ erba verde che prima guardavano dritti verso il sole sul passare della grande falce cadevano al suolo inerti, tutta questa scena mi ricordava tanto le parole del Vangelo che avevo studiato con i frati e che riguardavano il mistero della morte, ma non ci volevo pensare, anzi avevo altro da fare e da pensare: il mio compito era quello di sparpagliare l’ erba in modo uniforme affinché il sole la facesse seccare in fretta. Nel lato più in alto del prato dove confinava con il fitto bosco c’ era un sentiero accanto al piccolo fosso di irrigazione che mio padre aveva scavato , partendo dal mulino di proprietà dei suoi cugini; un lavoro abusivo per poter irrigare il prato nei periodi di grande siccità.

Ed era a quel sentiero che io tenevo fisso lo sguardo e stavo attento ad ogni più piccolo rumore o al movimento improvviso della boscaglia, perché lei prima o poi doveva pur arrivare…

A metà mattina, infatti, si udiva provenire dal sentiero nel bosco le voci di due donne che chiacchieravano. Il vociare si faceva sempre più vicino, allora osservavo attento l’ uscita del sentiero fino a quando non le vedevo sbucare dal fitto dei rami. Erano Carmela una lontana parente di mio padre che veniva sempre a controllare che non si sconfinasse nella sua proprietà ed assieme portava sempre con sé la nipotina Mariapia, una ragazzina di dodici anni e quindi della mia stessa età .

Un angelo biondo che scendeva lentamente tra i fiori del prato a piedi nudi evitando di calpestare i fiori o i “ talpinari “ , con una corta gonnellina color rosso a grandi cerchi bianchi ed una maglietta di cotone bianco aderente che lasciava libere le forme di due seni ancora acerbi.

Veniva a salutarmi dopo parecchio tempo che non ci si vedeva, allora smettevo di lavorare e le davo un bacio sulle guance poi la invitavo a sedersi vicino al ruscello all’ombra delle piante di noce.

Era tutta arrossata dal torrido sole di agosto, allora la invitavo a bagnarsi prima il viso con l’ acqua fresca e poi a berne alcuni sorsi senza esagerare perché non le facesse mal di pancia.

Mio padre nel frattempo aveva smesso di lavorare e parlottava con Carmela che era una sua cugina , una donna minuscola magra con un lungo naso aquilino, un abito nero lungo fino alle caviglie ed un fazzoletto colorato alla testa. Carmela era una donna verso la quale madre natura non era stata generosa nell’attribuire il dono della conoscenza, mio padre mi diceva che era analfabeta, ma di questo non sono certo; sono invece sicuro che negli affari si sapeva destreggiare bene.

Ad essere sincero della Carmela a me interessava quasi niente, quello che mi interessava e che mi rendeva euforico a dismisura era la nipote Mariapia.

Stavamo seduti io e lei, uno accanto all’altra in silenzio come per non violentare quei momenti di grande ed innocente dolcezza. Quando stavo vicino a lei mi sentivo felice come se tutto il resto del mondo non contasse niente e non esistesse nemmeno; il solo guardarla mi dava una sensazione strana che non avevo mai provato prima con altre persone e ragazzine, una sensazione nuova di infinita tenerezza. Tentai di intavolare un discorso, ma mi sembrava di dire delle cose banali, o forse... erano davvero banali perché lei rise di gusto ed il suo viso mi sembrò ancora più bello e naturale con i lunghi capelli biondi fluenti sulle spalle: sembrava l’ immagine della primavera, della prima stagione della vita ancora tutta da crescere e maturare, ma aveva in sé quella particolare bellezza e delicatezza nei lineamenti che solo a quell’età le femmine hanno e che ti danno la sensazione che siano come un'esile statuetta di cristallo talmente bella ma tanto fragile e delicata da dover fare di tutto per proteggerla, senza mai toccarla.

La portai allora vicino allo stagno dove si abbeveravano le mucche e dove l’ acqua era limpida e ferma e nel quale lei si poteva specchiare tra i cerchi d’acqua, mentre un raggio di sole le illuminava il visetto grazioso. Rimanevo in silenzio ed osservavo affascinato quella dolce e minuta figura bionda, che si specchiava nell’acqua, poi lei con un sassolino buttato nello stagno rompeva quel momento incantato fatto di fiabe e di sogni.

Metteva poi i piedini nudi nello stagno e li teneva nell’acqua fresca per qualche minuto per ristorarli dal calore, poi li toglieva e si sdraiava al sole per asciugarli. Mi sdraiai anche io vicino a lei e piano, piano iniziammo a parlare della scuola che era appena finita, dei risultati che avevamo ottenuto nelle varie discipline e di quello che si voleva fare da grandi…

Le offrii noci e more raccolte nel bosco e la bibita di lampone che aveva preparato mia nonna e che lei gradì e tutto quello che non riusciva a mangiare lo metteva nella tasca della gonna e diceva che se lo sarebbe mangiato a casa.

Dopo poco smise di parlare e mi girai verso di lei: dormiva beata come un angioletto; allora presi un lenzuolo di iuta che serviva per metterci il fieno, lo piegai in quattro e ne ricavai una specie di materasso, lo misi bene all’ombra del grande abete, sollevai con delicatezza la ragazzina e la deposi sul letto improvvisato coprendola con un lembo del lenzuolo. Non si svegliò, ma il suo viso ebbe come un'espressione di piacere e di gratitudine.

Mentre dormiva ritornai nella parte di prato ancora da sfalciare e raccolsi dei fiori di diverso colore e forma, ritornai da lei ad intrecciai una piccola corona multicolore e profumata e la posi tra i suoi capelli in modo tale da farla sembrare proprio la principessa dei miei sogni.

Quello che più mi colpiva e mi affascinava era quel senso di attrazione che quella ragazzina esercitava su di me, non capivo cosa fosse e da cosa derivasse questo sentimento diverso che provavo nei suoi confronti, un sentimento che mi obbligava ad assecondare senza la minima discussione tutto quello che lei mi chiedeva, che se me lo avesse chiesto mio fratello o i miei cuginetti li avrei mandati tutti a quel paese… era diverso con lei, era come se lei sapesse riempire un vuoto che c’ era nella mia anima e che nessun'altra persona al mondo avrebbe saputo colmare.

Non capivo e nemmeno mi importava più di tanto approfondire l’ argomento, a me bastava starle bene vicino e nessuno sembrava accorgersi delle nostre attenzioni, dei nostri giochi; eravamo un mondo a parte io e lei a giocare e sognare a sognare e giocare… nemmeno quando si era allontanata nel vicino bosco mi era sembrata diversa anche se, per fare pipì, si era abbassata nel boschetto, cosa che io non facevo mai. Avevo però notato che sotto la maglietta di cotone bianco, aderente al corpo, spuntavano i piccoli seni ancora acerbi che lei faceva di tutto per mettere in evidenza affinché io li notassi e mi autorizzò con un gesto della mano a toccarli piano suscitando in me tanta emozione. Poi quando mi diede un bacio sulle guance... !

Si era fatto mezzogiorno quando Mariapia si svegliò, si stupì del fatto di aver potuto dormire quasi come nel letto di casa sua, ma soprattutto rimase piacevolmente sorpresa quando si specchiò nel laghetto e vide la corona di fiori che le avevo messo in testa; mi guardò e mi sorrise come per ringraziarmi, mi sentivo quasi un eroe. Nel frattempo era arrivata mia madre con il pranzo in una grande borsa di tela nera, invitammo Carmela e Mariapia a restare a pranzare con noi. Accettarono volentieri così mia madre preparò sul tavolo della baita il pranzo che era come sempre a base di polenta, ma questa volta assieme, al posto della solita poina, c’era dello spezzatino di maiale con il relativo pocio.

Mariapia mangiava avidamente mentre io continuavo ad osservarla e mangiavo svogliato, tutti se ne accorsero e non dissero nulla, ma la Carmela con la sua ingenua franchezza mi disse: Magnes no, o ses innamorato ?

Dopo pranzo portai Mariapia a pescare con me sul grande sasso nel torrente dove l’ acqua forma un piccolo laghetto che noi chiamiamo “boioni”, stavamo seduti uno vicino all’altro mentre io le insegnavo i primi rudimenti della pesca, da come mettere il verme nell’amo a come lasciar correre la lenza nell’acqua. La lasciai pescare fino a quando una grossa trota marmorata non abboccò all’amo, allora la aiutai a tirare su il grosso pesce guizzante che deponemmo nella cesta di vimini. La ragazzina non stava più nella pelle dalla gioia ed anche io ormai le parlavo senza inibizioni. Rimanemmo lì a pescare ancora per un bel po’ di tempo fino a quando mio padre non mi chiamò per aiutarlo ad ammucchiare il fieno ormai essiccato al caldo sole estivo; dissi a Mariapia che poteva portarsi a casa il pesce che aveva pescato e lei mi ringraziò sprizzando scintille di gioia tanto da farmi sentire quasi un uomo.

Forse il vero amore nasce così nella semplicità, dove tu devi andare a scoprire tutte le diversità, tutte quelle cose che rendono la tua amata diversa da te, un po’ alla volta, senza fretta, senza che la passione prenda il sopravvento sulla ragione e sulla dolcezza di quei momenti , senza che il tuo cercare di vedere certe differenze ti porti a scoprire anzitempo il sesso ed a fare l’ amore come una formalità , invece che un reciproco donarsi di due ragazzi innamorati che coronano in questo modo il loro sogno d’ amore.

Fattasi sera, è arrivata mia madre con il carro trainato dalle mucche per caricare il fieno ormai seccato dal torrido sole di agosto: si è fatta era, addio Mariapia dolce fiorellino che il destino mi ha messo vicino per un attimo e che ora è un ricordo struggente che dura una vita, acerbo come il mio pensiero fanciullo, precursore ed esempio di momenti intensi e dolci che avrei provato più avanti negli anni.

Addio stellina bionda dalla vita breve e tormentata, se ci sarà uno spazio in cielo anche per me, allora ti verrò a trovare e parleremo ancora d’ amore, come allora, per sempre…

Il carro dalle grandi ruote, carico di foraggio, trainato dalle mucche ansimanti per il gran caldo, si inerpica lento per la stradina che porta al paese, ed io dietro lo seguivo adagio a piedi scalzi, con il cuore triste, mentre nell’aria stantia della sera si diffondeva , dolce, l’ odore del fieno.

 

 

 

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I sigolotti

 

( i fischietti )

 

 

Uno dei passatempi canori che tutti i ragazzi del mio tempo sapevano auto costruirsi con del materiale ecologico allo stato puro era “ l’ sigolot “ . per costruire questo strumento musicale ad una o più voci, erano necessari un coltello da tasca che allora tutti i ragazzi possedevano come utensile per la fabbricazione di tanti prodotti che la tradizione popolare aveva tramandato ed anche per il più comune uso come quello di tagliare un panino per metterci il companatico che poteva essere del formaggio e del salame fatto in casa, piuttosto che della marmellata o del burro. Mai ai miei tempi ci si sarebbe neppure sognati di usare il coltello a scopi aggressivi come purtroppo lo si usa molto di frequente oggigiorno.

Erano coltelli dalla lamo molto corta, allora si diceva che non potevano essere più lunghi di quattro dita e la spiegazione e la diede l’ arrotino di Cles signor Reversi, il quale mi spiegò che le quattro dita stavano a significare la distanza del cuore rispetto ai punti esterni del corpo umano dai quali potesse essere colpito con un arma bianca. I coltelli erano però molto affilati e con la punta molto sottile e tagliente adatta anche per lavori di precisione come il mosaico su un bastone ricavato da un ramo di nocciolo selvatico, l’ apertura del guscio delle noci, il taglio della videzza che serviva da sigaretta o il levarsi una piccola scheggia di legno o una spina di acacia. Quasi tutti allora avevano in casa un allevamento di conigli, ed allora il coltello diventava utilissimo per le sue dimensioni ridotte ma sufficienti per l’ uccisione dei conigli ormai grandi che venivano presi per le orecchie dalla gabbia, portati all’ esterno della stalla per evitare che gli altri animali sentissero l’ odore del sangue, li tenevamo fermi tra le gambe poi con una mano gli si prendeva la testa tenendola stretta e facendola ruotare in modo tale che si evidenziasse bene la gola del coniglio dal lato dell’ orecchio poi si infilava il coltello trapassandogli di netto la gola. La morte era rapidissima in quanto si erano recise tutte le vene e le arterie dell’ animale, non vi sembri una barbarie perché anche oggi si usano gli stessi metodi ma in modo industriale e più organizzato ma sempre un coltello si usa.

Ma l’ uso del coltello tra noi giovani, però era quasi completamente limitato alla fabbricazione di strumenti ludici per il fabbisogno della nostra attiva e feconda fantasia. L’ oggetto più comune che tutti sapevano costruire, era l’ sigolott appunto il fischietto, l’ operazione iniziava con il taglio di un ramo di salice o di “ stropar “ che era una pianta simile dalla quale si ricavavano le “ strope “, ma questa è un'altra storia.

Tagliato il ramo di circa 10 mm. di diametro si procedeva a stabilire quante note dare al fischietto, pertanto si stabiliva la giusta lunghezza poi si procedeva alle incisioni nella corteccia che doveva essere completamente liscia e priva di nodi . alla tacca iniziale che era fatta come una U seguivano le altre che erano rotonde come quelle di un flauto e di numero variabile, comunque mai sopra i sette fori. Finita quella operazione si procedeva a staccare la corteccia dall’ anima mediante la battitura con il manico del coltello dalla parte legnosa del ramo. L’ operazione durava pochi minuti ed alla fine la corteccia si staccava dal ramo scivolando fuori. Con la parte legnosa rimanente si procedeva a fare il tappo che chiudeva l’ estremità del fischietto e il bocchino nel quale era ricavata la cava dove poteva passare l’ aria, poi chiudendo alternativamente i fori con le dita si potevano ricavare delle note musicali diverse e si poteva quindi comporre una melodia musicale dolce ed armoniosa da dedicare alle bambine era un modo semplice ed innocente di tentare i primi approcci con un essere di sesso diverso che puntualmente ringraziava con un bacio sulle guance ed un bel sorriso gentile.

Quanto erano belle e carine quelle femminucce innocenti e quanto erano dolci quelli sguardi di piccole donne ormai abituate ai duri lavori domestici ed alle fatiche di doversi far carico dei tanti fratellini più piccoli.

Erano tutte ragazzine dai 10 ai 13 anni e quello che si poteva notare con evidenza era il crescere delle piccole mammelle che spuntavano dai vestitini quasi a reclamare il loro spazio vitale. Quello era il punto dove si posavano i nostri occhi di giovani maschi assetati di conoscere tutte quelle diversità che le ragazzine mettevano in mostra, attratti da un desiderio ancestrale che mai nessuno ci aveva spiegato per intero ma che a noi pareva chiaro ed attraente.

Questi sono e restano i ricordi più dolci e più delicati della mia vita, perché erano emozioni pure, libere da ogni manipolazione e da ogni forma didattica, erano natura allo stato puro dove la ricerca era frutto di un sentimento inconscio che ti portava naturalmente verso quello scricciolo dalle piccole tettine, e niente e nessuno era in grado di distogliere il tuo sguardo , un po’ inebetito, da lei.

 

 

 

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FIONDE ARCHI E FRECCE

 

 

Ogni ragazzo della mia età era in grado ci costruirsi con mezzi di fortuna e con il solo ausilio delle proprie mani e del proprio ingegno una fionda o un arco da usare poi nelle varie competizioni collettive di abilità .

Per costruire una fionda erano necessari un legno a forma di forcella che veniva ricavato da un ramo di nocciolo poi era necessario procurarsi un elastico abbastanza robusto e questo veniva ricavato da una vecchia camera d’ aria di un pneumatico di automobile.

L’ impugnatura a forma di forcella doveva essere il più possibile perfetta e doveva avere la forma di una Y , sulla parte superiore bisognava legare i due elastici ritagliati dalla camera d’ aria, era molto importante per avere una fionda di ottima mira che i due elastici avessero una eguale lunghezza, normalmente si usava un unico lungo elastico nel quale veniva inserita una piccola sacca in pezza o in pelle dove si inseriva il proiettile da lanciare un sasso o una biglia o dei pallini di piombo .

La forcella di legno di nocciolo veniva poi personalizzata con delle lavorazioni ad intarsio sulla corteccia che poi essiccava conservando nel tempo quelle piccole opere d’ arte dell’ ingegno e della fantasia di noi ragazzi. Con la fionda ci si divertiva a tirare a dei bersagli fatti di bottiglie o di barattoli di latta che si andava a recuperare nelle vicine discariche a cielo aperto che esistevano in zona, raramente, ma succedeva, si tirava anche ai passeri o ai vetri di qualche finestra, a volte ci si comportava da piccoli criminali dando libero sfogo a tutto il nostro potenziale repertorio di marachelle, ognuno aveva nella tasca posteriore dei pantaloni una fionda con l’ elastico ben ripiegato attorno alla forcella pronta ad essere usata in ogni momento.

Per la costruzione di un arco era necessario un lungo ramo di nocciolo e di un altro tipo di legno molto sottile e flessibile poi serviva uno spago molto resistente che veniva legato alle due estremità della frasca dopo averla leggermente piegata per poter mettere in trazione lo spago.

Le frecce venivano ricavate da rametti di nocciolo molto sottili ed il più possibile dritti ai quali veniva fatta la punta come ad una matita ed anche questi andavano poi a colpire dei bersagli che normalmente erano delle zucche e della frutta di stagione. Si potevano costruire degli archi o delle balestre molto più precisi ed efficaci usando le stecche metalliche dei vecchi ombrelli che venivano raccolte e unite rea loro fino a formare un fascio abbastanza grosso da poter disporre di una notevole energia dinamica da scagliare frecce o dardi ad una notevole distanza con forza e precisione. Allo spago allora si sostituiva un sottile fili di acciaio tipo quello dei freni della bici o dei fili simili, ne risultavano delle vere e proprie armi micidiali ed anche molto pericolose, devo pero affermare che non ricordo nessun episodio in cui qualcuno di noi si sia ferito accidentalmente o che abbia involontariamente ferito qualcuno dei compagni di giochi o altri. Devo osservare ed ammettere che allora eravamo si dei grandi monelli spesso ribelli e mascalzoni ma avevamo un grande senso di responsabilità e di consapevolezza civile verso terzi che io ritengo addirittura superiore a quella di molti adulti di oggi, basti pensare agli incidenti automobilistici e ai femminicidi ed altre forme di violenza troppe volte gratuita e molte volte impunita.

 

 

 

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I fratelli salomon

 

 

 

(Boromei)

 

Tullio Salomon

 

 

Di questo uomo mite e generoso, schivo e grande lavoratore, mi piace parlarne per la profonda e sincera amicizia che aveva con mio padre. Ambedue erano degli incalliti ed appassionati cacciatori, se si può usare l’ aggettivo umano nel parlare della caccia, bene allora dirò che rispetto ai nostri giorni il tempo di Tullio e di mio padre la caccia aveva una sua logica ed un barlume di umanità e di competizione tra il cacciatore e la preda che veniva cacciata.

Erano il tempi delle doppiette con i cani sopra il grilletto del fucile ed i segugi che andavano a scovare le prede fiutando l’ odore che esse lasciavano al loro passaggio.

Erano tempi di due colpi sicuri o altrimenti non si aveva più il tempo materiale per ricaricare la doppietta e come diceva un vecchio detto di quel tempo , “ a pranzo polenta e pallini “ e bisognava aspettare ancora giorni più propizi e più fortunati . Allora i cacciatori si riunivano in una radura e dopo aver scaricato tutte le armi ed appoggiate ad una grossa pianta, accendevano un bel fuoco tiravano fuori dagli zaini pane , lucaniche e buon vino e ce n’ era sempre per tutti, poi c’ era chi aveva portato la grappa fatta rigorosamente di frodo nelle profonde e buie cantine quando fuori nevica e si sentiva meno l’ odore dell’ alambicco, c’era chi aveva portato con se del caffè o del vin brulè, si faceva rosolare il pane sulla brace e si dava una mezza abbrustolita anche alle lucaniche per far uscire un po di grasso da spalmare sul pane e si cominciava a raccontare le avventure venatorie. Ed allora scorrevano i toponimi come se tutti avessero una grande carta topografica nella testa, perché infatti ognuno conosceva quei luoghi descritti nei minimi dettagli e era come se con la mente fosse lì. E tra una balla e l’ altra, si faceva colazione in sana allegria condividendo tutto quello che si era portato da casa.

La battuta di caccia si concludeva sempre in quel modo a meno che qualcuno del gruppo non fosse riuscito a prendere qualche preda, allora tutti lo seguivano presso la sua abitazione e l’ uomo li portava dritto in cantina dove era lui a dover offrire uno spuntino a tutta la compagnia.

Un giorno mio padre e Tullio che erano una coppia fissa durante la caccia come nella vita, si recarono a caccia del capriolo allora un esemplare molto raro in quanto difficile da individuare di giorno ed allora la caccia notturna non esisteva perché non esistevano i moderni strumenti ottici per le lunghe distanze e per la visione notturna, allora era il fiuto di un buon cane segugio che scovava il capriolo al suo beato dormire e questo scappando a volte ma di rado incrociava le canne di una doppietta, allora il cacciatore vedeva arrivare l’ animale al galoppo incalzato dal cane, doveva capire in una frazione di secondo se aveva o meno le corna, doveva calcolare ad occhio l’ approssimativa distanza dell’ animale per scegliere se sparare con la canna destra o con la canna sinistra dove c’ erano cartucce con pallini di calibro diverso da usare in base alle distanze e fatti tutti questi calcoli in rapidissima successione, sparare.

Quella volta a Tullio andò bene e colpì in pieno il capriolo. Lo portarono a casa dal lontano bosco a turno e fu una vera e propria festa popolare per i due cacciatori, lo portarono nella cantina di Tullio per scuoiarlo e pulirlo dalle interiora. Alla fine lo divisero a metà e mio padre si portò a casa il suo bottino di caccia. Ma per Tullio l’ epilogo di questa storica giornata ebbe un finale diverso ed imprevisto che lo rattristò e lo ferì nel suo orgoglio di cacciatore, un ladro, nottetempo entrò nella cantina lasciata inavvertitamente aperta, forse per l’ euforia e qualche bicchiere di troppo, e rubò la sua parte di capriolo.

I sospetti caddero subito su un personaggio locale ma non ci fu modo di avere prove sufficienti per poterlo accusare. Restò l’ amarezza non tanto per il furto in se, ma per l’ atto vile commesso verso una persona di rara onestà, generosità e solidarietà verso il prossimo.

In estate Tullio si recava per tre mesi sulla malga Binaggia che con i suoi verdi e dolci pendii è il pascolo per le mucche di Livo, allora il lavoro dei malgari era un lavoro duro fatto di levatacce mattutine per mungere il bestiame e preparare il latte per la caserata, poi bisognava far uscire le mucche al pascolo e custodirle mentre il casaro lavorava il latte ed era subito l’ ora di richiamarle perché era già sera… il mangiare era costituito da polenta e latte o polenta e formaggio, durante la stagione dell’ alpeggio poche erano le persone che si recavano in malga solo quelle che quel giorno caseravano.

Ed il destino si potò via Tullio in un afosa giornata il 9 luglio 1962 quando in montagna si scatenò un violento temporale estivo, frequenti in quel periodo, un fulmine lo colpì in pieno mentre era sulla porta della malga con un secchio di metallo i mano pronto per la mungitura a mano delle mucche.

Il fulmine colpì a morte lui ed una decina di mucche e ferì in modo lieve un altro pastore che però ebbe la forza di scendere a valle a dare l’ allarme.

Immediatamente dai paesi vicini partirono delle quadre di soccorso che raggiunsero la malga e portarono a valle il cadavere di Tullio e delle mucche uccise dal fulmine. In seguito venne messa sopra la porta della malga una lapide a ricordo del tragico evento.

 

 

 

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Egidio Salomon

 

 

Era un uomo buono, un po’ sospettoso per via della grave sordità che fa di queste persone della gente un po’ ridicola in quanto essi pensano, non sentendoci bene, che qualsiasi argomento trattato da persone che parlano e ridono tra di loro, sia fonte di un argomento che li riguarda ed allora, molte volte , senza una apparente ragione se la prendono con i diretti interessati.

Egidio era così, specie quando si sentiva emarginato dal argomento in discussione, o percepiva delle singole parole di un discorso più compiuto. Questo accade quando madre natura non concede a tutti pari dignità e pari opportunità a tutti coloro che per un desiderio comune che si concretizza in un atto d’ amore reciproco della donazione sessuale, con il miracolo della vita deposita su questa terra per il tempo che il destino vorrà.

E qui, colgo l’ occasione per inchinarmi e baciare i piedi di Egidio e di tutte quello sante persone che ho avuto l’ onore ed in piacere di conoscere in questo mio passaggio giù tra voi, dei loro guai, dei loro difetti fisici, del loro stato sociale ed economico, del loro essere stati vomitati qui su questo mondo fatto di tanto dolore, di tanta sofferenza fisica e morale, di tanto dire : “ che se Dio se lo fosse preso subito… o piuttosto che vivere così, è meglio che Dio l’ abbia con se… “

Qui non me la sento di dare delle mie “ ignoranti “ interpretazioni o dei miei giudizi preconcetti sulle responsabilità di Dio in riguardo alla nostra qualità o alla durata della nostra vita , mi limito a riportare quanto dice il mio carissimo amico padre Iginio Mazzucchi quando ho chiesto una preghiera per una persona a me molto cara che ne ha tanto bisogno:

 

Bruno.
Chiaro che metteremo la tua amica Tommasina, la sua sorella e la famiglia nelle nostre preghiere.
Ma non pensare che al Signore Dio bisogna ricordare le nostre situazioni e neppure che qualcuno ha una forza speciale sul suo cuore.
Il cuore del Signore Dio è così grande che ci pensa sempre ed a tutti. Per quello che dipende da lui ci arriverà sempre tutto di bene. Il male che ci arriva non viene da Dio, che pure ci sta accanto con la sua forza perché possiamo superare il male o convivere col minimo danno nostro.

Salutissimi p.Iginio Iginio

 

E’ una lezione di teologia che nessun’ altro prete mi ha mai saputo dare con tanta saggezza e semplicità.

C’ è un comandamento che Dio ha dato un nuovo testamento. “ ama il tuo prossimo come te stesso “ bene io credo che Egidio, come tanti altri giusti che ho conosciuto, sia ora in paradiso ed ascoltare tanta buona musica e chiacchierare riuscendo a percepire anche il più piccolo bisbiglio, perché questo premio si è guadagnato e meritato, per il bene fatto in questa vita, eravamo ancora ragazzini dopo la morte di mio padre, quando Egidio ci veniva ad aiutare a raccogliere il fieno nei prati più lontani come Pongel.

Di buon mattino si recava nel prato a falciare il fieno e al pomeriggio mentre noi lo mettevamo dentro ai lenzuoli già secco e profumato, lui li portava , uno alla volta, fino alla strada alta vicino al ponticello, dove in serata veniva un signore con il trattore a portarlo fino a casa nostra. Era un lavoro massacrante che ora si rifiuterebbe di faro anche un extracomunitario, sotto il sole cocente di agosto e noi gli riempivamo la bottiglia di acqua fresca della nostra sorgente….

Beati in puri di cuore perché vedranno Dio! “

 

E puro di cuore era, Egidio, ricordo in merito un piccolo episodio che mi raccontò mio cugino Gianfranco, che quando aveva la piccola Ditte edile all’ inizio dell’ anno fece stampare i calendari pubblicitari per l’ anno in corso, con le sue belle donnine nude in bella mostra. Un giorno Egidio di offrì ad affilargli la catena della motosega, si mise alla morsa che era proprio davanti al benedetto calendario e cominciò ad affilare i denti della lama . quando si accorse del calendario con le donnine, il lavoro non sarebbe mai finito… non aveva mai visto una donna nuda neppure sulla foto osè di un calendario!

Egidio morì il….

 

 

 

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Serafino Salomon

 

 

Anche Serafino era un tipo molto strano, pieno di complessi e di limiti fisici, era molto sordo anche lui, ma a differenza di Egidio che era un tipo mite e difficilmente si arrabbiava, al contrario Serafino quando credeva di essere soggetto a ironie e burle, si arrabbiava moltissimo e dava in escandescenze con parolacce e bestemmie.

Era anche lui un agricoltore ed allevatore il che gli consentiva di vivere come tutti con i proventi della vendita o del baratto dei prodotti agricoli e caseari.

Con mio cugino Gianfranco che abitava nella casa adiacente come Gino e Rodolfo, ci si divertiva a stare nascosti in soffitta ed ascoltare le numerose liti che intercorrevano tra i due fratelli, il massimo del divertimento era quando i due lavoravano a spaccare i ceppi di legna o a trasportarli a mezzo di una carrucola fino alla soffitta. Il problema di capirsi era tutto un programma dello spettacolo, tentavano di capirsi a gesti, poi a fischi e quando tutto questo no dava risultati iniziavano a litigare ed allora finivano con il capirsi a forza di urla.

Rodolfo li sapeva imitare perfettamente nella voce e negli atteggiamenti, e stava attento a non perdere neppure il più piccolo particolare dei movimenti e delle voci dei due. Poi nelle occasioni opportune si esibiva in spettacoli estemporanei ed imitava i due fratelli che litigavano, come ho già ampiamente detto in più occasioni, questa non era cattiveria, era il solo modo che avevamo per divertirci ed era anche un modo per tramandare la piccola storia di un insignificante borgo di agricoltori. Solo chi c’ era a quel tempo può capire e giustificare questi fatti che erano tollerai da tutti come ora vengono tollerati certi programmi televisivi dove si ironizza su politici, preti calciatori, ecc.

Per finire voglio raccontare un aneddoto che ho potuto vivere di persona, una mattina verso le 11 Serafino si incamminò verso Livo per portare la mucca al toro in quanto la bestia dava estro di essere in calore.

Passando davanti a casa mia incontrò una signora che era venuta in ferie dagli USA la donna si chiamava Elisa ed era moglie di Zanotelli Vittorio detto Mamera.

Alla vista del Serafino che accompagnava la mucca gli chiese : vala a manz Fino ? l’ uomo nella sua sordità travisò la domanda e la interpretò così: as magnà Fino ? e lui molto educatamente rispose : si, si, grazie, acja voi ? La donna si alzò e si diresse verso la sua abitazione dicendo . brutto porco ! e noi tutti a ridere di nascosto.

 

 

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Teresa Salomon

 

 

Un giorno prese fuoco il camino della cucina di Teresa che era sorella di Egidio e di Serafino.

Saranno state le 15 del pomeriggio di un giorno di primavera, perché la Teresa si era recata a Barn a legare i tralci delle viti nella sa vigna.

Aveva chiuso casa ed era partita e dopo un po di tempo dal camino si levarono dei grandi globi di fumo.

Ad accorgersi per primo fu Pio Zanotelli che aveva la finestra della cucina rivolta verso casa Slomon.

Pio chiamò il fratello Serafino convito che il camino che ardeva fosse il suo, ma appena l’ uomo uscì di casa e guardò verso il tetto capì che non era il suo e rientrò in casa scocciato e imprecando e dicendo che era quello di Teresa.

Allora Pio mi mandò a barn di corsa a chiamare Teresa che trovai nella vigna r la informai dell’ accaduto.

Lei mi assicurò che aveva messo ad ardere della legna di foglia e mi seguì in tutta fretta verso il paese.

Mel frattempo si era radunato un gruppetto di persone tra cui Ermanno Zanotelli ( Manotto ) il quale prese una lunga scala e salì fin sul tetto vicino al camino dal quale cominciavano a sprigionarsi delle fiamme.

Manotto osservò la situazione vide che l’ interno del camino era attraversato da una grossa trave di legno del tetto che aveva predo fuoco anche essa e rivolto alle persone che stavano in terra, esclamò :

mia par dir è, ma l’ e meio clamar i pompieri è !

Teresa era la sorella, la madre, la zia, la badante dei due fratelli Salomon, li teneva puliti, in ordine e dava loro anche molta disciplina con un piglio autoritario, ma era una donna buona e riservata.

So che aveva sofferto moltissimo per la perdita del fratello Tullio morto tragicamente in montagna, era il fratello al quale voleva più bene ed era più legata.

 

 

 

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Sparapani Eugenio

 

 

( Geniotti no W nato il morto il )

 

Lo spunto per raccontare, brevemente, la biografia di Sparapani Eugenio detto Geniotti, me lo ha dato una vecchia foto della fine degli anni ’50 scattata durante la cerimonia di inaugurazione della restaurata sede della Famiglia cooperativa di Varollo, dove sono ritratti numerosi personaggi locali, tutti delle frazioni di Livo, Varollo e Scanna, perché a Preghena esisteva già allora un punto vendita al dettaglio della Famiglia cooperativa di Preghena per l’ appunto, che è ubicato in centro al paese proprio vicino alla chiesa.

Tra i volti a me molto famigliari dei presenti sulla foto che ascoltano compunti il funzionario di turno mandato dalla Federazione Cooperative di Trento per celebrare l’ evento, tutti vestiti con il meglio del look che possedevano negli armadi, fatto di miseri vestiti dal collo rivoltato più volte, le camicie più belle che possedevano che per lo più erano quelle spedite dai parenti d’ America, i pantaloni pure con quello style abbondante e quasi goffo usato allora dagli americani, tutti con il cappello in testa o in mano, pochi con la cravatta.

Ed il Funzionario che continua la sua relazione sciorinando dati, percentuali, consuntivi ed obbiettivi ancora da raggiungere, tra gli ascoltatori c’è un uomo di statura bassa con baffi e capelli neri dentro un cappotto più grande di lui che sembra quasi dire :

- ma no al amò ruada no ???…-

E’ il Geniotti che venuto a sapere dell’ avvenimento del quale non gli importava nulla se non per il fatto che dopo ogni inaugurazione che si rispetti, veniva offerto ai presenti uno spuntino, quello era l’ unico ed ultimo interesse di Sparapani Eugenio di Preghena.

Da questa vecchia fotografia ingiallita dal tempo, ricordo di un avvenimento di oltre cinquanta anni fa, voglio fare alcune considerazioni e riflessioni sul modo di vivere di quei tempi, sulla partecipazione sentita alla vita sociale, sul valore che veniva dato allora al cooperativismo e sulla solidarietà schietta e senza ipocrisie della nostra gente di allora.

Il Geniotti che era un povero diavolo di Preghena, solo e non tanto ben visto dai suoi compaesani a causa delle tante dicerie che circolavano nel Borgo di sopra nei suoi confronti.

Circolava il sospetto che fosse stato lui ad appiccare il fuoco ad alcune abitazioni del paese, Adelia mi raccontò che un mattino trovarono nella stalla di sua proprietà un montone sgozzato e si disse che fosse stato il Geniotti… insomma come succede sempre in quel borgo per ogni cosa che non si riusciva a spiegare o a dimostrare, la colpa veniva sempre attribuita ai più deboli, ai più indifesi, a quelli che anche se si fanno alcuni mesi di manicomio gli sta bene almeno per un po’ non rompono.

Questo a grandi linee era Sparapani Eugenio, era anche un po’ parente di mia madre che aveva la sua di Preghena parente dei Lassi.

Quella vecchia foto mi fa dedurre che una certa differenza di pensiero e di comportamento ci fosse tra la popolazione di Preghena e quelli “ de zot “ considerato che qualcuno avrà detto al Geniotti : valà vei giò ancja ti !

Ma se anche avesse avuto l’ ardire di presentarsi senza un invito ufficiale, la foto dimostra che nessuno dei presenti lo aveva cacciato preventivamente come ospite non invitato o non gradito, c’è quindi da ritenere che anche il buon Geniotti si sia fatto la sua bella scorpacciata a spese della Coop di Varollo e per lui lo scopo della sua presenza a Varollo era ampiamente raggiunto e soddisfatto.

Ma forse la spiegazione più logica e più semplice che riesco a trovare in questo contesto è un'altra, il Geniotti collaborava attivamente con il Corpo dei Vigili del Fuoco Volontari di Livo, dando una mano a trasportare materiali o a sgombrare macerie, è molto probabile che sia stato invitato dal allora Comandante signor Zanotelli Livio che , guarda caso, era anche componente il CDA della famiglia cooperativa di Varollo.

La nostra comunità a suo tempo è stata capace di grandi gesti di solidarietà umana, fatti in silenzio e con l’ umiltà di chi condivide la comune povertà dell’ essere, che sa vedere i bisogni del fratello senza che vengano le Assistenti sociali ad avvisarti che uno ha qualche problema o qualche disagio. Era una comunità attenta, dove tutti sapevano tutto degli altri ed era così molto più facile vedere chi veramente aveva bisogno di aiuto e non chi fingeva perché non aveva voglia di lavorare.

Io ho fatto parte attiva anche come Presidente del comitato ECA di Livo ( Ente Comunale Assistenza ) per parecchi anni nel periodo delle amministrazioni Penasa e Filippi negli anni ’80 e mi ricordo il criterio che allora la Provincia adottava per intervenire sulle persone che chiedevano assistenza, il criterio era quello di verificare se di fatto la situazione che ci veniva prospettata fosse o meno quella reale.

Poi tutto passò alla burocrazia dei Comprensori e non mi è difficile capire, guardando il microcosmo della gestione di questo piccolo stato sociale che non impegna una grossa cifra in denaro per la sua gestione, perché le cose in Italia non potranno mai andare bene.

 

Gentile signora Annamaria,

 

sono Bruno Agosti di Scanna e La contatto per chiedere la Sua disponibilità a fornirmi alcune informazioni anagrafiche a biografiche di Suo zio Eugenio, che ho deciso di includere in un mio libro assieme schiera di personaggi che ho avuto la fortuna e l’ onore di conoscere,

Confidando nella Sua collaborazione, a tale scopo Le allego le mie info.

Con l’ occasione Le porgo cordiali saluti .

 

Bruno

 

 

Livo, 11. 03. 2013

 

 

Ho letto con attenzione la bozza riguardante mio zio, devo dirle che questo scritto mi ha fatto ritornare indietro nel tempo
e mi ha fatto ricordare delle cose e situazioni a me molto spiacevoli per questo desidererei che lei non scrivesse niente su
mio zio .Era una persona buona e la gente si approfittava di lui .
distinti saluti Annamaria Sparapani grazie

----Messaggio originale----
Da: brunoagosti@alice.it
Data: 1-lug-2013 17.07
A:
Ogg: R: informazioni

Innanzitutto grazie per avermi risposto, non tutto hanno questa buona regola, grazi per la sua disponibilità . Io cerco di ricostruire la storia del paese ma sopratutto delle persone che ho conosciuto e che mi hanno lasciato dei ricordi dentro, specie gi ultimi che sono i più deboli e che per questo hanno il grande dono della semplicità e dell' onestà. Le invio la bozza del testo quasi completo riguardante suo Zio e la foto che lo ritrae presso la cooperativa di Varollo.
se avremo modo di incontrarci sarà un vero piacere scambiare delle opinioni con lei.

Le invio un cordiale saluto

Bruno Agosti

----Messaggio originale----
Da: annamariasparapani@alice.it
Data: 25-giu-2013 7.53
A:
Ogg: informazioni


buon giorno,
sono spiacente di non poterla aiutare in quanto non ho molti ricordi di mio zio,ero piccola quando e'morto.
posso trovare delle foto i dati anagrafici penso che in comune li trova. Comunque sono a sua disposizione
La saluto cordialmente
annamaria sparapani


 

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Renato Calovini.

 

 

( die fukchs)

 

A farmi tornare alla mente Renato e farmi ritornare alla mente intensamente il suo ricordo ed il desiderio di voler riportare in questo libro la storia della sua vita avventurosa e della sua tragica fine, ci ha pensato un articolo che avevo scritto su Vita Trentina all’ indomani della sua tragica morte.

Renato era un uomo di Preghena, forse quello che impersona e definisce meglio tutte le tragedie umane che si sono compiute in quel borgo negli ultimi 50 anni. Era una persona molto intelligente e con un invidiabile cultura generale e questo anche al dire della sua maestra elementare signora Serafina Marchetti di Baselga di Bresimo che lo definiva l’ alunno in assoluto più intelligente di quelli a cui aveva insegnato, e questa sua eccezionale preparazione culturale la si poteva intuire se si aveva l’ occasione di poter dialogare con lui.

Dipingeva dei quadri di buona fattura e li firmava con lo pseudonimo di “ fukchs “ in tedesco volpe, lui conosceva perfettamente il tedesco anche perché sua moglie era di quella nazione, parlava anche francese e spagnolo.

Renato aveva molte ombre che offuscavano la sua vita avventurosa, la più affascinante e per certi versi inquietante era il suo passato di Legionario nella legione straniera francese, non sono mai stato in grado di capirne le motivazioni di questa sua scelta, normalmente è noto che uno che si arruola nella legione o ha commesso dei gravi reati e sfuggito alla giustizia si rifugia tra i legionari che vengono arruolati senza fare domande sul loro passato, o per un amore finito male, di questo non me ne ha mai voluto parlare. Molto invece mi ha raccontato della dura vita dei legionari, mandati sempre in prima linea, dopo un duro addestramento militare fatto di una ferrea disciplina , di chilometri di marce sotto il sole cocente del deserto e di un addestramento all’ uso di ogni tipo di arma e di tattica bellica.

Diceva di essere riuscito a scappare dalla legione con altri commilitoni tra cui un polacco che venne poi ucciso dagli inseguitori. Che fosse un conoscitore ed amante delle armi era cosa nota in quel di Preghena anche perché un giorno, forse alterato dall’ alcool, prese un fucile da guerra che aveva in casa e dopo aver sparato un colpo in aria si recò al bar del paese con il fucile in mano, lo lasciò fuori dalla porta appoggiato al muro dunque entrò e si fece versare da bere come nel far west…

Tutto questo suo passato fatto di avventure e trasgressioni lo aveva reso una persona relegata ai margini della società e con la sventura poi di abitare nel borgo di Preghena dove tutti i “ diversi “ vengono sistematicamente emarginati dalla classe sociale dei “ normali “ e benpensanti, come hanno fatto con altre persone con leggeri handicapp psichici o fisici o alcool dipendenti, e la catena se si volesse elencarli tutti sarebbe molto lunga, fino ad arrivare ad Adelia Facini ed i coniugi Calovini Fabio e tutto questo rimosso dalla storiografia ufficiale di quello sventurato paese, come dei fatti che riguardano altri e non loro. La passione per le armi una giusta dose di alcool e qualche maestro del mal consiglio un giorno d’ inverno, quando tutti avevano soldi in tasca da spendere perché arrivavano le pensioni e gli acconti delle golden, indussero Renato che di soldi non ne aveva, a tentare una rapina alla locale Cassa Rurale di Livo. Renato con in tasca una lunga chiave della porta di casa si presentò allo sportello della banca dove al momento non c’era nessuno, con una mano in tasca simulando la presenza di una pistola intimò al cassiere e Direttore signor Agosti Gianantonio di dargli tutto quello che aveva in cassa. Per ragioni burocratiche era presente in banca anche il Presidente signor Agosti Mario Marino il quale consigliò di dare il denaro richiesto al rapinatore.

Il cassiere diede alcune mazzette di denaro che Renato mise nella tasca della giacca per un attimo, poi le tolse e le restituì mostrando nel contempo che in tasca altro non aveva che la chiave di casa.

Venne subito immobilizzato dai presenti ai quali si era aggiunto anche Ezio Filippi direttore della sottostante Famiglia Cooperativa, in attesa che arrivassero i carabinieri di Rumo prontamente chiamati dal Direttore della banca… mi ricordo che era un giorno che nevicava. Giunti i carabinieri arrestarono e perquisirono il povero Renato che nel frattempo aveva dovuto subire le percosse dei presenti ai quali si era aggiunto anche Aliprandini Mario gestore del bar annesso alla cooperativa.

Quando i carabinieri perquisirono il povero Renato ormai malridotto ed incapace di reagire, trovarono nella tasca della giacca una mazzetta di banconote che non era riuscito a restituire prima che iniziassero le botte e per quella mazzetta, subito sequestrata e restituita, Renato venne condannato a tre anni di prigione credo che ne scontò solo pochi mesi poi venne scarcerato e tornò a Preghena.

L’ inverno del 1986 fu particolarmente freddo con temperature che scendevano anche a meno 20 gradi di notte e non salivavano sopra lo zero neppure di giorno, ed una di quelle fredde mattine fu fatale per Renato perché nel suo appartamento, di mattina presto, scoppiò un incendio provocato dalla stufa a legna con la quale si riscaldava, Renato provò in tutti i modi a spegnerlo ma venne sopraffatto dal fumo che ne provocò la morte per asfissia.

Le settimane seguenti presi una netta e dura posizione sul settimanale Diocesano VT, denunciando la mancanza di carità cristiana nei confronti degli ultimi, ricevetti gli ipocriti complimenti dei benpensanti ma in quel di Preghena le cose non cambiarono di un millimetro nonostante un parroco di frontiera come era don Pio Dallavo che alla fine del suo mandato concordò con la mia analisi :

Per 25 anni aveva predicato ad una Comunità di sordi “.

 

 

 

 

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IL SIGNOR LHONER

 

 

Il fatto storico che ora vado a raccontare, si svolse a Preghena, circa 50 anni or sono.

Il signor Luigi Facini del casato dei “Cicioti “, aveva affittato il primo piano della propria abitazione sita al numero civico*** del paese, ad un signore originario di ******* in provincia di Bolzano che si chiamava Lhoner Guglielmo ed al momento che si era trasferito a Preghena era pensionato ed andò ad abitare con la moglie signora Maria, appunto nella casa presa in affitto dal signor Luigi.

Erano tempi quelli, dove nei nostri paesi regnava ancora un forte disagio economico, ed il signor Luigi aveva approfittato della allettante proposta del signor Lhoner, pensando così di dare alla sua famiglia composta da lui e quattro figli, una maggior garanzia di sicurezza con i proventi dell’affitto.

C’è da dire, inoltre, che ad aggravare la già precaria situazione della famiglia Facini, il signor Luigi era rimasto vedovo nel 1943 per la perdita della moglie signora Celestina Pancheri, deceduta durante il parto dell’ultimo figlio Giovanni.

Il signor Lhoner era un uomo che soffriva molto degli acciacchi della vecchiaia, era costretto molte volte a restare a letto anche di giorno, e ad accudire il malato, oltre alla moglie, tante volte ci pensava anche una delle due figlie del signor Luigi, che si chiamava Adelia e all’epoca era poco più che ventenne, ed era entrata nelle simpatie del signor Lhoner, in quanto molto servizievole, simpatica ed anche molto bella, come del resto era molto bella anche la figlia maggiore che si chiamava Maria.

In quegli anni, a reggere le sorti della Parrocchia di Preghena e dei suoi fedeli, c’era un parroco che si chiamava don Pietro Bisoffi ed era già avanti con gli anni, ma reggeva la Parrocchia in modo saggio ed attento ai grandi mutamenti che erano in corso nella società civile e religiosa di allora, dal Concilio Vaticano II, che non era riuscito a digerire e metabolizzare, ai gradi cambiamenti sociali di allora, come le lotte di classe e poi il conseguente terrorismo rosso e nero.

Il Parroco era solito far visita ai malati di tanto in tanto, e di conseguenza conosceva bene il signor Lhoner, e conosceva altrettanto bene i suoi malori e i suoi problemi interiori perché era anche il suo confessore personale.

Era un periodo di tempo che il signor Lhoner non stava bene e soffriva di reumatismi e di gotta, ed aveva chiesto alla signorina Adelia di accompagnarlo a Cles da uno specialista per tentare di sollevarsi un tantino dal dolore. Adelia, che era sempre molto disponibile lo accompagnò, ma i risultati non furono soddisfacenti, ed il malato poco a poco fu costretto al letto.

Il lungo periodo di permanenza a letto, aveva influito in modo negativo ed evidente anche sulla psiche del signor Lhoner, il quale non dormiva più di notte ed era sempre molto agitato e di questo se ne erano accorti anche i componenti della famiglia Facini, che durante la notte spesso sentivano i passi sulle loro teste ed il brontolare del paziente.

Un mattino presto la moglie del signor Lhoner chiamò Adelia dicendole che il marito aveva bisogno di lei. Adelia si presentò rapidamente dal malato e chiese che cosa desiderasse ed in che cosa poteva essere utile. L’uomo rispose che aveva urgente bisogno di vedere il Parroco per farsi confessare e Adelia si recò in canonica, ancora prima della messa, ed avvertì il Parroco della richiesta del malato. Don Bisoffi, che conosceva bene il signor Lhoner, decise di visitare il malato ancora prima di dire la S. Messa, prese la stola e si avviò rapidamente verso l’abitazione dell’infermo. Giunto dentro casa, fu accompagnato dalla moglie del signor Lhoner nella stanza da letto dove stava ad aspettarlo il malato che avrebbe dovuto confessare. Appena entrato nella stanza il signor Lhoner pregò la moglie di lasciarlo solo con il prete, e la signora uscì nella cucina per preparare il caffè.

A quel punto il parroco pregò il malato di prepararsi per il Sacramento della confessione, e si girò da un lato per indossare la stola , a quel punto il signor Lhoner tirò fuori da sotto la coperta un fucile, lo puntò verso il prete e fece fuoco.

Don Pietro, che nel frattempo si stava girando verso il malato, vide il fucile puntato su di lui, ed istintivamente si buttò a terra di lato ed il colpo lo raggiunse di striscio ad un fianco dopo aver vistosamente lacerato la tonaca. Dopo lo sparo accorsero la moglie e Adelia che stavano bevendo il caffè in cucina, ed accorsero pure il signor Luigi e gli altri componenti la famiglia Facini, allarmati dallo sparo e dalle grida provenienti dal piano di sopra.

Il signor Luigi fu il primo ad entrare nella stanza dove c’era ancora il fumo e l’odore caratteristico della polvere da sparo, e trovò il Parroco spaventato ma quasi illeso, ed il malato a letto con ancora il fucile tra le mani. Alla vista del signor Facini, il Lhoner depose il fucile sul letto e disse che non ce l’aveva con nessun altro dei presenti, ma che voleva solo uccidere “il nero“ riferendosi alla persona del Parroco, poi consegnò l’arma al signor Facini.

Nel frattempo la casa si era popolata di curiosi che in quelle occasioni non perdono mai il vizio di assaporare poi il piacere di poter raccontare, il più delle volte aggiungendo molto della propria fantasia ed immaginazione, alle altre comari del paese il fatto del giorno. Il signor Lhoner venne portato via a forza (allora in casi come questi, si faceva uso della camicia di forza che era un telo con delle cinghie che immobilizzava i pazienti) dalla sua abitazione e, credo, non vi fece più ritorno.

Mentre le comari del rione erano ancora intente a raccontare, ingrandire e manipolare la vicenda dando già giudizio e pena per il povero signor Lhoner, e, se non fosse stato un prete il ferito, lo avrebbero volentieri spogliato, non per curarlo, ma per poi raccontare la tipologia della ferita e dare una condanna “giusta“ allo sparatore, invece, durante tutto quel trambusto il signor Parroco si era avviato verso la chiesa per celebrare la S. Messa del mattino e dopo finita la cerimonia, solo dopo, si recò al pronto soccorso dell’Ospedale di Cles per farsi medicare la ferita.

 

Nel febbraio del 1969 mio padre, già malato terminale, si aggravò ulteriormente e espresse il desiderio di voler confessarsi .

Allora la parrocchia di Livo era retta da un parroco che si chiamava don Michele Rosani, e che entusiasta, al contrario di don Bisoffi, delle nuove riforme portate dal Concilio Vaticano II, e ligio al dovere “progressista“ del nuovo corso, si era recato a Roma per le solite burocrazie Vaticane, così almeno aveva asserito Lui.

A sostituirlo aveva lasciato il compito al buon vecchio parroco di Preghena, don Pierino Bisoffi il quale svolgeva quel mandato spirituale con il massimo rigore e la massima professionalità, come d’altronde era il suo stile di vecchio curato di campagna.

Dopo aver confessato e dato l’estrema unzione e “l’olio santo“ a mio padre, si fermò con noi e mi raccontò che di malato grave c'era anche il signor Lhoner. Penso fosse all'ospedale o alla casa di riposo di Cles, e mi raccontò che andava a fargli visita di frequente e che sul comodino aveva una statuetta della Madonna di Lourdes, ed ogni volta che andava da lui gli diceva sempre : - “ Me perdonelo, sior Parroco ? ! ? “ - E lui gli rispondeva sempre : - L’ ga perdonà el Padre Eterno, volelo che no ghe perdona anca mi no ? “

A tutt’oggi, queste parole risuonano in me come un monito ed un esempio da imitare nella vita, e tutte le volte che mi sono trovato in una situazione simile, mi sono sempre ricordato le sagge parole del vecchio Prete di campagna, dalle idee preconciliari, ma fedele all’insegnamento del suo Datore di lavoro che gli aveva insegnato ad amare anche chi, in un momento di follia della vita, aveva attentato alla sua vita. Credo di poter affermare, senza passare per eretico, che quell’amore per i propri figli, specie per il figliol prodigo, abbia sicuramente salvato, alla fine dei suoi giorni il signor Lhoner, con buona pace delle comari del paese che lo avevano subito condannato senza appello e che lo avrebbero visto volentieri tra le fiamme dell'inferno.

 

In questa vicenda, a mio parere, ci sono due persone che brillano di luce propria, per la virtù innata e per l’ amore per il prossimo: il Parroco don Pietro Bisoffi e la signorina Adelia Facini.

Il primo per la fedeltà a quella missione che compiva in nome di Dio ed in nome di quella chiesa che aveva saputo rinnovare con il Concilio Vaticano II, la propria immagine ma che poi avrebbe abdicato negli anni seguenti al suo ruolo con una secolarizzazione sempre più marcata, fino ad arrivare ai giorni nostri alla scoperta della infame ed odiosa piaga della pedofilia nel mondo clericale e monastico, suprema vergogna per gente colta e dallo spirito ecumenico ed apostolico. Vorrei ricordare che ai tempi di don Bisoffi ad esempio alle donne erano vietati i pantaloni…e che una donna dopo aver partorito il proprio figlio, dono di Dio, era costretta ad un periodo di quarantena prima di potersi recare in chiesa per una cerimonia di “purificazione“... Roba da manicomio…

 

La seconda figura che brilla alta in questa vicenda è la signorina Adelia, la quale accettò sempre di buon grado, e senza tanta ricompensa, di aiutare quel Cristo malato che vedeva nella figura del signor Lhoner. Così semplicemente, come semplice e generosa era la Signorina Adelia, esempio fulgido di onestà e di carità cristiana, in tutta la sua umile e tribolata vita. Per me un esempio da imitare ed un ricordo struggente di un grande amore perduto, nel mio cuore.

 

 

 

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Zanotelli Pio

 

(Tripoi 2° WW )

 

La mia passione innata per la storia specie per la storia contemporanea e la dittatura fascista, mi consentì di conoscere a fondo il signor Pio Zanotelli che era anche cugino di mia madre. Pio era nato il 28 novembre 1913 giusto un secolo fa ed abitava a Scanna in una casa vicino alla fontana in condominio con altri due suoi cugini Giuseppe e Giovanni Zanotelli.

Pio era agricoltore ed allevatore come tutti gli uomini del nostro paese, aveva sposato una donna di Varollo che si chiamava Silvia Zanotelli pure lei ma ovviamente non erano parenti stretti. Da quella unione nacquero tre figli, Aldo, Adelio e Tullia .

In un incidente boschivo negli anni ‘ 50 Pio si infortunò gravemente ad un braccio per un grosso tronche d’ abete che glielo schiacciò, a nulla valsero le cure e le terapie antibiotiche per evitare che l’ arto andasse in cancrena, dopo pochi giorni dall’ incidente gli venne amputato.

Questa fu per lui un vera e propria tragedia personale e famigliare, in quanto aveva tre bocche da sfamare e gli rimaneva un solo braccio per lavorare.

Pio aveva partecipato alle duo guerre volute da Mussolini nel 1935 – 36, la guerra d’ Etiopia e la seconda guerra mondiale, alpino venne mandato alla conquista dell’ impero nelle aride terre etiopiche con un esercito per quel tempo poderoso dotato di armi automatiche , artiglierie di vari calibri, carri armati, aerei e micidiali gas come l’ iprite che paralizzavano i nemici immobilizzandoli di fatto, Pio mi raccontò dei massacri fatti con le armi convenzionali e con i gas contro bande di poveri negri straccioni armati di molte lance e qualche fucile, vennero impiegai anche i lanciafiamme insomma un test per la prossima e più cruenta guerra mondiale.

Nella seconda guerra mondiale Pio venne impiegato prima in Francia nel 1940 poi sul fronte dei Balcani e della Grecia.

Nel dopo guerra fu un uomo attivo all’ interno delle istituzione e ricoprì molte cariche sia come consigliere comunale che nella locale ASUC, fu per anni nel consiglio di amministrazione della locale Cassa rurale ed artigiana con ruoli diversi.

Morì di emorragia dopo un intervento chirurgico subito negli ospedali di Padova il 01 agosto 1983

 

 

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Agosti Ottone

 

( Tone dei “ masadori “ )

 

Erano detti “ masadori “ perché avevano preso in affitto il maso Filippi alle Val .

Parlare di Ottone Agosti è quasi sinonimo di istituzioni, cooperazione, associazionismo. Infatti, più che l’ aspetto bellico nella figura di Ottone brilla la sua partecipazione alla vita sociale ed amministrativa di questa Comunità del quale è sempre stato un esempio di grande impegno e profonda onestà.

Gente come Ottone, Arcangelo ed altri degli anziani che ho avuto l’ onore di poter conoscere, ora sono delle persone estinte in questa moderna, opulenta ed ignorante Comunità.

Ai tempi di Ottone, chi assumeva un incarico sociale lo faceva con l’ orgoglio ed il dovere di rappresentare al meglio la propria comunità, rappresentare tutti allo stesso livello, ci ti ha votato e chi no, in modo gratuito, allora non c’erano gettoni di presenza o altre forme di retribuzione che non fossero le spese vive per viaggi o altre cose rigorosamente documentate e quietanziate.

Ogni paragone con gli attuali sprechi e ruberie è completamente ed assurdamente inutile, nessuno ora riuscirebbe più neanche ad immaginare una società sana ed onesta quale era quella di 50 anni fa.

Nel 1943 alla caduta del regime fascista il signor Agosti Ottone ricoprì un incarico molto importante per la nostra zona : venne nominato dall’ allora Prefetto di Trento Commissario di zona ed assieme ad altre persone tra cui il signor Agosti Giovanni Battista ( Tita di Gianini ) per gestire il periodo di transizione dopo la caduta del regime fascista, carica che conservò anche dopo il 1947 .

Ebbe pertanto un ruolo attivo di grande importanza nella ricostruzione democratica dei primi consigli comunali post fascisti con le elezioni democratiche dei sindaci che sistituirono i Podestà nominati dal fascismo più o meno collaborazionisti del regime, in taluni casi infatti il Podestà si limitava ad eseguire in modo passivo gli ordini del regime senza infierire sui refrattari e sui dissidenti.

Faccio un piccolo esempio locale per dare il senso della misura del costo della retribuzione dell’ attuale Sindaco che riceve uno stipendio mensile pari a 1.500 euro, ho fatto un rapido conto ed il risultato è che in 15anni di legislatura gli è stata retribuita una somma pari a circa 300.000- euro….

Ottone fu consigliere comunale, delle ASUC, del locale consorzio cooperativo frutticolo, della locale famiglia cooperativa, del caseifici a turnario del Consorzio di miglioramento fondiario, un uomo che ha dato molto a questa Comunità che ora sembra assente ed indifferente ai veri valori della solidarietà e della cooperazione, dove gli Amministratori, qui come a livello nazionale, puntano allo stipendio, ai favoritismi ed alle tangenti, tutto il resto, i problemi del paese, la società che è allo sfascio, le opere pubbliche che assumono tempi biblici e costi impossibili, tutto questo Seanra non contare, basta poterci mangiare sopra .

Ottone aveva sposato una donna di Livo che si chiamava Giuseppina Conter ( Dei Ciari ) che gli diede quattro figli Romano, Carlo, Livia ed Onorina.

 

 

 

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Pia Zanotelli

 

 

Io non sono nessuno e non ho alcun diritto di giudicare gli altri, ma quando ripenso a Pia a volte mi viene quasi una spontanea ribellione contro Dio per avermi concesso quel poco di vista che ho. Se fossi stato cieco, probabilmente qualcun altro mi avrebbe descritto Pia e per tanta fantasia possa essere dotato un cieco mai avrebbe potuto immaginare quanto possa essere malvagio l’ essere umano e quanto danno possa fare ad un essere indifeso il perbenismo e l’ ipocrisia.

Pia era una donna di quelle nate disgraziate come me, ma con un ulteriore fattore negativo che le ha reso la vita un vero e proprio calvario, era infatti ospitata in casa di suo fratello e di sua cognata che la isolarono dal resto della famiglia perché si vergognavano di lei, e non volevano compromettere il prestigio della famiglia agli occhi della gente.

Credo che Pia fosse analfabeta ma non ne sono certo, era nata un po’ ritardata ma ad aggravare ulteriormente la sua situazione contribuì pesantemente il modo come era trattata nella sua famiglia di appartenenza.

Dai racconti di mia zia Ada che molte volte la incontrava sulla strada che porta a Somargen con le mucche da portare al pascolo, mi ha sempre descritto una situazione di profondo degrado fisico e morale nel quale versava la poverette, sempre scalza con un abito scuro lungo, un fazzoletto in testa, sempre spettinata e con quel gozzo che le deturpava il fisico.

Allora giovane, quando aveva il ciclo mestruale, non aveva neppure un panno o un fazzoletto e si puliva con il lungo vestito.

Quando l’ ho conosciuta io avrà avuto una cinquantina di anni ma ne dimostrava ottanta, era sempre relegata nella stalla o in una stanzetta , non la volevano in casa assieme al resto della famiglia e nonostante questo trattamento da schiava, lavorava tutto il giorno nella stalla ad accudire le mucche e poi andava in campagna ad aiutare il fratello nei lavori agricoli. Era cugina di mia madre e quando mia madre la vedeva tornare dal lavoro stanca ed assetata la faceva entrare in casa e la faceva sedere e le preparava un buon caffè, lei piangeva quasi sempre ed invocava sua madre affinché la venisse a prendere e se la portasse con lei.

Ho detto all’ inizio che io non ho ne l’ autorità ne il diritto di giudicare queste situazioni penose che si vedono nei paesi, pia è uno di questi casi ma ce ne sono stati e ce ne sono tutt’ora molti, concludo con una riflessione che mi viene offerta dalla data odierna : 27 gennaio giornata della memoria, allora il genere umano ebbe la forza ed il coraggio di abbattere le porte del campo di concentramento di Auschwitz e liberare tanti derelitti che erano destinati altrimenti a morire, oggi noi non riusciamo ad abbattere le barriere del nostro egoismo e della nostra ipocrisia.

Goditi il paradiso Pia !

 

 

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Amelia Conter in Agosti

 

 

Non avrei mai pensato di scrivere la sua biografia ora che non c’è più portata via da quella malattia killer del nostro tempo, ancora in età relativamente giovane, ma è così a riprova e conferma che noi siamo solo gli inquilini del nostro corpo e del nostro tempo, ma il Padrone vero è un altro.

Amelia era nata a Livo suo padre si chiamava Vigilio e sua madre Gamper Serafina originaria di uno dei paesini sud tirolesi a noi vicini.

La famiglia di Amelia era composta da quattro maschi, Adolfo, Romano, Agostino e Emanuele e due femmine lei e la sorella Bice.

Tre dei suoi fratelli sono nati gravemente handicappati sia nel fisico che nel cervello, nonostante tutto ciò vennero tenuti a vivere in famiglia a eccezione di Romano che dopo un certo tempo si dimostrò aggressivo e violento e venne messo in una casa di cura per disabili mentali, credo che sia ancora vivo, invece è morto Agostino il più debole fisicamente.

Bisogna riconoscere il grande senso di responsabilità , il grande amore per i figli, e la grande Fede in Dio della famiglia Conter per la difficile decisione di tenere nel proprio nucleo anche quei figli che madre natura ha voluto nascessero “ disgraziati “ per usare il termine che allora definiva la gente diversamente abile. Un alto merito ed un esempio che andrebbe adottato anche ai nostri tempi dove si tenta di socializzare il problema non sempre con buoni esiti.

Vorrei aggiungere che io capisco a fondo questo disagio che ha colpito l’ intero nucleo famigliare di casa Conter e lo capisco dalle condizioni di uomo “ disgraziato “ non ai livelli dei fratelli di Amelia, per fortuna a me il cervello è l’ organo del mio corpo che funziona meglio e mi gratifica nel pensiero e nella scrittura, e di questo Amelia aveva capito la grande differenza ed importanza per una vita almeno vivibile nel contesto sociale della comunità.

Erano tempi di miseria economica che ho avuto modo in varie occasioni di descrivere, a questo per la famiglia di Conter Vigilio si era aggiunto anche questo grave problema ma era comunque riuscito a tirare avanti ed a sfamare la sua numerosa famiglia.

Ho fatto questa premessa per riuscire a descrivere meglio la signora Amelia che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere molto bene, anche perché aveva sposato il signor Roberto Agosti di Varollo e dopo un periodo in affitto a Preghena si erano stabiliti definitivamente nella casa paterna.

Amelia era una persona schietta, di quelle che se ti doveva dire qualche cosa di bello o di brutto te lo sapeva dire lei in faccia senza bisogno di ambasciatori o dei pettegolezzi che spesso e volentieri volano su questo paese e ad ogni passaggio di lingua modificano il contenuto fino a travisarne del tutto il senso.

A livello personale quello che ho più apprezzato di Amelia è stato il fatto che lei mi ha saputo capire, ha saputo capire il mio disagio fisico, i miei limiti a livello motorio e di conseguenza quanto questi problemi passassero a livello della mia presenza all’ interno della società locale e quanto soprattutto tale condizione mi avesse escluso dalla società a tutti i livelli, fatto salvo quando facevo comodo a taluna delle fazioni sempre in eterna lotta che sarebbero state disposte a tollerarmi in quanto portatore di consensi elettorali.

Amelia ce l’ aveva a morte con la lobbie dei contadini che non pagano le tasse e consumano la maggior parte dei soldi pubblici in acquisto di materiali agricoli, di accesso ai contributi pubblici per loro e per i figli in quanto non obbligati a pagare tasse di nessun tipo, e questo conferma la sua sete di giustizia sociale che condividevo in toto a dispetto di taluni profeti della sinistra che ritengono di avere il monopolio dell’ equità sociale e dei diritti dei lavoratori.

Amelia era una donna con una saggezza ed una coerenza uniche che aveva ereditato a mio parere tanto dalla madre di origini tedesche, lei non diceva mai “ bisognerebbe fare “ lei faceva in prima persona e mi piace ricordarla impegnata nella parrocchia alla pulizia ed al decoro della chiesa di Varollo, ma anche un ecologista convita e coerente infatti la si vedeva spesso intenta alla pulizia della strada antistante la sua abitazione ma anche molto più avanti a raccogliere carte e bottiglie di plastica vicino alla cooperativa ed a redarguire certi utenti che gettavano nelle campane dei rifiuti destinati ad un diverso trattamento, questo per me era un grande senso civico che la signora Amelia esibiva a tutta la nostra comunità con semplicità ed orgoglio dimostrando anche a certi amministratori distratti la differenza tra l’ idea e l’ azione. Non l’ ho mai detto a lei, ma tante volte mi sono chiesto ammirato : “ ma Amelia, chi te lo fa fare ? “.

Un altro impegno volontario e gratuito che Amelia si era accollato, sicuramente il più nobile e meritevole, era quello di curare nel cimitero di Varollo le tombe di gente che non aveva più parenti o che comunque nessuno accudiva… e tante volte l’ ho trovata vicino alla tomba di una mia prozia che si chiamava Anna del cui decoro e pulizia si era fatta carico Amelia e quando ho portato n piccola croce di acciaio con una targa di alluminio con il nome e le date di nascita e di morte di questa mia lontana parente, ne fu immensamente felice.

Ad Amelia piacevano tanto i bambini, prima i figli che ha allevato con amore, poi i nipotini che ha accudito con altrettanta dedizione ed amore, una nonna a tutti gli effetti che mancherà sicuramente a loro ma che possono ricordare con legittimo orgoglio e con tanta riconoscenza.

Era un amante dei gatti che curava con amore e loro si erano talmente affezionati a lei che la seguivano ovunque , quando arrivavo alla famiglia cooperativa e vedevo dei gatti fuori che aspettavano pazienti, allora capivo che la signora Amelia era dentro a fare la spesa.

Conservo un bel album fotografico che la ritrae con i vari nipotini e di tanto in tanto per ritrovare serenità sfoglio queste belle immagini, ed è come se l’ Amelia mi venisse ancora incontro con il suo abito lungo un bimbo in braccio ed il sorriso sulle labbra.

Amelia aveva una straordinaria dote, sapeva riconoscere immediatamente ed aiutare il prossimo che ne aveva bisogno, come fece con il bambino bielorusso che ospito nel 1997 per un mese a casa sua aderendo al progetto “ amici di Chernobyl “ e come ha fatto per anni con Widad la ragazzina marocchina che veniva dalla val Camonica a guadagnarsi la vita ed i soldi per studiare vendendo abbigliamento e biancheria e che ora il destino e forse anche l’ intercessione sua e della mia amata Adelia hanno voluto che si fermasse a vivere con me, come una samaritana che si è fermata ad alleviare le mie difficoltà dovute ai miei handicapp, come uno scricciolo portato dal vento impetuoso di Dio che Amelia chiamava Gesù Cristo e Widad chiama Allah.

 

 

 

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Zio Tom

( Conter Giulio)

 

 

Nella piccola biblioteca della nostra scuola, tra i volumi a disposizione ce n’ era uno che si intitolava La capanna dello zio Tom di Harriet Elizabeth Beecher Stowe, una attivista antischiavista americana, che raccontava di uno schiavo negro che il suo padrone aveva ribattezzato Tom, la sua storia nella sua capanna.

Il racconto era corredato da dei disegni e quello della copertina assomigliava moltissimo al personaggio che ora vado a descrivere.

Si chiamava Conter Giulio ed abitava al castello di Zoccolo,che allora era ancora abitabile in parte.

Giulio non era sposato ed abitava con il vecchio padre e la sorella Irma che era sposata con un uomo di Napoli capitato qui subito dopo la guerra, si chiamava Luminosi Giuseppe, ma questa è un'altra storia che riprenderò in seguito.

Giulio Conter faceva di professione l’ imbianchino per la gente locale che doveva ritinteggiare le pareti domestiche, o doveva rinfrescare i nomi e le date sui monumenti funebri , faceva qualche altro lavoretto per il comune . Giulio era un uomo che leggeva molto, specie libri storici ed antichi ed aveva una buona cultura generale in modo particolare sulla storia dell’ arte dei monumenti antichi della nostra zona.

Anche per Giulio vale il saggio proverbio popolare “ nessuno è profeta in patria “ ma non solo non venne cresciuto per quanto diceva e raccontava dei libri antichi che aveva letto, ma veniva pure deriso da questa accozzaglia di ignoranti, che lo guardavano dall’ alto in basso dei loro trattori , delle loro goslden e dei loro soldi. Quando Giulio tentava di intavolare un ragionamento e si accingeva a raccontare un episodio della vita dei nostri antenati, era immediatamente interrotto dalle risate sarcastiche di questi geni della storia, di questi ingegneri ed architetti delle stronzate, incapaci di tenere un discorso in italiano ma bravi a deridere chi ne sapeva più di loro.

Questo atteggiamento arrogante ed ignorante non mi meraviglia affatto, è infatti il classico modo degli ignoranti che fanno un partito per avere la forza dei numeri e far tacere la ragione, neppure il Fascismo che pure era un regime dittatoriale si è mai comportato in modo così rozzo e grezzo nei confronti della cultura, anzi l’ ha sempre protetta e valorizzata.

Trascorsi alcuni anni anche la zona abitabile del castl Zoccolo venne dichiarata pericolante e fatta evacuare, allora si era pensato di dare a Giulio un alloggio ITEA a Varollo ma stranamente lui rifiutò e a nulla valsero i miei tentativi e quelli del sindaco Filippi per convincerlo, se ne andò invece a Bologna ospite della sorella Irma e dei nipoti.

Non disse mai i veri motivi del suo rifiuto di restare in questa comunità, ma forse non serve indagare tanto per capirne la giusta ragione.

Morì a Bologna il….

 

 

 

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Conter Fabio

 

 

(Ciari * 13. 10. 1914 + 30. 09. 1980 )

 

Uno dei componenti il Coro parrocchiale di Livo precedente il Concilio Vaticano 2 che ricordo con tanta simpatia è il signor Fabio Conter della famiglia dei Ciari che abitava a Livo in una casa alla quale si accedeva dalla strada principale tramite un vicoletto stretto a pieno di curve. La sua casa era una vera e propria casa rustica con molte parti in legno ed abitata da altre famiglie. Lui abitava in un appartamento sempre lindo assieme alla sorella Lina con la quale condivideva la vita ed il lavoro.

Fabio era agricoltore ed allevatore attento al mutare dei tempi ed alle soluzioni che venivano proposte.

Ricordo che a quei tempi per combattere il flagello della grandine che tutti gli anni perseguitava a zone alterne i frutteti provocando dei danni gravissimi, c’ erano due antidoti che parevano efficaci : il suono delle campane ed i razzi antigrandine.

I razzi anti grandine erano dei veri e propri missili terra aria con testate esplosive da 1 kg. di esplosivo al plastico, erano lanciati in aria da apposite rampe una delle quali era situata nel piazzale del vecchio magazzino delle mele CAM vicino a casa mia, altri erano sparsi in vari punti della campagna. Il deposito e la gestione di questi missili era stata affidata ad i VV.FF del luogo. Quando il tempo si faceva minaccioso e si avvicinava un temporale allora si mettevano in azione le batterie di missili antigrandine che partivano sibilando verso il cuore del temporale, sparivano alla vista in un baleno e poco dopo si poteva vedere in cielo tra le nubi una vampata seguita poi da una forte esplosione, il razzo era arrivato a destinazione e si sperava che lo spostamento d’ aria dello scoppio ed il propagarsi delle onde sonore riuscissero a disintegrare in piccoli innocui granellini la grandine, a terra ricadevano le alette direzionali del missile che erano di plastica color arancio. Era un operazione estremamente pericolosa e rischiosa tant’è vero che ad Ala nel basso Trentino un razzo ricadde sopra un deposito esplodendo e ferendo a morte alcuni addetti. Vi furono anche dei furti di testate esplosive da parte di nuclei terroristici, ma che pose definitivamente fine all’ uso dei razzi fu l’ avvento dello Ioduro d’ argento importato da Israele che con un azione chimica scioglieva i chicchi di grandine .

Come al solito c’era chi era favorevole e chi era contrario a questo sistema, ricordo un animata e partecipata riunione do il signor Fabio si scagliò contro l’ uso della nuova tecnologia dicendo : - Che “ oio duro o oio molo po’, lajame i nossi razzi ! “.

Fabio nel coro cantava da basso aveva una voce profonda e nasale ma era molto intonato e preciso nelle battute. Quando c’era la Via Crucis durante la quaresima no “ muli “ come ci chiamava il buon Fabio, si andava dietro l’ altare dove c’ era il coro e ad ogni Stazione si cantava lo Stabat Mater…

Fabio teneva molto al paese di Livo ed alle sue tradizioni e quando arrivava l’ 11 novembre con la sagra paesana di S’ Martino ed il vecchio coro era stato ormai sostituito dai giovani, dopo aver cantato alle cerimonie liturgiche per la festa di S. Martino, Fabio offriva da bere a tutto il coro giovanile.

 

 

 

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Alessandri Luigino

(peluchjan)

 

 

Luigino l’ ho conosciuto quando dopo aver finito gli studi ho incominciato a lavorare per la Ditta IRIS che stava eseguendo la messa in opera del primo impianto di irrigazione a pioggia dcel CC di Livo e nel suo estimo.

Era l’ anno 1968, mio padre era gravemente malato di cancro e durante l’ estate si stava aggravando a vista d’ occhio, fino a quando il Professor Enrico Nardelli non propose di farlo ricoverare al policlinico universitario di Padova per tentare un intervento chirurgico risolutore.

Allora io fui assunto dalla ditta IRIS come manovale comune ( picco e pala ) per intendersi ed una paga di basso livello, mi ricordo le vesciche sulle mani, il sole che bruciava la pelle, la sete e la fatica.

Io ero ancora un adolescente e gracile per natura, ma avevo tanta buona volontà e poi avevo tanto bisogno di guadagnare del denaro per la famiglia in grande difficoltà. Così mentre molti giovani della mia età erano in piazza a contestare il capitalismo e le ingiustizie del mondo con l’ effigie del Che stampigliata sulla maglietta e sulle bandiere rosse, io ero in un fosso a scavare per poi poter mettere in posa le tubazioni in acciaio, con buona pace di tutti quei contestatori la cui rivoluzione doveva liberare i popoli dalle schiavitù dell’ ignoranza, dello sfruttamento, del razzismo, e mettiamoci pure anche il lavoro minorile… tutti questi signori che ora sono la nuova borghesia ignorante per essere stata promossa a calci in culo con il 6 politico e quindi incapace di portare sul mercato del lavoro idee, innovazioni, nuove proposte culturali e nuovi modelli sociali, tutti questi raffrontati al socialismo vero e genuino di Alessanri Luigino, sono da me paragonati a meno di una MERDA!

Luigino mi vide un giorno tribolare in fosso, con la melma fino ai polpacci e si meravigliò molto che mi avessero assegnato un simile lavoro, io non avevo il coraggio di lamentarmi perché sapevo che se l’ avessi fatto avrei perso di brutto il posto di lavoro.

Luigino che aveva molta più esperienza di me in campo lavorativo, capì il problema, e se ne fece carico e lo risolse a modo suo. Lui lavorava a rivestire le saldature con il catrame bollente per renderle impermeabili all’ acqua ed evitare che si ossidassero, chiese al capocantiere un aiutante che gli desse una mano a trasportare il catrame bollente ed a preparargli le fasce di lana di vetro e chiese esplicitamente che io fossi il suo aiutante. Il capo acconsentì e dal lavoro faticoso dei fossi umidi mi ritrovai a fare un lavoro un po’ più pericoloso, ma decisamente meno faticoso.

Luigino mi raccontava che quando lavorava in Germania aveva una morosa che gli voleva bene ma era di religione protestante ed i famigliari di Luigino si opposero al matrimonio e questa aberrante imposizione gli restò come un ricordo negativo, come una scelta che non aveva capito e non era mai riuscito a digerire, per tutta la vita.

Luigino era molto politicizzato perché era stato emigrante ed aveva assorbito le idee dei popoli che aveva conosciuto, era di fede socialista ma non disdegnava di fare una qualche scappatella, al bisogno, verso altre formazioni anche di destra… almeno a parole ed a promesse di voto.

Il vino era la bevanda preferita da Luigino e non ne faceva mistero, anche per le numerose sbornie nei fine settimana, poi quando tornava al lavoro diceva sempre: “ – che venga notte il giorno di paga ! “

Un giorno, alcuni anni dopo, andai a Livo al Bar Zanotelli, era di domenica pomeriggio e vidi avvicinandomi un numeroso crocchio di gente che fuori dal locale ascoltava una musica o un canto che proveniva da dentro: era il Luigino che assieme a Bondì Mario detto Berlinguer cantavano a squarciagola canti fascisti con le parole elaborate come quello dei sommergibilisti che ora suonava così :

“ – è così che l’ vive l’ italian con un etto e mezz de pan e na cipolla n’ man ! – “

Questo è stato Luigino, un uomo veramente libero da vecchi e nuovi pensieri che hanno distorto menti e rovinato l’ esistenza a molti, ed io lo paragono sempre al suonatore Jones nello Spoon River del grande Fabrizio de Andrè.

Ciao Luis !

 

 

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Zanotelli Severino e Maria

 

 

( Moro dei Perini )

 

Il luogo dove ci s incontrava di frequente ed ho conosciuto ed imparato ad apprezzare il signor Severino Zanotelli detto Moro dei Perini, era la vigna in località Zura quelle scarpate ripide che scendono verso il lago di S. Giustina, dove mio padre aveva una vigna che confinava con la proprietà del signor Severino.

In quei siti irti dove si faticava a mantenere l’ equilibrio che erano al limite del bosco di acacie che scendeva ripidissimo verso lo strapiombo dove60 anni fa scorreva il fiume Noce e che ora è diventato un invaso artificiale per la produzione di energia elettrica, in quelle coste scoscese e bruciate dal sole, si produceva quella poca quantità di vino che serviva per il fabbisogno famigliare, erano uve di poco pregio e raramente riuscivano ad avere un contenuto zuccherino sufficiente per poter produrre un vino con un certo tasso alcoolico, c’ era un detto allora che definiva in modo inequivocabile la qualità e la bontà dei vini prodotti a Zura : si diceva che per poterlo bere bisognava avere almeno tre amici accanto : in due che ti tenevano stretto ed uno che te lo faceva ber a forza… Ma allora nessuno si lamentava e tutti bevevano il proprio calice amaro di vino e di povertà.

Nelle vigne era consuetudine di molti avere a disposizione un bait, di queste specie di italiche Dacie ne ho ampiamente parlato e descritto il loro scopo principale e gli scopi secondari , eros compreso. Mi piace però descrivere il bait del signor Severino che era un capolavoro di ingegno e di ingegneria idraulica.

Era situato vicino al nostro sito e si entrava da una porta sempre aperta che guardava verso la sorgente del Noce, era una costruzione di pochi metri quadri ed il suo scopo principale era quello di raccogliere l’ acqua piovana che cadeva sul tetto che tramite dei canali di scolo veniva convogliata in una grande vasca in cemento che serviva come serbatoio e veniva poi usata per sciogliere il rame che serviva per irrorare le viti per la peronospora ed altri crittogami e parassiti della vite. Era un sistema ingegnoso che aveva un troppo pieno nella vasca che impediva la tracimazione e deviava l’ acqua nel normale scarico.

Erano piccoli capolavori dell’ ingegno umano che permettevano di ripararsi dalla pioggia improvvida dei temporali estivi e consentivano di risparmiare tanta fatica per il trasporto dell’ acqua fino da casa o dal più vicino lech, cose adesso impensabili che fanno quasi tenerezza ma che ai miei tempi erano considerate un lusso. La primavera era il tempo nel quale era molto più probabile che per pura coincidenza ci si trovasse assieme al signor Severino nei rispettivi vigneti alla potatura delle viti che era un operazione molto delicata e precisa e bisognava avere una esperienza notevole ereditata dai vecchi per poterla esercitare senza fare danni, da una perfetta potatura infatti, derivava poi in autunno un ottimo risultato quantitativo di uva prodotta, la qualità la dava la stagione, se era una stagione calda ed asciutta la qualità del mosto era buona altrimenti ci volevano le classiche tre persone…

Bi sognava poi “ conciar su “ il vigneto ossia rimettere i pali consumati dal tempo, rifare le pergole con il filo di ferro, rifare qualche muretto che le piogge autunnali avevano demolito, erano giorni , settimane di lavoro per rimettere a nuovo il vigneto per poter avere in autunno il vino che avrebbe dovuto bastare per l’ intero anno. Ci si incontrava con “ l’ Moro “ quando si aveva la coincidenza di essere alla stessa “ strea “ ovvero allo stesso filare o pergolato ed allora si fermava a fare due parole con mio padre, il signor Severino era un uomo molto calmo e molto ragionevole, era , per dirlo con un termine che è tutto un programma, un uomo d’ altri tempi, con i suoi lunghi baffi, magro e con la carnagione scura, era una dolcezza per le orecchie sentirlo discutere con mio padre dei problemi del paese, della famiglia delle gioie e dei dolori che la vita aveva riservato loro… Mai una parola di troppo, mai che si fosse sparlato o fatto delle illazioni sul prossimo, erano persone di una integrità 3 lealtà mentali che mai si sarebbero abbassati a simili angherie se pur verbali, non ne avevano il tempo e meno che meno la voglia, avevano altro da fare, il signor Severino aveva sposato una donna di nome Maria e da lei aveva avuto due figli Rita e Paolo tutti e due più giovani di me, abitava a Livo nella vecchia casa dei “ Perini “ una delle ultime case della Villa, era un agricoltore ma per arrotondare faceva anche qualche lavoro da muratore

Dopo uscito dal collegio dei frati di Villazzano, ben ferrato nelle materie religiose imparate in convento e con il torcicollo politico verso lì estrema destra di Almirante, i preti mi vollero come membro di vari Consigli pastorali parrocchiali, da don Rosani a don Menapace, in quella occasione ebbi il piacere di conoscere ed apprezzare le doti e la irremovibile fede della signora Maria che ho sempre considerato una persona con tanto buon senso e tanta umiltà , abbiamo insieme condiviso molti anni della mia acerba e ribelle giovinezza, volta a contestare tutto quello che aveva un colore che assomigliasse al rosso, giorni, belli, un epoca vera senza le ipocrisie dei nostri tempi e non rimpiango minimamente tutte le scelte che allora ho fatto, le mie posizioni radicali sulle regole e sulla morale, che erano le posizioni di tanti all’ interno del Consiglio tra le quali c’ era sempre la saggia Maria.

Di questo mio modo di pensare e di vivere, di queste mie scelte controcorrente, di questo mio animo ribelle ed anticonformista, oggi ne vado fiero ed orgoglioso ed osservo con occhio cinico ed indifferente il fallimento di tante altre visioni della vita.

 

 

 

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I Carabinieri

 

 

( aneddoto raccontato da Zanotelli Paolo fu Severino )

 

Era il tempo della vendemmia e come per la mietitura del grano tutto il nucleo famigliare al completo era impegnato alla vendemmia, pure Paolo Zanotelli ragazzino della quinta classe delle scuole elementari di Varollo finalmente nuove e riunite, che aveva portato al maestro Lucchini Roberto la richiesta di giustificazione dell’ assenza firmata dai genitori. Il lavoro dei campi era considerato sacro, Qualcuno lo aveva decretato a suo tempo e ne aveva dato l’ esempio con la battaglia del grano.

I tempi erano cambiati ma l’ Italia stentava ancora decollare con un autentica economia agricola organizzata e razionale, ognuno pensava al proprio orticello o al proprio vigneto.

In casa Zanotelli fervevano i preparativi per la vendemmia del giorno seguente, ci si era accertati che il tinach non perdesse, che il congial e le ceste fossero pronte, mancava da verificare che il moderno carro dalle ruote di gomma fosse efficiente. Ed invece il carro aveva una ruota bucata ed allora non c’erano dei gommisti che in breve tempo lo potessero riparare.

A togliere tutti dall’ imbarazzo ci pensò il fratello del padre di Paolo, Cornelio, che si offrì di prestare il proprio carro per la giornata della vendemmia ed il problema pareva risolto.

Era da poco uscita una legge dello Stato che obbligava tutti i possessori di carri agricoli anche a trazione animale, a munirsi di targa di riconoscimento del carro con relativa tassa di circolazione.

Nessuno fece caso che il carro del signor Cornelio ne era sprovvisto, perche per accedere ai suoi poderi agricoli lui transitava esclusivamente per strade interpoderali dove il controllo era inesistente.

La famiglia Zanotelli al completo partì da Livo di buon mattino e ai recò a Zura per la vendemmia portando con loro pure i ragazzini ed il pranzo per il mezzogiorno perché la vendemmia non veniva mai interrotta, si iniziava al mattino e si proseguiva fino a termine lavori. Qui mi è d’ obbligo descrivere il rito della vendemmia, era un lavoro massacrante di quelli che oggi si definiscono usuranti e che meritano una pensione anticipata, le donne raccoglievano i grappoli nei cesti togliendoli con le mano o tagliando il picciolo con la “ podina “ che era un piccolo falcetto fatto a mezzaluna, quando le ceste erano piene venivano versate dentro il “ congial “ che era un contenitore in legno simile ad una grande gerla, che poi veniva portato dai maschi della famiglia fino alla strada statale SS 42 che passava proprio sopra le nostre teste, dove ad attendere c’ era il carro con le mucche e sopra il carro un grande tino di legno che raccoglieva la preziosa uva. Era il primo dopoguerra e mentre il ragazzino di quinta elementare arrivava in cima al faticoso pendio che portava alla strada principale con il congial sulle spalle, sfigurato dalla fatica, si fermavano le macchine dei turisti germanici che gli davano un marco per poterlo fotografare in quello stato, stupiti ed allo stesso tempo meravigliati del lavoro che noi italiani eravamo costretti ancora fare, mentre loro che come noi avevano perso la guerra uscendo demoliti dal conflitto, si potevano permettere già allora le ferie in Italia, mentre da noi a potersi permettere lussuose ferie a spese dei contribuenti erano solo i politici ed i dipendenti dello Stato.

Finita la vendemmia dopo una epocale giornata di duro lavoro, ci si portava tutti, armi e bagagli, verso lo stradone e dopo aver caricato sul carro tutti gli attrezzi ragazzi e donne comprese, il carro con la vendemmia della famiglia Zanotelli si avviò lentamente verso Livo. Al bivio di Scanna appena girata la curva a gomito c’ erano i Carabinieri di Rumo con la vecchia Jepp residuato bellico lasciato in Italia dagli americani, che facevano un normale posto di blocco o di controllo come di dice ora.

Alla vista dei militi il signor Severino salutò con deferenza togliendosi il cappello, i Carabinieri ricambiarono il saluto, ma seguendo il carro con lo sguardo notarono che era sprovvisto della famosa targa identificativa. Il carro che procedeva molto lento in quel tratto di strada in salita, venne inseguito dalla jepp dei CC che fatta una decina di metri furono, classicamente, davanti ai buoi. Il titolare chiese spiegazioni di tanto zelo agli ordini e gli fecero notare che il carro era sprovvisto della targa.

Il signor Severino non tentò neppure di mediare e se ne guardò bene dal dire che il carro gli era stato prestato da suo fratello in quanto il suo aveva una ruota bucata, chiese a quanto ammontasse la multa che avrebbe dovuto pagare, gli fu risposto che doveva pagare £. 300- . Severino non aveva disposizione una simile soma dei denaro,non gli serviva per il lavoro che andava facendo e non c’’ era niente da poter acquistare nel ripido vigneto di Zura. Dovette il giorno seguente recarsi alla Cassa rurale, prelevare la somma richiesta e portarla di persona alla caserma dei carabinieri di Rumo. La contravvenzione, termine che detto in questo modo sembra faccia meno arrabbiare, bisogna pensare che comunque era di £ 300- e che a quei tempi era una cifra notevole, considerato anche il fatto che allora tutti vivevamo nella povertà più assoluta e tutto quello che serviva per il sostentamento delle famigli proveniva esclusivamente dall’ agricoltura.

Visto che era mancato da scuola, il maestro ordina al ragazzini di descrivere in un tema la vendemmia, lui descrive minuziosamente tutta la giornata di lavoro e non dimentica di raccontare l’ episodio dei Carabinieri comprensivo di sanzione, usando parole molto critiche e di disappunto nei confronti del’ Arma ed in particolare dei Carabinieri della stazione di Rumo rei a suo dire di una clamorosa ingiustizia e non solo aveva anche aggiunto nel suo scritto che se i carabinieri impiegassero più il loro tempo perseguire i ladri, i truffatori ed i delinquenti, avrebbero compiuto un migliore servizio allo stato molto più remunerativo che controllare un misero carro agricolo se avesse o meno la targa di riconoscimento che arrivati a questo punto era costata a peso d’ oro.

Dopo aver letto il tema il maestro oltre a redarguire severamente il ragazzo ed accusarlo di vilipendio all’ Arma, affibbiò al suo tema un 3 - - - e chiamò sua madre ad un colloquio da lui per chiarire la vicenda , la madre a sua volta dovette redarguire il figlio de insegnargli che i CC sono quelli che fanno rispettare le leggi, che tutelano la nostra sicurezza, che rappresentano la Nazione.

 

Sono passati più di 40 anni dall’ episodio narrato, ed alla SCAF di Livo è tempo di conferimento delle preziose e rinomate mele Golden Melinda, ed alla pesa si alternano i grossi trattori con attaccato il carica pallets carichi di cassoni, pesato un numero di socio avanti un altro e tutti scalpitano per poter scaricare e tornarsene a casa.

Alla pesa c’è il signor Zanotelli Paolo che controlla e scarica i cassoni. La fila dei trattori si allunga fino alla strada provinciale creando delle lunghe colonne.

Arrivano i Carabinieri di Rumo che entrano nell’ area del magazzino per controllare se qualche trattore abbia una freccia che non va, o se non abbia le protezioni in regola o altre piccole infrazioni al codice stradale.

Fanno il loro lavoro, il lavoro che il Ministero degli interni ha comandato loro, in altre parole fanno quello che quelli che noi abbiamo democraticamente eletto gli dicono di fare con le leggi che partoriscono in parlamento.

Dopo un poco al signor Paolo gli viene in mente l’ episodio occorso durante la vendemmia di molti anni fa che ancora si ricordava per brutti voti avuti nel suo tema, per la ramanzina avuta dalla madre e per le 300 lire di multa spese da suo padre.

Allora si avvicina al Maresciallo e gli chiede se gli può raccontare un aneddoto sull’ Arma , sempre se non si fossero offesi, il Maresciallo acconsente e Paolo racconta l’ episodio del carro senza targa e delle 300 lire di multa comminate a suo padre…

I militi rimangono ancora qualche minuto e poi risalgono in macchina e tornano in caserma.

 

Fin qui la storia e potrei terminare qui… ma mi và di passare alla matematica ed aggiungere una piccola equazione :

 

I tedeschi che tornano vincitori con i loro marchi .

Noi che fatichiamo e i CC ci multano pure per leggi fatte a Roma da un parlamento fatto anche di ladri e corrotti.

Il maestro che ti punisce e ti umilia di fronte a tua madre.

40 anni dopo i CC che se ne vanno per la vergogna.

 

TOTALE

 

Siamo un popolo di zingari…

 

 

 

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Rina Depetris

 

( la Rina di Orsi )

 

Il solo pensare a questa donna, alla sua immensa bontà alla sua sincera generosità, alla sua nobiltà di pensiero alla sua sincera solidarietà, mai finalizzata ad avere un benché minimo ritorno, ogni volta che penso a Lei mi pervade un senso di serenità nell’ anima e quando nelle mie giornate affiora la tristezza o la nostalgia di persone care che il destino mi ha tolto, allora, volutamente e con insistenza penso a Rina e lei che mi ha sempre voluto bene, mi viene incontro, con il suo sorriso bonario, con la sua espressione dolce, tranquilla, mai una volta che l’ avessi vista arrabbiata odi cattivo umore.

Ed è la Rina che incontravo nei campi o per le vie del borgo che ritorna sorridente con il rastrello sulla spalla o il falcetto sotto il braccio, è la Rina che si fermava a darti una mano quando ti trovavi con il fieno secco ancora sparso per il prato e dal Pin arrivavano minacciosi i primi brontolii di un imminente temporale in arrivo. Ed allora si affrettava con il rastrello a far “ antane “ rapida come sapeva essere lei con la precisione e l’ esperienza di anni di duro lavoro nei campi. E non mi stancherò mai di elogiare questa forma spontanea e vera di solidarietà, quando tutti arano consapevoli di non essere un isola, di aver bisogno l’ uno dell’ altro, del valore morale e sociale della condivisione, delle gioie e dei dolori e non sembri una cosa d’ altri tempi, ormai inutile e superata,è una forma di vita collettiva della quale il genere umano non può fare a meno, è nel proprio DNA il dover socializzare, il dover condividere…

Un tempo tutto questo avveniva nei campi, sulle panchine vicino alle case nelle lunghe serate estive quando era diffusi il “ filò “ una forma di telegiornale di quel tempo con annessi approfondimenti e non è una cosa superata, basti pensare ai moderni sociaal network, dove una delle opzioni maggiormente usate è la condivisione.

E’ la fede autentica e sincera della Rina che voglio ricordare e che a me manca… quella fede che sapeva superare tutti gli ostacoli, tutti i dubbi, tutti i perché, che non metteva nulla in discussione, una fede senza se e senza ma. Ed aggrappata a quella fede nella Madonna di Lourdes corse come primo soccorso, a prendere la bottiglietta dell’ acqua miracolosa ed a bagnare il capo di Giovanni Agisti caduto mentre le stava riparando il tetto, Giovanni guarì nonostante le numerose fratture e ferite riportate nella rovinosa caduta. E’ la Rina che suona la campanella della nostra chiesetta, che mette i fiori freschi all’ altare DELL’ Immacolata concezione, componendo sempre nuovi giochi di fiori, perché una fede vera non deve essere una forma statica d venerazione fatta di riti che si ripetono e di frasi fatte, ma deve essere una fede dinamica che guarda avanti a noi per seguire l’ attualità sempre nuova di quella Croce.

Rina nella sua semplicità rappresentava tutto quel rinnovamento che neppure i teologi del Concilio vaticano ll° hanno saputo interpretare con tanta eloquente semplicità di fede vissuta, Rina ci era riuscita prima di loro.

Rina non era sposata ma il ruolo di madre o ha saputo esercitare comunque perché ha fatto da mamma ad una sua nipotina che si chiama Gabriella e che ora ha una vera e propria venerazione per la zia Rina, per tutto quello che le ha insegnato e per la fede profonda e l’ amore per il prossimo che le ha trasmesso.

Quando eravamo ragazzini, Rina ci permetteva di giocare sulla sua soffitta che era un vero e proprio meandro di nascondigli a di piccole sorprese e avanti a rincorrersi sopra il fieno profumato a giocare a nascondino o a rincorrere i gattini che avevano preso possesso di una zona profonda del fienile.

Uscivamo la sera stanchi da morire ed allora la Rina ci dava un bicchiere di caffè da orzo e un dado di zucchero, che bei tempi erano, però guai a fumare “ videzze “ severamente proibito per via del pericolo degli incendi, quelle si andavano a fumare la sera nel bosco per stupire le ragazzine e si ritornava con la lingua arrossata come se si fossero mangiati dei semi di peperoncino.

 

 

 

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Agosti Primo

( Trapeni 2°WW )

 

 

Primo era il primo figlio di Arcangelo e di Emilia era della classe 1920 era un uomo alto e magro, era un grande appassionato di sport specie il ciclismo ma anche altri sport, leggeva molto ed era molto informato sulle vicende politiche nazionali ed internazionali.

Non era sposto, anche perché al ritorno dalla guerra gli venne diagnosticata una grave forma di diabete che aveva contratto nel periodo bellico.

Viveva con il fratello Egildo anche lui celibe e condividevano la vita assieme compreso il lavoro nei campi.

durante il secondo conflitto mondiale , Primo venne arruolato nella fanteria italiana************

 

Fatto prigioniero dagli americani nel 1942 accettò di combattere volontario al loro fianco e venne mandato ad operare presso Montecassino la celebre abbazia benedettina rasa al suolo dai bombardieri americani e teatro poi di furiosi e cruenti combattimenti specie tra le truppe della legione straniera “ arruolata dagli americani che comprendeva combattenti di tutto il mondo e di tutte le razze, polacchi, marocchini, italiani, francesi, ebrei, tutti coalizzati contro il comune nemico tedesco.

Primo fu fortunato ed uscì vivo da quel mattatoio che fu Montecassino ma tornò a casa malato con una grave forma di diabete che gli complicò la vita fino alla fine. Conosceva molto bene le varie tipologie di armamento leggero degli americani, tutte armi automatiche molto efficaci ed anche lui , come mio padre, era convinto assertore che a liberare l’ Italia dal nazismo e dal fascismo poco avesse contribuito il movimento partigiano, ma decisivo sia stato l’ esercito alleato con i suoi carri armati, i suoi bombardieri ed i suoi soldati bene armati e ben nutriti, sarà un opinione, ma la ritengo molto autorevole.

Fatto importante quanto indicativo del comportamento delle due nazioni alle quali Primo rese il servizio militare di guerra, quando lui provò ad avere un risarcimento per la sua malattia contratta durante la guerra, provò a rivolgersi alle autorità italiane le quali gli fecero notare che aveva combattuto anche per l’ Italia ma poi si era dato volontario combattendo a fianco delle truppe statunitensi a Montecassino e non gli riconobbero lo stato di invalidità come conseguenza del servizio prestato a questa Patria, dal canto loro gli americani che sono dei filibustieri per loro natura si appellarono allo stesso principio giuridico ed anche loro gli negarono la pensione.

Povero Primo, meglio avrebbe fatto a rifiutarsi di collaborare e combattere per gli yankee come fece mio padre, almeno avrebbe evitato quella umiliante beffa…

 

 

 

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Filippi Ottone

 

( Ottorino *18. 02.1922 + 31. 10. 2008–

2° WW)

 

Un'altra persona che era un leale e caro amico di mio padre, era Ottorino Filippi , mio padre mi raccontava che fin ra ragazzi c’ era tra i due una profonda amicizia che si era concretizzata poi anche in un comune impegno sociale nelle varie entità costituite dalle istituzioni alle associazioni locali. nella giovinezza quella era la generazione in cui il Duce riponeva tutte le sue ambizioni di vittoria nella guerra che da tempo lui immaginava, crescevano così con uno spirito ribelle e bellicoso fomentato dalla politica sociale che il fascismo proponeva ed incoraggiava.

La trasgressione come ribellione fine a se stessa e come motivo e voglia di distinguersi nella società anche con atti concreti come ad esempio quando si misero a scavare delle gallerie nel campo della Giuseppina Agosti dei Floriani, o come quando in età più adulta si unirono con altri giovani e fondarono la filodrammatica di Livo con recite che rievocavano fatti bellici della appena trascorsa guerra o anche i drammi di SShakespear o altri autori classici.

Così poi si ritrovarono sempre con lo stesso spirito cameratesco con tanta buona volontà, lungimiranza e tanto ingegno, si trovarono fianco a fianco nelle istituzioni per dare il loro gratuito contributo alla ricostruzione di questo Comune e di questa Nazione.

E ci erano quasi riusciti con il famoso BOOM ECONOMICO degli anni 60 quando un Italia ancora onesta e pulita cercava di lavorare per ricostruire il paese uscito demolito dalla guerra, riportando l’ Italia al livello degli altri grandi paesi europei e mondiali con un alto export un design che solo il genio latino sapeva fare. Poi arrivò quella generazione di politici ai quali cominciarono ad appiccicarsi il denaro pubblico alle mani e questo succede tutt’ ora con grave danno economico per tutta la nazione.

E’ davanti a questo sfascio generale e collettivo, che persone come Filippi Ottone vanno rivalutate e citate ad esempio alle nuove generazioni che hanno trovato il tutto cotto ed ora credono che tutto gli sia dovuto e che amministrare non sia ne più ne meno un modo per far soldi senza avere nessuna responsabilità.

Faccio un esempio, alla fine del suo mandato di tre legislature, un Sindaco di un paesino come il nostro avrà percepito una somma di stipendi pari a 300 mila euro e questo sia che abbia amministrato bene o che abbia amministrato male.

Ho avuto il piacere ed il grande onore di conoscere personalmente il signor Ottorino, e posso testimoniare di aver conosciuto un uomo integerrimo, un grande lavoratore con uno spiccato senso della solidarietà umana e dedizione gratuita e filantropica nei confronti della nostra Comunità, una mente progressista e perciò aperta alle innovazioni tecnologiche nel campo dell’ agricoltura, fu tra i primi a possedere il trattore agricolo che sostituì il cavallo, allora quelli che possedevano il trattore lo mettevano a diposizione per fare dei noli a colore che ne erano sprovvisti, così faceva Ottorino, con semplicità, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ho avuto occasione di apprezzare le doti di amministratore capace, responsabile ed onesto, nel CDA della Famiglia cooperativa di Varollo dove ero stato nominato consigliere assieme ad altri tra cui il signor Filippi Ottone .

Aveva sposato una donna che si chiama Agosti Ida e ebbero due figli Fabrizio e Tiziana .

Soldato di leva in attesa di essere inviato in uno dei tanti fronti dove il Regio asercito era impegnato nella seconda guerra mondiale, con l’ avvento dell’ 8 settembre 1943, il signor Ottorino si trovava nelle caserme di San Candido in val Pusteria in attesa di ordini assieme a centinaia di altri alpini provenienti dai vari fronti di guerra.

Durante una libera uscita si imbatté il un gruppo di alpini inquadrati e bene armati che stavano sostando per una breve pausa di riposo. Il groppo era comandato da un ufficiale anziano, un tipo alto ed asciutto con una barbetta alpina che propose ad Ottorino di aggregarsi a loro che sarebbero andati verso sud, molto probabilmente a rafforzare in seguito le schiere dei soldati della repubblica Sociale Italiana che si sarebbe costituita di lì a poco.

L’ ufficiale aggiunse come garanzia di sicurezza e di serietà della proposta, che lui i suoi alpini li aveva riportati a casa dalla Russia e che ora non avrebbe consentito ad alcuno di fare loro del male, pretese inoltre che portasse con se le armi in dotazione. Ottorino tornò in caserma per prendere le armi, ma gli ufficiali lo trattennero e quando fu nuovamente libero il Gruppo di alpini era già partito verso sud.

Pochi giorni dopo arrivò un gruppo di tedeschi che intimarono loro di lasciare le armi, li caricarono sui vagoni bestiame dei treni e li deportarono a migliaia in Germania, con lo stato di internati traditori della causa comune.

Ottroino venne mandato nell’ est della Germania in una località vicino a Lipsia presso una famiglia di agricoltori che aveva già dato tre figli alla Patria immolati per la grandezza della Germania e del terzo reich di Adolf Hitler.

Ottorino ritornò dalla prigionia, molto dimagrito per la fame patita e con un chiodo fisso nella mente : Perché gli Ufficiali italiani non furono in grado di gestire la situazione generata dall’ 8 settembre, permettendo così quel biblico esodo di migliaia di prigionieri verso la più umiliante delle detenzioni, privati della libertà e trattati alla stregua degli schiavi.

Nel corso della guerra, Ottorino ebbe come compagno d’ armi il signor Alessandri Adriano di Preghena, di almeno dieci anni più vecchio di lui, ma con una esperienza bellica eccezionale, basti considerare la sua partecipazione alle operazioni belliche del 1936 in A.O. che portarono alla nascita dell’ Impero Fascista e subito dopo la sua presenza nelle truppe alpine nella seconda guerra mondiale fino alla prigionia nei lager tedeschi dopo l’ 8 settembre 1943, aveva dato alla Patria 11 anni della propria gioventù.

 

Nel dopoguerra, ha fatto parte attiva dell’ Istituzione dei VV. FF. di Livo per anni prestando gratuitamente il suo tempo, il suo impegno e la sua professionalità. Ha patto parte del CDA della locale famiglia Cooperativa di Varollo reggendo per anni la presidenza.

E’ stato membro attivo del coro parrocchiale di Livo negli anni pre – conciliari fino all’ avvento di don Rosani Michele che ha sciolto tutte quelle forme di culto che a suo parere non erano in linea con i nuovi dettami della rinnovata chiesa post - conciliare, demolendo anche quei simboli di una fede magari tradizionalista ma vera, come il vecchio ed artistico cimitero che circondava la chiesa parrocchiale di Varollo con le sue lapidi e le sue croci in stile tirolese che erano un vero e proprio monumento dell’ arte funebre dei secoli scorsi.

Tutto doveva essere più giovane, più dinamico in linea con le nuove direttive del concilio, le ragazzine poterono indossare abiti maschili come i pantaloni, e la Chiesa divenne sempre più secolarizzata perché pur di mantenere il proprio odieans era disposta a prostituirsi ed ogni tipo di nuova richiesta liberale e si finì per ammettere e giustificare tutto, passando in poco tempo da una Istituzione ortodossa e radicale ad una chiesa liberale e forse troppo lassista.

Per analizzare a distanza di 50 anni gli effetti del Concilio Vaticano 2° sulla chiesa e sulla società civile, basta dare un occhiata al degrado morale e civile che ha portato questo pensiero che avrebbe dovuto essere un motivo di crescita morale e solidale per portare a tutti una fede a misura d’ uomo ed un benessere sociale ampio e condiviso. Mi pare che non sia proprio così…

 

 

 

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Ravina Camillo

( Camillo dal Lela no w )

 

 

Dopo la morte di mio padre, se c’ è stata una persona che ci ha voluto bene e ci ha aiutato senza se e senza ma, è stato il signor Ravina Camillo.

Dietro a questo suo atteggiamento nobile e filantropico nei nostri confronti, c’è una grande ragione di fondo che supera ogni umano ostacolo o preconcetto.

È la profonda e sincera amicizia che intercorreva tra mio padre e Camillo, si può affermare senza ombra di essere smentiti da quanti li conobbero, che erano due corpi ed un unica anima. Camillo era un uomo buono e generoso per sua natura, un grande lavoratore con uno spiccato senso per l’ imprenditorialità e le innovazioni, forse avrebbe avuto bisogno di qualcuno che gli pianificasse ed organizzasse il lavoro, forse anche a lui è mancata una donna che lo avesse accudito e gli avesse dato affetto, forse…

Camillo era agricoltore ma si era messo anche ad allevare maiali che teneva nelle varie stalle di casa compresa quella caratteristica casetta tutta in pietre a secco che si incontra sulla strada per Caslir, l’ ultima casa dell’ isola.

Camillo vendeva i maiali ad un prezzo molto onesto ed aveva come macellaio ufficiale mio padre che nelle lunghe sere invernali lavorava la carne dei suini macellati per farne delle ottime lucaniche, mortandele,, cotechine , salami, coppe e pancette che il buon Camillo stivava nelle cantine che profumavano di buon vino che in casa Ravina non mancava mai.

Allora gli uomini erano gran bevitori di vino che era allora la bevanda alcolica principale che esisteva tra gli agricoltori e operai e Camillo non faceva eccezione ne mistero che un buon bicchiere gli piacesse.

Quando morì mio padre, non ebbe il coraggio di venire in casa tanto era grande il suo dolore per la perdita di un amico. Continuò anche dopo la morte di mio padre ad aiutarci, noi non avevamo a quel tempo il trattore e lui con il suo sametto ci irrorava le piante per la lotta ai parassiti, veniva la sera a portarci a casa il fieno seccato nei prati e l’ autunno ci consegnava la frutta matura al magazzino.

Mai che ci avesse chiesto denaro, ci chiedeva invece di aiutarlo a portare a casa il fieno e a governare i maialini. Molte volte andavamo a chiamarlo in casa perché ci aveva promesso di venire ad irrorarci le piante di buon ora al fresco del mattino, ma normalmente lo trovavamo ancora a letto che dormiva come un ghiro, allora lo svegliavamo anche perché c’ erano i maialini in rivolta che pretendevano il pasto mattutino, allora era una rincorrersi di ordini, tra una bestemmia ed un atra, bisognava scaldare l’ acqua con il bruciatore a gas e preparare in un grosso bidone il mangime da sciogliere, appena miscelato con l’ acqua tiepida il brodo era pronto, allora lui scendeva nella stalla per aprire le valvole e ci urlava di aprire la grossa valvola del bidone in fretta “ perché se no i me magna “. Da Camillo più che una casa era uno zoo con animali di ogni tipo, gente che andava e veniva i futuri cognati che erano terribili negli scherzi e nel farlo arrabbiare, il più fedele era Enzo il futuro marito di Rosina sua sorella.

Erano altri tempi. Erano tempi in cui per divertirsi bastava poco un bicchiere di vino una lucanica mangiata in cantina dove a volte i bicchieri non erano sufficienti… allora niente paura si prendeva un grosso imbuto di tappava con una patata i becco e poi lo si riempiva di vino e si beveva a turno come gli indiani e intanto ci si narrava le avventure ed i dispetti fatti in giornata.

Allora la gente era tutta alla stessa altezza finanziaria e culturale, pochi erano quelli che si distinguevano per aver frequentato le scuole superiori e molto spesso però difettavano della necessaria esperienza per poter competere con simili personaggi che ne sapevano una più del diavolo, quindi restavano giocoforza vittima della loro stessa ingenuità basata esclusivamente sulla teoria ed assente nella pratica.

Nonostante gli scherzi, anche pesanti, però al momento del bisogno, quando uno qualsiasi della Comunità, ricco, povero, lavoratore o “ lover “ ne aveva evidente bisogno per via di qualche disgrazia o qualche disavventura economica, tutta la Comunità del paese, in misura proporzionata alle proprie possibilità, contribuiva subito ad alleviare il disagio del cittadino che ne aveva bisogno e questo avveniva senza che lo stesso dovesse chiedere o dovesse dare delle garanzie, il tutto si svolgeva nel più totale anonimato e con la più schietta armonia e naturalezza come se fosse un atto dovuto, una regola mai scritta ma sempre rispettata dai censiti del paese senza distinzioni di casato, di casta o di frazione. Basti pensare ai numerosi incendi che allora colpivano le abitazioni, ai pignoramenti giudiziari per insolvenza nei pagamenti, alle disgrazie naturali o agli incidenti sul lavoro allora molto numerosi.

A demolire tutto questo stato sociale basato sulla solidarietà immediata e gratuita, ci hanno pensato alcuni anni più tardi le banche con la filosofia del profitto del denaro prestato a chi ne aveva bisogno, creando così di fatto un sistema capitalistico legato mani e piedi al potere delle banche e del denaro suonante che esse erano in grado di concedere ai privati come alle società, a tassi anche molto elevati ed a condizioni di sicurezza e di avvallanti molto alte ed onerose, quasi vicine all’ usura.

Con la scomparsa di gente come Camillo, come mio padre e molti altri di quella generazione di gente saggia ed onesta a cui bastava la parola data come garanzia, di gente come il buon Camillo che quando ti doveva fare il conto per una prestazione fatta o un maiale venduto, scriveva sulla polvere del trattore il conto da fare ed appena ti aveva detto il totale cancellava con una mano le cifre scritte e ti obbligava a passare per la cantina a festeggiare con un bicchiere di vino ed assaggiare il salame fresco che pendeva allettante dalle “ late “.

Se fosse dover raccontare tutti li aneddoti visti e vissuti insieme a Camillo, non sarebbe sufficiente un libro come la Bibbia, tante sono le storielle ed i piccoli episodi ed aneddoti della sua vita.

Ne racconto, per chiudere, uno emblematico di come era schietto ed ironico Camillo, un giorno venne a scadergli la patente di guida del trattore, allora si rivolse al buon maresciallo Caracristi che molto ha aiutato queste genti.

C’è da fare il certificato di nascita… “ –l’ faga lù sior Maresciallo- “ - il certificato di residenza… “ - l’ faga lù sior Maresciallo - “

- Ma almeno la fotografia la farà ben lei signor Ravina ! “ replicò ridendo il maresciallo Caracristi.

Ad operazione conclusa, Camillo invitò il Maresciallo in cantina a bere un bicchiere ed assaggiare i suoi famosi salami. All’ ingresso della cantina, proprio sopra la porta, c’era una grossa trave in legno molto bassa appena , il Maresciallo che non conosceva il percorso, all’ ingresso si tolse il berretto e proseguì dando una capocciata della trave.

Camillo rise di gusto e poi rivolto al Milite gli disse:

- merda o no , varda ch l’ jera ancia ieri !!! “

Camillo era un uomo molto sensibile che amava molto gli animali, anche quelli che allevava e che sapeva essere poi destinati al macello, un maialino si era tanto affezionato a Camillo, che quando lo vedeva arrivare per dar loro da mangiare, saltavo fuori dallo “ stalot “ e gli correva appresso come un cagnolino. Il maiale crebbe ed anche per lui giunse la sua ora, allora Camillo non si fece trovare da nessuno fino a quando tutto non fosse finito e credo che vendette il suino senza farlo lavorare, e ridurre in lucaniche e pancette. Penso speso a Camillo anche perché ho tanti motivi per farlo, ma soprattutto di lui mi resta il ricordo di una persona molto onesta, una di quelle persone, come ce n’ erano tante ai miei tempi, e che ora mancano nella nostra società moderna ed evoluta , manca il loro coraggio nel rischiare per trovare nuove forme di sviluppo e di crescita, allora l’ agricoltura moderna era agli albori, bisognava tutelarsi da soli, bastava un epidemia e ti morivano tutti i maiali, tutti i trattamenti antiparassitari erano a base di rame e zolfo o DDT e derivati di quelle porcherie americane che tanto danno hanno fatto all’ eco sistema.

Manca il loro buon senso applicato come metodo di vita, nel sommare e nel dividere ed i risultati negativi di queste assenze li possiamo vedere e sperimentare quotidianamente.

Manca il loro stile di vita che privilegiava le cose semplici e concrete, che preferivano il denaro contante al virtuale di un assegno, che erano orgogliosi del lavoro fatto e del legittimo ricavo ottenuto, perché non era frutto di speculazioni bancarie virtuali giocate magari sulla pelle di povera gente inconsapevole, ma era il frutto del sudore della fronte, termine che ora sembra essere passato di moda…

Tutte quelle persone a qui ho fatto riferimento, non sono passate alla storia per le loro conquiste o per i loro averi che è cosa molto effimera, ma come il buon Camillo entrano di diritto nella storia della nostra Comunità per il loro esempio e la loro onestà.

Camillo era per dirlo con una parola che riassume tutte le virtù di un uomo scaltro ma buono : - un can da l’ Ostia ! - una ne faceva e cento ne pensava.

Voglio concludere questa sua biografia nel modo che sarebbe sicuramente piaciuto a lui, l’ ironia raccontando due episodi il cui ideatore , regista e protagonista era lui, Camillo.

Erano gli anni ’60, tempi di grandi mutamenti nel campo Ecclesiastico, era in corso il Concilio Vaticano 2° con tutti i suoi rinnovamenti e le sue innovazioni profonde nella celebrazione formale della liturgia, molto meno della concezione della fede da parte dei fedeli. Correva voce, sempre più insistente che la parrocchia di Livo venisse messa a capo di un decanato di parrocchie e che don Giuseppe Calliari fosse nominato Decano di queste parrocchie.

Appena la voce arrivò a quel furbastro di Camillo, quello trovò subito il modo di rendere pubblica questa notizia in modo solenne.

Don Giuseppe aveva un cagnolino barboncino che si chiamava Biri colore bianco panna, di quelli che se fossero cattivi quanto sono urloni meriterebbero di far parte della divisione Nibelungen.

Un giorno Biri mancò di casa per alcune ore e la Monica, la perpetua di don Calliari, una donna alta poco più di due spanne, si mise alla ricerca del Biri per le vie del borgo, il cane però sembrava sparito nel nulla, nessuno lo aveva visto o sentito.

La sera però Biri fece ritorno in canonica, tutto bollo e pettinato, tirato a nuovo e con un aria di aristocratica superiorità, si presentò alla porta della canonica abbaiando per farsi riconoscere…

Biri è stato il primo Decano ufficiale della parrocchia di Livo in quanto quando entrò dalla porta della canonica aveva la calotta e i calzini dipinti di rosso.

Don Giuseppe capì lo scherzo e non ebbe nessun dubbio sul clan degli autori ed il loro capo ed un giorno incontrò Camillo e chiese se avesse saputo qualche cosa sul fatto del cane dipinto di rosso. Camillo rispose di non saperne niente e poi aggiunse rivolto al futuro Decano. – sior Parroco, nol sospetterà mia de mi no ?-

Don Calliari che era un avvocato gli rispose: - no, no Camillo, non sospetto minimamente di te, perché sono sicuro che sei stato tu !!!

E finirono al bar di sopra a bere un bicchiere e riderci sopra. E poche persone al mondo riuscirebbero a mandare in un negozio di alimentari un baldo e colto giovanotto a comperare “ un chilo di ombra del campanile “…

 

 

 

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Emanuele Conter

 

 

Un altro di quei fiori nati storti, dove il genio di madre natura si è decisamente divertito a dare il peggio di se dal punto di vista dell’ estetica, della parola del movimento…

Ma proprio per questa ragione bisogna guardare questi fiori con occhi particolari, per cogliere tutti quelli aspetti positivi che sono presenti in ogni creatura e che a volte la gente comune non riesce a vedere e che forse solo gli artisti ed i poeti sanno cogliere.

Emanuele è figlio di Conter Vigilio e Gamper Serafina ambedue deceduti ma che ho avuto il piacere di conoscere entrambe. Emanuele può avere ora circa 70 anni, ma è rimasto come un bambino nel pensiero e nei movimenti, erano altri tempi quando si sono sposati Vigilio e Serafina, lei proveniente da uno dei tanti masi di Proveis ( Proves ) in Sud Tirolo da noi distante solamente una ventina di chilometri, erano tempi in cui non esistevano i controlli medici prenatali che ci sono oggi, non esisteva l’ ecografia le analisi del sangue , tutto era dato in affidamento a madre natura che si arrangiava a fare tutto, ma se ci pensiamo bene è così anche adesso tutto il potere che dice di avere la scienza umana si limita a controllare, a selezionare ed ad intervenire quando è possibile su un essere già formato, prima di suo non mette quasi niente eccetto i ceck up che fanno tutti.

Quando un figlio è indesiderato o rischia di nascere con gravi malformazioni, lo si ammazza prima e si risolve il problema alla radice, ma questa “ terapia “ la usavano anche i Greci ed i Cretesi ma solo se una figlia era una femmina indesiderata.

Non abbiamo fatto tanti progressi, anche ora nascono bambini handicappati , malformati, down, ecc. adesso sono solo più fortunati che vivono quasi tutti ed hanno delle adeguate strutture per farli crescere, tutto il resto è uguale a 100 o a 1000 anni fa.

Dagli stessi genitori di Emanuele nacquero altri due figli gravemente handicappati, Romano che no ho conosciuto ed Agostino che invece ho conosciuto molto bene e che è morto una decina di anni fa.

Emanuele ed Agostino erano dei tipi miti sempre assieme anche quando andavano a lavorare.

Emanuele è un tipo molto allegro ed ha buona memoria delle persone che ha conosciuto ad esempio a me chiede sempre se mi ricordo di mio padre quando dirigeva il coro del quale faceva parte anche suo papà Vigilio che tutti chiamavano Lilli.

Emanuele abita a Livo però la domenica veniva sempre giù a Varollo alla S. Messa ed ai Vespri e ci vedevamo di frequente, a volte era anche bersaglio di piccoli scherzi da parte dei ragazzi più grandi di quarta e quinta ma mai scherzi pesanti o di cattivo gusto.

Un giorno il mio maestro mi vide mentre ci scherzavo assieme e mi redarguì pesantemente il giorno dopo in classe davanti a tutti.

Non so se Emanuele abbia frequentato le scuole a Livo o se sia stato messo in un collegio adatto a quei casi, ora dopo la morte del fratello Adolfo che era un po’ il suo punto di riferimento ed il suo tutore , vive assieme alla cognata Silvana ed alle nipoti.

 

 

 

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IL SEME DELL’ ODIO

 

 

 

Per capire la storia che ora vado a narrare, e le conseguenti tragedie che ne è derivarono, bisogna fare una salto a ritroso nel tempo e ritornare a quando ero un ragazzo negli anni ’50 e ’60. Allora avevo un prato vicino al torrente Barnes, che veniva falciato tre volte all’ anno per fare del fieno per le mucche, era un bel posto vicino al torrente ed era attraversato da un piccolo ruscello che sgorgava da sotto un grosso masso vicino alla grande pianta di noce. Lì, si andava di buon mattino con il carro trainato dalle mucche, si portava tutto il necessario per l’ intera giornata, i viveri ed il vino, la polenta veniva preparata sul posto da mia nonna o da mia madre nella baita in legno che stava sotto un grande abete, era stata costruita da mio padre per ripararsi da eventuali temporali estivi che allora erano frequenti. Le mucche venivano staccate dal carro e legate con una lunga corda al vecchio noce vicino al ruscello, potevano così brucare l’ erba ed al bisogno anche bere da una pozza vicino al rivolo. Devo dire, che quando si andava a Pongèl, era sempre una festa per me, in quel luogo immerso nella natura, con tanta acqua intorno, il fascino del fuoco che ardeva, il pranzo all’aperto, la possibilità di giocare nel torrente e poi il fascino della pesca di frodo con mio padre che portava la lenza gli ami, i lombrichi si recuperavano sul posto, bastava scavare sotto un mucchio di terra delle Talpe e si trovavano dei grossi vermi per una bella esca. Si pescavano delle belle trote marmorate che poi mia nonna cucinava per pranzo, mentre il fieno seccava sotto il sole cocete di agosto e le mucche, beate, si riposavano all’ ombra del grande noce, scacciando con la coda i numerosi e parassiti tafani che le ronzavano attorno. Sembrava di stare nel paradiso terrestre tanta era la felicità e la sete di avventura che avevo in corpo, una sete sana e genuina, mai inquinata dalla fixion della televisione che allora non c’era, ma dalla fantasia assorbita dalle letture di tanti libri di avventura come Salgari, Twein, Hugo, ecc. Il grande prato di Pongel, confinava su due lati, con il prato di un mio compaesano che si chiamava Giuseppo Agosti , non eravamo parenti ma solo omonimi, il signor Giuseppe con il suo terreno, confinava a sua volta con un prato di un suo fratello che si chiamava Giovanni Battista Agosti pure lui, ma tutti in paese lo chiamavano Titta, entrambi erano sposati Giuseppe con Maria ed aveva tre figlie e due figli, Titta con Rosa ed aveva tre figli maschi.

Nella frazione di Scanna, abitavano in una grande casa, la prima che si trova a sinistra entrando in paese dalla strada comunale, divisa in due porzioni, nel lato ovest abitava Giuseppe nel lato est Titta.

Tra i due fratelli e le rispettive famiglie, non correva , come si dice, buon sangue, i rapporti erano tesi da anni di piccole beghe ed incomprensioni mai chiarite e che nessuno dei due aveva mai provato a sanare, non ho mai capito bene i veri motivi del loro astio, ma credo che a fomentare e tenere sempre viva la fiamma dell’ odio, ci pensavano le loro rispettive mogli sempre pronte a battibecchi, titoli di cortesia e , soprattutto, alla ricerca di testimoni occasionali che potessero perorare la loro causa davanti al Giudice del tribunale di Trento o della pretura di Cles, dei quali erano fedeli abbonati e sostenitori. Così, quando si andava nel prato vicino al torrente a falciare il fieno, era frequente la coincidenza che uno dei due fratelli o alle volte entrambi, scegliessero lo stesso periodo per lo sfalcio dei loro prati,così quando c’ èra uno solo , i discorsi si riducevano ad un lungo monologo della moglie che raccontava le vere o presunte angherie subite, in un dialogo a distanza tra un prato e l’ altro, che scemava quando la distanza dei lavoratori aumentava, per poi riprendere vita quando ci si avvicinava ai confini del prato, ma la musica non cambiava mai.

Quando , invece, il caso voleva che tutti e due i fratelli scegliessero lo stesso giorno per lo sfalcio del fieno in quella località, allora era una continua battaglia verbale tra le mogli, i figli ed i padri, spesso i motivi del contendere erano banali e puerili, bastava che la falce di uno dei due tagliasse una paglia oltre il confine, e subito il fronte si accendeva con insulti reciproci, spintoni e minacce l’ inevitabile tirata in campo di mio padre come testimone che doveva aver visto o sentito le offese, e qui, era evidente il gioco degli avvocati dei due contendenti, che mirava ad avere dei testimoni terzi che potevano far pendere la giustizia da una parte o da un'altra. Mio padre era un galantuomo non volle mai entrare nel merito del dirimere, e quello che mi resta impresso a tutt’ oggi come un gesto di grande responsabilità e di grande saggezza, fu il fatto che un giorno , tirato in causa da entrambe i contendenti, si avvicinò al confine del prato e disse loro che sarebbe stata buona cosa e da persone sagge se l’ avessero smessa con tutti quei litigi, che erano solo una rovina per le loro famiglie e per i loro portafogli.

Mio padre non venne ascoltato, e le liti proseguirono per anni con grande dispendio di denaro ma senza mai trovare un accordo che mettesse definitivamente fine a tutto il contendere. Una mattina ****************nel mio piccolo paese, ricordo , si respirò in tutte le sue forme, l’ aria di una tragedia avvenuta nella notte, ricordo infatti tanta gente che correva, dei capannelli di donne che commentavano, poi arrivò mio padre che ci disse di non muoverci di casa, che erano cose che noi piccoli non potevamo ne dovevamo vedere…

Mia nonna e mia madre si avvicinarono a mio padre che sussurrò loro questa frase “ – Si è impiccato il Titta dei Gianini – “ Il Titta, venne trovato impiccato il corpo che pendeva fuori dalla porta dell’ abitazione del fratello Giuseppe, forse un estremo atto di vendetta verso il suo congiunto, o forse, più probabilmente, il gesto di un uomo stanco dei continui litigi e di una vita passata nell’ odio con il fratello e con i nipoti, che erano diventati grandi e robusti, con le donne che quando ci si mettono trovano da ridire in ogni occasione e basta un soffio di vento che muova qualche cosa per trovare il pretesto per una nuova lite.

Erano gli anni precedenti il Concilio vaticano 2°, ed in materia di suicidio le norme ecclesiastiche vigenti erano rigidissime : nessun suicida doveva essere portato in chiesa per la cerimonia funebre cristiana, o poteva venir sepolto nel cimitero consacrato. In quel tempo, era parroco di Livo don Giuseppe Calliari, un prete saggio e giusto, che ascoltò anche il parere di mio padre che chiese che al Titta gli venisse concesso un funerale cristiano, soprattutto per i figli che erano allora molto giovani e non avrebbero capito quelle differenze con gli altri morti, don Giuseppe acconsentì ed il Titta ebbe il suo funerale cristiano ed ora riposa nel cimitero di Varollo.

Dalla tragica morte del Titta però nessuno dei contendenti ne trasse alcun insegnamento buono e le liti proseguirono ancora più intense e violente di prima, fino ad arrivare, come logica conclusione, ad una seconda tragedia.

 

Era il mattino presto del ********** , io ero ancora a letto e mi ero svegliato da poco, quando, dalla direzione dell’ abitazione dei cugini Agosti, udii dei colpi secchi, come se qualcuno accatastasse delle tavole di legno, l’ una sopra l’ altra, lasciandole cadere, cinque o sei colpi, sembravano dei colpi di arma da fuoco, ma poi esclusi per stretto ragionamento che fossero spari, non era tempo di caccia e poi qui non siamo mica a Napoli… e ripresi sonno.

Mia madre era andata in chiesa, come faceva ogni mattina, ad un certo punto della S. Messa un uomo venne in fretta dal celebrante il quale interruppe la funzione religiosa e si allontanò con lui in tutta fretta .

Al ritorno, mia madre mi svegliò e mi informò che il Poldino aveva sparato al cugino Beppino ed a sua moglie Paola.

Allora, come rivedendo il riavvolgersi veloce di una pellicola di un vecchio film, ho rivissuto tutte le liti viste a Pongel, il tentativo, storico, di quel galantuomo di mio padre di tentare una mediazione ed una riconciliazione tra i due fratelli eternamente in lotta, e più di tanto non mi sono meravigliato.

Era successo che il Beppino, figlio di Giusepppe e di Maria, un agricoltore una pezzo d’ uomo robusto e ben messo, mentre lavorava nei pressi della stalla a pulire le mucche dal letame, ebbe un diverbio con uno dei tre cugini figli del Titta, Federico, al quale sferrò un pugno e lo stese a terra. A poca distanza, ad osservare la scena c’ era il fratello di Federico, Leopoldo, il quale disse al cugino che aveva colpito il fratello . – “ Vedrai che te la insegno io…” poi , rientrato in casa ne uscì armato di una pistola calibro 7. 65 e sparò l’ intero caricatore addosso al cugino Giuseppe ed alla moglie di lui. Giuseppe cadde a terra colpito da tre o quattro proiettili che gli hanno trapassato il torace e l’ addome, senza però colpire degli organi vitali, la moglie tentò di scappare verso la strada provinciale ma venne raggiunta da un colpo che la ferì di striscio alla testa e cadde lungo la strada. A quel punto, Leopoldo, salì in macchina, una Mini minor e si dette alla macchia, cosa raccapricciante è che tentò di passare con una ruota sopra la testa del cugino che giaceva a terra ferito, il quello, però , ebbe la forza di spostare la testa dalla traiettoria delle ruote della mini.

Il mio piccolo paesino,sempre tranquillo, dove non succede mai niente, dove a tratti ci si annoiava, in quella giornata di primavera, si animò all’ improvviso di soccorritori, di ambulanze e di carabinieri e polizia come quando ci fu’ la rapina con due omicidi, molti anni prima, vennero subito trasportati all’ ospedale di Cles i due feriti, la donna apparve subito meno grave, solo un colpo di striscio ed un forte sock, l’ uomo apparve subito grave fin dal primo momento, perdeva molto sangue però non perse mai conoscenza, ed ai primi soccorritori ebbe la forza di raccontare dei dettagli, come quello delle ruote della macchina, e poi ed uno disse : - Ora vado con mia mamma…- “

Non fu’ così, Giuseppe era forte e giovane come un toro, venne sottoposto ad intervento chirurgico per tamponare le emorragie e togliere i proiettili rimasti in corpo, e dopo un mesetto di ospedale ritornò a casa guarito. Leopoldo, invece, dopo essere scappato con la sua Mini, riuscì a sfuggire ai numerosi posti di controllo istituiti dai carabinieri e dalla polizia e si diede alla macchia e come sempre succede in questi casi, tutti gli “ amici fedeli “ su cui credeva di poter contare, lo abbandonarono e rimase solo. Il buon maresciallo Bruno Caracristi, alla domanda di noi ragazzi se lo avessero preso, ci spiegò che questa non era una rapina ma si trattava di tentato omicidio e che se non si fosse costituito, sarebbe stato condannato in contumacia, senza la possibilità di difendersi e quando lo avrebbero preso avrebbe dovuto scontare tutta la pena inflitta.

Quando Giuseppe fu dichiarato fuori pericolo di vita, e che l’ accusa non era più di omicidio ma di tentato omicidio, Leopoldo si costituì ai carabinieri, che lo arrestarono dopo averlo trovato sporco, infreddolito e con la barba lunga, venne processato dal tribunale di Trento per duplice tentato omicidio e venne condannato alla pena detentiva di anni 10- dei quali, però, ne scontò forse la metà, fu poi scarcerato beneficiando di uno dei tanti indulti che lo stato dispose in quelli anni, lavorò poi come operaio edile e poi come panettiere.

Il cugino Beppino, si costruì una casa nuova molto lontano dalla vecchia abitazione, ha avuto tre figli ed ora ha 72 anni e lavora la sua azienda agricola.

Non credo, però, che tra i cugini sia stata fatta pace, ma che la distanza delle abitazioni non permetta più di fatto di trovare dei motivi per litigare di nuovo.

 

Di questa vicenda, conservo ancora la documentazione giornalistica dei quel tempo, con le fotografie dei protagonisti e la cronaca dei fatti.

 

 

 

***    ***

 

 

 

DELITTI DI PAESE

 

 

 

Non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male, qualche delitto , senza pretese, lo abbiamo anche noi in paese. “

 

Mi piace iniziare così questo mio racconto di cronaca e di storia che ho solo senti raccontare e che ho vissuto poi , conoscendo i vari personaggi attori del fatto.

Era l’ anno 1953, il giorno ******** quando a tarda sera il signor Maninfior Giovanni, detto “ cesta “, si apprestava a chiudere il suo locale pubblico, un bar con annesso piccolo negozio di alimentari, sito in Scanna, al numero civico *** , proprio davanti alla strada provinciale che porta a Rumo e Bresimo.

Allora non era una strada asfaltata, ma era una mulattiera sterrata, il traffico di automobili a quel tempo era quasi assente,erano più i carri trainati da buoi o da cavalli che la percorrevano, che i mezzi motorizzati, fata eccezione per il normale servizio di autobus di linea allora affidato ad una società privata che si chiamava Vender Livio. L’ ingresso principale del bar e del negozio erano rivolti a nord – est ed erano quasi totalmente nascosti alla vista per la mancanza di abitazioni adiacenti, a quel tempo le strade non disponevano di luci elettriche come ora, quindi il piazzale del bar era quasi buio, illuminato solo dalle luci che provenivano dal suo interno e forse da una piccola luce esterna. Saranno state le ore 22 di sera, più o meno, quando due persone si introducevano di soppiatto nei locali del bar, con un fazzoletto sul volto ed armate di coltello e di martelli con il chiaro intento di rapinare il proprietario del locale, il signor Maninfior Giovanni, che a detta dei due doveva essere un ricco commerciante. Qualche cosa però ad un certo punto dovette andare storta, perché i due ladri furono scoperti dal proprietario, che tentò di opporre resistenza e chiamò aiuto, probabilmente, presi dal panico i due reagirono colpendo con estrema violenza il signor Giovanni con un martello alla testa fino a renderlo in fin di vita. Le grida della violenta colluttazione, vennero udite dalla moglie di Giovanni che si trovava nell’ appartamento dell’ abitazione situato al piano superiore ed al quale si accedeva mediante una scala interna in pietra con la porta di ingresso situata alla sommità della scala stessa.

La moglie di Giovanni che si chiamava Diomira, apri la porta e vide i due ladri che si apprestavano a fuggire, ad uno era caduto il fazzoletto dal viso e la donna lo riconobbe e lo chiamò per nome , si chiamava Emilio, questo , vistosi scoperto, si lanciò sulle scale per colpire la donna, che fece giusto in tempo a ritirarsi ed a chiudere a chiave la porta dell’ appartamento, poi si precipitò sulla finestra che guardava verso il centro abitato e chiamò a gran voce aiuto, aiuto !!!

Nella casa di fronte, abitava Emanuele Agosti, un cacciatore, il quale d’ istinto imbraccio il fucile lo cariò e si diresse verso l’ abitazione del Maninfior con l’ intento di fermare i due ladri, che però nel frattempo erano riusciti a scappare per la ripida stradina che portava ai prati ed ai campi di grano della collina di Barbonzana. Abbiamo lasciato il signor Giovanni agonizzante nel suo locale, perseguire i due fuggitivi che si erano dati alla macchia, i due erano riusciti a rubare solo pochi spiccioli di denaro, in quanto il grosso del valore il signor Maninfior lo teneva ben nascosto in un posto che solo lui sapeva, i due, arrivati in cima ad un sentiero tra i campi, che ora non esiste più, si fermarono un attimo per capire se fossero inseguiti da qualcuno, accertatisi di essere soli, il complice di Emilio lo invitò a scavare un buco nel terreno ed a nascondere il denaro rubato, Emilioi iniziò a scavare con le mani un buco nel campo di grano e mentre scavava il complice estrasse un lungo coltello e colpì Emilio con una sola e mortale coltellata che gli trafisse il cuore e gli provocò la morte immediata.

Da qui in avanti, il racconto si fa meno logico, meno preciso più torbido, per il fatto che secondo gli inquirenti che istruirono il successivo processo, il complice di Emilio dopo averlo ucciso, se lo sarebbe caricato in spalla e lo trasportò nel bosco di Sommargine, che dista parecchie centinaia di metri dal luogo della morte di Emilio, ma soprattutto venne portato in un luogo impervio alla base di una roccia alla quale si arriva da un sentiero impervio.

La domanda che tutti si posero e che non ha avuto e non avrà mai risposta, era quella di come avesse fatto da solo il complice a portare in spalla un peso morto di un uomo che era di robusta costituzione fisica…

Ma torniamo al paesino, che nel frattempo si era animato di gente che prestava soccorso al povero Giovanni gravemente ferito e si chiedeva chi fossero i due delinquenti che avevano commesso un simile efferato delitto. Una donna che si chiamava Rodegher Giuseppina affermò di aver visto scappare tre uomini, tre sagome nella notte, non so se questa affermazione venne inserita nelle prove a carico dei colpevoli durante il processo o se sia stata una voce che era circolata in quei giorni, ma il dubbio rimase sempre ed a tutt’ oggi non è mai stato chiarito.

Nella notte il povero Giovanni morì senza mai aver ripreso conoscenza per le gravi ferite riportate nella tragica colluttazione seguita alla rapina , e le indagini per rapina ed omicidio vennero condotte da un Tenente dei carabinieri della stazione di Cles. All’ inizio , si brancolava nel buio più totale, l’ unico indizio sicuro era che la signora Diomira aveva riconosciuto Emilio come uno dei componenti la banda, che però ora sembrava essersi volatilizzato nel nulla, nessuno lo aveva più visto o incontrato da quella tragica sera.

Il tenente dei carabinieri decise allora di sentire i parenti di Emilio per riuscire a dirimere la matassa e dare una spiegazione logica alla sua scomparsa.

Ascoltò tutti i parenti che non seppero dare delle informazioni utili, poi ascoltò il fratello minore, Rolando, il quale riferì al tenente che durante il pomeriggio precedente la rapina, una persona era stata a cercare suo fratello Emilio e non avendolo trovato, lasciò detto a Rolando di riferire che si sarebbero trovati quella sera al bar e che lui sapeva già il motivo.

Apparve allora chiara l’ identità del complice, ma non altrettanto chiare le sue responsabilità, perché di Emilio si era persa ogni traccia, nessuno lo aveva più visto o incontrato, si istituirono allora delle squadre di volontari con a capo un carabiniere armato per cercare di trovare Emilio, era però palpabile l’ ipotesi che il complice lo avesse ucciso in quanto era stato riconosciuto dalla moglie dell’ oste. Mi fu raccontato che in paese si era creata una vera e propria psicosi del fuggitivo e si pensava che potesse essere nascosto nelle tante soffitte e sottotetti allora adibiti a fienile completamente aperti per dare aria al foraggio, tutti avevano paura di ritrovarselo in casa magari armato e la paura collettiva dava sfogo alle più disparate ipotesi e fantasticherie.

Un lontano colpo di fucile, mise fine per sempre a tutte le paure ed i fantasmi della gente, tre colpi di fucile erano il segnale convenzionale che Emilio era stato trovato, non si era mosso di un millimetro dal posto dover lo aveva deposto il suo assassino, era lì appoggiato alla roccia che dormiva il sonno eterno…

Apparve allora chiara la responsabilità del suo complice, che nel frattempo aveva pensato bene di tentare di costruirsi degli alibi credibili, ma in realtà commise tanti di quelli errori che non fu difficile poi metterlo di fronte alle sue responsabilità. La sera stessa del delitto, si presentò dai suoi parenti ed amici per salutarli dicendo che il giorno successivo sarebbe emigrato in Svizzera per lavoro, poi si nascose nel piccolo appartamento di una sua zia invalida e zoppicante che si chiamava Maria e lì, lo venne a prendere il tenente dei carabinieri di Cles, alla richiesta di seguire i militari, Livio Rodegher, chiese se si trattasse per caso di una vecchia multa mai pagata per infrazione al codice della strada, la risposta del tenente fu un calcio in culo e l’ accusa di duplice omicidio.

Il Rodegher fo portato ammanettato dai carabinieri fino al luogo dove era stato ritrovato Emilio, gli fu chiesto se lo conoscesse, rispose di si, poi gli venne chiesto se fosse stato lui ad ucciderlo e lui nego, ne seguì un altro calcio in culo. Nel frattempo furono ritrovati il martello che era servito per uccidere il povero Giovanni ed il coltello servito per assassinare il suo complice, e proprio dalla proprietà del martello vene una delle prove schiaccianti contro il Rodegher, che aveva lavorato come dipendente presso una piccola ditta di imballaggi in legno il cui titolare si chiamava Zanotelli Augusto, era un uomo meticoloso r preciso e conosceva alla perfezione tutti i suoi attrezzi da lavoro, in una prova irripetibile dove fu chiamato a riconoscere il suo martello tra decine di attrezzi simili, senza esitazione riconobbe come suo il martello che aveva prestato al Rodegher e che era poi servito per l’ omicidio del povero Giovanni Maninfior.

Bello sarebbe ora poter rivedere tutti gli atti ed i documenti del processo che venne istruito presso il tribunale di Trento per capire quale fu la difesa del Rodegher, se anche al processo avesse sostenuto la tesi che assieme ad Emilio ci fosse stata una seconda persona che poi lo avrebbe aiutato ad occultare il cadavere, se fosse vero che dall’ autopsia sul corpo di Emilio, fesse risultata l’ assunzione di droghe come sostenne qualcuno, allora io ero poco più che un neonato, ed mio ricordo personale si limita al signor Giovanni che mi dava sempre un cioccolatino o una caramella quando mio padre mi portava con lui al bar per prendersi i tabacco per la pipa.

Altro piccolo aneddoto che ricordo mi raccontava mio padre a proposito delle indagini, quando venne emesso il mandato di arresto per il latitante Rodegher Livio, un carabiniere si presentò da un mio zio , omonimo nel nome e nel cognome al ricercato e lo condusse con le mani in alto presso il posto di polizia, per sentirsi poi rimproverare dal tenente per aver sbagliato persona. Mio zio, per nulla impaurito forte delle esperienze della guerra di Russia e poi della prigionia in Germania, ricevute le scuse del tenente se ne tornò a casa, a conferma se ce ne fosse stato bisogno, che i carabinieri la propria barzelletta la mettono ovunque.

Il denaro del Giovanni Maninfior, tanto cercato dai due delinquenti, venne poi ritrovato, casualmente, mentre si facevano le pulizie dopo il fatto criminoso, fa Dario Agosti che era un mio lontano parente, cugino di mio padre, un uomo che viveva di piccoli lavori, andava a raccogliere funghi e poi li vendeva, uno spirito libero ed indipendente, che venne chiamato dalla signora Diomira a ripulire la casa. Il denaro era nascosto nel doppio fondo di una botte del vino in cantina, e, a quanto mi fu detto, ammontava ad una bella cifra.

Livio Rodegher venne riconosciuto dal Tribunale penale di Trento, colpevole di due omicidi e venne condannato alla pena detentiva di due ergastoli, scontò la pena nelle carceri di Alessandria, Porto Azzurro e poi alla fine a Trento, dove frequentò l’ università e si laureò presso la facoltà di sociologia.

Ricordo che veniva portato a lezione dagli agenti di polizia e la cosa suscitò non poche polemiche in quelli anni, poi, con il perdono ottenuto dalla vedova di Maninfior Giovanni, anche mediante l’ intervento diretto dell’ allora parroco di Livo don Flavio Menapace, ha potuto beneficiare di un indulto e venne scarcerato, tornò in paese per poco tempo, poi si sposò con una donna veneta ed andò ad abitare nel paese di lei.

Un ultimo aneddoto me lo raccontò l’ allora parroco don Menapace, un giorno il Rodegher si recò in un bar del paese, trovò alcune persone che lo conoscevano da prima del delitto ed una di queste gli chiese : - Ades che i te ha molà , dime mo come la e stada ?-

Adesso che sei libero, raccontaci come andarono le cose . Non credo che ebbero risposta.

Un ultima considerazione che mi preme fare, alla fine di questo racconto, è che noi siamo soliti identificare le grandi metropoli come impero assoluto della malavita e dei crimini, ma se osserviamo il nostro paesino, in modo particolare la piccola frazione di Scanna, dove io abito, si può notare che il tasso di criminalità in proporzione al numero di abitanti, supera in percentuale di gran lunga quello delle grandi metropoli, con buona pace della canzone di De Andrè.

 

 

 

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le ao

 

 

( le api )

 

E’ quasi un ricordo ancestrale, come un sogno lontano. Che però, per la sua drammaticità, è uno dei ricordi della prima infanzia che ancora oggi rammento con precisione e dovizia di particolari.

A rinverdire questo ricordo, ogni tanto, ci pensa mia zia Ada che è stata per me come una seconda mamma, essendo all’ epoca una ragazza molto giovane che abitava in casa, essendo ancora da sposare. Avevo all’ incirca tre anni e mia nonna mi portava sempre con se nell’ orto che era adiacente al pollaio ad alle arnie delle api che erano di proprietà di mio zio Niki, che però era ripartito per l’ America dove lo attendeva il suo lavoro, e le aveva lasciate in consegna a mio padre.

Mentre mia nonna lavorava nell’ orto, io potevo scorazzare libero nei prati vicini e nel vicino pollaio dove erano appoggiate al muro le arnie delle api.

Quello che ricordo con fredda lucidità di tutta questa tragicomica vicenda, è che ad un cero punto ho preso un bastoncino dalla vicina legnaia, era un pezzo di nocciolo tagliato con l’ accetta a fetta di salame, e con questo pezzetto di legno mi sono avvicinato alle arnie delle api, frugando nella fessura di una della arnie….

Apriti o cielo ! Le api scocciate da questa imprevista intrusione, dettero subito l’ allarme alle api guerriere che erano a difesa dell’ alveare, le quali si precipitarono con i pungiglioni come una baionetta, sul malcapitato invasore.

Quello che seguì dopo, me lo raccontarono più avanti,

io ricordo solo che tutti mi prendevano a schiaffi ed infine mi venne rovesciato addosso un secchio di acqua per allontanare le api.

Mi avvolsero in una coperta e mi portarono dal medico condotto del paese che si chiamava dottor Giovanni Battista Tenaglia, il quale mi visitò e poi disse a mio padre che non esistevano degli antidoti alle punture delle api, che se avevo fortuna sarei guarito da solo, se no sarei morto… Sembravo un mostriciattolo, tutto gonfio per le punture e pieno di lividi per gli schiaffi ricevuti quando tentavano di allontanare le api dal mio corpo. Non era la mia ora, non sono morto a causa delle punture delle api, dopo alcuni giorni di convalescenza, mi sono ripreso ed ho continuato i miei giochi di bambino nell’ orto e nei prati circostanti, restando a debita distanza dagli alveari delle api.

In compenso, dopo aver ricevuto una dose così abbondante di punture, il mio organismo ha sviluppato una resistenza massiccia a quel tipo di veleno, tant’ è vero, che a tutt’ oggi,anche se vengo punto da più api o vespe, non sento alcun disturbo, ne mi si gonfia la parte lesa, probabilmente l’ organismo di è abituato a quelle tossine.

C’è da dire, inoltre, che il mondo delle api mi ha sempre affascinato e anche ora , che sono adulto, mi piace osservare quel mondo fatto di ordine, disciplina e tanto , tanto lavoro, ho preso molto del comportamento delle api, la semplicità, la meticolosità, il senso del dovere e della disciplina, che si è concretizzato poi con l’ esperienza della vita in convento, con i frati francescani i Campolomaso, forse, tutto questo, mi è stato trasmesso dalle benedette punture delle api.

 

 

 

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I burattini

 

 

Erano alcuni giorni che i compagni più grandi, mormoravano la notizia, sarebbe venuta alla nostra scuola una compagnia di burattinai, non ricordo da dove, non sapevo neppure che cosa fossero i burattini.

Arrivato il grande giorno, ricordo che per la prima ora di lezione il maestro ci fece fare ginnastica nel cortile della scuola, per dare il tempo alla compagnia dei burattini di preparare lo spettacolo.

Quando rientrammo in classe, c’ era il teatrino dei burattini, a guardarlo così, di prima battuta, sembrava il teatro del dopolavoro in miniatura, con le tende rosse, il palco, gli arazzi e gli stucchi.

Cominciò lo spettacolo, con tutti questi personaggi che entravano, si inchinavano, si muovevano e parlavano, e narravano una storia fantastica ed affascinante di battaglie, di condottieri, di dame e di eroi, e noi lì, tutti a bocca aperta, in silenzio, con mille interrogativi nel cuore, a guardare quello spettacolo e poi se ne è parlato a lungo e lo si è imitato con l’ ingegno e la fantasia dei fanciulli, ed ancora adesso, a distanza di più di 50 anni, lo spettacolo dei burattini mi affascina e mi commuove ancora, ed ho trovato su facebook una compagnia di burattinai che si chiama La piccola compagnia dei burattini, ed ha sede a Manduria nel Salento, in provincia di Taranto.

 

 

 

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Le lezioni all’ aperto

 

 

Un altro bel ricordo che ho del mio periodo scolastico alle scuole di Varollo, sono le “ lezioni all’ aperto “, così venivano definite le ore che passavamo con il maestro Fauri, nei boschi della zona, a volte si andava verso il torrente Barnes verso i molini dalla parte di Cis, a volte, invece, si andava vero il bosco si Somargen e quindi verso il torrente Pescara, erano delle vere e proprie scampagnate didattiche, ci si divertiva e si riusciva a coniugare egregiamente l’ utile con il dilettevole, con delle ore di lezione di storia naturale , geografia fatta osservando il posto dove ci trovavamo, la flora e la fauna. So che a Rumo questo modo di apprendimento è ancora in uso, per merito degli insegnanti locali, sono convinto che sia un modo di insegnamento e di apprendimento eccezionali, in quanto si da il modo di toccare con mano, in modo pratico, quello che si è appreso in classe in modo teorico, magari supportati da delle foto o disegni, ma sempre teorico. In questi frangenti, non mancavano gli scherzi, che tutti accettavano di buon grado, come i gavettoni con l’ acqua, le lucertole nelle tasche delle bambine, o i tagli di temperino nel bastone improvvisato del maestro, al fine di farlo cadere quando si fosse appoggiato di peso. Felicità allo stato puro, tutto questo, ancora oggi lo ricordo con infinita nostalgia…, ed appena posso, ora che sono libero perché pensionato, torno a ripercorrere quelle stradine, quei sentieri, apparentemente da solo, ma con il vociare allegro dei miei compagni di classe.

 

 

 

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I miei compagni di classe

 

Voglio ricordare, ed uno, ad uno, i miei compagni di classe, così come erano allora, con il loro pregi i loro difetti e con la differente simpatia che avevo nei confronti di ognuno di loro. Da bambini, secondo me, si riesce a guardare le cose come sono, con innocenza, senza quei condizionamenti, preconcetti e pregiudizi, a volte pesanti, che nell’ età adulta finiscono sempre, in qualche modo, per guastare quei rapporti schietti e sinceri che si erano intrecciati da giovani.

Inizio con le femminucce, per cavalleria e per il sincero e profondo rispetto che ho sempre avuto per le loro.

 

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Depetris Alessandrina,

 

 

Era mia coetanea, la chiamavamo, più semplicemente Sandrina, era figlia unica di Romano e Zanotelli Bruna, era la mia amica preferita, dolce buona e generosa. Ha avuto una vita tormentata e difficile, rimasta orfana della madre ,giovanissima, ha vissuto con il padre e la zia Rina, rimasta poi priva anche del padre, ad età già matura, ha sposato un uomo di Taio di nome Chini Paolo, dopo una decina di anni si è ammalata di cancro al seno ed è morta nel ****.

Sono venuto a conoscenza da pochi giorni di un gravissimo episodio cha ha riguardato questa mia amica quando era ancora una ragazzina.

Sandrina ha subito violenza sessuale da u parte di un uomo che si chiamava X Y a quel tempo era un giovanotto, uno dei tanti “ bulli “ del paese. Sandrina confidò solo alla madre il fatto ed una sua cuginetta lo capì ascoltando il dialogo che intercorreva tra lei e sua madre e me lo ha rivelato a distanza di molti anni.

Questo spiega la grande apatia e distacco che Sandrina mostrava nei confronti degli uomini e questo spiega anche il motivo del fallimento del mio approccio nei suoi confronti. E rimasta comunque l’ amica più care e sincera tra tutte le mie coetanee, mi voleva bene come a un fratello…

 

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Aliprandini Renata

 

 

 

Mia coetanea, è figlia di Antonio e Bordati Zita, una bella ragazzina mora, dai lineamenti inconfondibili dei popoli della Russia, il nonno paterno era di origine Russa. Grande amica anche lei, si è sposata molto giovane con Giorgio Corradini un dipendente Enel, con il quale ha avuto due figlie femmine, grande appassionato di montagna, perito poi, in modo tragico, sull’ Ymalaya in Nepal, durante un escursione.

Si è poi risposata con un uomo di Malè che si chiama Costanzi Carlo, veterinario provinciale e ora vive a Malè.

 

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Agosti Gina

 

 

 

Era di un anno più vecchia di me, figlia di Camillo e Zanotelli Romilda, era una ragazzina pepe e sale, dal carattere ribelle e provocatorio, non si contano le liti con il maestro e le ore che passava in ginocchio dietro la lavagna. Aveva uno spiccato senso del diritto e lo dimostrava con il suo atteggiamento e le sue ribellioni. Con lei, ci siamo persi di vista dopo la fine della scuola.

 

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Zanotelli Carmen

 

 

Era un ragazzina , più giovane di me di un anno, figlia di Giovanni e Zanotelli Sabina, era una bella bambina dai capelli neri boccolati, era anche mia vicina di casa, abitava nella casa dei “ TRIPOI “ dove vive, maestoso un secolare gelso. Dolce e gentile, un giorno cadde, forse spinta, nella fontana delle scuole e ne uscì fradicia di acqua fredda, il maestro la mandò, di corsa, a casa dalla mamma che la cambiò con dei panni asciutti. Il maestro, poi ci spiegò, che l’ aveva fatta correre perché non prendesse freddo. Ha sposato un commerciante di Rumo che si chiama Martinelli Ivo.

 

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Antonioni Piera

 

 

 

Noi la chiamavamo Pierina, era figlia del falegname del paese, Pietro e di Agosti Silvia, era una ragazzina molto vivace e molto spiritosa, si era fatta subito un fidanzato, che non ricordo di dove era, non era un ragazzo locale, rimase incinta dopo poco tempo, ed ebbe subito dopo un aborto spontaneo. Ricordo questo episodio, perché mio padre era il padrino di battesimo di Pierina. Dopo la scuola, non l’ ho più rivista.

 

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Zanotelli Emma e Silvana

 

 

Erano due sorelle, la prima di un anno più vecchia di me, la seconda un anno più giovane, figli di Giuseppe e di Ilda Agosti, le ricordo perché il loro padre, che aveva una famiglia numerosa, morì in un incidente nei boschi nel 1964. Ragazzine buone, umili e semplici.

 

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Conter Luciana

 

 

 

Era la figlia di Carletta Filippi, che era venuta ad abitare nell’ appartamento di fronte al mio, dopo la morte del marito, che si chiamava Conter Ernesto ed abitava in località Toflini vicino al torrente Barnes.

Era di un anno più grande di me, era una bella ragazza, ben formata dai seni molto voluminosi.

Con lei, ho giocato tanto nei pressi della nostra abitazione e sulla soffitta. E’ partita per il Canada, alla fine degli anni 60 e non è più tornata in Italia.

 

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Conter Luisa

 

 

 

Figlia di Danilo e di Agosti Luigina, mia coetanea, era una ragazzina dolce e determinata, di famiglia povera e numerosa. Il padre era molto impegnato nel sociale e nel cooperativismo. Ha sposato un carabiniere ed ora vive Calliano vicino a Rovereto.

 

 

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Zanotelli Tullia

 

 

Più giovane di me, era figlia di Pio e Zanotelli Silvia,

abitava a in una casa vicino alla fontana di Scanna. Ha sposato un uomo di Bresimo ch si chiama Fauri Luciano.

 

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Aliprandini Dolores

 

 

 

Era sorella della mia coetanea Renata, di un anno più giovane di noi. Come tutte le sei sorelle Aliprandini, era anche lei una bella ragazzina, dai lineamenti della gente dell’ est Europa, dolce e tranquilla. Ora è vedova, il marito si chiamava Elio Kershbaumer ed abita a Mezzacorona.

 

 

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Agosti Rita

 

 

 

Era la sorella di Gina, di un anno o due più grande, l’ ho conosciuta solo di riflesso perché era due classi più avanti di me. Ragazza dolce, simpatica, ha scelto il lavoro di infermiera, ora è in pensione.

 

C’ erano, poi, molte altre ragazzine e ragazzini , molto più giovani o molto più grandi di me, che ricordo anche per nome, ma che, vista la notevole differenza di età, non facevano parte della cerchia di amiche ed amici con i quali ero solito socializzare.

C’ erano anche i ragazzi di Livo, che frequentavano la scuola elementare della frazione di sopra, conoscevo tutti abbastanza bene, perché, si partecipava alle cerimonie e funzioni religiose, tutti assieme, ma poi si frequentavano delle scuole situate in posti diversi, ed ognuno aveva i propri maestri e maestre, quasi tutti provenienti dal limitrofo paesino montano di Bresimo.

 

Dei maschi ricordo un po’ tutti, in modo particolare alcuni con i quali ho condiviso la grande avventura della giovinezza, in tutti i suoi aspetti, i più belli e dolci ed i più barbari.

Ora , cerco di ricordarli, uno per uno, con eguale stima ed identico spirito di cameratismo, poi , descriverò, più ampiamente quelli che hanno fatto la storia di quelli anni assieme a me.

Carotta Gino, Agosti Rodolfo, Agosti Gianantonio, Rodegher Gianfranco, Zanotelli Elio, Filippi Ugo, Filippi Ivo, Conter Diego, Conter Alfio, Rodegher Sandro, Zanotelli Ferruccio, Zanotelli Luciano, Rodegher Bruno, Conter Aldo, Carotta Bruno, Zanotelli Adelio, Zanotelli Aldo, Zanotelli Onorio, Agosti Vito, Zanoini Piergiorgio.

 

 

 

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Dolfo

 

 

 

Si chiama Rodolfo Agosti, è sicuramente, assieme a Gino Carotta, il compagno di scuola, di classe e di vita più caro e sincero che io abbia mai avuto e conosciuto.

Suo padre si chiamava Emanuele, ma tutti lo chiamavano Lelli, sua madre sei chiamava Lidia Depetris ed era sorella del Romano dei “ Orsi “ , padre di Sandrina. E’ fratello di Gianantonio, ma non c’ è tra loro nessuna affinità, ne di carattere, ne di comportamento, ne di pensiero, per usare un termine che da noi definisce bene simili situazioni di mancata affinità, si dice che “ non assomiglia neppure nell’ urinare “ Dolfo era, ed è tutt’ ora un ragazzo leale, con tutti, generoso ed altruista fino all’ osso, se promette qualche cosa, mantiene la parola data. A scuola era sveglio ed attento, aveva , però, un grande senso della libertà e dell’ avventura, per questo andavamo d’ accordo, allora come ora. Aveva una fantasia creativa , che ho trovato in poche persone che ho conosciuto, era sempre pronto a dare una spiegazione ed una giustificazione a tutto quello che capitava, nel bene e nel male. Aveva , ed ha un atteggiamento di assoluta lealtà nelle azioni e nel pensiero, era capace di prendere la tua difesa in ogni momento, quando vedeva che eri dalla parte del giusto, senza se e senza ma, potrei narrare decine di episodi , in tal senso.

La sua vita, non poteva che essere una continua avventura, fatta di episodi , di aneddoti veri, che poi lui raccontava… Raccontare, ecco il grande talento di Dolfo, mezza Italia lo conosce, e lo conosce ed apprezza per il suo modo brioso ed ironico di raccontare la vita, un fiume in piena di barzellette ed aneddoti, anche piccanti, ma raccontati senza mai cadere nella volgarità. Ci vorrebbe una bibbia, e forse non sarebbe neppure abbastanza, per raccontare la sua avventura, perché , per lui , la vita è stata una grande avventura, vissuta su un grande palcoscenico, a tratti felice, ed a tratti dolorosa, ma vissuta sempre con grande dignità.

Dolfo, è un uomo conosciuto, stimato ed apprezzato per il suo innato senso dell’ umorismo, della battuta facile, a lui basta vedere una persona una volta, per saperne imitare alla perfezione la voce, i movimenti, la postura, un istrione innato, un menestrello dei giorni nostri, un cantastorie che ti fa rimanere a bocca aperta ad ascoltare… La vita per lui non sempre è stata generosa e facile, dopo essersi felicemente sposato con una nostra coetanea, Francesca, ed avere avuto da lei tre figli, il destino gli si è girato contro e gli ha rubato la donna che amava. Non si è più risposato, ma ha dedicato il suo tempo e le sue energie ai suoi figli. Ora, come dice lui, è un nonno felice, intendiamoci, da grande amatore delle donne, non è mai rimasto senza, ma questo è il vero sapore della vita.

A riprova di quanto sia fatua la felicità e quanto sia labile il confine tra la vita e la morte, devo purtroppo aggiungere a questa nota biografica, un evento drammatico che ha sconvolto la vita di Rodolfo, in un incidente stradale è scomparso l’ unico suo figlio maschio Tiziano.

Duro colpo per Dolfo.

 

 

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Gino

 

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Per descrivere, in senso bonario, Gino Carotta, figlio di Cornelio e di Decaminada Albina, si può , tranquillamene, usare l’ aggettivo di cui si serviva il nostro maestro, per definirlo : pacioccone.

Era un ragazzo che era quasi il doppio di noi di corporatura, ben messo, con una faccia tonda, sempre incline al sorriso, che sembrava un sole pieno d’ estate, di quelli che ci facevano disegnare o si trovavano sui libri di testo. Era più timido di noi, e perciò era un pò la nostra spalla per tutte le marachelle ed i dispetti che si architettavano nell’ arco di una giornata.

Era un ragazzino molto buono, disponibile e generoso, certe volte, di una ingenuità disarmanti. Nella classe,sedeva nei banchi in fondo, e quando passavo vicino ai nostri banchi per andare al cestino o a fare la punta alla matita, gli preparavamo un disegno satirico e quando passava davanti al nostro banco, lo esponevamo affinché lo vedesse bene, Gino ritornava al suo banco e , dopo un attimo, scoppiava a ridere in modo molto rumoroso e incontenibile, il maestro gli andava appresso ma lui non gli sapeva dare spiegazione ed allora lo metteva in ginocchio dietro la lavagna. Un cinema, tutti i giorni un cinema…

Gino, era un ragazzo molto robusto e molto forte, perciò, quando c’ era da fare qualche cosa che richiedesse forza e potenza fisica, c’ era Gino che si prestava a tutto. Naturalmente, era grande amico di Dolfo e mio, nonché di altri, eravamo, allora, molto ingegnosi, come più volto ho riferito, e Gino era anche molto attrezzato perché aveva il padre muratore e poteva disporre di molti attrezzi da lavoro.

Nonostante i molti pareri negativi che ebbe dalla scuola, riuscì ad essere un buon muratore, si fece una piccola impresa edile , che e lavorò da muratore fino alla meritata pensione. Ora è divorziato dalla moglie e non gode di buona salute, vive in un altro paesino della valle, non si fa vedere tanto facilmente.

 

 

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Gianfranco

 

 

Era un mio primo cugino, figlio di una sorella di mio padre che si chiamava Lina Agosti e di Livio. Anche lui, come me, era nato con un difetto fisico, aveva un piede malformato e camminava leggermente zoppo.

Era stato adottato, in tenera età. Da un'altra mia zia che si chiamava Rosy ed era sposata con un uomo che si chiamava Basilio Agosti, che non avevano figli propri e la sua famiglia, perciò, divenne quella. Con Dolfo e Gino, eravamo un trio inseparabile, nel bene e nel male, amici per la pelle con una fedeltà indissolubile

Con lui ho trascorso tanti giorni della mia infanzia, era di un anno più grande di me, era un ragazzo molto ingegnoso e dalla spiccata fantasia creativa, assieme a lui, abbiamo realizzato tanti strumenti da lavoro, tanti giocattoli fatti con materiale riciclato dalle discariche che allora erano a cielo aperto ed accessibili a tutti, quando fu più grandicello, era in grado di costruire cesti di vimini di ottima fattura, che poi vendeva nei negozi della zona e che servivano durante la raccolta delle patate, allora, non esisteva la plastica per fare dei recipienti o dei cestini. Realizzammo, guardando dei progetti sui libri di studio, una lanterna magica, così allora si chiamava il proiettore di immagini, con una lente recuperata in discarica ed una lampadina, messe in una scatola di cartone, poi bisognava mettere la cartolina al rovescio, con la testa in giù, e l’ immagine appariva sul muro, ingrandita, per la messa a fuoco, bastava spostare in avanti o indietro la cartolina, avevamo fatto il primo cinema muto del paese…

Ricordo che era abbonato ad una rivista giovanile di musica ed una volta vinse una radiolina portatile in omaggio, fu’ un avvenimento, nessuno allora possedeva una radiolina, si contribuiva all’ acquisto delle pile e poi , tutti assieme, si andava in un bait o su una spleuza ad ascoltare musica alla grande potenza di 0, 25 milliwatt. Divenne un cacciatore appassionato ed esperto, andò a caccia, i primi tempi, giovanissimo, con mio padre, fino a quando mio padre morì nel 1969. proseguì l’ attività venatoria, con l’ amico Dolfo, tra uno sparo ed una barzelletta. Per un certo periodo di tempo, fino a quando lo consentì la legge, si dedico con abilità e grande fantasia, all’ attività di imbalsamatore di piccoli animali del bosco, o di trofei di caccia, esercitava questa attività durante il tempo libero dal lavoro, prima ha lavorato alla Wirphool di Gardolo, per un periodo di tempo di una decina di anni, poi , assieme all’ amico Gino, formarono una piccola impresa edile. Aveva sposato una ragazza di Revò, che si chiama Rossi Maria Cristina, con la quale ebbe un figlio di nome Michele.

Mio cugino Gianfranco, morì di malattia nell’ inverno del 2005, di lui ho un ricordo bello, che mi riporta indietro all’ epoca della nostra infanzia e fanciullezza, ai giochi, alla ricerca del nuovo e del misteriose, a quel periodo stupendo ed affascinante che era la nostra infanzia, piena di esperienze nuove, di piccole trasgressioni, del saper apprendere dagli adulti tanti segreti e saperli poi portare , di diritto, nella vita che ci veniva incontro.

 

Con i miei compagni di classe, era nata più che un amicizia, si potrebbe dire che era stato fatto un patto di fedeltà e di mutuo soccorso, nel bene e nel male.

Si cominciava ad essere abbastanza grandi per essere liberi da certi condizionamenti famigliari e scolastici, era un età che io considero la più bella ed affascinante che ci si apprestava a vivere ed a godere, era un età barbara, dove tutti i giorni erano diversi e ricchi di nuove esperienze, di nuovi capitoli che arricchivano il nostro essere fanciulli e la nostra sete di sapere, di vedere cose nuove, di applicare alla vita, nuove esperienze, mai vissute prima di allora.

Cominciavano così, anche le prime trasgressioni puerili e innocenti dapprima, decisamente più maliziose e calcolate poi, era una catena , mai interrotta, che si tramandava da sempre, i ragazzi più “ grandi “ insegnavano ai più piccoli i trucchi, l’ arte ed i piaceri della vita, nessuno escluso, compreso quello sessuale.

Erano gli anni dell’ immediato dopo guerra, erano anni di grande, comune e conclamata povertà, erano pochi coloro che avevano una famiglia abbastanza agiata da poter disporre di qualche cosa più degli altri, ma , direi, che tra le cose positive che ricordo a tale proposito, c’è da evidenziare il fatto che chi aveva qualche cosa più degli altri a disposizione, lo condivideva molto più facilmente di quanto non si faccia ora e si badi bene che allora nessun bambino o bambina, disponeva del denaro proprio da poter spendere, che non fosse quello, contato al centesimo, per acquistare il panino dall’ Anetti.

 

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L’ Anetti

 

 

Si chiama Giuseppina Zanotelli, ( dei Diki ) abita a Varollo e posso dire di sapere l’ anno di nascita, il 1924, perché la signora Giuseppina è coetanea di mia madre.

Il motivo per il quale tutti la chiamano Anetti, non l’ ho mai capito, ma un giorno di questi, appena la incontro, glielo chiedo… Anetti aveva un piccolo negozio di generi alimentai a due passi dalla scuola, al piano terreno di una casa di proprietà di un signore che si chiamava di cognome Barbera.

Intendiamoci, in confronto ai moderni negozi di oggi giorno, la rivendita della signora Anetti era un buco, ma noi scolari, ci trovavamo tutto l’ occorrente per sfamare le nostre avide bocche e anche qualche opzional, come le gomme da masticare, o “ la merda del diaol “ che altro non erano che la liquirizia in diversi formati, barrette, fili o spirali.

Quando suonava la campanelle dei 10 minuti di pausa al mattino, allora si capivano tre cose: una che erano le 10 del mattino, due che c’ era la ricreazione, che si andava dall’ Anetti a prendere pane e gianduia.

Con 10 lire di allora, circa 2 cent. di euro, si poteva comprare un panino con una grossa fetta di gianduia, che era un cioccolato bicolore, a due gusti, il colore chiaro era al gusto vaniglia, il colore marrone era cioccolato. Si faceva tutti la fila, “ popi e pope “ ( maschi e femmine ), dopo una corsa per arrivare per primi, e la signora Anetti, con un grosso coltello , tagliava a metà i panini e ci metteva dentro una fetta di gianduia… Solo chi ha vissuto nella miseria nera come abbiamo vissuto noi in quelli anni, può capire il piacere di quei momenti, lo scricchiolio del pane fresco tagliato dal grosso coltello, il profumo eccitante l’ appetito della gianduia che la signora Anetti ci metteva tra le piccole mani, allora non c’ erano le tante assurde leggi di oggi sulla distribuzione dei prodotti alimentari, dove pesa quasi di più la confezione che il prodotto che poi và consumato, allora tutti si prendeva il panino senza involucri e giù a mangiare senza fiatare fino all’ ultima briciola e poi si aveva il coraggio di leccarsi pure le dita sporche di gianduia… Che bei tempi, quanta nostalgia… e quanta solidarietà franca e genuina, se c’ era qualcuno che non aveva i soldi per il panino, lo diceva senza vergognarsi e qualcuno dei compagni lo si trovava sempre che ti dava un pezzo del suo, con la promessa di essere ricambiato quando ne avesse avuto bisogno. A volte mi chiedo e quando me lo chiedo lo trovo sempre più assurdo ed ipocrita, ma possibile che ci sia bisogno della miseria, delle catastrofi naturali, delle guerre o delle malattie, per riscoprire il valore della solidarietà umana?

Possibile che tutti quelli insegnamenti della religione, tutti quei buoni propositi che facciamo da piccoli mentre ci fanno recitare le preghiere, valgano il solo tempo di una fanciullezza e non vengano presi come un insegnamento didattico come la matematica o la letteratura, che poi vale per tutta la vita ?

Quanta ipocrisia abbiamo preso in prestito per giustificare un buon motivo per non DONARE niente al prossimo !

Ogni volta che passo davanti alla porta dove , molti anni fa, c’ era il negozio della signora Anetti, assaporo sempre il profumo di pane e gianduia, che sembra uscire ancora da quella porta ormai chiusa, e faccio sempre una mia riflessione sulla figura della signora, sul suo ruolo storico ma soprattutto sulla sua grande sensibilità, bontà ed umanità, certo, noi pagavamo il panino con la gianduia, ma il fatto che la signora Anetti non sia divenuta la proprietaria di una catena di supermercati, ma che viva ora, dignitosamente , con la pensione di vecchiaia, la colloca di diritto tra le persone buone ed oneste che io ho conosciuto in questo paese, nonostante il suo carattere forte, schietto e determinato.

 

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Lo spirito di avventura e di trasgressione

 

 

Così, accomunati da una povertà endemica, ci si accontentava di quello che c’ era e di quello che madre natura produceva, e tutti disponevano del latte fresco, delle verdure degli orti, del formaggio e delle lucaniche e pancette del maiale. Il pasto principale, il pranzo di mezzogiorno, aveva come pietanza base, la polenta, che si preparava in tutte le case, le donne accendevano il fuoco nei focolari domestici e verso le 11 del mattino mettevano il paiolo con dentro l’ acqua sul fioco, e per mezzogiorno, quando tornavamo, affamati, da scuola, la polenta era pronta e la conferma le si poteva avere, anzi sentire, dal profumo che usciva dalle finestre socchiuse.

Il companatico che si mangiava aveva un denominatore comune per tutti : era sempre troppo poco… variava , invece, da stagione a stagione, ad esempio in inverno erano preferiti i crauti con cotiche di maiale, in estate formaggio o “ pocio “ di carne, sarebbe l’ odierno spezzatino, solo che allora, trovare un pezzetto di carne nel pocio, era come trovare un gelato nel deserto del Sahara…

Tante volte, e sottolineo con grande piacere, mia nonna cucinava le lumache raccolte tra i muretti mentre tornava dal lavoro dei campi, e dico, senza paura di essere smentito, che come le sapeva cucinare mia nonna, così buone e saporite, non le ho mai mangiata dopo di allora.

Noi avevamo una fortuna in più rispetto a tanti altri, mio padre era cacciatore, ed era un tiratore scelto, anche durante la guerra che aveva combattuto in Africa nella divisione Brescia, a fianco ai tedeschi, ed in autunno, quando si apriva la caccia, portava a casa molta selvaggina che mia nonna insaporiva con aromi ed erbe selvatiche e poi cucinava con amore e grande passione ed il profumo si spandeva per tutta la casa ed il vicinato e tutti sapevano che si mangiava polenta e selvaggina.

Ai miei tempi, alle scuola non c’era la mensa, e tutti, a mezzogiorno, al suono della campanella, si precipitavano a casa a pranzare, non si perdeva tempo in chiacchiere o in giochi, per quelli ci sarebbe stato il pomeriggio del doposcuola.

Alle ore 1. 30, infatti, si ritornava a scuola fino alle 15 poi tutti si ritornava liberi alle proprie case, dove si facevano i compiti che il maestro ci aveva dato per casa e da portare in classe il giorno successivo.

Finiti i compiti, ci si sentiva liberi, per un certo periodo di tempo, per andare a giocare con i compagni, ed allora , tutta la fantasia e creatività di noi fanciulli, trovava libero sfogo nei più disparati e variegati giochi, le ragazzine giocavano con una corda in due la facevano roteare ed una terza saltava al suo passaggio a terra, oppure tracciavano a terra dei quadrati con dei numeri dentro e poi vi saltavano in un certo modo, oppure giocavano a nascondino o con un fazzoletto a chi riusciva a prenderlo e scappare, senza farsi toccare.

Noi maschi, per lo più, si giocava alla guerra o agli indiani, le ermi si facevano con le piante di nocciolo, fortunati erano quelli che avevano una pistola o un fucile giocattolo, ricordo che un estate racimolai i risparmi e mi comprai un mitra ed un elmetto americano, naturalmente di plastica, mio padre scuota la testa in segno di disappunto, poi si avvicinò, guardò l’ arma e l’ elmetto e mi disse che erano americano l’ elmo, ed inglese il mitra, disse anche una frase che non ho mai più scordato e che mi ha colpito nel profondo dell’ anima, il cui profondo valore e significato lo avrei capito più avanti negli anni, quando mio padre mi fece leggere il suo piccolo diario di guerra, nel restituirmi il mira, mio padre mi disse : “ Se fossi certo che voi foste destinati a subire le atrocità che io ho visto in Africa, vi tirerei il collo a tutti e due… “

Ai miei tempi, tutte le abitazioni, di giorno , erano aperte, nessuno si sognava di chiudere a chiave, non ce n’ era bisogno, nessuno si azzardava a prendere qualche cosa senza chiedere il permesso al proprietario, si poteva così entrare nelle case e salire sulle soffitte che erano adibite a fienile, tante volte , se pioveva, si andava a dormire sul fieno e si scendeva poi la sera con lo stesso profumo di fieno fresco come profumavano i gatti.

La mia soffitta ed il mio fienile, confinavano con una casa di un altro proprietario che era in America da molto tempo, noi avevamo tolto alcune tavole di legno che dividevano le due proprietà e andavamo ad esplorare, con grande spirito dell’ avventura e sprezzanti del pericolo, tutta la vecchia soffitta del signor Vittorio Zanotelli, detto “ Mamera “.

Un giorno, la nostra sete di avventure, fu ampiamente ripagata, sotto una trave portante del vecchio tetto, trovammo due fucili da guerra con molte munizioni a caricatori, uno era un Mauser tedesco della seconda guerra mondiale e l’ altro era uno Stayer austriaco della prima guerra mondiale, erano armi perfettamente funzionanti ed in grado di sparare, allora, nell’ immediato dopoguerra, tutti noi sapevamo dell’ esistenza nelle soffitte di numerose armi da guerra e munizioni, abbandonate dagli eserciti austriaco e tedesco in fuga nella vicina statale 42, durante i due conflitti mondiali e nascoste dai proprietari nelle soffitte. Il buon maestro Fauri, che era a conoscenza di queste armi nascoste, un giorno ci spiegò di come fosse facile morire giocando con fucili o bombe e ci fece vedere delle diapositive con tanti tipi di bombe e fucili ed alla fine dei bambini con le braccia e le gambe amputate, tutto questo per farci smettere quei giochi, tanto affascinanti, quanto pericolosi.

 

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Il fumo e il sesso.

 

 

Le “ spleuze “ ( le soffitte ) , direi che erano il regno naturale ed incontrastato di noi ragazzini delle elementari, arrivati al quarto anno, ci si considerava già “ grandi “ e pronti a fare un salto di qualità nel campo della trasgressione. Qui bisogna capirsi, per non dare addito a delle interpretazioni distorte o a delle speculazioni, chi non c’ era allora non può sapere ne tantomeno capire.

Allora,per dimostrare di essere un uomo, bisognava saper fumare, e noi ci provavamo, ma siccome il denaro per le sigarette o il tabacco più le cartine, o per la pipa, non lo aveva nessuno, non era questione di essere o no maggiorenni per poterlo acquistare, allora tutti andavano a prendere le sigarette o il tabacco per il padre, nessuna donna sposata ai miei tempi fumava, ed il barista te lo vendeva senza problemi, non c’ erano leggi che lo vietassero, solo che noi non avevamo denaro ed allora, alla sigaretta, si era trovato un degno surrogato : LA VIDEZZA.

Era una specie di liana, che cresceva nel bosco, cresceva in fretta e poi si seccava naturalmente, all’ interno era cava, aveva come un piccolo forellino e questo consentiva se accesa di “ tirare “ come una sigaretta. Si tagliava a pezzetti de lunghezza di una sigaretta, poi si metteva in bocca da un lato e dall’ altro si accendeva, faceva inizialmente una piccola fiamma e poi si tramutava in brace che ardeva piano e noi si aspirava il fumo. Era una cosa orribile, il fumo ci faceva tossire e lacrimare e ci infiammava la lingua al punto che dopo poco sembrava che bruciasse, allora si ricorreva a qualche sorso di acqua, ma mai smettere di fumare fino a quando la videzza non fosse bruciata del tutto.

Alla fine della “ sigaretta “ , ci si sentiva dei veri uomini, rincoglioniti da quella dose di fumo che ci aveva seccato e bruciato la lingua , gonfiato le labbra, tormentato i polmoni con un fumo acre a sgradevole, ma eravamo dei veri uomini, come i nostri padri, ed i nostri nonni, che oltre a fumare il sigaro, masticavano il tabacco dell’ ultimo pezzetto rimasto.

 

Nei film , si vede sempre che dopo una scena d’ amore e di sesso, il protagonista accende una sigaretta ed aspira soddisfatto il fumo, rilasciandolo a piccoli tratti a forma di cerchio, noi no , si andava a cercare il sesso, controcorrente, dopo esserci intossicati di videzze ed essere mezzo rincoglioniti.

Anche qui, bisogna intendersi bene, per non alimentare malintesi o dare spazio a falsi moralismi.

 

Qui , desidero usare la massima dolcezza e delicatezza di cui , se voglio, sono capace, per raccontare questo episodio questo con il rispetto che ho ed ho sempre avuto per la donna ed il fascino che la circonda, per quel alone di mistero e di sacro che lei rappresenta, per quella attrazione che esercita sul maschio, senza cadere nella volgarità o nell’ ipocrisia.

Nel codice di onore, mai scritto, ma sempre rispettato da tutti i maschi della scuola, vi era una regola ferrea : mai far del male ad una bambina, la femmina era considerata sacra ed intoccabile, quasi un essere superiore, perché era in grado di portare dentro di se una nuova vita, era in grado di diventare mamma e tutti noi eravamo consapevoli dell’ importanza e del valore insostituibile della nostra.

 

Tutti si erano accorti che le bambine erano diverse da noi maschietti, non solo per la gonna con annesso camice nero, ma si era capito che in qualche cosa erano diverse…

Quando, ad esempio, si usciva dalla scuola e si andava ai molini, dalla parte di Cis, per fare la lezione all’ aperto, come definivamo noi , allora, una bella scampagnata nelle calde primavere, o quando si andava nei boschi a giocare, insieme, “ popi e pope “ ( maschietti e femminucce ), succedeva che si doveva, magari, fare pipì mentre i maschietti si giravano verso un boschetto e la facevano in piedi, si notava che le femminucce, cercavano si un boschetto fitto che le sottraesse alla nostra vista, ma poi, si accucciavano abbassando le mutandine e rimanevano in quella posizione per fare pipì…

Ci si chiedeva, come avessero fatto poi a fare pipì , senza tirare fuori il pisellino, un mistero da scoprire, prima o poi, un dilemma da approfondire, come una cosa misteriosa che, però, esercitava sui maschi un fascino ed un interesse del tutto particolari.

Allora si lavorava di fantasia , di intuito, ma soprattutto bisognava saper interpretare il linguaggio degli adulti.

Quelli, a volte, si sbilanciavano, a raccontare , tra loro, dei discorsi erotici, si doveva stare molto attenti perché parlavano un linguaggio quasi cifrato, come dei codici militari segretissimi, ed ognuno carpiva e memorizzava un tassello del dialogo, con aria assente, come se la cosa fosse del tutto indifferente, guai a mostrare interesse, il dialogo si interrompeva immediatamente ed il tema passava subito a : “ Doman von a sejar su Barbonzana” e la lezione era finita.

Alla fine, si tiravano le conclusioni in una specie di forum, ognuno portava la sua esperienza che veniva messa a confronto con le altre.

C’ era chi aveva sentito dire che quella sera pioveva…

C’ era chi invece aveva sentito parlare di una gondola… di Venezia.

C’ era chi diceva che suo padre sperava di prenderla…

C’ era chi aveva sentito : la mia no l’ me la dà pu…

E chi , felice, diceva : la mia la crompa !

Quando si sentiva dire che una donna “ la crompa “, allora le attenzioni si rivolgevano a lei, ed immancabilmente, dopo poco, si osservava che la pancia della donna in questione si gonfiava, si gonfiava sempre di più, poi dopo un certo periodo la si rivedeva con un passeggino ed un pupo dentro che dormiva o piangeva, ma il mistero delle differenze rimaneva, anzi più erano dettagliati i racconti, più sorgevano interrogativi e dubbi.

Non era cattiveria, o peggio perversione, o desideri che i preti definivano impuri e peccaminosi, era solo ed esclusivamente curiosità, voglia di scoprire qualche cosa di nuovo, di capire in che cosa queste ragazzine erano diverse fisicamente.

Non so’ se oggi esista ancora questa sete di conoscenza, del voler capire voler vedere, in questo tempo dove i computer danno , quasi , tutte le risposte, dove basta un clic su un sito porno e la tua fantasia erotica viene immediatamente saziata da immagini e video che non danno addito a dubbi o ulteriori chiarimenti, tanto sono espliciti.

Non lo so, se , magari, presi dalla tecnologia, che propone dei giochi di abilità sempre più nuovi ed affascinanti, nei ragazzi di oggi si sia addormentato quel senso dell’ avventura, della ricerca del nuovo e del diverso, in tutti i campi, che era la nostra peculiarità ed il nostro modo di vivere e di divertirci, e non mi stupirebbe se fosse così, visti i sempre più difficili, tormentati e fallimentari rapporti tra maschio e femmina.

Io ero fortunato, perché mio padre era un grande appassionato della lettura, specie di romanzi d’ avventure e sentimentali, poi c’ era mia zia Gloria che era la moglie di mio zio Mario, veterinario in val Gardena e poi a Chiusa all’ Isarco, che portava da leggere a mio padre dei fotoromanzi di quelli d’ amore, allora erano proibiti perfino agli adulti, figuriamoci ai ragazzini ! Mio padre li nascondeva in soffitta, in un grande baule pieno di vestiti usati che ci aveva spedito mia zia Mary dagli USA, ma io avevo subito trovato il nascondiglio e, nei giorni di pioggia, andavo in soffitta, prendevo un fotoromanzo e mi stendevo sul fieno a leggerlo d’ un fiato, cercando tra le figure femminili, una donna che fosse leggermente spogliata e un po’ osè, ma era molto difficile trovarne una, allora la censura sulla stampa era severissima. Mi divertivo tanto a sognare ed a fantasticare sulla trama e le immagini delle storie che leggevo, che mi commovevano e mi appassionavano.

Dopo un po’ di tempo, a scuola tra i maschi, cominciarono a circolare, in modo segretissimo, dei foglietti con disegnato una bambina nuda, con una strana cosa al posto del pisellino.

I disegni li aveva portati un amico, che aveva una sorella più piccola di lui di qualche anno, e mentre sua madre le faceva il bagno, lui ne aveva approfittato per dare uno sguardo mentre le passava un asciugamano.

Il passo verso la conoscenza fu breve, un giorno, quando i suoi genitori erano nei campi a lavorare, d’ accordo con lui, lo seguii a casa sua per fare i compiti per il giorno dopo, era tornata a casa dalla classe dei piccoli, anche la sorellina del mio amico, che ci precedeva saltellando. Giunti a casa, facemmo in fretta i compiti, poi il mio amico aiutò la sorella a fare i suoi, quando ebbe finito anche lei, decidemmo di giocare tutti assieme a fare il medico ed i pazienti. Il mio amico, stabilì i ruoli, noi facevamo i medici e sua sorella la malata.

La facemmo distendere sul letto e dopo averle tastato il polso, misurato la febbre, stabilimmo che poteva avere l’ appendicite, le tirammo su la gonna e le abbassammo le mutandine, la nostra sete, la nostra curiosità, di sapere e di vedere come era fatta una femminuccia sotto, fu appagata.

Per tutto il resto, bisognava aspettare, la vita ci avrebbe insegnato e dato, poi, tutte le risposte, assieme a tante responsabilità e preoccupazioni.

Naturalmente , il mio amico fece giurare alla sorellina , che non avrebbe parlato di questo gioco con i suoi genitori e con nessun altro, lei giurò e non ne parlò mai con nessuno.

Quando diventammo più grandi, ci venne permesso di assistere, prima all’ accoppiamento tra la mucca ed il toro e poi al parto delle mucche, un avvenimento unico ed emozionante, per la prima volta che si assisteva, era l’ evento che diradava ogni dubbio e spegneva , definitivamente i sogni e le fantasie che le menti fanciulle si erano costruite su come un animale mammifero mettesse al mondo i propri figli. Era anche un avvenimento di una grande dolcezza e tenerezza, il vedere il vitellino, appena uscito dalla pancia della madre, alzarsi, traballante, e cercare subito il posto per mangiare, mentre la madre lo asciugava, amorevolmente, leccandolo da capo a piedi, era evidente e palpabile, il legame materno un istinto ancestrale, acquisito in milioni di anni di evoluzione.

Si capivano e si spiegavano , allora, quelle “ differenze “ tra noi e le femminucce, e si spiegava il motivo di tanto rispetto verso l’ altro sesso.

Credo che al giorno d’ oggi, non ci siano più quei tabù riguardo il sesso e procreazione, ed è sicuramente una cosa molto positiva, so che adesso, nelle scuole, si insegna come matteria didattica, l’ educazione sessuale, cosa che, nel tempo in cui è collocata questa storia, non si faceva, anzi, direi proprio che si ostacolava in tutti i modi. Ricordo che a me, tutto quello che concerne il sesso e la procreazione, me lo insegnò, con molta delicatezza e grande sensibilità, un frate francescano, che era il mio insegnante di storia naturale e di scienze, quando ero i collegio un anno più tardi, quando frequentavo le scuole medie.

 

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La masturbazione giovanile

 

 

( le seghe )

 

Sono consapevole di affrontare un momento della vita maschile molto delicato e che merita tanta attenzione e tanta comprensione. Succede nell’ età della pubertà , quando il cervello comincia e rendersi conto della diversità dei sessi, perché bisogna entrare nell’ ordine di idee che un essere umano è maschio o è femmina prima di tutto nel cervello ed è da lì che partono tutti gli istinti e tutti i sentimenti e non c’è niente da fare, quando un sentimento o un istinto partono dal cervello.

Mi piace affrontare questo delicato passaggio della vita di quasi tutti i maschi, molto meno le femmine, con tanta delicatezza e tanta dolcezza, perché la masturbazione non è solo un procurarsi un piacere sessuale anomalo, ma è un trovare la ragione del perché madre natura ci ha fatti maschio e femmina.

Può cominciare in qualsiasi momento della pubertà, non c’è una regola precisa, un momento stabilito, un limita di età che ne contraddistingua il suo inizio, di solito si sono avverati in precedenza degli episodi , casuali o meno, di carattere erotico che hanno stimolato la fantasia maschile ed il più delle volte accade di notte che ti svegli ansimante e tutto sudato per aver sognato un momento erotico , una ragazzina che ti piace e che chinandosi per raccogliere un fiore ti ha mostrato le mutandine e ne sei rimasto folgorato fa quella visione e magari le mutandine erano quelle della sorella più grande, tanto ampie da lasciare intravvedere una piccola fessura con qualche pelo intorno…

Ed allora la notte ti svegliavi con il pisellino che era divenuto una chiquita che non ti lasciava più riprendere sonno e ti proponeva una sensazione di piacere dolce ed inebriante, fino a quando non cedevi all’ istinto ed assecondavi il piacere con il movimento della mano , e continuavi lentamente perché questa piacevole sensazione durasse a lungo, ma poi il ritmo della mano assecondava il piacere e dopo un poco ti ritrovavi con la mano bagnata di caldo sperma e tutto svaniva come per incanto ed il pisello tornava alle dimensioni originali. La sega era finita…

C’ erano taluni amici che scoperto il piacevole gioco avevano fatto come un patto tra loro e trovavano il tempo, ed il luogo, normalmente i baiti, per masturbarsi a vicenda tra maschi, con le ragazzine accadeva solo se lei si rifiutava di avere dei rapporti sessuali di altro genere.

Ai miei tempi il sesso era visto come un’ aspettativa, come un esigenza del maschi e della femmina finalizzata anche e soprattutto al piacere sessuale reciproco che veniva appagato normalmente dopo il matrimonio o nei casi nei quali il rapporto avveniva prima, nell’ ipotesi sempre probabile che lei rimanesse incinta, era obbligo assoluto riparare con il matrimonio, in pochi csi che io ricordo non si è rispettata questa regola.

Ai miei tempi il sesso non era , come si fa erroneamente credere adesso, un diritto acquisito dal maschio, ma era una cosa discussa, ragionata e capita dal maschio che per non rovinare una bella relazione d’ amore vero con una ragazza che credeva ancora al valore della verginità e della purezza, piuttosto che pretendere il sesso con la violenza o con l’ astuzia, preferiva farsi una sega la notte e si raffreddavano i bollenti spiriti. Si sapeva anche che alla prossima confessione bisognava raccontarlo al prete che se avesse potuto fare la collezione e fosse stata una cosa da vendere sarebbero tutti ricchi senza passare a raccogliere l’ elemosina in chiesa.

Si è detto e scritto un infinità di cose sulla masturbazione giovanile, ma io sono fermamente convinto ce un maschio giovane, se sano, abbia l’ esigenza di masturbarsi , perché per il maschio la masturbazione è una fonte di sfogo sessuale gratuita ed innocua verso l’ altro sesso, è anche un momento di grande dolcezza dove il pensiero diventa erotismo e compensa la mancanza di una entità femminile alla quale però tutto l’ essere maschile dei giovani è naturalmente e fatalmente attratto fin da ragazzo, nei modi più disparati e in questa fase, secondo il mio punto di vista, influisce tanto il destino e quelle ataviche forze dell’ istinto di conservazione che fanno in modo che due esseri di sesso diverso si innamorino perdutamente tra di loro per poi generare dei figli che altro non sono che il logico risultato dell’ attrazione sessuale reciproca e dell’ accoppiamento sessuale tra maschio e femmina che genera un piacere a livello cerebrale e corporale tale da accettare e giustificare poi tutti i sacrifici di crescere una nuova vita.

Sembra banale, perfino a tratti puerile, ma se così non fosse il genere umano si sarebbe estinto da millenni, perché la vita che nasce altro non è che il frutto inconsapevole che viene determinato dal destino ed assecondato dalle stelle, perché tolti i falsi moralismi e le bigotte prediche dei preti, durante un rapporto sessuale o se preferite un atto di amore, nessuno dei due interessati pensano minimamente al prodotto finale di quell’ accoppiamento. La saggezza di mia nonna spiegava con queste parole l’ evento del concepimento : “l’ uomo propone e Dio dispone “

 

 

Ancora oggi, quando mi ritrovo, casualmente, o in qualche ricorrenza, con i miei compagni di classe e di avventure, ritorniamo spesso, con la mente, a quegli episodi puerili, lontani nel tempo e ci scherziamo un po’ sopra, ma subito dopo, ci ragioniamo e facciamo i confronti tra i comportamenti, il modo di vedere le cose, gli atteggiamenti che avevamo noi, 50 anni or sono e l’ apatia, la mancanza di fantasia e di spirito di avventura dei giovani d’ oggi e concordiamo sempre, che il periodo della nostra giovinezza, è stato un periodo bello, libero da condizionamenti esterni, come la televisione ed il pc e tutti i suoi derivati, dove la scuola aveva un ruolo istituzionale di alto profilo ed era in grado di soddisfare la sete di sapere della gioventù, senza cadere nella demagogia o nella banalità, ma cercando e trovando sempre nell’ osservazione e nel rispetto della natura, nuovi ed interessanti temi da prendere ad esempio nella didattica.

 

 

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I “ sesseri “

 

 

I “ sesseri “ erano della palline della dimensioni di circa un centimetro di diametro, inizialmente erano in argilla cotta, in terracotta, la produzione era propria, le fabbricavamo noi ragazzini. C’era una località subito sotto il paese di Varollo dove scende uno dei tre fossi che servono per il deflusso delle acque piovane, il fosso di Prà Cavà. In quella località infatti c’era una vecchia cava di argilla, non saprei dire se nei tempi passati è stata o meno sfruttata dalle popolazioni, a me pare che sia semplicemente il risultato di molte frane che hanno interessato nei secoli quella zona, portando via il materiale meno aderente e mettendo così in rilievo l’ argilla che è un materiale molto impermeabile appiccicoso e resistente nell’ acqua.

Si andava in quel luogo con dei secchielli ed una cazzuola da muratore e si prelevava un po’ di argilla, quel tanto che bastava per poi ricavare una certa quantità di sesseri. Tornati a casa si preparava un imparto di argilla miscelandola con l’ acqua e poi si procedeva alla formazione delle palline con le mani facendole girare tra i palmi ed ottenendo così della minuscole sfere. Finito il lavoro della sagomatura, si passava alla cottura delle palline che venivano messe nel forno del focolare a legna quando la mamma cuoceva il pranzo o la cena.

Non tutti i sesseri si cuocevano bene e restavano interi, una buona percentuale si rompeva durante la cottura o usciva dal forno screpolato e si rompeva al primo tiro.

Certo non erano perfette, ma servivano comunque al nostro scopo bastava che rotolassero sul terreno.

C’ erano tanti giochi che si potevano fare con i sesseri, quello che ricordo meglio era quello che consisteva nel mettere la pallina sopra il pugno chiuso, in quella piccola conca che si forma davanti al dito pollice e poi colo stesso dito si colpiva la pallina mirando a quella degli avversari, chi colpiva quella di un avversario se ne appropriava. Arrivarono poi i sesseri in vetro che venivano recuperati dalle bottiglie della gazzosa nel cui colo ce n’era una che aveva il compito di far passare l’ aria mentre si versava il contenuto nel bicchiere.

Quelle erano palline sferiche perfette e chi le possedeva era di gran lunga avvantaggiato nei vari giochi. Questi erano i giochi della mia infanzia, giochi semplici, elementari e soprattutto che non avevano costi di realizzazione, tutto era autoprodotto, i carretti le slitte per la neve, gli archi le frecce, le fionde, spade, fucili, era tutto un concorso con la fantasia, l’ inventiva e tanto ingegno. Molti ragazzi di oggi, non riescono neppure a piantare un chiodo.

 

 

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Garofani e bacche

 

 

Noi ragazzini, conoscevamo il vicino bosco di Somargen, meglio delle nostre tasche, tra i nostri divertimenti estivi preferiti, infatti, c’ erano le scorribande nel bosco , per il sentieri che ora non sono più visibili, erano scorciatoie che ti permettevano di arrivare rapidamente in fondo al bosco, vicinissimo al torrente Pescara, il bosco era solcato da una miriade di sentieri, che portavano in località diverse, allora il bosco era molto battuto, in tutte le stagioni, alla ricerca dei prodotti che offriva a tutti coloro che sapevano cercare con conoscenza ed esperienza, c’ erano infatti funghi di varie specie commestibili, asparagi selvatici, nocciole selvatiche, more e mirtilli ed altri frutti.

C’ erano anche le famose videzze, tanto ricercate da noi fumatori, a volte si andava a pescare di frodo, si portava da casa un paio di metri di lenza, alcuni ami, allora questi oggetti erano facilmente reperibili, al primo mucchio di letame si faceva il pieno di vermi belli grossi e poi giù a gambe levate fino al Pescara, arrivati nei pressi del torrente, con il coltello che tutti avevano il tasca, si tagliava un ramo di nocciolo che sarebbe servito come canna per pescare. Ci si metteva in posti molto nascosti, per non essere visti dalle Guardie o da qualcuno che poi lo avesse potuto riferire ai nostri genitori e si metteva la lenza in acqua, dopo aver messo un grosso verme attaccato all’ amo.

Eravamo abbastanza abili, perche tutti avevano il padre o un parente pescatori, e , a giorni, quando le trote “ beccavano “, se ne prendeva parecchie. A casa , dopo il tradizionale rimprovero, la mamma però le metteva in padella soddisfatta di poter mangiare qualche cosa di diverso e più nutriente della solita polenta.

C’ erano dei posti dove crescevano dei fitti rovi, che producevano dei fiori bianchi che diventavano poi delle bacche di un colore arancione scuro, una bella tonalità del rosso, erano a forma di un piccolo ovetto allungato.

Noi , nel nostro dialetto, le chiamavamo “ cjalcja vecle “ che tradotto alla lettera significherebbe schiaccia vecchie, penso che il nome scientifico di questo frutto sia***** , so che con i fiori secchi si può ottenere una buona tisana rilassante.

A volte , portavamo con noi dello spago sottile e resistente, quello che serviva per fare gli insaccati e le lucaniche, e , con un ago, infilavamo le bacche nello spago e si formava una bella e coloratissima collana, che si poteva fare doppia o tripla, a seconda della lunghezza dello spago e della nostra fantasia.

Se si andava , invece, sulla Crozza di Barbonzana, che ra un piccolo bosco di noccioli che crescevano, stentati, tra le rocce calcaree, nella misera e sempre arida erba che cresceva negli spiazzi e vicino alla grande croce di legno, si potevano trovare dei piccoli e profumatissimi garofani selvatici di colore rosso fucsia, li raccoglievamo e ne facevamo dei piccoli mazzetti, uno lo mettevamo ai piedi della croce e gli altri , assieme alle collane, li regalavamo alle nostre ragazzine, che, orgogliose, tornavano a casa con la bella collana di bacche al collo ed un mazzetto di fiori tra i capelli… Quanta dolcezza si usava avere ai miei tempi, verso le femmine, le ragazzine erano considerate come un mondo a parte, delicato, dolce e soprattutto da rispettare ed onorare, anche con una semplice collana di bacche o un mazzolino di fiori… Altri tempi, e che bei tempi! E quanta nostalgia !

 

 

 

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l’ bait “

 

Le baite

 

Tutto il territorio del mio paese, a partire dal fondo valle, fino ad arrivare alla quota di alta montagna, è punteggiato da decine di “ baiti “ che sorgono a fianco delle strade poderali, forestali e montane.

Il “ bait “ è una piccola abitazione, costruita generalmente in legno, non mancano però quelli costruiti in pietra, in esso si trova sempre un focolare, ai miei tempi, ancora aperto con la fiamma libera, come un caminetto, c’ era anche un giaciglio, simile ad un letto, formato da un vecchio materasso o più semplicemente da paglia o fieno. In quelli dei poderi coltivati a vigneto, c’ era una vasca in cemento o un grosso bidone di metallo per la raccolta dell’ acqua piovana, che sarebbe poi servita per miscelare i prodotti antiparassitari, come rame, zolfo, ecc. che servivano per irrorare le piante di vite, Il “ bait “ è l’ abbreviativo di baita di montagna, che è una costruzione tipica delle zone alpine e di montagna, tanto apprezzate dal moderno turismo, che cerca quei luoghi che ha contribuito a distruggere in questi anni, con una discutibile mentalità consumistica, che ha privilegiato il turismo di massa, le crociere sulle grandi navi, i safari ecc.

E’, però, anche il sinonimo di precarietà, di povertà, di una situazione provvisoria e destinata a pochi giorni di utilizzo nell’ arco dell’ anno. Il “ bait “, infatti, era utilizzato dai contadini e dagli allevatori di bestiame, come rifugio provvisorio per il tempo strettamente necessario a finire il lavoro agreste in quella località, che risultava troppo distante da casa per poter far ritorno il mezzogiorno per pranzo o in certi casi, serviva anche come rifugio per la notte, specie quelli di montagna.

Nel bait “ ci si portava il cibo, gli attrezzi per il lavoro

Ci si arrivava, al mattino presto, a piedi o con il carro agricolo trainato dalle mucche o dal cavallo, si depositavano gli attrezzi agricoli e si mettevano le mucche, legate, nel lato opposto all’ ingresso, all’ ombra e veniva dato loro dell’ erba raccolta intorno ed un secchio di acqua da bere, poi si iniziava il lavoro nei campi o nella vigna. Quando la campana suonava le 11, la donna lasciava il campo ed andava nel “ bait “ a preparare il pranzo per il resto della famiglia che era venuto a lavorare nei campi. Per lo più, in estate, non si accendeva il fuoco, perché troppo caldo e troppi pericoli di incendi boschivi, si preferiva mangiare al sacco, polenta fredda e formaggio o lucaniche, un bicchiere di vino buono per gli adulti maschi e del caffè di orzo freddo con un po’ di vino dentro, per le donne.

Solo tempo dopo, con la disponibilità dei moderni contenitori termici e delle bombolette di gas portatili, fu possibile avere un pasto caldo, minestrone o spezzatino e polenta tenuti al caldo dalle termoos o scaldati sui fornelletti a gas, alla fine si metteva sul fuoco una moka di caffè del moro e per i maschi ci si aggiungeva anche un goccio di grappa come correzione, insomma un lusso !

 

Dopo pranzo ci si riposava un poco, a volte c’ era il tempo per un sonnellino, in attesa che il sole seccasse il fieno, ed allora nel “ bait “ c’ era l’ angolo attrezzato con un vecchio materasso e delle vecchie coperte e lì ci si sdraiava e ci si riposava per un pò di tempo.

C’ erano dei “ baiti “ che disponevano anche di un sotto tetto, come una piccola mansarda, ci si accedeva mediante una scaletta a pioli, poi , si doveva camminare abbassati perché lo spazio era poco e basso, però per dormire si stava comodi ed all’ asciutto. Il “ bait “, era un luogo che esercitava un certo fascino, specie su noi ragazzini, era sempre un avventura nuova tutte le volte che si andava in un podere dove c’era il “ bait “, ci si poteva divertire giocando a nascondino, alla guerra, o agli indiani, i “ baiti “ erano sempre aperti, c’ è una legge che lo stabilisce con il criterio di essere dei rifugi in caso di maltempo o perché si era fatto tardi nel campo e la notte stava per calare e non si riusciva a fare ritorno a casa, allora si pernottava nel “ bait “ e con l’ occasione ci si alzava presto al mattino, quando l’ aria era fresca e le membra rilassate dal sonno, per iniziare di buona lena il lavoro.

Un particolare e nuovo affascinante richiamo, quasi un profumo di novità e di primavera, venne poi esercitato dai “ baiti “, quando fui più grandicello, e madre natura mi faceva capire tante differenze tra me e le mie amichette, quando la vita chiede il tuo contributo alla perpetuazione della specie, e lo fa in modo elegante, dolce, gentile, ti fa notare certe diversità tra te e la ragazzina, che non la vedi più con gli occhi di un bambino, ma sei attratto proprio da quelle diversità nascoste e la curiosità lascia il posto ad altri sentimenti di dolcezza verso quella creatura che ti sembra esile, indifesa, che sembra voglia chiedere il tuo aiuto, la tua protezione, ma non è così, e scopri invece che è un essere forte, a volte testardo, ma sempre dolce, schietto e deciso, e a questa femmina, prima o poi, ti attacchi e non ti separerai mai più.

Ma cosa c’ entrano i “ baiti “ in tutto questo ?

Sono stati e restano per me l’ inizio dell’ avventura della vita, quando ti senti un eroe, capace di abbattere il mondo, quando saresti pronto a morire per lei, quando, oltre lei, non c’è nessun altra, c’ è solo il vuoto nello stomaco che ti rode, e allora la portavo nel nostro “ bait “, soli, la domenica pomeriggio, con il registratore a bobina che suonava le musiche degli anni ’60, quelle vecchie canzoni melodiche… che tenerezza, che nostalgia. E si restava, soli, un aranciata per due cannucce, i biscotti fatti in casa da lei, si ascoltavano quelle canzoni di una volta, quando finiva il nastro lo si girava sul lato B, e così fino all’ ultimo milliampeere delle pile. A volte io portavo con me la mia armonica a bocca, così, quando erano finite le batterie del mangianastri, mi mettevo a suonare qualche canzone, per allungare il tempo di permanenza nel “ bait “. Qualche piccola avance era quasi d’ obbligo, per il maschio, ma si otteneva al massimo un bacio su una guancia, e speravi che ti rimanesse il segno del rossetto delle sue labbra, per poterlo vantare davanti ai tuoi amici, non si andava mai oltre, c’era una morale rigida ed assoluta in materia di sesso e tutti rispettavano queste regole, ed era bello parlare assieme, scoprire un mondo nuovo, quell’ universo che è la donna, la sua semplicità e la sua tenacia, la sua dolcezza e il suo calore umano che la rende prima femmina, poi madre.

 

Ancora oggi, a distanza di anni, ricordo con infinita dolcezza quei momenti spensierati e felici, avevo solo poche lire in tasca, come tutti allora, ma con quel poco, unito a tanta fantasia e tanta gioia di vivere, nonostante tutti i miei handycapp, siamo riusciti a divertirci , con semplicità, in modo sano e corretto. Ricordo quel tempo con una struggente nostalgia, e quando ho modo di rivedere quelle mie amiche, ricordiamo insieme quei giorni fatti di vento, di vecchie canzoni, di infinita dolcezza, trascorsi nel “ bait “ , e mi sento in obbligo di ricordare, con riconoscenza, questi luoghi, per le lezioni di vita che mi hanno saputo dare, mi hanno insegnato che le donne hanno bisogno di uomini che le portino rispetto, le amino con tanta dolcezza, e sono capaci di ripagarti con la loro vita.

 

 

 

 

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Il lago

 

 

Una delle maggiori attrazioni di noi ragazzini delle scuole dei grandi di quarta e quinta elementare, era il vicino lago di santa Giustina.

Voglio qui tracciare una breve storia del lago artificiale di santa Giustina, è un bacino artificiale per la produzione di energia elettrica sfruttando la potenza dell’ acqua mediante condutture forzate.

Il progetto risale al periodo antecedente la seconda guerra mondiale ma venne momentaneamente accantonato per via della guerra che si mangiava tutto il bilancio dello stato e non disponeva di risorse per il proseguimento dei lavori di costruzione della diga di contenimento delle acque del futuro lago.

Dopo la guerre i lavori ripresero con energia e slancio e la diga solidamente piantata tra due spalle di roccia alte 150 metri crebbe a vista d’ occhio ed il primo invaso del lago ebbe luogo nel 1951.

Il bacino artificiale detenne per anni il primato europeo della diga più alta, venne poi superato di pochi metri da una diga in Svizzera, l’ invaso contiene a pieno regime 200 milioni di metri cubi di acqua e le turbine situate nel comune di Taio generano 1000 mega watt ora. Il lago viene alimentato dall’ acqua del fiume Noce e dei torrenti Barnes, Pescara, Novella e rio san Romedio, questi sfociano nel lago da anse molto simili ai fiordi norvegesi che prima erano il naturale letto dove scorsero per millenni.

Il lago era un’ attrazione per tutti noi , l’ attrazione ancestrale dell’ acqua che è sinonimo di vita di benessere di giochi e di avventure.

Io ho imparato a pescare da mio padre che era un ottimo pescatore di frodo perché non si poteva permettere il lusso di pagare la licenza di pesca.

Andavamo a pescare alla foce del Barnes che a dire il vero allora era una discarica a cielo aperto dove vi galleggiavano oggetti di ogni tipo ed animali morti in decomposizione, non era un gran bel posto ma si potevano pescare trote, scardole e pesci sole che abboccavano tutti abbondantemente.

Con i miei cugini ci recavamo spesso anche a Zura in un posto dove non c’erano le rocce e la spiaggia scendeva dolce verso il lago, anche qui si pescava di frodo scardole ed altri tipi di pesce.

Come canna da pesca usavamo dei rami di nocciolo che tagliavamo poco prima nel vicino bosco, ci legavamo alcuni metri di lenza con all’ estremità l’ amo ed il galleggiante ricavato da un tappo di sughero di una damigiana e verniciato di rosso sulla parte superiore per poterlo vedere bene. Ci sedevamo ed accendevamo un piccolo fuoco che dava maggior stimolo alla fantasia ed allo spirito di avventura, alle volte portavamo un po’ di sale da casa e cuocevamo dei pesci alla brace magari con delle patate rubate in qualche campo vicino… ci sembrava di essere i protagonisti dei libri di avventure che leggevamo a scuola come Pom Sawer e Robinson Crosue.

Una cosa mi pare giusto annotare raccontando la storia del lago e le avventure sulle sue rive, non ricordo che si sia mai annegato nessuno accidentalmente negli anni di quando eravamo ragazzini e neppure dopo, ad esclusione dei numerosi suicidi.

 

 

 

 

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La festa degli alberi

 

 

Una ricorrenza che ricordo con tanto piacere, era la festa degli alberi. Tutti gli anni, verso la fine dell’ anno scolastico, a primavera inoltrata, gli insegnanti, in accordo con le Atorità comunali e delle ASUC , sceglievano una giornata da trascorrere nei boschi vivono al paese, dedicata alla natura, agli alberi ed al loro rispetto. Naturalmente la festa veniva preparata prima nelle varie classi, con delle piccole recite o delle poesie in tema. Arrivato il giorno stabilito, ci si doveva presentare a scuola con un abbigliamento idoneo alla giornata che si andava a trascorrere, scarpe grosse, calzettoni ed una maglia pesante in caso di maltempo.

Veniva consegnata la bandiera nazionale ad uno dei ragazzi di quinta che si metteva alla testa del corteo, poi si partiva alla volta del bosco, rigorosamente a piedi e cantando delle allegre canzoni popolari o di montagna. Per arrivare al bosco più vicino, ci si impiegava un oretta scarsa, quando si arrivava, si trovava il posto già preparato ed attrezzato dagli uomini della forestale, ASUC e del Comune, erano state preparate numerose buche dove si sarebbero messi a dimora degli alberelli di abete che gli uomini della Forestale avevano portato con loro dai vivai.

L ‘ operazione di messa a dimora delle piantine, era preceduta da una breve cerimonia, dove veniva messo in evidenza l’ importanza dei boschi e della flora selvatica, per la salute dell’ uomo, per il suo relax e per le innumerevoli quantità di prodotti che il bosco offriva, dalla legna da ardere, a quella per uso industriale, ai piccoli frutti del sottobosco.

Seguivano poi le scenette e le poesie che ogni classe aveva preparato per l’ occasione ed infine , ad ogni bambino e bambina, veniva consegnata una piantina di abete e veniva aiutato a metterlo a dimora nella terra smossa delle buche.

Era un fatto emozionante, specie per i più piccoli, il sapere di avere un abete di loro proprietà era affascinante e, molti, segnavano la piantina con un filo di lana colorato, per distinguerlo dagli altri e poi ne seguivano la crescita per anni.

Per pranzo, ci veniva fatto omaggio di una sacchetto di carta che conteneva un panino imbottito con salame o formaggio, una bibita ed una mela, ci si sedeva sotto i grandi abeti del bosco e si mangiava in allegria.

Alla sera si ritornava a casa, stanchi da morire, per le corse tra i boschi, i giochi e la strada percorsa a piedi, ma con il cuore felice per questa estemporanea scampagnata.

 

 

 

 

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La compagnia teatrale

 

 

Capitava di frequente, quando ero ragazzino, che in paese facesse tappa una compagnia teatrale, proveniente dalle più disparate parti del nostro paese.

Nella maggior parte dei casi, la una famiglia patriarcale che aveva scelto quel tipo di lavoro e recitava commedie più o meno drammatiche, spostandosi di paese in paese, portavano quello che allora era una cultura nazional popolare molto in voga tra le campagne. Erano piccole compagnie nomadi che raccontavano in maniera teatrale, i drammi e le storie vere di quei tempi.

Andava tanto di moda, recitare le storie biografiche dei santi più popolari, specie dei martiri, come la storia di santa Maria Goretti o gi santa Genoveffa.

Alla commedia, seguiva sempre una farsa comica che concludeva lo spettacolo.

La compagnia rimaneva in paese una decina di giorni e recitava il meglio del suo repertorio.

Il teatro allora era situato nel piano superiore del Dopolavoro, dove ora , credo, sia sistemata sede della Pro loco, era un teatro piccolo, con le panche ed il pavimento di legno, la sede era di proprietà della Società Operaia Cattolica fondata da un parroco ****.

Erano attori bravi e preparati, allestivano le scene con materiali che portavano con se, si avvalevano anche della collaborazione di gente locale che li aiutava nei lavori, faceva la comparsa o qualche piccola parte, ma , soprattutto aiutava loro nella parte logistica.

Era sempre una novità ed una grande emozione partecipare alle recite, a me, ad esempio, piaceva un mondo recitare ed ero anche bravo. Il piccolo teatro, si riempiva in fretta di gente, uomini, donne e ragazzi, si potevano ammirare le innovazioni tecnologiche che non si era mai visto prima di allora, come luci speciali, esplosioni con fuochi pirotecnici ed altre meraviglie della tecnologia applicata al teatro. Dopo un ora il teatro era pieno di fumo di sigaretta, allora non c’ era il divieto di fumare in luoghi pubblici egli uomini si accendevano comodamente le loro sigarette.

Il giorno successivo al loro arrivo, si presentò alla nostra scuola un signore che accompagnava una bella ragazzina, parlò con il maestro un attimo, poi uscì lasciando la bambina assieme a noi. ‘ E’ stata una grande sorpresa per noi, allora non c’ erano scuole multirazziali, allora eravamo noi italiani ad essere costretti ad andare per il mondo in cerca di lavoro, tutti, infatti, avevano in famiglia qualche parente che era emigrato in America o in altre parti del mondo, io avevo tre zii, fratelli di mio padre, emigrati, Mary e Niky negli USA e Ada in Belgio, successivamente, nel 1966 – 67, partirono per gli USA , un'altra zia, Lina, assieme al marito ed a tre miei cuginetti Roberto, Sandro e Lino. Non ricordo più il nome di quella ragazzina, ricordo il suo viso dolce, era figlia di gente bella per natura e per il lavoro che facevano erano quasi obbligati ad esserlo. Le sere delle recite, rivedevo la ragazzina sul palcoscenico, che recitava qualche piccola parte nei ruoli di bambini o di quando il protagonista era ancora giovane, era brava ed elegante nella postura, e riceveva molti applausi da noi anche eravamo per un po’ di tempo, i suoi compagni di classe. Questo piccolo episodio lo ho raccontato per marcare la differenza di comportamento che c’ era 50 anni fa, in merito alla presenza di persone estranee nei paesi, e il differente modo di approccio nei loro confronti. Si veniva dal periodo del Fascismo, dove si diceva che eravamo razzisti e colonialisti, è vero, la parte peggiore del regime aveva proclamato le leggi razziali contro gli Ebrei, ma da noi tutto questo era molto lontano, quasi virtuale. La prova ne è che allora il padre di quella ragazzina, con due parole dette al maestro, aveva sistemato la propria figlia a scuola, nessuno aveva protestato, ne noi ne tantomeno i nostri genitori, impegnati in ben altri problemi e stanchi dal duro lavoro dei campi. Allora mi viene spontanea questa domanda e questa riflessione, ma questo razzismo, tanto ostentato dai movimenti antifascisti, era zero o esagerato ad arte ? Alla mia età non l’ ho mai visto ne vissuto, molti anni dopo, quando la società di dichiarava libera, democratica, rispettosa dei diritti umani, ho visto, episodi di puro ed ignorante razzismo nei confronti di popoli, etnie e religioni, diverse dalla nostra… Forse è vero che le barbarie ed i crimini, vengono sempre attribuiti agli sconfitti.

Quando se ne andò, la ragazzina ci salutò ad uno ad uno, anche noi la salutammo e le dicemmo arrivederci, e buona fortuna, se ne andava da noi, e domani sarebbe entrata in una scuola di un altro paese.

 

 

 

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LA CENTRALE ELETTRICA

 

 

Prendo spunto da un grave infortunio sul lavoro accaduto all’ inizio dei lavori per la costruzione del nuovo e più moderno plesso scolastico che doveva ospitare gli alunni di Livo, Varollo e Scanna, del quale erano in corso i lavori preliminari di bonifica del sito.

Nel prato in località “ gaggià “ che era stato acquisito dal comune per l’ imminente opera pubblica, passava la linea elettrica aerea della media tensione che alimentava il trasformatore di corrente posto nei pressi della CAM ( Consorzio Agricoltori Mezzalone ) di Scanna che serviva poi gli abitati di Varollo con la tensione a 220 Volt e Scanna invece con 120 Volt.

Per poter iniziare i lavori di costruzione delle nuove scuole si era reso necessario effettuare una deviazione della linea elettrica con la deviazione della condotta elettrica e la conseguente eliminazione di alcuni pali di sostegno in legno .

Incaricato del lavoro era un operaio addetto alla manutenzione della linea elettrica di proprietà dell’ Ingegner Gius in società con altri che forniva elettricità al comune di Livo.

L’ operaio che si chiamava Alessandri Livio ( Soler ) si era accordato con i responsabili della centrale che per una determinata ora del mattino dalla centrale sarebbe stata sospesa l’ erogazione di energia per consentirgli di lavorare in tutta sicurezza.

All’ ora stabilita il signor Alessandri calzò le staffe si mise la borsa degli attrezzi a tracolla e salì sul palo di legno per tagliare i fili e predisporre la deviazione che avrebbe by passato la zona di lavoro.

Arrivato sul palo l’ uomo sicuro che la linea non fosse in tensione, iniziò il suo lavoro ma appena toccò con una trancia un filo fu colpito da una violenta scarica di corrente che lo tramortì rimase lì attaccato al filo mentre il braccio continuava a fare arco e bruciare. Fu dado immediatamente l’ allarme e dalla centrale venne sospesa l’erogazione, arrivarono i colleghi e l’ ingegner Gius che salì sul palo imbragò il ferito e lo portò a terra.

In quell’incidente il signor Alessandri perse il braccio ustionato dalla corrente, ma nonostante questa grave menomazione continuò a lavorare da fabbro e meccanico con una forza di volontà degne dei grandi uomini di quel tempo, seppe rimediare alla sua grave menomazione con un ingegno ed una creatività degni del grande Leonardo da Vinci, seppe mantenere se e la sua famiglia in modo autonomo e con la dignità di un grande uomo che aveva fondato tutta la sua vita sulla forza insostituibile dell’amore ed attaccamento al lavoro che rende liberi ed autonomi e sa superare ogni ostacolo che la vita ci mette davanti.

La centrale elettrica che produceva l’ energia necessaria al fabbisogno dei comuni di Livo, Cis r Bresimo era situata sul torrente Barnes in località Molini. Dal torrente attingeva l’ acqua necessaria e il suo funzionamento mediante una condotta forzata che alimentava i generatori. Da scolari con il maestro Ernesto Fauri, si andava a visitarla almeno una volta all’ anno ed era uno spettacolo affascinante il vedere le grosse turbine che ruotavano veloci e gli strumenti che segnalavano la tensione in uscita e l’ amperaggio prodotto.

Un vero delitto averla abbandonata in quel modo senza guardare minimamente al futuro incantati dalle sirene dell’ ENEL che prometteva a tutti energia a basso costo ed in quantità illimitata per quel tempo.

Così quando il signor Pancheri Giuseppe proprietario di una segheria a Preghena chiese ed ottenne di diventare cliente dell’ ENEL, l’ Ente pubblico fu ben felice di rompere il monopolio della piccola centrale dell’ ingegner Gius ed entrare trionfante come maggior offerente che garantiva energia senza soluzione di continuità ed a prezzo più popolare. Fu così che la piccola centrale non ebbe più ragione di esistere e venne ben presto dismessa ed abbandonata. Un vero peccato, ma soprattutto questo fatto denota la scarsa o nulla lungimiranza degli Amministratori di quel tempo che non hanno capito l’ importanza dell’ energia polita e dell’ autofinanziamento che ne poteva derivare per l’ Ente pubblico se solo la centrale fosse stata rilevata dal Comune o da una società collegata, con una piccola spesa di ammodernamento e potenziamento si avrebbe avuto l’ energia elettrica a basso costo con notevole beneficio per le casse comunali. Mi ricordo quando l’ ingegner Gius passava per le case a leggere i contatori con un grande libro sottobraccio e dopo poco tempo tornava con la bolletta a riscuotere il denaro in base al consumo di ogni utente. Noi abitanti di Scanno aravamo servita con la corrente a 120 volt perché altrimenti la potenza della centrale non sarebbe bastata per tutti e questo fino all’ avvento dell’ ENEL nei primi anni ’70 che diede a tutti gli utenti di Livo la tensione a 220 volt.

Che fascino quei pali di legno, che non ce n’era uno dritto, con quelle pipe di maiolica bianca che noi ragazzini ci si giovava a bersaglio con la fionda, e quei cavi tutti contorti e pieni di giunture che ogni tanto qualcuno si rompeva e cadeva al suolo tra enormi scintille e schiocchi come una grande frusta. Allora le norme di sicurezza erano agli albori e nonostante il cartello posto alla base dei pali con la scritta “ chi tocca i fili muore “ con annessa bandiera dei pirati, noi ragazzini si faceva comunque a gara nel salire sui pali fino a quando non si sentiva il ronzio della corrente, per appagare fino in fondo lo spirito di trasgressione ed il gusto del proibito, per poterlo poi vantare davanti ai compagni e mostrare le ginocchia ridotto ad una piaga sanguinante dalla quale con un dito si era preso l’ inchiesto indelebile del proprio sangue per segnare sul palo il punto massimo di dove si era riusciti a salire.

Solo chi ha vissuto quei giorni riuscirà a capirmi…

Un giorno di marzo di quest’ anno 2014, sono tornato alla vecchia centrale dei molini sul torrente Barnes e con grande sorpresa ed emozione ho scoperto che ci sono ancora depositate vicino al fabbricato alcuni pezzi delle tubature della condotta forzata che ho provveduto a fotografare. Il fabbricato che ospitava la centrale è ancora in buono stato e non sembra abbandonata e senza un proprietario, ora è circondata da meleti che la avvolgono in una dimensione diversa da quella che ricordo quando ce la facevano visitare con la scuola a scopo didattico, a nord dell’ edificio, molto vicino alla torre di distribuzione da dove partivano i cavi che trasportavano la corrente elettrica, ora c’è alto e maestoso un palo di cemento dell’ ENEL che con la sua spietata concorrenza ha segnato la fine della vecchia centrale.

Molto più a valle, in località Pongel proprio al lato opposto dove c’ era il prato di mia proprietà e del quale tanto ho parlato in questo libro, c’è una seconda centralina elettrica privata con una piccola partecipazione pubblica, è una centralina costruita negli anni ’80 di bassa potenza che immette la tensione prodotta direttamente nelle linee dell’ ENEL.

Una mia personale convinzione è che tutte questa miriade di centraline sui torrenti non risolvano da sole il problema del fabbisogno collettivo di energia elettrica ma sia solo un pagliattivo “verde” ed ecologista, con al rovescio della medaglia il prosciugamento di lunghi tratti dei torrenti e la conseguente loro forestazione con il pericolo di esondazioni in caso di piogge abbondanti come abbiamo notato in questi tempi a causa del mutare del clima dovuto all’ innalzamento della temperatura terrestre.

 

 

 

 

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La radio

 

 

Rare erano allora le famiglie che possedevano un apparecchio radio-ricevente, costavano molto, ma anche se fossero stati a prezzi popolari nessuno se lo sarebbe potuto permettere.

La radio era allora una cosa affascinante, un oggetto del desiderio, se occasionalmente si capitava in una casa di fortunati possessori di un apparecchio radio, si rimaneva affascinati ad ascoltare la musica o le parole che venivano diffuse da quel favoloso strumento.

La diffusione popolare della radio, aveva iniziato a prendere piede con il fascismo che ne aveva fatto uno strumento di informazione ma soprattutto di propaganda del regime.

Ogni scuola pubblica allora possedeva un apparecchio radio ricevente, ce n’ era uno anche nelle scuole di Varollo e quando c’era qualche trasmissione didattica o qualche avvenimento importante, veniva acceso.

La signora Elisa mia vicina di casa ne possedeva uno, mi pare che fosse un Telefunken, aveva i tasti di selezione della banda color bianco avorio e mi pare avesse già allora le FM ( modulazioni di frequenza ) , andavo spesso ad ascoltare, specie quando c’ erano degli avvenimenti importanti.

Un giorno, verso il 1960 venne durante una delle frequenti visite che zio Mario faceva a sua madre, la mia nonna materna, ci portò un apparecchio radio che lui non usava più perché ne aveva acquistato uno nuovo e più moderno. Fu una delle più grandi sorprese e grandi gioie della mia infanzia. Era una radio a onde medie e corte che era in grado di ricevere i segnali da tutto il mondo, quindi io mi divertivo un mondo a smanettare tra le manopole della selezione per cercare nuove stazioni trasmittenti, imparavo così a riconoscere le varie lingue della gente del mondo ma soprattutto le diverse culture musicali dei popoli.

Mi ero subito accorto che le trasmissioni si popolavano e moltiplicavano la notte, avrei scoperto molto più tardi nel tempo, quando diventai radioamatore, che questo fenomeno si chiama propagazione.

 

 

 

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GLI ZINGARI

 

 

Un altro motivo di grande curiosità per noi e di grande preoccupazione per la popolazione, ara quando in paese arrivavano gli Zingari, Questo popolo nomade, con tante etnie tra di loro, mi ha sempre affascinato ed ha sempre alimentato in me un senso di avventura e di mistero. Erano da poco usciti anche loro dalla bufera della seconda guerra mondiale, dove erano stati decimati dalla filosofia nazional socialista di Hitler, che li aveva classificati come “ unter manch “ ( uomini inferiori, una razza minore come gli Ebrei e li aveva destinati ai campi di sterminio che pullulavano in Germania ed in Polonia. Secondo me, le potenze che hanno vinto la guerra, non sono state abbastanza lungimiranti da sfruttare a pieno la storia appena trascorsa, e creare i presupposti per rendere stanziale il popolo dei nomadi, o forse non importava a nessuno della loro sorte. E cosi , una volta o due all’ anno arrivavano in paese e si accampavano in una zona fuori mano, possibilmente vicini ad un ruscello ed alle fontane dell’ acqua potabile, per poter bere, cucinare e poter lavare i panni. La gente era molto preoccupata per la loro presenza, perché si diceva che erano dei ladri, che mandavano anche i bambini a rubare, allora tutte le donno si passavano parola e tenevano chiusa a chiave la porta di casa. Forse era vero che erano ladri, non lo so, a casa mia non hanno mai rubato niente, anche perché non c’ era molto da prendere, su questo loro comportamento, ci ho riflettuto molto, ed ho trovato nel loro comportamento nomade, nella loro precarietà e semplicità di vita, una grande sete di libertà anche spirituale, quasi ancestrale, di quando tutti i popoli erano nomadi, cosa che noi abbiamo perso da tempo, in nome di una falsa libertà e di un esagerato progresso che ci ha portati a consumare più di quanto possiamo spendere, a volte, sfruttando altri popoli, ecco perché considero gli zingari, della gente veramente libera.

Essendo spiriti liberi gli zingari ricorrono di frequente a delle forme ad a modi esoterici per convincere ed assoggettare la persone con le quali hanno dei rapporti bfrevi nel tempo ed è anche per questa ragione che usano molta spregiudicatezza e molti abili trucchi per sottrarre dei beni alle persone più deboli ed ingenue. Si dicono capaci di prevedere il futuro di una persona specie dal lato sentimentale dove uno si sente appagato da una notizia positiva che và cercando a tutti i costi… è la forza dell’ irrazionale, della magia che ha sempre accompagnato l’uomo fin dai tempi primordiali ed ha consentito di sognare ed a tratti anche di sentirsi appagati dal solo desiderio che viene avallato da una zingara che ti legge la mano e ti dice sostanzialmente quello che tu vuoi sentire.

 

 

 

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LA ZINGARA

 

 

Era l’ inizio degli anni ’90, anni difficili per me per l’ impiego precario che allora svolgevo per una cooperativa che prestava i suoi servizi al Comune.

Il lavoro consisteva prevalentemente nella pulizia della strade e piccole manutenzioni alle proprietà pubbliche, che non mi gratificava abbastanza e non mi permetteva di dare libero sfogo alle mie potenzialità ed ai miei sogni.

Ero come in gabbia, costretto ad un lavoro che non mi piaceva, sempre nervoso ed acido con tutti.

Ero divenuto socio onorario del Circolo anziani di Rumo perché mi prestavo a dare un mano all’ neonato sodalizio dove era iscritta pure mia madre e sua sorella Delfina. Nel 1992 anno di fondazione del Circolo, furono messe in programma numerose iniziative e gite, tra le quali una a Genova in occasione dei 500 anni dalla scoperta delle Americhe.

Partimmo al mattino presto alla volta di Genova dove era in programma la visita all’ acquario, che si rivelò molto bella ed interessante sia dal punto di vista naturalistico che storico. A pranzo fummo ospitati nell’ oratorio di una parrocchia di Genova dove era parroco un sacerdote originario di Rumo.

Nel pomeriggio visitammo alcune chiese della città, in una delle quali c’ era una grossa granata di artiglieria navale inesplosa che era caduta sulla chiesa durante il bombardamento di Genova da parte della marina francese nel 1940 all’ inizio del secondo conflitto mondiale.

Poteva essere un proiettile da 381 mm. dei grossi calibri delle corazzate dell’ epoca, anche a dire dei vari componenti il circolo che avevano partecipato alla guerra. La chiesa era molto grande, più una basilica che una chiesa, con varie navate in stile gotico romanico molto alte e belle architettonicamente parlando.

C’ era un grande ingresso al centro della imponente navata centrale e molta uscite più piccole ai lati. Trascorso il tempo prestabilito per la visita, tutti si avviarono verso le uscite laterali per raggiungere l’ esterno dove ci aspettava il pullman che ci avrebbe riportati a casa.

All’ uscita di una della porte laterali, che avevano all’ esterno alcuni gradini che scendevano in basso, seduta sull’ ultimo scalino dove poi inizia il selciato di cubetti di porfido, c’ era una giovane zingara, con il classico abito lungo multicolore, una collana di corallo rossa e molti anelli alle dita, era accovacciata a terra e l’ abito le copriva i piedi, un fazzoletto rosso a grandi punti bianchi le copriva i capelli, lasciando spazio dietro ad una lunga treccia nera legata alla fine con un nastro bianco.

Stava in silenzio con la mano tesa come chi chiede, ma senza insistere, come chi aspetta che qualcuno la notasse e ne fosse tratto a compassione al punto di donarle qualche spicciolo. Era una bella ragazza dai lineamenti della gente dell’ est da dove provengono i nomadi che nessuno riesce a fermare quelle roulotte e quei camper che paiono destinati a non trovare mai un posto nel mondo, come dei lupi assetati di libertà.

Neppure le persecuzioni che quel popolo ha recentemente subito sono riuscite a domare lo spirito libero e ribelle degli zingari. Devo ammettere che quel tipo di vita mi ha sempre affascinato perché rappresenta per me la libertà assoluta dello spirito e del corpo, non attaccato ad una abitazione a dei beni immobili ai quali affidiamo una sicurezza precaria ed evanescente, una forma di vita collettiva e singola statica, dettata da ritmi che si basano sul culto del profitto e dell’ egoismo che nulla concede ai valori più alti e nobili della vita.

Mentre scendevo quei pochi gradini, pensieri come folate di vento che portano stormi di uccelli usciti dalla nebbia mi frullavano in testa come un chiodo fisso :

che ne sarà del mio domani, quale futuro mi riserverà il destino… ero molto preoccupato per la mia posizione lavorativa che mi vedeva precario e senza grandi prospettive di un posto di lavoro.

Scesi i pochi gradini con questi pensieri scuri in testa, lentamente con una mano in tasca che tormentava le poche monete di cui ancora disponevo. Mi accorsi all’ ultimo gradino della presenza della nomade che mi fissava in silenzio con la mano tesa di chi chiede la solidarietà del prossimo senza tuttavia cercare di imporre questo stato di cose, la guardai quasi assente e realizzai che anche lei doveva avere un sacco di problemi come m, primo fra tutti l’ essere costretta a mendicare ed a rendere poi conto a qualcuno dell’ incasso della giornata.

Eravamo accomunati da enormi problemi e da tante preoccupazioni, la mano continuava a tormentare le monetine in tasca, mentre il cervello era in conflitto con il cuore : il primo infatti mi suggeriva con insistenza di far finta di niente e tirare dritto senza dare niente alla zingara, - non vedi che giovane ? che vada a lavorare pure lei ! - .

Ma quegli occhi mi continuavano a fissare ed avevano un non so che di malinconia ed una tristezza profonda dentro, come se dietro a quello sguardo ci fosse un dramma che non conoscevo ma che potevo intravvedere come dietro ad un sipario di un teatro dovessi sta provando una recita drammatica ed il cuore mi suggeriva di essere solidale con lei che chiedeva per necessità e di non ascoltare la razionalità che mi suggeriva il cervello. Mi erano rimaste dentro al pugno chiuso in tasca alcune monete, non sapevo a quanto ammontasse la somma, ma pensai che da sole non avrebbero potuto cambiarmi la vita e neppure a lei sarebbero bastate…. Ma era lei in quel momento il prossimo che chiede, che ha bisogno, che ti guarda con la mano tesa. Levai la mano dalla saccoccia con le monetine, mi abbassai piano verso la ragazza e le misi in mano le monete, lai le guardò un attimo poi rapidamente le mise in tasca.

Quando sollevò lo sguardo i suoi occhi brillarono per un attimo di gioia vera, quello sguardo dolce di chi ringrazia fu per me come una lama sottile che mi era entrata nel cuore per liberare un attimo di gioia che potevo condividere con la zingara, mi fu facile sorriderle un attimo, lei sorrise a sua volta e fece un ampio cenno di gratitudine, poi, quasi sottovoce come se fosse una preghiera ad un Dio lontano, mi sussurrò : - signore, questo ti cambierà la vita ! - .

Sapevo che nelle tradizioni e nella cultura del popolo nomade era molto forte il ricorso a pratiche esoteriche come la lettura della mano, dei tarocchi e le previsioni del futuro, e questo tutto finalizzato al’ imbonimento della gente con previsioni di vita migliore, di fortuna in danaro, in salute ed in amore, per essere come più autorizzati a praticare la loro forma di accattonaggio.

Perciò non diedi tanta importanza a quanto mi aveva predetto ed augurato la zingara, però mi rimasero in mente, come un chiodo fisso, quelle parole : - … ti cambierà la vita ! - , Ed era come se quella voce continuasse a ripetere nella mia mente quella frase, con un effetto eco, infinito, provocando in me una piacevole sensazione di tranquillità e di libertà. Non so se la previsione della zingara abbia influito o meno sull’ andamento della mia vita dal punto di vista economico e sociale, ma mi piace pensare che sia così, che la sua previsione fosse se non altro veritiera, se non addirittura foriera di buone novelle che poi si sono realizzate.

Sta di fatto che l’ anno seguente venni assunto a tempo indeterminato presso la Dalmec S.p.a. di Cles presso la quale ho prestato il mio lavoro con la mansioni di magazziniere, fino al 2011 anno del mio pensionamento.

 

 

 

 

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Le giostre

 

 

Arrivavano annunciate dai bambini che li avevano avvistati sulla strada del Fae’, una lunga colonna di camion e roulotte che avanzava lento verso Livo.

Si accampavano di solito nel piazzale della vecchia SCAF, quando ancora non c’ erano le celle frigorifere e d il magazzino ara come una grande casa a tutti gli effetti, non esisteva ancora la forma architettonica che viene attualmente impiegata per la realizzazione di strutture per la conservazione e lavorazione della mele. In mezzo al piazzale veniva collocata la giostra che era il divertimento maggiore, quello più utilizzato in assoluto sia dai maschi che dalle femmine di tutte le età. In cima alla giostra veniva issato un pennone con attaccato una coda di volpe, per poterla prendere, c’ era bisogno di un compagno che dietro di te ti proiettasse con una forte spinta un po’ più in alto della normale orbita imposta dalla giostra, come un satellite che entra in un orbita superiore e chi riusciva ad impossessarsi della coda di volpe, vinceva un giro omaggio.

C’ era anche il camper attrezzato come tiro a segno dove se sparavi e facevi un certo numero di centri potevi vincere dei premi in base a quanti centri si otteneva. Era uno sport amato dagli adulti che erano stati sui vari fronti bellici della appena trascorsa guerra e dei cacciatori che potevano così dimostrare a tutti la loro abilità. Il box che ospitava il bersaglio, normalmente si posizionava davanti all’ ex dopolavoro e la sede della Cassa rurale di Livo.

La giostra normalmente rimaneva nel paese una decina di giorni ed in quel periodo, di solito estivo, tutta la gente , la sera, si recava in massa alle giostre, era un momento di grande socializzazione e di vero divertimento popolare per tute le età e per tutte le tasche. La presenza delle giostre era un vero e proprio “ pane circensi “ per la popolazione che trovava finalmente uno sbocco alla legittima voglia di un sano divertimento popolare e di massa ed in questi giorni la gente si permetteva una deroga al grande regime di sobrietà e di rigore economico che a quel tempo imperava nella nostra società contadina, dove regnava una grande povertà economica ma ricca allora di tanti valori come la socializzazione e la solidarietà.

Noi ragazzini preferivamo fare dei giri sulla giostra, era come volare liberi nel cielo come gli uccelli, come quei tanti eroi piloti dei quali i nostri padri, reduci di guerra, ci raccontavano le loro gesta nelle battaglie aeree.

Nei giorni in cui rimanevano le giostre, il divertimento per noi ragazzini era assicurato e tutte le sere ci si presentava presso il piazzale del magazzino per una scorpacciata di sano divertimento, tenendo conto che ai miei tempi non c’ erano altri modi di svago come ci sono ora che , secondo me, hanno tanto contribuito a togliere ai giovani creatività e fantasia, ingegno e fiducia nei propri mezzi e nel proprio pensiero.

 

 

 

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La machina da bater

 

( la trebbiatrice )

 

L’ agricoltura ai miei tempi era ancora impostata su schemi molto vecchi e tradizionali e tutte le coltivazioni erano legate all’ acqua della pioggia o dell’ irrigazione.

Fin dove i “ leci “ riuscivano a portare l’ acqua irrigando così i campi, la coltivazione era incentrata sulle piante di melo e di pero, là dove non arrivava l’ acqua dei fossi che seguiva rigidamente la legge del livello, i campi erano coltivati a grano e patate.

Tutti allora possedevano dei campi perché era l’ unica fonte per la produzione di generi alimentari di prima necessità. I campi di grano venivano arati e seminati in autunno, era un rituale che tutti facevano seguendo un rito ancestrale legato alla necessita della sopravvivenza che si perde nella notte dei tempi.

Se la stagione si presentava buona, con la neve d’ inverno, le piogge di primavera ed il caldo sole estivo, il raccolto di grano era assicurato ed abbondante.

In luglio il grano era maturo ed era uno spettacolo vedere tutto il dosso di Barbonzana con i suoi campi color giallo oro punteggiati dal rosso dei papaveri ed il blu intenso dei fiordalisi.

A luglio avveniva la mietitura i contadini si recavano nei campi a “ seslar” armati della “ sesla “ ( il falcetto ) , il compito di falciare il grano veniva principalmente affidato alle donne che lavoravano chine nei campi, tagliavano rapidamente il grano e lo legavano in covoni che venivano allineati in piedi nel campo per la definitiva essicazione sotto il sole cocente di luglio.

Man mano che i covoni si essicavano, gli uomini li caricavano sui carri trainati dalle mucche, venivano poi portati a casa e depositati nelle soffitte arieggiate perché il grano non ammuffisse.

Si attendeva così noi ragazzini trepidanti ed ansiosi di nuove esperienze, l’ arrivo della macchina da bater ovvero della trebbiatrice meccanica.

Bisogna dire che fino agli anni ’60 la trebbiatura del grano si faceva ancora manualmente, con degli attrezzi rigorosamente tutti in legno, il lavoro veniva svolto nelle “ are “ ( l’ aia del cortile di casa ), si iniziava con il depositare i covoni di grano sul pavimento, formando un grande cerchio con le spighe rivolte verso l’ intero. L’ operazione successiva era la battitura del grano che avveniva con uno strumento chiamato “ fler “ che era un grosso pezzo di legno cilindrico lungo circa mezzo metro con la punta arrotondata e legato all’ altra estremità con una robusta stringa di cuoio ed un lungo bastone. Apro una parentesi erotica, il fler era anche additato come simbolo fallico della potenza sessuale maschile, forse si è esagerato un po’ troppo nel esibizionismo tipico dei maschi e nei desideri erotici femminili.

Lo si faceva roteare colpendo di piatto i covoni del grano per determinare la fuoriuscita del grano.

Finita questa operazione la paglia veniva raccolta e messa in disparte, sarebbe poi servita come foraggio per le mucche tranciata a piccoli pezzi e miscelata con il fieno. Successivamente si provvedeva a raccogliere i chicchi di grano mediante delle scope che lo spingevano il un grande cesto piato chiamato “ val “.

Il val serviva a separare la pula dal buon grano, l’ operatore si metteva contro vento e con dei movimenti rapidi dall’ alto al basso faceva in modo che il vento portasse lontano la pula e che nel val a fine operazione rimanesse solo il grano pulito pronto per essere portato dal mugnaio.

La machina da bater , la trebbiatrice meccanica sostituiva in un tempo brevissimo e senza tanta fatica umana, tutto il lavoro manuale fin qui descritto.

Credo venissero dal veneto o dall’ Emilia romagna quella gente che arrivava in agosto per le operazioni di trebbiatura, credo anche che avessero preso degli accordi precedenti con i locali agricoltori, il loro arrivo in paese era vissuto da noi ragazzini come un avvenimento molto importante, ed importante lo era veramente perché dalla buona produzione di grano dipendeva il felice andamento di tutto un anno, fino al prossimo raccolto.

Il loro arrivo era un lento scorrere di grandi ruote dei colossali trattori “ ursus “ che avevano un grande volano laterale che serviva poi a movimentare l’ imponente meccanismo della trebbiatrice. Era un incedere lento e sbuffante di questi trattori che si muovevano molto lentamente, la trebbiatrice aveva le ruote in ferro ed era di colore giallo ocra, si avvicinava al paese con un rumore crescente e in noi ragazzini cresceva la frenesia e l’ emozione dell’ attesa.

Il posto destinato ad accogliere la trebbia meccanica era a Varollo nel piazzale delle scuole vicino alla vecchia fontana e dopo una giornata di lavoro per il posizionamento della macchina e la sua messa a punto, iniziava finalmente la trebbiatura del grano.

Non ricordo bene, ma credo che il turno di accesso alla trebbiatura dei vari nuclei familiari venisse stabilito prima dell’ inizio dei lavori anche per non creare intasamenti o che nessuno potesse vantare diritti.

Ogni agricoltore arrivava con il proprio carro carico di covoni di grano, se non bastava un carro se ne chiedeva uno in prestito al vicino di casa, e si posizionava vicino alla machina da bater, il proprietari del grano ed a bracciate porgeva i covoni all’ operatore che li introduceva nella bocca della trebbia che come un grande mostro affamato e brontolante se li ingoiava ad uno ad uno con un rumore assordante di leve, pale cinghie di trasmissione e ventole .

In breve tempo il mostro separava il grano dalla paglia e dalla pula che usciva da un lato della macchina dove veniva raccolto in grandi sacchi di juta e veniva poi consegnato al proprietario. La paglia usciva dalla trebbia e veniva imballata da una seconda macchina che la trasformava in lunghi parallelepipedi legati da un filo metallico.

In quel momento l’ operazione era terminata, l’ agricoltore pagava il dovuto credo in base al peso del grano ricavato e se ne tornava a casa fiero e felice per aver assicurato il pane per un anno alla propria famiglia.

Noi ragazzini davamo una mano agli operatori aiutandoli a preparare il filo metallico che sarebbe servito a legare le balle di paglia, con una macchina che lo metteva in trazione e gli toglieva le pieghe.

Quando ripenso a quei giorni non posso esimermi dal fare della considerazioni e dei confronti, ad esempio le leggi sulla sicurezza sul lavoro, a tutt’ oggi mi sembra incredibile che nessuno si sia mai infortunato armeggiando attorno a quei mostri pieni di insidie e di trabocchetti, una spiegazione posso azzardarla, allora si era molto più attenti ai rischi perché abituati al duro lavoro dei campi, all’ uso di una miriade di attrezzi di vari tipi e tutti mossi rigorosamente dalla propulsione muscolare.

 

 

 

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L’ ” Mia “

 

Il mugnaio

 

Finita la trebbiatura, un'altra importante operazione per poter trasformare il grano in farina, era la macinatura.

Arrivava allora da Rumo un uomo con il carro trainato da un cavallo, l’ uomo stava seduto su una panchina in legno , come era tutta la struttura del carro, e teneva in mano le redini del cavallo.

Portava un cappello dalle ampie falde ed aveva sempre un viso sorridente. Mi sembrava tanto un personaggio di un famoso libro, La capanna dello zio Tom, perche aveva anche la pelle un po’ scura.

Er il mugnaio, un signore di Rumo che si chiamava*** e passava periodicamente per il paese a raccogliere il grano da macinare. Credo avesse un mulino ad acqua in quel di Rumo, tutte le donne che avevano bisogno di farina fresca, uscivano di casa al richiamo del “ Mia “ e consegnavano un sacchetto di grano, con la raccomandazione che “ l’ bondia po’ “ .

Trascorsa una settimana il mugnaio si ripresentava e riconsegnava alle massaie la farina.

Mia nonna diceva sempre al “ Mia “ che la farina era poca rispetto al grano che le aveva dato e lui rispondeva che era il grano che aveva reso poco…

 

 

 

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L’ UCCISIONE DEL MAIALE

 

 

( Cando i copava l’ porciet )

 

L ‘ alimento proteico di maggior consumo nelle campagne dei nostri paesi, era senza ombra di dubbio, la carne si maiale. Tutte le famiglie , ai miei tempi, ne possedevano almeno uno, veniva allevato per fornire la carne alle famiglie contadine .

Veniva aquistato piccolo, subito dopo lo svezzamento, dai commercianti che passavano con il camion e lo consegnavano ai clienti che lo avevano prenotato, uno di questi, si chiamava Fedrizzi, poi , dopo il consueto barattare per avere uno sconto sul prezzo, il maialino, strillante e roseo, veniva portato nella stalla, dove veniva deposto nel luogo che sarebbe stato la sua dimora per il resto dei suoi giorni, in un angolo della stalla, chiamato “ stalot “ recintato con mattoni o un inferriata, guai mettere tavole di legno perché il maiale se le sarebbe mangiate a poco a poco e sarebbe poi scappato per la stalla a razzolare tra le mucche.

Il maiale è un animale onnivoro, e veniva nutrito con gli avanzi del cibo e con patate, bietole ed altri prodotti dei campi, integrato con del mangime che si comprava a sacchi di 50 chilogrammi l’ uno,famoso era il Raggio di sole, si preparava così il pasto quotidiano facendo un miscuglio dei vari ingredienti, mescolati tra di loro in acqua calda, veniva dato due volte al giorno, la mattina e la sera. Il maialino veniva generalmente aquistato la primavera e veniva fatto ingrassare per tutto l’ anno fino all’ inverno successivo, quando , nei mesi tra novembre e febbraio, mesi invernali e quindi freddi ed adatti alla lavorazione ed alla conservazione della carne che sarebbe servita poi, per l’ intero anno.

Conosco nei dettagli, tutto il procedimento della macellazione e della lavorazione del maiale, in quanto, mio padre, nei mesi invernali si dedicava a questo lavoro per se e per la gente del paese che lo chiamava a macellare e lavorare la carne suina.

Conservo ancora gran parte degli attrezzi che servivano alla macellazione ed alla conseguente lavorazione della carne, come numerosi coltelli di varie dimensioni con il contenitore in cuoio, l’ “ cialin “ un pezze di acciaio magnetico che serviva per affilare i coltelli, la “ macchina da far su le lujangie “ che è un tritacarne con una vite senza fine che spingeva la carne nei budelli che diventavano lucaniche saporite.

La “ panara “ che era una cassa, molto simile ad una barca, con il fondo piatto e le pareti svasate che serviva per l’ uccisione del maiale se veniva utilizzata con il fondo rivolto in alto, o per la successiva pulitura del maiale morto ed allora veniva usata come una vasca da bagno.

Il maialino, intanto, cresceva, nutrito amorevolmente dalle donne di casa, che badavano anche alla sua pulizia ed alla pulizia dello “ stalot “ e del posto fatto in tavole di legno dove dormiva che doveva essere asciutto perché non prendesse i reumatismi.

Passava l’ estate e l’ autunno, ed arrivava l’ inverno, ed il maiale era così diventato bello grasso e paffuto ed arrivava a pesare tra i 90 ed i 120 chili, a seconda se

l’ ova fat ben o no “ , così, si sceglieva una data per la sua uccisione, in base alla luna ed alla disponibilità del macellaio, e la fine del maiale era segnata.

L’ uccisione del maiale era un rito che veniva preparato nei minimi particolari : bisognava chiedere l’ aiuto di almeno quattro o cinque uomini robusti che avevano il compito di tenere fermo il maiale, bisognava preparare una notevole quantità di acqua calda degli stracci puliti, un paiolo o un secchio per il sangue.

Tutti, allora, avevano un locale con due anelli metallici ancorati al soffitto che servivano per appendere il maiale, sventrarlo e togliere le interiora, e per poi lasciarlo frollare per almeno 24 ore.

Tutti gli altri attrezzi venivano portati dal macellaio.

Mi pare che ci sia tutto l’ occorrente e si possa iniziare…

Non vorrei, qui, essere accusato di sadismo o di violenza verso gli animali, se racconto, nei dettagli la morte di un animale, mi limito solo a fare una cronaca dettagliata, ed invito chi è particolarmente sensibile,

 

ad interrompere qui la lettura!

 

L’ uccisione, veniva sempre programmata per il mattino presto, all’ ora di quando la gente aveva terminato i lavori nelle stalle ed aveva portato il latte “ al ciasel” , all’ ora convenuta, gli uomini si radunavano nel luogo stabilito e per prendere coraggio bevevano tutti un grappino anche perché era sempre freddo, facevano qualche considerazione sul maiale da uccidere, ad esempio se fosse con poco lardo e lo si deduceva chiedendo il tipo di alimentazione che gli era stato dato, e stimando ad occhio il peso del suino.

Veniva, quindi, preparata la “ panara “ con il fondo rivolto in alto dove poi veniva adagiato il maiale, il macellaio, nel frattempo, preparava i suoi attrezzi, un coltello della lunghezza di circa 20 centimetri, che veniva affilato con alcune passate di “ cialin “ fino a tagliare come un rasoio, un pezzo di cordicella di circa due metri, veniva poi richiesta la presenza di una persona con un paiolo per prendere il sangue, generalmente era un ragazzo o una donna di casa.

Tutto era pronto, veniva allora aperta la porticina dello

stalot “ ed il maiale veniva fatto uscire, con la complicità di una bietola che gli veniva fatta rosicchiare mentre veniva indotto alla “ panara “ con qualche grugnito, lì giunto, ad attenderlo c’ erano gli uomini robusti che lo facevano girare nella direzione del macellaio, spingendolo piano piano,, appena raggiunta la direzione giusta, ad un cenno gli uomini , tutto d’ un colpo afferravano il maiale per le zampe e lo adagiavano di forza sulla “ panara” , allora cominciava a strillare a perdifiato che lo si sentiva per tutto l’ isolato, e la gente commentava : “ i copa l’ porciet “ .

Veniva tenuto giù di forza, mentre il macellaio con una mossa rapida gli girava attorno al muso la cordicella per evitare di essere morso, poi , tirava indietro la testa del maiale per mettere in evidenza la gola, tastava con le dita per cercare il punto giusto dove colpire, appena sopra la punta di petto, invitava con un cenno la donna con il paiolo ad avvicinarsi, poi, con un gesto rapido, piantava il coltello nella gola dell’ animale, facendolo penetrare con un inclinazione diretta verso il cuore, fino al manico, recidendo di netto le arterie giugulari. Appena estratto il coltello, ne seguiva un flotto di sangue violento ed abbondante, che determinava la morte in pochissimo tempo, il sangue veniva raccolto dalla donna, nel paiolo, veniva poi mescolato per non farlo rapprendere, fino a quando era freddo, per poi farne i “ brusti “ o sanguinacci, i francesi li chiamano buden noire.

Questo tipo di macellazione mediante sgozzamento, detta anche macellazione araba, sembra , a prima vista , una forma barbara e crudele per uccidere un animale, ma , secondo me, è invece il modo più rapido ed indolore di uccidere un animale, ho visto dei video sulle moderna macellazione industriale, da far rabbrividire per i metodi barbari adottati, animali storditi con la corrente o con i mortaretti, lasciati appesi per molto tempo, fino a rianimarsi, prima di essere sgozzati in modo sommario lasciati sanguinare, agonizzanti per molto tempo, in barba alle leggi vigenti.

 

C’ era un detto molto in uso tra noi ragazzini, un modo per esprimere e quantificare la gioia di quel giorno, un giorno durante la lezione di religione, il parroco chiese ad un alunno quale fosse stato per lui il giorno più bello della sua vita e il ragazzino rispose : - camdo i copa l’ porciet ! “ – ( quando uccidono il maiale ).

Erano infatti i giorni in cui finalmente si poteva mangiare della carne a sazietà, iniziava allora la lavorazione della carne per la sua stagionatura e conservazione per l’ anno in corso fino al prossimo maiale. Della lavorazione della carne del maiale, io ne posso parlare ampiamente e dettagliatamente in quanto mio padre era un esperto in questa arte.

Dopo essere stato messo a frollare per 24 ore, il maiale veniva sezionato in parti che poi erano destinate a diverse forme di prodotto finito, mio padre era molto abile in questa operazione di selezione iniziale.

Si passava poi al disossamento della carne che veniva messa in grossi pezzi in contenitori o secchi di legno, separata per le varie destinazioni finali.

Così venivano separate le parti che poi sarebbero divenute la coppa, lo speck e la pancetta dal resto che poi veniva macinato per ricavarne delle lucanicha, cotechino e mortandela.

I tagli destinati a diventare pancetta o coppa, venivano posti in salamoia in una cassa di legno con gli aromi , le spezie e la giusta quantità di sale che era il conservante naturale che doveva essere calibrato in modo corretto per avere una giusta gradazione al palato. Il tutto poi veniva lasciato macerare per otto giorni prima di passare alla fase della lavorazione finale e dell’ affumicazione.

Il grasso del maiale veniva anch’ esso separato e poi veniva fuso dalle massaie di casa in grossi pentoloni fino alla sua liquefazione totale, veniva vano aggiunte delle cipolle e dei chiodi di garofano per aromatizzarlo e poi veniva riposto in grossi vasi di terracotta o di vetro dove si raffreddava lentamente poi si chiudevano ermeticamente e così si conservavano per l’ intero anno ed anche di più.

Ai miei tempi non c’ erano i frigoriferi ed i congelatori e tutto si doveva conservare in modo naturale o con l’ ausilio del cloruro di sodio.

Era arrivato il momento degli insaccati, “ le lujangie “ per dirla in italiano le lucaniche, il compito di macinare la carne era affidata alla vecchia macchina per il macinato “ Alexanderwer “ fatta funzionare a forza di braccia, la macchina veniva fissata al bancone da lavoro con dei morsetti in metallo e noi ragazzini si faceva a turno ad azionare la manovella che faceva funzionare una vite senza fine che spingeva i pezzi di carne verso le lame che la tritavano e la facevano uscire dai forellini al termine dell’ apparecchio.

Si formavano delle piccole montagne di preziosa carne che aveva man mano depositata in una piccola “ panara “ di legno in attesa di venire poi speziata ed aromatizzata. Alla fine veniva pesata per poter calcolare la giusta percentuale di aromi ma soprattutto di sale che veniva aggiunto al macinato, seguiva poi l’ operazione di impasto che durava una mezzoretta affinché il sale e gli aromi penetrassero nella carne.

Man mano che questa operazione proseguiva, il locale si riempiva di un intenso profumo che proveniva dalla carne che assorbiva gli aromi, un profumo che solo quelle persone che hanno assistito o ci hanno lavorato riesce a riconoscere e ricordare per sempre.

Era un profumo intenso e ricco di quei sapori d’ oriente che riempiva il cuore e la mente di rinnovata fiducia in un nuovo anno di prosperità ed abbondanza, che ti dava un senso di sicurezza e di orgoglio per il tanto lavoro svolto per arrivare fino qui, con un doveroso e grato pensiero al povero maiale che era stato sacrificato per sfamare la famiglia che lo aveva allevato con tanta dedizione ed amore.

A volte mi chiedo : ma è giusto tutto questo ? -

Non lo so, e forse è meglio non approfondire troppo questo dilemma…

Alla fine dell’ opera di impasto si passava all’ insacco della carne miscelata che era divenuta un impasto omogeneo ed appiccicoso, alla macchina venivano tolte le lame e veniva applicato un imbuto dal lungo becco nel quale veniva infilato un budello ( un intestino di bue ) l’ unica cosa che si aquistava unitamente allo spago sottile e resistente che serviva per legare le lucaniche. Il budello lo si comprava alla cooperativa ed era venduto a metro, era già pulito e sotto sale per la conservazione, le donne lo mettevano in ammollo la sera prima in acqua tiepida ed in giorno dopo era pronto per l’ uso.

Una volta applicato nel becco del imbuto, mi sia consentito un paragone che rende bene l’ idea, come un lunghissimo profilattico, veniva poi legato all’ estremità ed iniziava l’ operazione lucaniche fresche.

Il budello si riempiva lentamente dell’ impasto di carne che veniva spinto dalla vite senza fine della macchina ed il budello si gonfiava e si ingrossava e si allungava arrotolandosi sul grande tavolo.

Inutile dire quali e quanti erano i commenti erotici e le allusioni ad un certo organo maschile, tante, piccanti e sibilline… ma era un momento di grande gioia ed allegria e tutto per un attimo era consentito, alla fine quando finiva il corruscare dei coltelli ed il pericolo di ferirsi era finito, era un continuo riempire di bicchieri, mentre mio padre legava le lucaniche con lo spago dando a tutte la stessa lunghezza, ne dava poi alcune a mia madre che le faceva cuocere nell’ acqua ed al termine la portava tagliate a grandi pezzi su un vassoio ed era il primo assaggio delle lucaniche fresche di quell’ anno, tutti mangiavamo avidamente ed i bicchieri di groppello non si contavano più…

Si finiva sempre con un coro improvvisato di qualche canto di montagna, mio padre era un ottimo cantore.

A questa festa si rendevano partecipi anche i parenti più stretti ed a loro erano riservate dell’ lucaniche di formato ridotto, così dette “ DEI PARENTI…”

Del maiale non andava buttato nulla, solo le ossa, i denti e le unghie, tutto il resto veniva usato per lì alimentazione o per altri usi, ad esempio il grasso scarto e non commestibile “ la songia “ veniva usata per ungere il cuoio delle scarpe, le setole del dorso venivano date ai calzolai che le usavano come ottimo spago per cucire le scarpe, con il sangue si facevano i “brusti “ o sanguinaccio che era un salame fatto con il sangue e vari tipi di frutta secca ed aromi naturali di erbe, molto buono, in Belgio lo si produce ancora ed è veramente una squisitezza.

 

 

 

 

 

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La stalla

 

 

Quando penso alla stalla, mi tornano alla mente una folata di ricordi e di esperienze vissute da ragazzino prima e da adolescente poi. La stalla era un locale comune a tutte le case rurali del mio tempo, era uno dei locali di casa più frequentati ed animati di tutta l’ abitazione.

Abbiamo ampiamente elaborato il modo di vivere della gente dei paesi della mia valle ed il mio non faceva eccezione, che si basava esclusivamente sull’ agricoltura e la zootecnia che servivano al sostentamento alimentare delle famiglie di quel tempo, compresa la mia.

La stalla di casa mia era un locale nel seminterrato posto a sud - est dell’ abitazione con l’ ingresso dalle “ cort “ da est. Il locale adibito a stalla, era un avvolto a 4 archi da noi questo tipo di architettura viene definito con una parola sola: “voti”.

Mi piace descrivere dettagliatamente questo locale, perché è uno dei posti che ricordo con infinita tenerezza e riconoscenza, perché per anni fu il sostentamento della famiglia ed il luogo di sicuro e comodo rifugio di tutti gli animali domestici e no ed un piacevole luogo di ritrovo dove le persone potevano liberamente fare “ filò “ .

La stalla era adibita a casa di abitazione delle mucche e del maiale che era un ospite “ stagionale “ della stalla in quanto veniva cambiato tutti gli anni…

Noi avevamo il posto riservato al maiale, detto in dialetto “ stalot “, che era al lato opposto delle mucche, a nord del locale, era un recinto di mattoni con il pavimento di mattonelle di terracotta lavorate in modo che i liquami potessero scorrere via velocemente, poi c’era un piccolo pavimento rialzato di legno che veniva sempre tenuto pulito ed asciutto dove dormiva il maiale, affinché non prendesse artriti o altre magagne.

Separato da un fosso profondo circa 30 cm. C’ era il posto per 4 mucche, con il pavimento in mattonelle di terracotta uguali a quelle dello “ stalot “ del maiale e dove arrivava il muso delle vacche, c’ era la “ spargeu “ ovvero tradotto in italiano la mangiatoia, una parola tanto usata di questi tempi nella politica italiana…

Era come una barca di legno divisa a metà con dei buchi per legare le mucche sulla chiglia e divisa in comparti quante erano le abitanti signore della stalla.

La “ spargeu “ serviva per mettere il fieno che era l’ alimento base delle mucche che veniva dato loro due volte al giorno, la mattina e la sera.

L’ acqua veniva servita mediante un grosso secchio di rame detto “ cjazudrel “, alcuni contadini però usavano portare le mucche alla fontana del paese e farle dissetare con l’ acqua del “ brenz “ che era una piccola fontana separata dal lavatoio dove l’ acqua era sempre pulita e potabile.

Mio padre era un uomo molto progressista e lungimirante nelle vedute e posso essere legittimamente fiero nel ricordare che fu uno tra i primi ad ammodernare la stalla alla fine degli anni ’50, con quanto di migliore disponeva a quel tempo la tecnologia zootecnica, come l’ abbeveratoio automatico e l’ acqua potabile nel locale per la pulizia dei secchi per la mungitura.

Se paragonato alle moderne stalle che oggi si possono vedere sui territori ancora adibiti alla coltura zootecnica, la mia stalla di allora fa tenerezza ed è paragonabile alla grotta di Behtlem, ma per quel tempo era il the best delle soluzioni tecnologiche all’ avanguardia, tant’ è vero che le mucche ebbero l’ acqua in casa prima del padrone e questo la dice lunga su quanto fossero importanti gli animali per la sopravivenza umana e quanto si facesse per la loro buona qualità di vita.

Un animale era un membro della famiglia a tutti gli effetti, aveva un nome che gli veniva attribuito come a noi vengono appioppati i soprannomi, dal colore della pelle, da una macchia sul pelo, da un corno storto, ecc.

Agli animali ci si affezionava al punto che quando se ne doveva vendere qualcuno molte volte noi ragazzini ci si metteva a piangere. Il governare le mucche implicava l’ apprendimento di parecchie nozioni ed il rispetto tassativo degli orari.

Alle mucche veniva dato da mangiare il mattino e la sera, l’ acqua se la prendevano da sole nell’ abbeveratoio automatico, dovevano essere munte due volte al giorno, mattina e sera, e dovevano avere il posto dove si coricavano sempre pulito, per tanto bisognava liberarlo dal letame e cospargerlo di segatura e “ florin “ .

Bisognava potare le vacche a “ manz “ in altre parole bisognava portarle all’ accoppiamento con il toro, bisognava quindi imparare a capire quando la mucca era in calore, ad interpretare i segni che madre natura dà alle femmine per farci capire che il tempo è fecondo.

Trascorsi poi i classici nove mesi, la mucca era pronta a partorire il vitellino, era sempre uno spettacolo emozionante perché era la nascita di una nuova vita, una nuova avventura che si ripeteva con un rito antico, il rituale della vita, con i suoi ritmi, antichi di millenni ma sempre nuovi ed attuali.

La mucca che “ la pestola “ per il dolore, poi piano, piano compaiono le zampe, ed allora ci si attaccava una cordicella e si tirava per aiutare la bestia a partorire.

Poi il vitellino che esce e bisognava asciugarlo con la paglia e degli stracci e dopo pochi minuti si alzava in piedi, barcollante ed indeciso, ma subito attratto dalle poppe gonfie di latte della madre e via a succhiare come un drago e quante testate nelle mammelle per chiedere più latte…

Si potevano ammirare tutti i più reconditi ed oscure ricordi ancestrali che madre natura aveva attribuito nei millenni passati a questa razza di animali e come tutti gli animali sapeva già delle cose , dei comportamenti che aveva ereditato dal DNA dei genitori.

La stalla era anche il regno di altri animali a due zampe, a quattro zampe ed ad otto zampe. Gli animali a due zampe si ritrovavano spesso nelle lunghe sere d’ inverno, in attesa del parto di una mucca, davanti ad una fiasca di buon vino a raccontarsi la vita trascorsa, le avventure belliche e quelle amorose e più calava il vino nella fiasca, più aumentavano i nemici uccisi e le donne con le quali avevano fatto l’ amore…

Altri animali a quattro zampe, furbi ed astuti, erano i gatti che pretendevano la loro parte di latte durante la mungitura, che veniva assegnato loro in una ciottola di legno con la solita imprecazione: “ boni da n’ got, con tuti i sorsi che je !!! “.

I topolini li si vedeva di rado, ma c’ erano e numerosi, a piccole famigliole, uscivano quando tutti erano andati via, specie i gatti, si cibavano dei resti del mangime per le mucche caduto a terra o di pezzetti di bietola oppure entravano piano nella casa del maiale, nello “ stalot “ ad avidamente divoravano gli avanzi del suino che dormiva.

Gli ospiti ad otto zampe erano costantemente in eterna mortale competizione tra loro, erano le mosche ed i ragni. Nella stalle le mosche abbondavano ed i grossi ragni avevano tessuto delle enormi ragnatele da un arco all’ altro della stalla, e tu le potevi anche abbattere che il giorno dopo le ritrovavi più salde e robuste di prima, misteri della natura.

Dopo fatta la tela al ragno era sufficiente attendere fermo in un angolo e le mosche che ronzavano intorpidite dal caldo della stalla entravano nella ragnatela e vi rimanevano impigliate, allora il ragno si avvicinava svelto e se le mangiava ed anche questo fa parte dell’ istinto di conservazione e del ciclo biologico della vita.

 

 

 

***    ***

 

 

 

I TORI DEL MIO PAESE

 

( QUANDO NON C’ ERA IL “ VIAGRA “ )

 

 

di

 

Bruno Agosti

 

 

Se ci sono dei momenti della vita che mi mancano in modo intenso e mi fanno soffrire di immensa nostalgia sono certamente quelli della mia infanzia, di quando mio padre, agricoltore ed allevatore, mi portava nei prati da falciare, saturi di fiori dai colori policromi e dall’ intenso profumo diverso tra loro che avevo imparato a conoscere ed apprezzare.

Il ricordo più bello e più delicato, che tutt’ oggi conservo nel cuore, è quello di quando si andava, a piedi, ad accompagnare le mucche alla malga Binagia,1 per l’alpeggio, che durava circa tre mesi.

Passato un abitato sulla via dell’alpeggio, ci si incamminava lungo la stradina sterrata che portava alla malga, ed arrivati nella valle di Campo, 2 ci si fermava sempre ad ammirare lo spettacolo dei prati verdi, punteggiati da una miriade di botton d’oro: uno spettacolo mozzafiato, con sfondo le vette alpine.

Tutto ciò accadeva, nei secoli scorsi, quando ancora i campi erano coltivati a grano e patate ed i prati servivano principalmente per la produzione di foraggio per alimentare il bestiame delle stalle, prevalentemente formato da mucche da latte, da qualche pecora e da pochi cavalli.

All'uscita dalle stalle, alla sera, dopo la mungitura era molto facile imbattersi in un crocchio di contadini, i quali, dopo aver portato il latte al caseificio, si fermavano a discutere dei problemi della zootecnia e dell'agricoltura e tra questi, a riguardo dei temi più comuni nel settore delle mucche, si sentiva spesso udire, tra loro, che avevano una mucca che : “la va a manz”.3

 

Per essere sinceri questo, più che un problema, era il normale corso della natura che determinava che la mucca era in calore e perciò pronta per l'accoppiamento con il toro, il quale, fino agli anni ‘60 era l'indiscusso padrone di tutte le mucche del paese. Credo proprio che fosse un lavoro che lo gratificasse enormemente visto che gli si era concessa più di una mucca al giorno, sino al momento dell'avvento della fecondazione artificiale che sostituì l’accoppiamento naturale e portò nella zootecnia locale del seme proveniente da tori americani di maggiore stazza. In alcuni casi ciò provocava la morte per parto di mucche che non riuscivano a dare alla luce dei vitelli così grossi. Questa innovazione biologica lentamente ha tolto al toro il lavoro e, conseguentemente, la sua ragione di esistere.

Il fatto di portare la mucca al toro era un vero e proprio rito che consisteva nel farla camminare dalla nostra stalla, sino a quella in cui era ospitato il toro da monta, dove c'era il responsabile che faceva accomodare la mucca al suo posto e poi liberava dalla stalla adiacente il toro, il quale usciva e subito si metteva ad odorare l’aria che nel frattempo si era impregnata dell'odore del feromone della mucca in calore. Dopo pochi istanti, salvo qualche eccezione, era pronto per montare sopra la mucca, senza i tanti preliminari a cui si è abituato il genere umano.

 

Naturalmente, per poter assistere a questo spettacolo “hard", bisognava essere “grandi” abbastanza per potere anche aiutare il papà a far camminare la mucca. Tra gli uomini che assistevano all’ evento, non mancavano ovviamente certe considerazioni sulla potenza sessuale del toro e certi accostamenti erotici sul sesso, bisbigliati, che avrei capito solamente quando mi sarei fatto più grande, e guai poi a ripetere quelle cose in presenza della mamma perché tutto il rito dell'accoppiamento doveva essere un tabù, persino quello del toro.

La gestione dei tori da monta era affidata ad una società che si chiamava “società del toro”. Ne esisteva una nel mio paese ed una nel paesino di sopra ed avevano un solo ed unico scopo: quello della continuazione della specie. Queste si finanziavano con i proventi della monta dei tori, che ad ogni mucca che veniva coperta dagli stessi, corrispondeva una quota che era a seconda della qualità del toro.

Esistevano, infatti, dei tori di prima classe, di seconda classe e di terza, e queste categorie erano attribuite direttamente dalla federazione allevatori di Trento, in base al peso, alla bellezza e quant’altro.

Per cui, la mucca che veniva montata dal toro più prestante, doveva pagare di più. La società dei miei paesani aveva a disposizione tre tori mentre quella della frazione poco distante ne aveva uno e con questi si riusciva tranquillamente a coprire tutte le mucche del territorio.

Ma ad un certo momento in quello di sopra venne un signore anche lui agricoltore e zootecnico, il quale a sua volta comprò un toro da monta, lo mise a disposizione degli utenti privati ad un prezzo di monta inferiore a quello del toro ufficiale e, per stretta logica di mercato, il toro ufficiale di quel borgo rimase, aimè, senza lavoro.

La società fu allora costretta a venderlo in quanto era risultato antieconomico il suo mantenimento.

 

Non appena rimossa la diretta concorrenza, l’allevatore in questione rialzò il prezzo della monta e in poco tempo si rifece dalla perdita avuta in precedenza, obbligando gli utenti ad una tariffa maggiore.

 

Come capita a volte nella vita le cose non sempre vanno nel verso giusto e così fu per quel signore , che dovette vendere il toro, smettere l'attività agricola e cambiare paese, così di punto in bianco gli utenti del paese di sopra si ritrovarono ancora una volta senza il toro che avrebbe dovuto montare le loro mucche. Furono così obbligati a scendere nel paese di sotto dove c'erano i due tori della società locale.

 

E così le cose sembrarono aggiustarsi. Gli allevatori della frazione di sopra scendevano a valle con le loro mucche, che poi risalivano soddisfatte dai tori, sino a quando, dopo un po' di tempo, ci si accorse che i due tori non erano sufficienti a coprire un numero così elevato di mucche, e qualche volta facevano cilecca con unanime disappunto sia della vacca e del padrone, costretto così a ritornare a casa a mani vuote e a dover poi riportare la mucca al toro la volta seguente ” che la nova a manz“.

Bisogna anche aggiungere che allora non c'era il “ Viagra “ 4 che si dice abbia in quella materia dei poteri miracolosi almeno per l' uomo, ma se anche ci fosse stato non sarebbe servito a nulla perché, come abbiamo detto precedentemente, il toro si eccitava esclusivamente nel sentire l'odore del feromone della mucca in calore.

Si dovette così acquistare un altro toro.

Il terzo toro si era reso necessario per coprire il fabbisogno dell'intera zona, ma la società, non avendo per statuto sociale un fondo proprio, dovette chiedere un prestito ad un agricoltore locale più benestante, il quale lo concesse volentieri. Il toro fu così acquistato.

Per ammortizzare quella inaspettata spesa, la società decise allora di alzare un poco il costo della monta così da ricavarne il necessario da poter restituire il denaro al creditore.

 

Le cose sembrarono allora prendere il verso giusto con soddisfazione delle mucche del paese di sopra, che avevano ritrovato il loro toro, e di tutti i contadini della zona che avevano risolto un altro problema; ma trascorso un po' di tempo ci si accorse che le mucche che venivano portate nel mio paese, cominciarono a scarseggiare, con conseguente calo del ricavato che sarebbe servito per coprire la spesa dell'acquisto del terzo toro e a pagare il mantenimento degli altri.

 

Per un po' di tempo si cercò di trovare qualche spiegazione, ricercando le cause del calo nelle lune crescenti o calanti. Successivamente, qualche vecchia zitella, azzardò l'ipotesi di una improvvisa e collettiva menopausa delle mucche. Insomma, ci si arrovellò per comprendere la ragione per la quale dall’altro paese scendevano così poche vacche verso i tori del mio.

Ma la risposta a tutto ciò la portò il macellaio, e lì per lì tutti pensarono che questo fosse la causa di tutto avendo magari dovuto macellare delle mucche in quel sopra. Pure tale ipotesi si rivelò falsa.

Lo stesso macellaio, infatti, riferì al Presidente della società del toro che, mentre scendeva dalle malghe con il furgone, non di rado gli capitava di incontrare agricoltori che portavano le loro vacche verso i tori del paese di sopra. Tutto ciò non perché fossero maschi più belli e più “fighi” e magari le mucche preferivano loro ai quelli del mio paese, ma molto più semplicemente perché lassù la monta costava di meno.

 

Fino a qui, la storia d’ altri tempi che oggi si può raccontare con ironia, ma che racchiude in sé tutta la filosofia ed il modo di vivere di 50 anni or sono, di quando la comune povertà della gente di campagna, obbligava le famiglie ad un tipo di economia domestica dove la parola d’ ordine era “risparmiare” ovunque fosse stato possibile farlo.

Per capire quanto fosse importante, quasi vitale, che le mucche nella stalla fossero gravide per poter poi ricavare del denaro dalla vendita del vitellino, o poter allevare un'altra mucca da latte, basti pensare che quando una donna allora perdeva un figlio per via di numerosi aborti spontanei dovuti alle fatiche o alla mancanza di prevenzione medica, ci si consolava dicendo che se fosse successo ad una mucca nella stalla, sarebbe stata una disgrazia ben più grande.

 

 

NOTE

 

  1. Malga di proprietà della comunità locale, adibita ad alpeggio per il bestiame.

  2. Località a nord dell’ abitato di Bresimo.

  3. Espressione popolare dialettale, che identificava che una mucca era in calore.

  4. Farmaco la cui azione stimola la sessualità maschile.

 

 

 

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IL SERPENTE GOLOSO

 

 

Nonna, nonna, per favore, raccontami una storia!”.

Ricordo, quando ero bambino, che chiedevo spesso a mia nonna questa cortesia. Lei era una donna d’altri tempi, che portava sempre il suo abito nero, il fazzoletto dello stesso colore e qualche fiorellino giallo, in onore di Francesco Giuseppe d’Austria, che ha sempre considerato il suo imperatore.

Era una contadina del regno, una donna semplice e umile, che aveva messo al mondo nove figli, senza chiedersi il perché. Quando le domandavo delle spiegazioni, mi rispondeva sempre, dall’ alto della sua fede incrollabile, che la donna serviva per mettere al mondo tutti i doni di Dio e mi pronunciava sempre un suo detto, che usava spesso nelle occasioni tristi o felici: “ L’ uomo propone e Dio dispone ! “

Quando ero bambino, io dormivo spesso assieme a lei e, come tutte le nonne del mondo, prima di addormentarmi mi faceva recitare una preghiera e poi mi raccontava una storia.

Lei non aveva avuto il tempo per studiare a lungo. Aveva frequentato le scuole elementari e poi via, giovanissima, in America nell’Ohio, dove c’era il suo amore che lavorava nelle miniere di carbone a Lafferty.

Dunque, tutte le storie che mi raccontava, non erano frutto dei suoi apprendimenti scolastici o della sua fantasia, ma erano racconti di vita vissuta, della sua infanzia o dell’ America.

Quella che ora vado a narrare è una delle storie più incredibili ed affascinanti che mi abbia narrato, che sfata dei luoghi comuni sulla natura dei serpenti e sulla loro presunta pericolosità, astuzia e cattiveria.

Devo anche ammettere che, da allora, ho sempre osservato ogni specie di rettile con fascino, interesse ed ammirazione e senza quella biblica repulsione che da sempre accompagna ed identifica questi animali.

- Era una torrida giornata estiva, quando le famiglie del paese erano tutte impegnate alla mietitura del grano sulla collina di Barbonzana,1 ricoperta dalle spighe dorate punteggiate da migliaia di papaveri rossi e di azzurri fiordalisi. Allora, la mietitura si faceva tutta a mano, con il falcetto. Si costruivano poi dei covoni legati da un mazzo di spighe, che venivano successivamente caricati sul carro agricolo dalle grandi ruote di legno e trasportati sulle aie per essere essiccati al caldo dell’ estate.

Ai tempi in cui mia nonna era giovane, verso la fine del 1800, la famiglia era detta patriarcale, perché in essa convivevano anche i nonni paterni e i figli non ancora maritati. Gli avi, dunque, accudivano i bambini piccoli mentre i genitori si recavano a lavorare nei campi.

Nel tempo della mietitura o della vendemmia, però, tutto il nucleo famigliare si recava nei poderi per tutte le giornate necessarie a finire il raccolto.

Così, anche la famiglia di un vicino di casa di mia nonna, al completo di nonni e bambini, si recò sul dosso di Barbonzana a mietere il grano nel campo di loro proprietà, portando con sé anche la figlioletta di tre anni. Caricarono così sul carro tutto l’ occorrente per il lavoro e per il pranzo, tra cui una vecchia coperta ed una bottiglia di latte fresco appena munto per la piccola, e si avviarono, con il mezzo agricolo trainato dalle mucche, verso il campo.

Arrivati a destinazione parcheggiarono le mucche in un angolo del campo, all’ ombra di una grande pianta di noce che segnava il confine con il vicino bosco e dove cresceva, rigogliosa, una bella erba fresca.

Da casa avevano portato, inoltre, un secchio per abbeverare le vacche, con l’ acqua del vicino “ lec “.

In un altro angolo ombreggiato, tra i fiori e l’ erba, sfasciarono un lenzuolo di campo, distesero a terra la vecchia coperta e posarono la piccola, la bottiglia del latte e un po’ di pane. Misero successivamente in testa alla bimba un fazzoletto rosso a puntini bianchi e le dissero di stare lì buona a giocare con la bambola di stoffa che le aveva cucito la nonna.

Iniziò il lavoro di mietitura. Le donne, chine tra le spighe dorate, tagliavano, rapide, il grano e ne facevano dei covoni di dimensioni uniformi, che, poi, accomodavano eretti come tanti soldatini dalle bionde chiome.

Avrebbero poi pensato i maschi a raccoglierli ed a caricarli sul carro, con le spighe rivolte verso l’ esterno ed incrociati tra di loro.

Alla fine ne risultava un’opera d’ arte, un bellissimo quadro agreste.

La nonna, toglieva dai covoni le erbe inutili ed i fiori di campo, quali papaveri e fiordalisi in prevalenza, e di tanto in tanto si recava dalla nipotina con dei fiori in mano, le metteva un fiordaliso tra i capelli e abbassava i petali dei papaveri sino a formare la sagoma di tante piccole bambine dalle gonnelline rosse ed i neri capelli.

La bimba guardava divertita e ritornava ai sui giochi.

Quando il campanile di Varollo 2 batté il mezzogiorno e il campanone iniziò i suoi rintocchi, tutti sospesero il lavoro e si accomodarono all’ ombra del grande noce, dove la nonna della bambina aveva preparato il pranzo a base di polenta, formaggio e lucaniche. 3 Non mancava mai un bicchiere di vino per gli uomini e del caffè da orzo per le donne. Per la piccola era stato preparato, invece, del latte con dei pezzetti di pane dentro, che si era ammorbidito e che la piccola mangiava con un piccolo cucchiaio di legno che il nonno le aveva regalato un giorno in cui a casa erano passate le “ Kromere “.4

Dopo una mezz’ora, finito di mangiare un boccone, si riprendeva il lavoro di mietitura, con ritrovata energia, sotto il sole cuocente. La mietitura era per tutti un rito quasi sacro, perché in quelle spighe giallo oro era racchiuso il pane per l’intero anno.

Un buon raccolto, infatti, equivaleva alla sicurezza del fabbisogno alimentare per tutta la famiglia.

Il lavoro procedeva snello, ognuno sapeva fare il suo con la professionalità che nasce dall’esperienza della tradizione millenaria del popolo che si è tramandata sin dagli albori della vita e fa parte dell’istinto di conservazione dell’uomo.

La nonna della bimba faceva il lavoro di selezione tra i covoni, togliendo le erbacce ed i fiori.

Ad un certo punto lei smise di lavorare e, come se un brutto presentimento le fosse balenato in mente, si alzò, si pulì il sudore con una manica, guardò il cielo azzurro, mosse le labbra come per una preghiera improvvisa e, senza dire nulla, si avviò verso la grande pianta di noce dove era stata sistemata la piccola.

Allungò il passo quando le parve di udire la bambina parlare con qualcuno, ma non riusciva a vederla perché era sottratta alla vista dal carro che era ormai carico di covoni di grano.

Quando arrivò, ansimante, al carro, scorse la bimba. Dapprima rimase atterrita e si mise una mano alla bocca per non gridare, poi osservò la scena, degna della grande Walt Disney, che le si proponeva dinanzi. Rimase immobile e in silenzio, tanto affascinata quanto incredula.

Non riusciva infatti a realizzare se fosse sveglia o se stesse sognando: c’ era un grosso serpente verde con striature marroni che beveva il latte dalla ciotola della nipotina che lo osservava divertita, la quale, con il piccolo cucchiaio di legno, gli colpiva piano la testa dicendogli :

 

Magna ancia l’ panin, no sol bever l’ latin, no ! “

 

(Mangia anche il pane, non bere solo il latte!)

 

La nonna si era ricordata del fatto che si diceva che i serpenti andassero ghiotti del latte, ma aveva sempre considerato ciò una diceria popolare, una favola per costringere i bambini a mangiare tutto il latte che veniva loro preparato: “altrimenti te lo mangia il serpente goloso!”, si diceva.

Comunque, dinanzi alla scena appena citata, dovette ricredersi ed ammettere che non era una favola, bensì la realtà.

Quando il serpente fu sazio abbastanza, con la stessa rapidità in cui era arrivato, se ne tornò nel bosco.

La nonna, allora, si avvicinò alla piccola. Non le disse nulla; se la strinse in braccio e se la baciò più volte, con tenerezza.

Pulì poi la ciottola della bambina, le versò dell’ altro latte e rimase con lei sino a quando il lavoro fu ultimato. -

La nonna della piccola confidò a poche e fidate amiche, tra cui mia nonna, quanto aveva visto, per non creare inutili allarmismi, ma soprattutto per timore di non essere creduta, di passare come una visionaria e schizofrenica. Infatti, a quei tempi, per un episodio così inusuale ed incredibile, si poteva anche finire in un manicomio.

 

NOTE

 

  1. E’ una località nel Comune Catastale di Livo, dalla forma collinare.

  2. E’ una frazione del Comune di Livo.

  3. Tradizionale salame trentino.

  4. Erano delle donne che provenivano dalle vallate altoatesine o del bresciano, passavano per le case con in spalla uno zaino a forma di armadietto con tanti cassettini e vendevano oggetti di uso comune, come aghi, filo, cucchiai in legno, ecc.

 

 

 

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L’ ciasel

 

( il caseificio )

 

A fronte di un economia agricola e zootecnica che era il sostentamento diretto della quasi totalità delle famiglie, non solo di questo paese, ma dell’ intera nazione, fatte salve le zone industriali che piano, piano crescevano ed avrebbero poi preso il sopravvento negli anni del cosi detto boom economico italiano .

Allora in paese tutti avevano una stalla con una media di due o tre mucche, poi c’ era il maiale tanti allevavano conigli e tutti avevano il pollaio con le galline ovaiole. Uno degli alimenti base della cucina di allora, era il latte nelle sue più svariate forme e derivati. La produzione di latte era complessivamente di parecchi quintali giornalieri e si imponeva quindi il problema della sua lavorazione e conservazione.

Naquero allora i caseifici dove i contadino due volte al giorno conferivano il prodotto che poi veniva lavorato.

Il caseificio era detto “ turnario “ perché gli agricoltori caseravano il latte a turno in base alla quantità conferita, ogni giorno il casaro pesava il latte ed annotava su un libretto giallo ocra le quantità conferite, quando si era raggiunta la quantità sufficiente per una caserata lo comunicava al destinatario ed il giorno seguente si procedeva alla caserata.

Era un giorno di festa per noi bambini che se non si andava a scuola ci veniva consentito di partecipare alle operazioni di lavorazione del latte.

Tutte le sere il latte conferito veniva messo in grandi bacini di rame in un locale freddo del caseificio ed ulteriormente raffreddati con acqua corrente, questa operazione serviva per favorire la formazione della panna che saliva in superficie ed il mattino dopo avveniva l’ operazione di telatura, ossia la panna veniva asportata dal restante latte e messa nella zangola che era lo strumento che serviva per tramutare la panna in burro. Mi ricordo che i primi tempi la zangola veniva mossa a forza di braccia , ci si dava il cambio a turno fino alla formazione del burro che avveniva dopo circa un ora di lavorazione.

Il prodotto finito veniva poi confezionato in degli appositi stampi di legno di varie misure che contenevano pezzi da un kg. Mezzo kg. e 250 grammi, veniva poi messo in una vasca di acqua fredda per la sua conservazione e poi la parte richiesta veniva data all’ agricoltore titolare della caserata ed il restante veniva messo in vendita.

Il latte parzialmente scremato veniva poi messo nel “ pai “ che era un enorme paiolo in rame posto sopra un fuoco di legna accesa, veniva scaldato alla temperatura di 37 gradi celsius, raggiunta questa temperatura veniva calliato e piano piano si aveva la formazione del formaggio che saliva in superficie come una grande lastra di colore bianco.

Veniva poi tagliato a pezzetti con la lira che era uno strumento fatto con delle sottili corde metalliche assomigliante appunto allo strumento musicale.

Veniva poi raccolto con grandi teli di juta, compresso nelle forme rotonde e messo in salamoia per la stagionatura. Quando era ancora fresco gli veniva stampigliato a bassorilievo il codice del produttore proprietario poi veniva messe sulle apposite assi e tutti i giorni veniva girato e pulito fino alla raggiunta stagionatura. Durante le operazioni di pulizia e sagomatura alle forme venivano appostati gli orli con un grosso coltello ed il casaro li distribuiva a noi bambini, costantemente presenti e sempre affamati.

 

 

 

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Ottavio Zanotelli

 

smerda cjasei “

 

Tra i tanti casari che hanno prestato il loro servizio presso il caseificio di Scanna, uno merita l’ onore della cronaca negativa di questo Ente. Il casaro in questione di chiamava Zanotelli Ottavio nato 08. 02. 1923 ed abitava a Scanna, dapprima nella vecchia casa dei “ tripoi “ nello stesso edificio dei miei nonni materni Martino e Maria un enorme caseggiato nel quale abitavano anche le famiglie di Agosti Ottone, Agosti Davide , Agosti Adolfo e Zanotelli Tullio fratello di Ottavio, ora tutte estinte.

Ottavio Zanotelli era della classe 1922 ed era tirchio anche per sua natura, ma anche per le privazioni ed i soprusi subiti durante la prigionia nei lager tedeschi come internato militare italiano.

Per capire la mentalità avida ed egoista di Ottavio, bisogna risalire all’ epoca della sua adolescenza quando, nel periodo di Santa Lucia tutti i bambini mettevano fuori dalla finestra un piatto con della semola dentro, affinché la santa potesse sfamare l’ asinello e lasciare poi dei regali che il mattino seguente venivano ritirati dai bambini.

Ottavio, durante la notte, passava sotto le finestre dove sapeva esserci dei bambini e con una lunga pertica faceva cadere il piatto per poi impossessarsi dei miseri regali.

Si imbatté sotto una finestra dove le imposte erano socchiuse, ma la sua avidità non si fermava davanti a nessun ostacolo, così nel tentativo di aprire lo scuro con la pertica lo sollevò dai cardini e questo gli cadde dritto in testa, se non che nella concentrazione del momento Otaavio aveva messo la lingua tra i denti e così l’ imposta cadendo pesantemente sulla sua testa, fece da ghigliottina recidendogli un pezzo di lingua.

Da allora il suo modo di parlare cambiò radicalmente e tutte le parole che contenevano una zeta ed una esse divennero impronunciabili e vennero così distorte ed adattate dal soggetto.

Ma torniamo al caseificio, erano gli anni ’50 o gli inizi dei ’60, allora mio padre era presidente della Società che gestiva il caseificio turnario e che aveva quell’ anno come casaro Zanotelli Ottavio.

Un mattino vennero da mio padre dei signori soci del caseificio e vollero parlare con lui in privato di un fatto che dicevano essere di particolare gravità.

Mio padre convocò la sera stessa il casaro per chiedere conto di quello che si andava dicendo su di lui che veniva accusato di aver fatto i propri bisogni corporali all’ interno del caseificio nella sala addetta alla conservazione e stagionatura del formaggio.

Ottavio si difese dicendo che poteva essere entrato un animale, forse un cane, ma non riuscì a convincere nessuno. Erano altri tempi, tutti avevano dovevano lavorare per poter mantenere la famiglia, così nei confronti di Ottavio non venne preso nessun grave provvedimenti se non quello della immediata e gratuita pulizia di tutto il caseggiato che ospitava il caseificio e la diffida a ripetere simili gesti pena il licenziamento in tronco.

Da allora al povero Ottavio venne appioppato il soprannome di “ smerda cjasei “ e questo marchio d’ infamia che ricordava quel suo comportamento sbagliato, gli restò per il resto dei suoi giorni.

Questo non fu il solo episodio che mise in cattiva luce il signor Ottavio con la sua ingordigia e grande venalità, ricordo le numerose visite estemporanee della Guardia di finanza che rovistava nei libri contabili che mio padre teneva in casa e ricordo e riporto un episodio che mi venne raccontato da mio cugino Gianfranco, molto amico di Agosti Romano figlio di quel galantuomo che fo Agosti Ottone.

Un giorno la signora Giuseppina Conter, mogli di Ottone si recò a piedi a Cles per vendere del burro a dei negozianti di quel borgo. Arrivata in paese con i numerosi pani di burro, si apprestò a consegnarli ai clienti abituali, uno di questi ebbe l’ intuizione di pesare uno dei pani e constatò con grande imbarazzo della signora Giuseppina che il pezzo di burro incartato e chiuso con i sigilli del caseificio, non corrispondeva a quanto riportato nella dicitura del peso, era meno di 1 Kg. il casaro aveva modificato l’assicella che serviva a rasare il burro in eccesso nell’ apposito stampo da un chilogrammo così da asportarne una maggiore quantità che poi avrebbe venduto in proprio il casaro, truffando così la Società e facendo fare delle meschine figure a chi lo andava a vendere come il caso della signora Giuseppina.

Otavio Zanotelli morì il 25. 10. 1997

 

 

 

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L’ Angiolina da Revò

 

 

Era una donna molto in carne per non usare l’ aggettivo di grassa, si chiamava Angelina Rossi ed era nativa w residente nel paese di Revò che dista da Livo circa 10 chilometri. Non era sposata e di lavoro faceva la commerciante ambulante. Partiva da Revò con la corriera della ditta di trasporti Franch che allora percorreva la strada per Cles passando sulla SS 42 Tonale – Mendola per deviare arrivati a Mostizzolo verso il Faè e quindi verso Cles.

Allora non esisteva la strada del Castellaz che per la terza sponda abbrevi di molto il viaggio, allora tutti erano obbligati a passare per Moztizzolo.

Già Mostizzolo, dove un tempo c’ era la Dogana e tutti coloro che vi transitavano erano costretti a pagare u pedaggio, come si fa ora sulle autostrade italiane.

Da qui il nome originale tedesco del ponte “ muss ist zalhen “ che tradotto in italiano suona in : bisogna pagare ! Poi con il passare del tempo ed anche perché il tedesco non è mai stato la nostra lingua,la gente lo ha lentamente storpiato fino a modificare il toponimo in Mostizzolo.

Al bivio di Scanna, dove finiva l’asfalto e iniziava a salire la strada sterrata che porta a Clivo, Bresimo e Rumo per poi inoltrarsi nella provincia di Bolzano per servire i comuni di madrelingua tedesca di Laurei (Laureano) e Prove (Proves ).

Angiolina scendeva al bivio di Scanna, con la sua pesante valigia legata con dei robusti spaghi perché non si aprisse involontariamente, carica di marce che vendeva ad una clientela fissa ed anche occasionale.

Mi sembra ancora di vederla entrare in paese, tutta trafelata e sudata dopo la lunga salita che parte dal bivio fino all’inizio dell’ abitato di Scanna, avanzava con il passo classico delle persone obese che sembrano calpestare a forza il terreno dove vi camminano. Quando era possibile, nei periodi estivi di vacanza dalla scuola, andavano dei ragazzini ed aiutare l’ Angiolina a portare in Paese la pesante valigia, poi li ricompensava con dei dolci o con u disco di musica popolare.

Anche al suo ritorno a Revò con la roba barattata, Angiolina aveva delle ragazzine che le davano una mano a scegliere le uova, quelle da dare alla gelateria e quelle da dare ai negozi e per ricompensa poi dava loro del caffè di orzo ed i sabati d’ estate metteva a disposizione dei giovanotti e delle signorine del paese il suo giradischi che veniva messo sul terrazzino di una casa sopra la piazza con tanto di disc – joker che cambiava i dischi di musica popolare mentre la piazza si animava di coppiette che ballavano valzer e tanghi.

Angiolina vendeva un po’ di tutto, dal caffè alle calse da donna, alla roba intima, alla lana per fare maglia, ma soprattutto barattava la sua roba in cambio di uova fresche, fagioli secchi, orzo che poi tostava e rivendeva come caffè da orzo , per questo veniva anche chiamata Angiolina dai evi , come erano dette le uova nel dialetto Revodano.

Credo che sia stata un po’ apparentata con la moglie di mio cugino Gianfranco che si chiama Cristina Rossi ed è nativa di Revò.

Mi racconta mia cugina Cristina, parente appunto dell’ Angiolina, che nella vecchiaia era ospite della Casa di riposo di Cles e prima di morire le consegnò un foglio di carta con un tema su di lei composto da un alunno delle scuole di Varollo, spera di poter ritrovare questo scritto per poterlo allegare a questo racconto.

 

 

 

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Riccardo da Dovena

 

 

Arrivava anche lui a piedi dopo essere sceso dalla corriera al bivio di Scanna, saliva la stradina zoppicando notevolmente pervia di un grave difetto ad una gamba, penso congenito, proveniva dal paese di Novena che è una frazione del comune di Castelfondo in alta anuria. Portava con se uno zaino color coloniale dove teneva le poche cose che possedeva e l’ immancabile mazzo di carte da briscola con le quali ci sfidava a giocare contro di lui che si riteneva un asso del gioco. Si chiamava Riccardo non ricordo il cognome, ma per tutti noi era semplicemente Riccardo da Dovena, passava per le case a chiedere l’ elemosina e verso mezzogiorno quando dalle finestre aperte usciva il buon profumo di polenta e crauti o socio, lui bussava alle porte di quelli che era certo poi lo avrebbero fatto rimanere a mangiare assieme a loro. Molte volte lo abbiamo ospitato a pranzo con noi, poi finito di mangiare tirava fuori dallo zaino le carte da gioco e i impegnava in delle lunghe sfide a briscola.

Riccardo veniva soltanto nella bela stagione da primavera alla fine dell’ estate e non passava mai con il cattivo tempo perché faticava molto con la sua gamba storpia e claudicante. Ritornava a Castelfndo sempre con la corriera delle diciassette che andava a prendere al bivio di Scanna, però a volte c’era chi lo ospitava anche a dormire e allora restava in paese per alcuni giorni.

Quando divenne più vecchio, il ritmo dei suoi viaggi si fece sempre meno frequente, fino a che una primavera non si vide tornare in paese ed era passata la notizia che aveva trovato un posto definitivo in una casa di riposo per anziani e da allora non si vide mai più.

 

 

 

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Il Lispo di brijaudi

(Il Lispo dei funghi )

 

 

Era uno di quei personaggi che nel mio immaginario hanno sempre rappresentato la libertà allo stato puro, intesa come lo spogliarsi di tutti quelli atteggiamenti e di tutte quelle regole che l’ uomo essere socievole per natura, si è autoimposto nel tempo, come la concezione sociale ed organizzata della società, il modo di vivere le relazioni umane anche tra sessi diversi, il concetto di avere che pianno, piano ha sostituito quello molto più importante e determinante che à l’ essere, ed in diretta conseguenza di tale distorsione sociale, si sono poi determinate le classi sociali sempre più distanti tra di loro quanto egoiste e prive di umana solidarietà.

Per me il Lispo rappresentava uno di quei cavalieri erranti descritti nelle canzoni degli Anarchici, continuamente perseguitati e scacciati che vanno erranti di terra in terra perché il loro pensiero e il messaggio che essi trasmettono, sono in totale disaccordo con l’ attuale pensiero e modello sociale capitalistico e borghese e và a rompere certi privilegi che aquisiti nel tempo con il denaro e l’ arroganza del potere.

Si chiamava Giuseppe Niccolini era nato a Villazzano il uno. 01. 1896 era coniugato.

Noi ragazzini lo incontravamo di frequente per le strade poderali e in giro per i nostri boschi ricchi di funghi che egli raccoglieva e poi vendeva alla gente del paese. Da come lo ricordo io, mi sembrava una persona con una spiccata cultura generale, non ricordo se lavorasse anche a dipingere quadri ma credo di no perché non ho menzione che qualcuno ne sia in possesso.

A dormire si recava spesso presso la casa della signora Agosti Rosa di Gianini e lì dormiva nella stalla sul fieno la stessa signor Rosa mi ha dato le sue generalità e la sua provenienza.

Morì presso la casa di Agosti Rosa il 16 febbraio 1960 e venne subito portato nella cappella mortuaria del cimitero di Varollo da un gruppo di volontari su incarico del allora sacristano della chiesa parrocchiale di Varollo, signor Carotta Severino.

Mi ha raccontato uno dei giovani che si sono prestati per il trasporto del morto, che al cadavere ancora caldo erano state messe le mani sul petto, ma le braccia di tanto in tanto scivolavano inerti verso terra spaventando i baldi giovanotti che non volevano più proseguire il tragitto che dalla casa più a sud del paese, a notte fonda come in un film dell’ orrore, si dirigevano verso il lontano cimitero di Varollo accompagnati dalla luce tenue della lanterna a petrolio del sacristano.

Per ovviare all’ inconveniente, il buon Severino che era anche il becchino del paese, prese dalla sua tasca un grande fazzoletto e legò le mani del defunto affinché non scivolassero più in basso.

Il mattino successivo di buon ora, si sentiva il rumore della pialla e della sega circolare del falegname del paese signor Pietro Antonioni , che preparava la bara per il defunto Giuseppe Niccolini che venne sepolto nel cimitero di Varollo.

 

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Dario Agosti cugino di mio padre

 

 

Un altro personaggio d’ altri tempi, uno di quei personaggi molto ben descritti da Fabrizio de Andrè nel suo album Non all’ amore ne al denaro ne al cielo.

Lo si potrebbe paragonare al suonatore Jones trasgressivo ed ubriacone, sprezzante di tutto quello che sapeva di regole o di ordini, a Dario non si poteva comandare, non perché non lo si potesse fare, ma perché era inutile tempo perso tentare di dargli degli ordini. Era un uomo che viveva alla giornata, senza un programma ben definito per il futuro, quando aveva lo stomaco pieno, aveva bevuto la sua giusta razione di vino ed aveva del tabacco ed un pezzo di giornale per confezionarsi delle sigarette, lui si sentiva l’ uomo più appagato e felice di questo mondo.

Lavorava saltuariamente come bracciante agricolo per le persone che avevano bisogno di aiuto nei campi, oppure aiutava la gente a fare la legna nel bosco e lì si trovava a proprio agio, conosceva infatti ogni palmo di bosco perché tra le tante attività raccoglieva anche funghi e li vendeva alla gente o li barattava con un pranzo o una cena. Bisogna dire che era un vero e proprio esperto in funghi, ne conosceva le varie specie sapeva distinguere se erano commestibili o velenosi 3 dava anche dei consigli alle massaie su come cucinarli.

A conferma di quanto fosse importante la sua conoscenza dei miceti, basti pensare che nell’ arco della sua se pur breve vita, Dario ha raccolto e messo a disposizione delle tavole di molte famiglie di Livo, quintali di funghi scelti tra decine di qualità commestibili e velenosi che crescono nei nostri boschi, senza mai aver provocato il benché minimo segno di intossicazione. Era frutto della sua grande esperienza e conoscenza aquisita dai genitori ed affinata poi con l’ osservazione ed il confronto stretto con i suoi amici per la vita che furono Carotta Romano detto Mano e Guarienti Serafino.

Quando la zia Lina gestiva l’ osteria, tra i clienti fissi e fedeli c’ erano appunto il Dario il Mano Carotta che dopo aver mangiato e bevuto a sazietà per la ricompensa pattuita per aver fornito di funghi freschi l’ osteria, si mettevano a cantare una canzona eseguita da quello strano ed estemporaneo duo, la canzone di intitolava “ La mosca mora traditora “.

Dario poi chiedeva a mia zia di poter dormire sul fieno fresco e profumato, la zia acconsentiva sempre allora lui per prudenza e per prevenire gli incendi svuotava le tasche e lasciava a mia zia Lina l’ accendino e le sigarette, soldi non ne aveva mai…

Mio padre era un big hunter un cacciatore esperto e dalla mira infallibile e a volte uccideva anche delle volpi delle quali recuperava solo la pelle che era pregiata per fare pellicce, mentre la carne normalmente si sarebbe buttata, se non che ci pensavano il Dario ed il Mano a prendersela appena scuoiata ed a cucinarla a grossi pezzi in una grande pentola ed hanno sempre sostenuto che era una delle carni più prelibate e gustose che avessero mai mangiato! Questo fa capire che a volte a dar retta ai preconcetti si rischia di rinunciare volontariamente a delle cose buone o belle che la vita ci propone come la carne della volpe in questo caso, ma se ci si pensa bene anche a cose ben più importanti come una bella amicizia solo perché l’ altro è uno straniero, o ad un amore solo perché siamo poveri, di una classe sociale inferiore o magari afflitti da qualche difetto fisico che deturpa l’ aspetto ma che non impedisce al cuore di battere forte per una ragazza e per fare questo no necessita di avere denaro luccicante, brilla di luce propria eterno.

Gente d’ altri tempi, capace di accontentarsi del nulla che aveva, di essere felice come un bambino davanti ad un piato di trippa ed un bicchiere di vino, capace poi di intonarti una canzone d’ amore o di guerra, per poi finire sdraiato sul fieno a russare libero dai pensieri e preoccupazioni che sono frutto del denaro e dell’ egoismo e dormire come un angioletto fino al mattino e lasciare senza il benché minimo rimpianto questa vita perché aveva saputo succhiare da essa tutte le essenze naturali e gratuite che la vita contiene in se stessa e che sa elargire a tutti quelli che la riescono a vivere con un cuore da bambino.

Dario morì nel 1964.

 

 

 

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ANTONIONI PIETRO

 

 

( Perolin )

 

 

A ricordare Antonioni Pietro, da noi chiamato più comunemente “ Perolin “, a me basta il suono inconfondibile di una sega circolare o di una piallatrice del legno, Pietro, infatti, di professione faceva il falegname, era una persona saggia ed onesta come pochi ho conosciuto,non era nativo di Livo, ma proveniva del piccolo paese montano di Bresimo, aveva sposato una donna di Livo che si chiamava Silvia Agosti, anche lei una donna umile e buona.

La coppia aveva avuto cinque figli, Sandra, Rosa, Maria, Piera e Natale. Pietro, aveva il laboratorio di falegname propri a poche decine di metri dalla mia abitazione, ed è per questo che mi è familiare il suono dei suoi attrezzi di lavoro, il canto della sega circolare ed il sibilo della pialla. Quando ero ragazzino e mi dilettavo a lavorare il legno e tutti i suoi derivati, quando avevo bisogno di un particolare lavoro o di una tavoletta di compensato, mi recavo dal Perolin… e lui spegneva le macchine e sceglieva tra le tavolette che non le sarebbero più servite, quella che faceva al mio caso, non si faceva mai pagare, anche perché era consapevole che nessuno di noi , allora, sarebbe stato in grado di farlo. Mi piace anche descriverlo fisicamente, in quel suo laboratorio angusto, che sembrava un museo della lavorazione del legno, con tutti quelli attrezzi appesi alle pareti, quel grande carro con le ruote di legno ed i cerchi in ferro, che assomigliava tanto a quelli del Far west visti nei film di Ford, con il sedile per il conducente, ma a differenza di quelli dei film, era carico di tavole di legno che gli servivano per il suo lavoro.

Era un uomo piccolo di statura con dei baffetti sotto il naso, me lo ricordo sempre vestito di blu’ con un grembiule da lavoro dello stesso colore.

Quello che più mi è rimasto impresso di lui, è il rumore delle sue attrezzature di notte, quando Pietro lavorava di notte, era perché doveva costruire una cassa da morto, ora con un linguaggio più elegante e meno impattante per chi resta, si chiama cofano o nella ipotesi più dura, bara, ma poco importa, il contenuto era e resta sempre lo stesso. Quando ero piccolo, io dormivo con mia nonna, nella stessa stanza dove dormo ora, solo che adesso le finestre e le pareti sono isolate, allora no, e mia nonna , quando sentiva questi rumori, mi diceva sempre : - Senti, el Perolin fa la cassa al…” e quanti nomi ricordo sono passati scorrendo il rumore del Perolin.

Un ricordo piacevole di Pietro era il suo hobby che esercitava solo di domenica o i qualche altra rara festività, lui suonava la fisarmonica,così, per diletto, con semplicità, senza tante pretese, e dalla sua fisarmonica uscivano delle note gradevoli di vecchie canzoni … Gondolì gondolà, Piemontesina, La domenica andando alla messa, ecc. ed ascoltando quella musica, gli ho un po’ rubato la sua arte, mi sono innamorato dell’ armonica a bocca che a tutt’ oggi mi diletto di suonare, con tutta umiltà come faceva Pietro con la sua fisarmonica.

 

 

 

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ARCANGELO AGOSTI

 

(Trapeni 1° WW * 27.02.1887 + 07.12.1980

 

Ora, che non sono più giovane, ora che riesco con maggior esperienza a dare il peso giusto alla vita vissuta ed ai ricordi, penso, spesso, a quanto mi raccontava, tanti anni fa’, un uomo di Scanna, Arcangelo Agosti, uno di quelli uomini saggi che hanno vissuto nei nostri paesi, una di quelle persone che adesso sono diventate rare, che hanno brillato per la loro onestà e delle quali, oggi, sentiamo la mancanza.

Arcangelo era un agricoltore ed abitava a Scanna di Livo, nella casa dove c’è la fermata dell’ autobus che scende da Rumo diretto a Cles, ora disabitata da anni.

Era nato il ……. sposato con Emilia ……… ed aveva …. Figli, era una persona mite e generosa, impegnata nel sociale e nella cooperazione.

Al tempo della grande guerra, come tutti gli uomini validi di allora, venne anche lui chiamato a servire l’ Imperatore Francesco Giuseppe d’ Austria, che aveva dichiarato guerra alla Serbia. Il conflitto si era però estese anche ad altre nazioni, tra queste la grande Russia dello Zar Nicola ll di Romanov e proprio contro i soldati dello Zar, venne mandato anche Arcangelo.

Dicevo, che il mio pensiero va’ tante volte al buon Arcangelo e quando penso a lui, mi torna sempre in mente un episodio bellico che lui mi raccontò circa 40 anni fa’

 

I soldati erano schierati nelle rispettive trincee, gli austriaci da una parte ed i Russi dall’ altra, ad un certo punto, i soldati Russi si mossero all’ assalto delle trincee austriache, dopo averle pesantemente bombardate con l’ artiglieria di diversi calibri.

Venivano all’ assalto, con i loro fuciloni lunghi, a piccoli gruppi, sparsi sul terreno, dopo una breve corsa si buttavano a terra, per poi riprendere l’ assalto.

Naturalmente, dalle trincee austriache, il fuoco delle mitragliatrici e dei fucili era intenso, e non tutti i soldati russi si rialzavano per riprendere l’ assalto, molti restavano a terra morti o feriti.

Alla fine, dopo vari tentativi falliti, vista l’ impossibilità di prendere la trincea austriaca, decisero di ripiegare delle loro posizioni di partenza con la copertura del fuoco di interdizione della loro artiglieria.

 

Finita la battaglia, con il suo frastuono di esplosioni e spari, tornò un silenzio, quasi irreale e quasi più fastidioso del fragore della battaglia, ma dopo un po’, dalla cosi detta terra di nessuno, che è la parte di terreno che va’ da una trincea all’ altra, e dove è pericolosissimo sostare perché sotto tiro del nemico senza alcuna protezione, si udì un soldato russo ferito che implorava aiuto e chiamava mamma.

Sicuramente il lamento e le richieste di aiuto del povero soldato , erano sentite anche nelle trincee russe, ma nessuno si muoveva per prestare soccorso per il timore di essere colpito dalle mitragliatrici degli austriaci, si c’ era anche allora la convenzione di Ginevra, che garantiva l’ incolumità agli operatori della Croce rossa e della Mezza luna rossa. Però non sempre questa convenzione era rispettata, specie dopo aver subito un assalto, ed era facile che qualcuno, innervosito, cominciasse a sparare.

Il lamento del soldato continuava e lacerare l’aria ancora odorante dei fumo delle esplosioni della battaglia, feriva il cuore ed entrava nel cervello ancora di più delle fucilate.

A quel punto, il capitano comandante della trincea austrica, chiamò Arcangelo gli consegno’ una busta contenente una benda ed il necessario per una medicazione sul campo, gli ordinò di uscire dalla trincea e di andare a prestare soccorso al soldato ferito.

Era un ordine, e si doveva solo obbedire, Arcangelo uscì dai reticolati, pensando: “ sia come sia se questa è la mia ora sia fatta la volontà di Dio !”

Tutti i suoi commilitoni lo seguirono con lo sguardo, mentre si avvicinava al ferito, col fucile imbracciato, pronti al fuoco di copertura se fosse stato necessario. Arrivò dal soldato che aveva una ferita da erma da fuoco al petto, gli aprì la giacca gli medicò la ferita e gli applicò sopra la benda che gli aveva il suo comandante. Stava per imbrunire, ed era calato su tetta la trincea un silenzio quasi sacro, tutti osservavano Arcangelo che armeggiava attorno al ferito, guardavano, ammirati, i suoi commilitoni austriaci e guardavano, sorpresi da tanta gratuita umanità, i soldati dello Zar.

Finito il suo compito, Arcangelo tornò in fretta, chino sul terreno, verso la sua trincea, aveva obbedito , senza discutere, ad un ordine del suo Capitano, ma ,quello che mi piace sottolineare, è che aveva obbedito al comandamento di Dio “ ama anche i tuoi nemici “.

Con il passare del tempo il lamento si fece sempre più debole, finché cessò del tutto.

 

Arcangelo, mi raccontò, che dopo poco tempo, con una manovra a tenaglia, preponderanti forze russe fecero in quella zona moltissimi prigionieri austriaci, tra cui lui, mi raccontò che durante quella battaglia, il suo comandante aveva scambiato i Russi per rinforzi austriaci, dicendo “ unsere “ … poi Arcangelo, scuotendo il capo mi sesse : “ se l’ me svessa scotà mi…”

Fu liberato dalla prigionia nel 1917 a seguito della rivoluzione di ottobre e dell’ avvento del socialismo in Russia che determinò la fine immediata della partecipazione della Russia alla grande guerra.

 

Questo fu Arcangelo Agosti, un galantuomo in guerra ed un uomo giusto nella nostra comunità.

 

 

 

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ROMANO DEPETRIS

 

(di Orsi 2°ww)

 

 

La storia di Romano Depetris, è l’ emblema della storia di tanti militari italiani, che alla fine della seconda guerra mondiale, vennero letteralmente abbandonati da questo Stato, fatto di gente arrogante ed ignorante, il cui unico scopo è stato quello di occupare e mantenere i posti di comando, a tutti i costi, creando così un sistema mafioso di scambio di voti con favori fatti ad Amici ed amici degli amici, portando la nazione ad un debito pubblico di circa 2000 miliardi di euro, una cifra che non riusciremo più a pagare.

Romano era un agricoltore di Scanna di Livo, abitava in una casa vicino alla chiesetta ed alla fontana, al sopraggiungere della seconda guerra mondiale, anche lui, come la stragrande maggioranza dei giovani italiani, venne richiamato alle armi e spedito sul fronte Russo, con gli alpini a combattere i russi sulle rive del Don. Da quella terribile esperienza, ebbe la fortuna di fare ritorno a baita, perché portato a spalle per l’ ultimo tratto di strada nel corso della ritirata dal suo tenente,. però con un grave principio di congelamentio ai piedi, che fu per lui la causa di molti problemi di salute, fino ad arrivare alla dialisi renale, che lo portò , lentamente alla morte.

Era un uomo buono, semplice ed umile, un lavoratore dei campi, si sposò con una ragazza che si chiamava Bruna e con lei ebbe una sola figlia che si chiamava Alessandrina, era una mia coetanea, anche lei del 1951, è stata la mia migliore amica tra i miei coetanei, mi ha voluto bene e come tutte le cose belle e buone, ha avuto una vita breve ed ora è in cielo con i sui genitori morti entrambi giovani.

Mamma Bruna, morì nel 198*, andò a letto una sera ed al mattino non si alzò più…

Romano rimase solo, con la figlia, ma la sua salute cominciò a peggiorare.

Nei primi anni ‘ 50, gli anni dell’ immediato dopo guerra, Romano chiese allo Stato una pensione per la sua invalidità dovuta al congelamento dei piedi in terra di Russia, venne sottoposto a delle visite di accertamento da parte delle commissioni mediche civili e militari e gli venne riconosciuta una piccola pensione come invalido di guerra.

Durante la fase burocratica inerente la sua pratica, venne trascritto in modo errato il suo cognome, risultò essere DEPRETIS anziché DEPETRIS, al momento della definizione della pratica, quando venne comunicata a Romano, lo chiamarono con il cognome sbagliato, lui che era un uomo onesto disse di chiamarsi Depetris e non Depretis, con il risultato della immediata sospensione della pratica e della conseguente liquidazione della spettante pensione.

Non sono a conoscenza se poi la cosa venne sanata, se fece ricorso per questo errore, che per il buon senso avrebbe dovuto essere corretto all’ istante riscrivendo, in modo giusto il suo cognome.

Ogni volta che vedo quelle ignobili storie dei falsi invalidi, che truffano lo Stato con miriadi di escamotages e di trucchetti, mi viene in mente l’ alto valore morale e la dignità assoluta di Romano Depetris, che quando lo chiamarono con un cognome non suo, rispose “ Madoca, ma mi jai nom Depetris ! “

( madoca, ma io mi chiamo Depetris )

 

 

 

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AGOSTI ILDA

 

La storia di Ilda è una di quelle avventure che la vita ed il destino sembrano confezionare ed arte, un arte triste e tragica, che molto fa pensare e discutere, con una serie di pensieri filosofici , di diversa estrazione e di diversa cultura, che però non hanno mai dato risposte a questi drammi personali ed a tratti sembrano quasi essere una scusante per giustificare il tutto,cercando e trovando tutte le colpe e tutte le cause nel destino.

Ilda è figlia del defunto Luigi e di Zadra Ester che proveniva dal vicino comune di Cis è nata nell’ anno 1924 ed è tutt’ ora vivente nella sua casa di Scanna, a due passi dalla fontana e dalla chiesette dell’ Immacolata concezione.

Aveva sposato un uomo che si chiamava Gieseppe Zanotelli del casato dei “ Tripoi “ nel primo dopoguerra che come tutte le famiglie dell’ epoca viveva di agricoltura e zootecnia, in parole più povere aveva alcuni prati e un paio di mucche nella stalla.

Quello che non è mai mancato in casa Zanotelli, erano le bocche da sfamare, tante per l’ epoca di magra di quel tempo, la signora Ilda, infatti, aveva ben 8 figli, 5 femmine e 3 maschi, una famiglia numerosa come molte di quei tempi.

Il signor Giuseppe, pur con tanti sacrifici e tanto lavorare, era sempre riuscito, con grande dignità, a sopperire ai bisogni della sua grande famiglia, bisogna dire che a quel tempo tutti sapevano accontentarsi dello stretto necessario dia nell’ alimentazione che nell’ abbigliamento che passava dal figlio più grande a quello più piccolo con il ruotare delle stagioni e con il crescere dei figli, era un continuo ereditare la roba dei fratelli maggiori, fino alla totale usura del capo

Nessuno allora si poteva permettere dei lussi, come abbigliamenti firmati o degli alimenti che non fossero prodotti in casa, si acquistavano solo i prodotti che non si potevano produrre come l’ olio, il sale, e pochi altri, per il restante si consumavano prodotti di produzione propria. Perfino il sapone per lavare i panni veniva prodotto in casa con il grasso di maiale e la soda caustica e lo si usava anche per la pulizia del corpo.

Il destino bussò alla casa di Ilda il 25. aprile 1964, quando il marito Giuseppe assieme al figlio maggiore Elio si reco sul monte Avert a fare la legna per l’ inverno, aveva infatti avuto la sua “ Brosca “ in quella località impervia. Durante i lavori di taglio e di accatastamento della legna, il signor Giuseppe perse l’ equilibrio e cadde da una roccia ferendosi in modo molto grave.

Il figlio Elio che era con lui, corse a valle per dare l’ allarme, arrivò stremato in paese e raccontò il fatto.

Sono subito scattati i soccorsi dei VV, FF. e dei volontari che quando raggiunsero il posto il signor Giuseppe era già morto.

Io a quel tempo ero in collegio e fui informato da un frate che era un lontano parente del signor Giuseppe, mi ricordo che scrissi una lettera al mio coetaneo ed amico Elio, ma come tutte le parole o gli scritti in quella drammatica occasione,ben poco servono e non hanno il potere di cambiare gli eventi, forse ti possono far sentire la solidarietà e la vicinanza delle persone che ti vogliono bene ma niente di più.

Così la signora Ilda restò sola con sette bocche da sfamare un una vita che portava in grembo, tutti minorenni, tante bocche da sfamare.

La signora Ilda, ha sempre avuto una profonda Fede nel Signore e credo che questo sia stato il carburante per darle la forza ed il coraggio di andare avanti, con tanta dignità . La sua devozione alla Beata Vergine della chiesetta di Scanna, lei l’ ha sempre dimostrata con il suo servizio svolto per la nostra chiesetta, dalla ricerca alla posa dei fiori, assieme alla Rina di Orsi e poi quando la Rina non è stata più presente, da sola porta ancora avanti questo suo mandato, senza chiedere nulla in cambio, se non la protezione della Madonna.

Gente d’ altri tempi, gente che era cresciuta con la vocazione di donna e di mamma, che sapeva così affrontare anche le avversità della vita con uno spirito di coraggiosa forza di rinascita, di dovercela fare, per amore dei figli di quelle numerose bocche che ogni giorno dovevano venire saziate. Mai una recriminazione, mai una ben che minima forma di odio verso la società, ha accettato quello che era un suo diritto, senza elemosinare o speculare sulla sua situazione di vedova con una famiglia numerosa a carico.

Mi sarebbe facile, citando l’ esemplare vita della signora Ilda, fare dei confronti e dei paragoni con delle situazioni familiari in profonda crisi, che vedo in questa nostra società, mi sarebbe facile e la signora Ilda ne uscirebbe come un esempio da imitare, come un simbolo di amore per il suo uomo e per i suoi figli, un esempio di dignità e consapevolezza del vero ruolo della donna che non è asservita all’ uomo ma che ama l’ uomo in tutte le sue sfaccettature, con i suoi pregi ed i suoi difetti, che è vissuta in un tempo dove le cose si sapevano e si dovevano aggiustare e per nessun motivo al mondo si sarebbero buttate. Erano altri tempi, è vero erano tempi in cui la vita sociale era scandita ed ordinata da valori che miravano alla stabilità della famiglia che è la cellula fondante della società, negli anni successivi non si è riusciti a crescere di pari passo conservando ed adattando al mutare dei tempi quei valori che non sono passati di moda, forse a taluni sono sembrati restrittivi della libertà personale, del proprio egoismo e della folle corsa al materialismo ed al consumismo sfrenato.

I valori non hanno colore politico, non hanno una fede religiosa, sono solo un frullato di esperienze e di buon senso. Non invecchiano mai, ma ci aspettano al varco dei nostri errori ed al fallimento delle società che pensano di poterne fare a meno !

E’ a donne come la signora Ilda che noi uomini dobbiamo toglierci il cappello al loro passare, a quelle donne la cui semplicità ed umiltà rende speciali ed uniche, rare da trovare in questi tempi moderni dove tutto sembra dovuto, anche il rispetto che certe persone non meritano ma che viene aquiseto con il denaro e con il potere, cose del tutto effimere nell’ ottica di vita ispirata al fulgido esempio della signora Ilda.

 

 

 

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ZANOTELLI GIOVANNI

 

(Gioanin ( 1°ww ) * 24. 06. 1896 + 04. 02. 1973

 

Si chiamava Zanoteelli Giovanni, ma io l’ ho sempre sentito chiamare Gioanin, era un uomo alto e magro, una persona umile e buona, che ho avuto il piacere e l’ onore di conoscere molto bene, in quanto la mia abitazione dista una decina di metri dalla sua e tutti i giorni avevo l’ occasione di incontrarlo, quanto andavo a giocare con i miei cugini che ora sono negli Stati uniti.

Giovanni era zoppo e camminava decisamente claudicante per via della brutta ferita avuta nella prima guerra mondiale, quando una granata d’ artiglieria gli aveva demolito il piede e da allora, dopo essere stato curato nell’ ospedale militare di Lienz in Austria, per poi venire congedato a causa della grave infermità era costretto a camminare zoppicando.

Con l andare del tempo, la tecnologia ortopedica gli aveva messo a disposizione delle scarpe speciali che gli consentivano di camminare con meno sforzo e con meno dolore.

Quel suo camminare stentato e faticoso me lo sono portato nella mente fino ad oggi e quando passo vicino a casa sua, mi sembra ancora di vederlo salire lungo il viottolo con quel suo incedere faticoso e lento, ed io , uomo di destra, a volte entusiasta delle grandi battaglie, del fascino della guerra, delle grandi imprese epiche e mitologiche, venivo sempre messo a confronto con la realtà cruda e dolorosa delle vicende belliche, quando incontravo il Gioanin con il suo passo lento e zoppicante, con il suo eterno sorriso, specie per i bambini, con la sua serenità di una vita vissuta con profonda onestà e dedizione alla sua numerosa famiglia. Giovanni infatti, nonostante la grave menomazione, era riuscito a farsi una bella famiglia, erano tempi duri allora per gli uomini e per le donne, ma erano anche i tempi dove sbocciava un vero ed indissolubile amore tra due ragazzi, a prescindere dalle condizioni economiche e dallo stato fisico, e questa ora è una situazione che invidio, io portatore di un grave handicap, non sono riuscito a farmi una famiglia, perché le donne del mio tempo guardavano più alla scatola che al contenuto…ma questa è un'altra storia.

Giovanni aveva sposato una ragazza di Scanna che si chiamava Concetta Agosti, ma per tutti in paese era la Rosina e da lei aveva avuto ben 7 figli, tre maschi e quattro femmine, quello che mi è stato più vicino, per via dell’ età e della passione per la ricerca, è stato Onorio, era un genio di sapienza e di fantasia applicata alla realtà, ricordo con nostalgia quei tempi, quei lavori ingegnosi, quel nostro correre al torrente Pescara, quel nostro costruire le baite nel bosco, con la centralina elettrica mossa dalla forza dell’ acqua, quanta libertà, quanto entusiasmo e quanta costruttiva fantasia…

Giovanni era un agricoltore, viveva con il lavoro dei campi ed i prodotti della terra, ad aiutarlo nel lavoro quotidiano , reso ancora più pesante dalla sua menomazione al piede, c’ era sempre la fedele Rosina, sembra quasi di raccontare una bella fiaba dei Grimm, ed invece è la vita di un uomo, della sua donna e della sua bella famiglia. Pensando al Gioanin, a volte mi chiedo : ma cosa ci manca ora, perché andiamo a cercare tutto quello che avevamo e che abbiamo dimenticato in nome di un discutibile progresso che ci ha resi schiavi di un consumismo sfrenato, di cose spesso inutili ed assurde, e poi andiamo a cercare un angolo di pace in una baita di montagna quando quella pace e quella serenità l’ avevamo dentro le povere case di un tempo…

Giovanni aveva anche dovuto emigrare negli Stati uniti, dove era stato un anno precario in attesa di un lavoro e per sopravvivere faceva dei lavori saltuari, poi , come tutti gli italiani, aveva avuto il suo lavoro, in una miniera della Pensilvania, dove rimase per 10 anni.

Il suo stato di grande invalido di guerra, a quel tempo non dava diritto a delle sovvenzioni o delle pensioni, anche perché quella era gente che aveva combattuto contro l’ Italia e specie durante il periodo fascista, non erano visti di buon occhio, quindi ancora maggiore era lo sforzo per poter mantenere la famiglia con la moglie e i sette figli, ma quello che più pesava in casa di Giovanni, era la pesante ironia che i bulli del paese avevano elaborato per deridere il Gioanin ed il suo grave problema derivante dalle ferite della guerra, forse quell’ ironia , stupida ed anacronistica, pesava al Gioanin ed alla sua famiglia molto più del dolore fisico che gli procurava da anni la ferita al piede che lo aveva reso zoppo.

Infatti una banda di bulli del paese con a capo Zanotelli Davide, suo nipote aveva pensato bene di coniare un soprannome che definisse nei particolari e senza ombra di dubbio, lo stato fisico di Giovanni Zanotelli, lo definirono “ il gamba “ .

Io non so se anche nei miei confronti, per i miei problemi congeniti che ho, si sia pensato di azzeccarmi un nomignolo, ne sarei quasi onorato, perché lo ritengo l’ unica cosa che certa gente, ignorante e retrograda, sarebbe in grado di partorire, solo il guardare i difetti degli altri senza mai guardarsi allo specchio.

La figlia Rita, mi ha raccontato un altro piccolo episodio riguardante l’ invalidità del padre, un giorno, mentre il Gioanin tornava a casa con il carro carico di fieno per le mucche che lo trainavano, un ragazzo del paese che si chiamava Zanotelli Pio, tiro al Gioanin una pera colpendolo al piede malato, tante furono le bestemmie e le maledizioni dell’ uomo, ed il destino che ascolta tutto, e rende poi giustizia nel tempo, determinò che il bullo che gli aveva appioppato il soprannome di “ gamba “ , chiamato anche lui a combattere un altro nemico in Africa, venisse ferito ad una gamba e poi, col tempo gli dovesse essere amputata, ed il secondo perdesse un braccio in un incidente di lavoro… quando si dice destino.

 

 

 

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CONTER BASILIO

( Paoli 1° ww )

 

Basilio Conter, fu una delle persone che ho conosciuto sin da bambino, in quanto era il nonno paterno dei miei cugini Alfio e Diego, aveva sposato una donna che si chiamava Zanotelli Anna ed aveva due figli Daniele e Remo. Era un uomo semplice un agricoltore, come tutta la gente locale di 2 secoli fa, anche lui, come tutti i giovani validi, allo scoppio della guerra venne richiamato e mandato sul fronte russo, con gente di Rumo, come mostra una foto che lo ritrae assieme ai suoi commilitoni .

Delle sue imprese belliche non ricordo molto ma spesso ci parlava della sua odissea per poter tornare a casa dopo l’ armistizio del 1917 quando la Russia, dopo la rivoluzione di ottobre e la cacciata dello Zar Nicola secondo, concluse con l’ Austria una pace separata liberando tutti i numerosi prigionieri tra cui anche Conter Basilio, che poi impiegò mesi per ternare a casa avendo dovuto compiere il viaggio di ritorno passando per il Giappone e dovendo di fatto fere il giro del mondo alla rovescia per arrivare al suo paese, con la sorpresa di trovarsi non più austriaco ma italiano dopo l’ annessione del 1918.

Riprese il suo lavoro di contadino, come aveva fatto prima della guerra, era una persona semplice ed umile, molto riservato. Dopo la seconda guerra mondiale, una grave disgrazia lo colpì, il figlio minore Remo, si ammalò gravemente di depressione e dovette essere ricoverato all’ ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana, sembra che il ragazzo fosse stato arruolato nel lavoro coatto dell’ organizzazione tedesca Todt che affiancava la Wehrmacht per lavori di manutenzione alle strade ed alle strutture militari e lì si era poi malato.

Da quel manicomio ne uscì morto nel 19**- Voglio raccontare un piccolo episodio che coinvolse Basilio in un incidente stradale, erano gli anni 60, ed era un caldo pomeriggio estivo, quando la signora Rita Zadra che abitava ad un passo dal luogo dell’ incidente ed aveva visto tutta la dinamica, mi disse di chiamare mio padre ed i parenti di Basilio, perché gli era capitato un incidente stradale. Era successo che l’ uomo , tornando dal lavoro dei campi, era stato a “ votar l’ fen “ ( girare il fieno che seccava al sole ), si era fermato un attimo al bar della Cooperativa di Varollo a bere un bicchiere di vino, ed aveva incontrato un suo nipote di Varollo che si chiamava Tomevi Ettore.

Si fermò a chiacchierare con lui per un po’, poi il nipote che aveva una moto non ricordo la marca, si prestò a portare a casa Basilio con il suo mezzo, per fargli risparmiare tempo e fatica. La strada allora non era asfaltata, era una strada bianca sterrata, e non c’era nemmeno la variante che tagliava fuori il centro abitato di Varollo, il tragitto non era lungo, saranno stati circa 100 metri, ad ogni buon conto, arrivati alla croce dell’ Angelica, forse per un sasso o della sabbia smossa, il guidatore perse l’ equilibrio ed i due rovinarono a terra… Il danno fisico fo molto limitato, data la bassa velocità della moto, si trattò di alcune contusioni ed escoriazioni, non credo che ci fu nemmeno bisogno del pronto soccorso ospedaliero.

Il fatto fece cronaca perché a quel tempo il traffico era limitato, quasi assente, e le notizie di cronaca nera o rosa o il gossip erano limitati ai confini comunali, oh, si badi bene che però c’ erano delle comari che sapevano di te vita, morte e miracoli, e per quello che non sapevano, ci pensava la loro feconda fantasia.

 

 

 

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Agosti Eugenio

 

( dei Turi 1°ww )

 

Era un uomo alto e magro abitava all’ inizio del paese in una delle prime case che di incontrano a destra salendo per la ripida e stretta stradina che taglia a metà il paesino di Scanna, la casa che è di fronte a casa Guelmi il caseggiato più storico della Frazione.

Anche lui , come tutti qui in paese , era agricoltore, allevatore con una spiccata propensione per l’ apicoltura. Era sposato con Rosa dalla quale ebbe numerosi figli e figlie ???

Come tutti gli uomini validi di quel tempo, anche lui venne arruolato nell’ esercito di sua maestà imperiale Francesco Giiuseppe d’ Asburgo ed il 20 luglio 1914 venne anche lui inviato su uno dei numerosi fronti di combattimento.

A guerra finita tornò anche lui nella nuova patria italianaa riprese il lavoro e riprese a fare figli, un figlio che si chiamava Vittorio andando Cles, all’ altezza del bivio di Scanna ebbe un grave incidente con un pullmann di linea dell’ linee private Franch, mentre percorreva in bicicletta la strada andò a sbattere con la testa contro il mezzo e riportò un grave trauma cranico che in seguito gli provocò una grave forma invalidante simile all’ epilessia.

Di professione faceva il sarto ed era anche molto bravo perché aveva studiato l’ arte presso un maestro di sartoria, lavorava a fare vestiti sia maschili che femminili, ricordo un giorno che con mio fratello eravamo andati a prendere un lavoro finito e mentre ci stava consegnando la merce ebbe una crisi e cadde a terra, noi , impauriti ed incapaci scappammo a gambe levate.

Eugenio era un uomo di fede e tutte le domeniche si recava alla Messa cantata assieme a tutti gli uomini del paese che allora andavano a piedi , a piccoli gruppi e si raccontavano i problemi e le avventure della vita.

Ricordo una domenica che scendevano da Messa assieme a mio padre ed altri uomini anche Eugenio, mente nell’ aria si stava preparando un violento temporale estivo. Ad un tratto una saetta si abbatté molto vicino al paese con un rumore come una grossa bomba, mio padre disse che era un fulmine che si era abbattuto molto vicino a loro.

Eugenio si fermò e con lui si fermarono tutti ad ascoltare quello che avrebbe detto un saggio anziano del paese, quando ancora il parere e l’ esperienza dei vecchi che avevano alle spalle una vita contava molto e rivolto a mio padre disse. – Ses stà n’ tal campo n’ do che i sbarava ? – mio padre rispose affermativamente che era stato in guerra in Africa.

Eugenio allora disse . - io si che i jera i fulmini ! -

 

 

 

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UNA VITA SALVATA

 

Forse era l’ anno 2003 ma non ricordo con esattezza, ma non ha tanta importanza la data di questo evento, è più importante il suo lieto fine.

Era una sera , fredda d’ inverno,la temperatura era molto bassa, meno 10 o giù di lì, erano circa le 18 quando mi accorsi che mi mancava qualche cosa che dovevo andare in cooperativa a prendere, mi misi il giaccone, il berretto di pelo e mi avviai con le mani in tasca verso il negozio. Che facesse tanto freddo, lo dimostrava il fatto che il fiato che usciva dalla bocca vaporoso, ghiacciava immediatamente sul viso e sulla barba ancora da fare. La cooperativa di consumo alimentare, dista da casa mia circa 70 metri, e si trova all’ ingresso dell’ abitato di Varollo sul lato destro della strada, prima della curva a gomito che porta verso Livo, a metà strada si trova l’ abitazione della signora Laura Depetris, ora da poco deceduta, ma che all’ epoca dei fatti aveva circa 80 anni.

Le strade erano deserte, perché tutti se ne stavano al calduccio delle loro case ed uscivano solo se necessario, come avevo fatto io quella sera. Quando arrivai alla casa della signora Laura, ed avevo già superato l’ angolo del fabbricato di fronte piccolo giardinetto, mi sembrò di udire una voce che mi chiamava, mi fermai un momento ma non udii più nulla.

Pensai che fosse una mia sensazione o che magri il cappuccio imbottito della giacca a vento avesse distorto qualche suono proveniente chissà da dove.

Il richiamo non si ripeté più ed io ho proseguito la strada verso il negozio. Lì, non c’ era nessuno al di fuori della commessa, che mi servì in fretta anche perché era presto l’ ora di chiusura.

Presi la roba e mi riavviai con passo svelto verso casa, avevo appena superato l’ angolo della casa della signora Laura, quando sentii nuovamente questo richiamo, qualcuno che mi chiamava da quella direzione e questa volta il richiamo era nitido, pensai che non mi sarei potuto confondere per due volte di seguito e che qualcuno mi chiamava per davvero.

Mi fermai ad ascoltare meglio, era la signora Laura che chiedeva aiuto, quell’ angolo di casa era nel buio più fitto, neppure la luce della strada riusciva ad illuminarlo, chiamai allora per nome la signora, mentre cercavo di capire quale fosse la strada giusta per arrivare a lei , mi rispose dicendo che era caduta e non riusciva a rimettersi in piedi, le dissi allora che non riuscendo a vedere, sarei andato a chiedere aiuto dalla signora Rita che abitava a due passi da casa sua.

Suonai il campanello di casa della signora Rita che fortunatamente mi rispose e si affacciò alla finestra, le chiesi allora se avesse una torcia elettrica e di seguirmi per farmi luce mentre cercavo di soccorrere la signora in difficoltà. La signora Rita mi segui con la grossa torcia che illuminava la strada e raggiungemmo la signora Laura che era scivolata ed aveva strisciato con la fronte sul muro ruvido , procurandosi delle escoriazioni superficiali che però le avevano sporcato di sangue la faccia, vista così, faceva una certa impressione, ma avendo partecipato ad un corso di pronto intervento, la cosa mi sembrò normale e non tanto grave. Chiesi, per ogni buon conto, alla donna se sentisse dolore in altre parti del corpo e lei mi assicurò di no, allora la aiutai ad alzarsi, mentre l’ altra donna mi illuminava la zona con la grossa torcia, dissi alla signora Laura di appoggiarsi a me e piano, piano la riaccompagnai al suo alloggio, tutta intirizzita dal freddo ma in buone condizioni, suoni il campanello e scese la nuora che alla vista del sangue rimase molto shoccata, ma si riprese subito e le prestò i primi soccorsi in attesa dell’ ambulanza che arrivò dopo poco dal vicino ospedale di Cles.

Al calduccio, accanto alla stufa che ardeva, la donna si rianimò e riprese a parlare come prima, raccontò che era andata a chiudere le persiane della stanza all’ esterno della casa nel giardinetto buio, che era scivolata ed era caduta tra il muro e le piante di rose, ed era incapace di alzarsi da sola, certo ce se fosse rimasta lì in quel posto per un po’ di tempo con quella temperatura di meno 10, sarebbe morta assiderata, ma il destino ed il caso vollero che in quell’occasione, io abbia sentito il suo flebile richiamo di aiuto, sarebbe bastato che in quel momento fosse passata un automobile ed avrebbe coperto la sua voce.

La signora Laura mi ringraziò e mi considerò come il suo salvatore, mentre io sono convinto che non era destino che lei quel giorno morisse, il destino, invece l’ ha chiamata all’ ultimo appello nel settembre del 2011, e mi piace sapere che sul letto di morte una figlia le leggeva il libro delle mie poesie, A CHI.

 

 

 

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Aliprandini

Antonio

(lucrezi 2° WW )

 

 

Per parlare del signor Antonio Aliprandini, bisogna risalire al tempo degli inizi della prima guerra mondiale, giusto un secolo fa, esattamente nel 1914 quando allora , imperversava la guerra tra l’ impero Austro - ungarico, la Germania del Kaiser e il resto dell’ Europa. Allora il territorio del Trentino - Alto Adige era sotto la giurisdizione dell’ impero Asburgico e con l’ avvento dell’ ennesima guerra contro gli avversari di turno, tutti gli uomini validi di età tra i 20 ed i 50 anni, vennero arruolati nell’ esercito di Francesco Giuseppe e mandati a combattere per lo più sul fronte orientale, per paura di facili diserzioni se fossero stati inviati sul fronte Italiano. Le famiglie rimasero così sprovviste della forza lavoro necessaria per poter mandare avanti le attività agricole.

Bisogna dire per completezza di informazione, che a seguito delle tante battaglie combattute sul fronte orientale, i prigionieri russi riempirono presto i campi di concentramento austriaci, con evidenti grandi problemi di gestione economica di quelli che erano “ nemici “ e quindi bocche inutili da sfamare.

Il gabinetto di guerra Austriaco, pensò bene di trovare una soluzione al problema dei prigionieri di guerra russi assegnandoli al lavoro coatto presso le famiglie dell’ impero più bisognose e che avevano dei congiunti al fronte.

Così, un anonimo soldato dello Zar Nicola II , assieme a tanti altri suoi commilitoni prigionieri, venne assegnato a delle famiglie del Comune di Livo e di Preghena, per i lavori campestri, al loro controllo era stato delegato a Preghena un piccolo distaccamento di militari austriaci di guardia, non più in giovane età, non più carne da cannone, ma soldati di quaranta anni che avevano sede nella casa Calovini, sotto i “ponti “ di Preghena, vicino alla chiesa.

Alla signora Giuditta Carotta, classe 1881, ammogliata con il signor Aliprandini Tommaso, che era stato arruolato nell’ esercito imperiale di Francesco Giuseppe e spedito a combattere proprio sul fronte russo, alla signora toccò un bel ragazzone figlio della grande Russia dello Zar, gente di indole buona e gentile, abituati al duro lavoro dei campi della Russia zarista dall’ economia prevalentemente agricola, sradicato dalla sua isba lontana tra le bianche betulle dell’ immensa steppa Russa e trascinato nella bufera della prima guerra mondiale.

Fatto prigioniero in una delle tante e cruente battaglie,molto spesso combattute per conquistare pochi metri di inutile terra con costi di vite altissimi, miracolato e definitivamente allontanato da altre possibili battaglie, ed infine per essere stato deportato in un villaggio tranquillo del Tirolo del sud, dove si parlava una lingua diversa dal tedesco, una lingua più dolce e meno imperiosa ( italico cuore italica mente, italica lingua qui parla la gente… ) e dove la donna che lo aveva in “ comodato gratuito “ presto si innamorò del bel giovanotto che parlava una lingua ostica al suo udito, e che non capiva una parola di quello che diceva lei, ma che, mi piace pensare, ha saputo prenderla con dolcezza e regalarle momenti di intenso amore, nella calda estate del 1916, distesi tra i fiori dei campi di sua proprietà.

 

Trascorsi i nove classici mesi che madre natura ha destinato per questi eventi, naque in casa Aliprandini un bel bambino che venne chiamato Antonio, era il 19 aprile del 1917, che crebbe con la madre ed il padre naturale fino all’ avvento della rivoluzione Bolscevica detta Rivoluzione di ottobre, che decretò la tragica fine politica ed umana dello Zar Nicola II e di tutta la sua famiglia, pose fine alle ostilità contro gli Imperi centrali e rese possibile la liberazione immediata di tutti i prigionieri di guerra Russi detenuti in Austria e di quelli austriaci detenuti in Russia, e così il padre di Antonio fece ritorno nella grande madre Russia divenuta socialista e bolscevica.

La signora Giuditta che era sposata ufficialmente con Tomaso Aliprandini, classe 1872, che era stato arruolato nell’ imperiale regio esercito austroungarico e mandato a combattere proprio contro i russi, all’ avvento della rivoluzione di ottobre venne rilasciato dai bolscevichi e poté far ritorno presso la sua famiglia di Scanna e presso la moglie che ne avrebbe voluto volentieri fare a meno, in quanto fonte di tutte le critiche ed i maltrattamenti della suocera perché ritenuta responsabile dell’ infertilità della coppia, ma che in realtà si era poi rivelata un accusa evidentemente ingiusta ed infamante al punto che quando la signora Giuditta rimase incinta ad opera del prigioniero russo, ne andò legittimamente fiera ed orgogliosa e si poté vantare del fatto che ad essere sterile non era affatto lei ma bensì il marito che la accusava di essere “ Fula “ ( vuota ).

Questo fatto mi fa meditare tanto sulla maternità e sul fascino del concepimento, della conservazione della specie umana, su quanto poco contano le nostre decisioni, la nostra morale, di fronte al richiamo naturale tra i due sessi che supera barriere di razza, di religione, di cultura, di colore della pelle e se non fosse per la perdita ancestrale dovuta alla nostra maggiore superiorità intellettiva nella gestione sessuale rispetto a tutto il resto del mondo animale dell’ “ Estro evidente “ la nostra attuale civiltà, così come è strutturata ora. non avrebbe ragione di esistere , ma sarebbe una società umana priva di una qualsiasi specifica razza.

Il ritorno a casa del signor Tommaso, ebbe momenti drammatici, e dovette intervenire il Parroco di allora per sanare la situazione famigliare andando a prelevare il marito reduce di guerra a Mostizzolo al tram e strada facendo informare il signor Tomaso degli eventi accorsi nella sua famiglia in sua assenza, l’ uomo capì il problema, non ne fece una tragedia greca e continuò la vita assieme a sua moglie che per ironia della sorte, fu costretta ad essere fedele ad un uomo del quale sapeva benissimo di non poter avere figli.

Le donne di allora erano donne d’ altri tempi, la cui forza e saggezza derivava dal fatto che erano consapevoli del loro ruolo biologico e sociale ed avevano accettato la loro condizione di femmina finalizzata alla procreazione ed al allevamento della prole, senza se e senza ma, e per ogni problema sapevano sempre trovare la giusta soluzione, con grande equilibrio, sensibilità ed infinita solidarietà.

Così una donna di Scanna, Agosti Giuseppina dei “Floriani”, aveva dato la sua disponibilità ad accogliere ed allevare il piccolo Antonio qualora il signor Tomaso non lo avesse riconosciuto e tenuto in casa come un figlio legittimo.

Antonio crebbe così nell’ amore della sua famiglia legittima e non ci sono motivi dalle notizie che io ho avuto dalle figlie che le cose non fossero così, giunto il periodo della scuola la frequentò con molto impegno ottenendo degli ottimi risultati in tutte le materie scolastiche. Ho avuto recentemente modo di vedere le sue pagelle scolastiche e posso garantire che è stato uno studente modello.

Ai nostri tempi, se si verificano casi simili, pochi sarebbero disposti all’ accoglienza gratuita nel proprio nucleo famigliare di una bocca in più da sfamare, per questo la nostra bella società solidale ed altruista a parole, si è ben presto premunita di Assistenti sociali, di strutture protette per nascondere al mondo certi peccati e non turbare più di tanto le coscienze della gente “perbene”.

Quanta ipocrisia in questa nostra società !

 

Come tutti i giovani italiani di quel tempo, fu anche lui avviato alla leva militare pronto per essere impiegato in una delle cicliche guerre che ogni venti anni devastavano il vecchio continente e puntuale arrivò la seconda terribile guerra mondiale con le tragedie ed i lutti che tutte le guerre portano con se.

Antonio prestò servizio presso il 131° Reggimento artiglieria corazzata “ Centauro “ con sede a Livorno.

 

Io ho avuto la fortuna e l’ onore di aver conosciuto il signor Antonio, perché alcune delle sue figlie maggiori erano tutte più o meno della mia stessa età, e la signora Renata è una mia coetanea, erano tutte belle ragazze, e i giovanotti e bulli locali, lucidi di brillantina Linetti, ronzavano attorno a così tanto ben di Dio, io compreso, e devo dire che le signorine Aliprandini molte volte ci invitavano ad un Party stile anni 60, dove era giocoforza d’ obbligo la sobrietà e parsimonia, dove con poche bottiglie di aranciata ed alcuni biscotti fatti in casa ci si divertiva ascoltando da scassati mangiadischi o da dei registratori a bobine la musica che allora andava di moda. Nessuno allora osava allungare le mani, o peggio tentare di appartarsi con qualcuna delle ragazze, avrebbe fatto i conti con il padre di loro che era buono e giusto, ma estremamente severo a questi riguardi.

Per far capire quanto il signor Antonio fosse meticoloso e severo in materia di sesso, basti pensare che all’ avvento dei primi calzoni femminili, si recò dal parroco, don Giuseppe Calliari per chiedere se tale abbigliamento fosse in sintonia con i precetti di Santa Madre Chiesa e se le proprie figlie fossero autorizzate ad indossare i pantaloni.

 

Come sono cambiati i tempi da allora ! Quante chiacchiere femministe sulla dignità della donna, sulle pari opportunità, quanta ipocrisia nei confronti della femmina, quante violenze ed angherie nascoste da veli di mimose.

Lo stato di figlio illegittimo di Antonio, pesò per tutta la vita come un macigno, come una colpa che pur non essendo sua , lo ha segnato in modo indelebile, come se fosse un disonore e tutto questo , secondo me, và imputato ed una visione distorta del problema dei figli “illegittimi“ aggravata da una mentalità clerico - bigotta della gente, che si preoccupava più di tutelare il buon nome della famiglia, che della vita di un essere umano, complice la Chiesa con i suoi predicatori che imponevano alla gente delle regole assurde che andavano contro la stessa logica naturale della vita, tenendo nei confronti della donna un profilo basso di dignità , basti pensare alla quarantena imposta alle puerpere, o il divieto assoluto degli anticoncezionali.

Il signor Antonio, si era sposato con una ragazza della val di Sole, di Comasine comune di Cogolo, che aveva conosciuto per via del suo lavoro di autotrasportatore, iniziato alla fine della seconda guerra mondiale quando aveva lavorato per l’ Organizzazione Tod della Wermacht e produceva “ gassogeno “ ( legna da ardere tagliata a pezzi piccoli che serviva per alimentare i camion del terzo Reich cha a fine conflitto non avevano più benzina ), e per completezza di informazione, da mia madre ho sentito dire che Antonio si recava a Comasine dalla morosa, che però era una sorella della signorina che poi sarebbe divenuta sua moglie. Però siccome il cuore è uno zingaro e dicono che al cuore non si comanda, e poi c’è da dire che nel DNA di Antonio doveva esserci tanto di quello del padre, che finì per mettere incinta la sorella, e da galantuomo che era se la sposò con buona pace della morosa ufficiale.

La ragazza si chiama Bordati Zita, una donna schiva e riservata, gran lavoratrice, tutt’ora vivente , che gli diede 7 figli , il primo era un maschio e si chiamava Renato, e morì tragicamente annegando nel pozzo di casa, poi la coppia generò altri sei figli, tutte femmine, gran belle donne tutte, per la gioia di noi giovanotti locali e non solo, visto che alla fine nessuna di loro finì con il maritare un giovane del luogo…

La perdita dell’ unico figlio maschio e il fatto di non averne più avuti, fu per il signor Antonio un motivo di rammarico e di tristezza per tutta la vita, il che non gli impedì di essere un padre amoroso ed orgogliose delle sue sei figliole, che voglio nominare una per una :

Renata, mia coetanea grande amica e compagna di tante battaglie sociali negli anni 70, Bruna, Dolores, Valeria, Antonia e Rosaria .

Il signor Antonio fu un grande amico di mio padre e ricordo ancora,con grande riconoscenza, i favori ricevuti nei momenti di bisogno, dal signor Antonio, che era una persona estremamente disponibile e generosa. Antonio aveva anche dato inizio ad una attività mineraria, aprendo una piccola cava di sabbia in località Scjani, ma non ebbe fortuna e la dovette chiudere dopo poco.

Poco dopo, Antonio si ammalò Di una grave forma di atrofia polmonare e da allora la sua vita divenne un calvario, fatto di continui lunghi periodi di ricovero ad Arco per cercare di fermare e controllare quella malattia che lo avrebbe portato alla tomba lentamente ma inesorabilmente.

La malattia di Antonio ebbe anche una pesante ripercussione negativa sui componenti la sua famiglia, in modo particolare sulle figlie. Infatti le malattie polmonari erano considerate molto contagiose e altrettanto pericolose, per cui le ragazzine di casa Aliprandini erano considerate delle potenziali portatrici sane di quei batteri insidiosi e subdoli che potevano provocare la malattia.

E’ una delle cose negative che hanno pesato maggiormente sulla psiche di quelle ragazzine, sinceramente io non ci avevo mai pensato a suo tempo ed avevo continuato a frequentarle in casa loro, mio padre, molto amico di Antonio, non mi ha mai posto dei limiti o dato degli avvertimenti. A me le signorine Aliprandini piacevano tutte, erano delle ragazze di una rara bellezza, come sono belle tutte quelle donne nate dall’ incrocio di due razze diverse e lontane.

Una mi piaceva in modo particolare… ma il destino ha voluto diversamente, e questa è un'altra storia.

 

Il valore dell’ uomo, non si misura in anni di vita vissuta, che sono esclusivi regali della provvidenza, della natura e del desino, ma si misura in ciò che egli a fatto per se, per la famiglia, e per la società.

Vorrei qui ricordare alla Sua Famiglia, innanzitutto, alla Società Civile ed organizzata di adesso ed a quanti leggeranno in futuro questa biografia, che il signor Antonio fu protagonista nella nostra società civile di allora, per il suo impegno costante e generoso verso tutti quelli che ne chiesero il suo contributo, senza esempi pratici la cosa potrebbe sembrare teorica, il signor Antonio infatti , si prestò volentieri, lui ed il suo “ Leoncino “ ad impegni che esulavano dalle sue personali competenze e responsabilità, come il servizio svolto per anni a fianco dei Vigili del Fuoco Volontari di Livo, mettendo a disposizione il suo camion nei momenti delle emergenze per gli incendi, che all’ epoca erano frequenti, e quando, ricordo, nelle primavere stizzose, quando il tempo faceva le bizze e la temperatura scendeva sotto lo zero e si era soliti accendere i fuochi per “ la nglaciadura “, ( le gelate notturne che rovinavano la fioritura, e quindi il raccolto ).

Ed i VV.FF. ( Vigli del fuoco volontari ) di Livo hanno ricordato, con intelligenza e riconoscenza, nel loro calendario del 2003 che viene distribuito alla popolazione, l’ impegno di Antonio abbinando , penso per pura coincidenza, il mese della sua nascita, aprile, e con la storica foto che lo ritrae , vicino alla chiesa di Varollo, con il suo camion con al traino la vecchia e gloriosa pompa Mertz con motore Volks Wagen dei Vigili del Fuoco Volontari di Livo .

Questo, secondo me, è il modo migliore e più intelligente per ricordare quanti hanno contribuito , in vari modi, a far crescere questo nostro paese, abbandonando vecchi steccati e assurdi preconcetti legati alle nostre origini di provenienza, e mi piace pensare che lassù Antonio abbia ritrovato il suo vero papà, e che da lassù insieme, guardino alla loro famiglia ed a questa nostra Comunità e che insieme possano dire “ Karaschiò “ va tutto bene .

Anche questa è storia !

Un particolare aspetto di questa dolorosa ed infinita vicenda, al quale non avevo mai pensato è il fatto della paura del contagio che queste malattie suscitavano nella popolazione, la ragione per la quale io ho sempre ignorato questo pericolo, sa nel fatto che mio padre essendo un grande amico del signor Antonio, mai una volta mi mise in guardia della possibilità di contagio e meno che meno mi impedì di frequentare casa Aliprandini e frequentare le ragazzine. Più tardi negli anni la signora Valeria mi fece notare questo aspetto della malattia di suo padre che coinvolse in maniera passiva ma con effetti devastanti per la convivenza, l’ intera famiglia Aliprandini.

Infatti c’ era gente che proibiva ai loro figli di frequentare le ragazze in ogni forma e si rifiutavano perfino di dare loro la mano nell’ andare o nel tornare da scuola e era loro vietato il giocare assieme a loro.

Questo stato di cose subdolo e sibillino, finì con emarginare poco a poco le ragazzine che vennero messe in vari Istituti religiosi sradicandole di fatto dalla famiglia e separandole tra di loro, mi dicono che per questo hanno sofferto molto ed ancora oggi ricordano quel periodo e quelle discriminazioni come una cosa molto ingiusta, fondata soltanto su medioevali paure e su preconcetti spesso infondati.

Come ho avuto modo di dire, infatti nessuna di loro ha sposato in uomo del luogo…

 

 

 

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Le padelle

 

cando i bateva le padele ai sposi “

 

Da tempo immemorabile, e fino a tutti gli anni ’60, quando un uomo decideva di convogliare a giuste nozze, tra i tanti impegni ed obblighi che precedevano il grande giorno, vi era quello di lasciar pagato “ da bever “ nelle varie osteria della zona.

Era questo un segno di amicizia e di condivisione del lieto evento che si andava a celebrare, ma soprattutto era ritenuto di vitale importanza per poter compiere i propri doveri coniugali, la prima notte a due, ance perché , quello che da sposati è diventato un dovere, diciamo pure anche piacevole, prima era un divieto assoluto.

Chi ometteva, infatti, di “ pajar da bver “ , poi , a nozze celebrate e non ancora consumate, veniva sottoposto alla pesante condanna del rito “ dele padele “ . Era questa una tradizione popolare che era tramandata dalla notte dei tempi, e consisteva nel fare il maggior chiasso possibile, sotto le finestre del maldestro sposo, che già pregustava i piaceri coniugali, usando delle pentole, coperchi, bidoni, lame della sega circolare e tutto quello che poteva generare dei forti rumori. Il rito, iniziava all’ imbrunire e proseguiva per ore fino a notte fonda, rovinando di fatto la luna di miele al malcapitato ed alla sua signora, che per la verità aveva la sola colpa di aver sposato un uomo giudicato avaro e per questo, sonoramente, punito.

La “ funzione “ non si limitava a quella sera, ma proseguiva poi con una cadenza prestabilita, come fosse una liturgia punitiva e purificatrice dell’ offesa subita dai frequentatori delle bettole di allora, da riscattare a puntate. C’ è anche da aggiungere, che a quei tempi, pochi si potevano permettere il viaggio di nozze, pertanto erano obbligati a subire questa terapia con le varie dosi di richiamo.

Ricordo, che quando si sposò il signor Zanotelli Ottavio di Scanna, fu sottoposto per settimane a questo trattamento, e tra i capi banda che organizzarono l’ evento, c’èra il signor Maninfior Benito, che però quando si maritò, commise la fatale imprudenza di non pagare da bere, magari confidando che erano cambiati i tempi, o che ci si fosse dimenticati delle tradizioni, e invece no, si dette vita ad un frastuono di padelle biblico, per sere e sere, fino a quando il signor Maninfior sporse denuncia alla magistratura. Dopo poco il Signor Pretore di Cles, convocò in udienza i querelati per capire e dirimere la questione, l’ avvocato difensore dei battitori di padelle, dimostrò al Pretore che si trattava di una manifestazione di carattere goliardico che da tempi immemorabili era giunta fino a noi e che tutti, fino a quel momento, l’ avevano considerata tale, neppure il vicinato si era mai lamentato dei rumori notturni, sapendo le “ nobili motivazioni “ che stavano alla base di tanto frastuono, e furono assolti perché il fatto non costituiva reato.

Apriti o cielo ! la sera stessa riprese con rinnovato vigore, forti della sentenza a loro favorevole, il baccano notturno per ancora un po’ di tempo. Dopo di allora, la tradizione andò a morire, anche perché era sempre più frequente tra i novelli sposi il classico viaggio di nozze, ma, soprattutto, l’ economia della zona era in forte crescita e tutti avevano il denaro per lasciar pagato il da bere presso le osterie, tradizione che, anche grazie al “ bater le padele “ a tutt’oggi viene rinnovata e rispettata, come segno di buon auspicio per una nuova famiglia che nasce.

 

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Il turbante

 

 

Eravamo diventati dei veri e propri monelli, e non perdevamo mai l’ occasione per dimostrarlo, anche a costo di vederci puniti a colpi di metro, o di dover rimanere , inginocchiati , per ore dietro alla lavagna,

Un giorno, ritornando a scuola il dopo pranzo, ci inventammo la storia che io fossi caduto a terra e mi fossi ferito alla testa, così i miei compagni di classe, mi bendarono con la tendina bianca tolta da una finestra del corridoio, fatta a strisce e poi applicata come una garza alla mia testa.

Più che una benda, alla fine, risultò essere una specie di turbante, come quelli che si usano nei paesi arabi, alla fine, io non volevo entrare in classe così conciato, ma i miei compagni non ebbero esitazione e mi spinsero dentro.

Il maestro mi chiese che cosa fosse successo, ed io ormai, dovevo stare al gioco e dissi di essere caduto per strada e di essermi ferito alla testa… il maestro si avvicinò e notò subito la strana benda, fatta di una stoffa che nulla aveva in comune con le vere bende medicali. Me la strappò dalla testa con un movimento brusco e repentino, scoprendo, così, il piccolo inganno.

Il risultato di questa bravata, fu che tutti i partecipanti e collaboratori, venimmo messi in castigo in ginocchio per l’ intera lezione, dietro la lavagna.

 

 

 

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I chierichetti

 

 

Tutti i bambini che avevano ricevuto la prima Comunione, erano anche automaticamente autorizzati a svolgere le mansioni di chierichetto ed a servire la S. Messa. Don Giuseppe Calliari, ci aveva insegnato le varie fasi della S. Messa e il ruolo di noi chierichetti.

C’ erano diversi attrezzi da dover usare, “l’ santarel “che era il contenitore dell’ acqua santa, “l’ turibol “ il turibolo con l’ incenso che diffondeva un fumo profumato, le ampolle che contenevano il vino e l’ acqua, poi c’ era il messale, i ceri, c’ erano i paramenti sacri il calice dorato, la pisside, insomma un armamentario di oggetti sacri.

Noi vestivamo con delle tuniche bianche e nere, per fare il chierichetto, bisognava arrivare per primi in sacrestia, per aiutare il prete a prepararsi, predisporre gli oggetti al posto giusto, mettere la lunga asta di impugnatura alla borsa per le offerte, preparare acceso la brace di carbonella per poter bruciare l’ incenso ed altre piccole cose.

Il sacristano era un uomo di Varollo che si chiamava Severino Carotta, era incaricato di suonare le campane, che a quel tempo erano ancora azionate mediante delle grosse funi, aveva anche l’ incarico di scavare la fossa nel cimitero quando moriva qualcuno, ora le campane suonano azionate da grossi motori e le fosse vengono scavate dagli operai del comune.

C’era un periodo dell’ anno, mi pare che era la primavera, nel quale si svolgevano le “ rogazioni “.

Erano delle processioni che si facevano per le strade di campagna, per chiedere prosperità e buoni raccolti.

Il compito dei chierichetti, era quello di portare la croce all’ inizio della processione, il santarello con l’ acqua benedetta ed i vari altri simboli religiosi. Succedeva, di frequente, che, o per distrazione, o per qualche caduta accidentale, il santarello si rovesciasse e si rimaneva senza acqua benedetta. Poco male, il prete non si accorgeva perché camminava avanti a noi, allora, uno di noi, correva al fosso più vicino e riempiva di acqua il santarello. I campi crescevano ugualmente rigogliosi e, la grandine magari non cadeva, l’ importante era la fede della gente.

Severino, aveva il figlio più piccolo che si chiama Bruno ed era un nostro compagno di classe, di frequente Bruno sostituiva il padre nel compito di suonare le campane per le Messe feriali, allora avevamo libero accesso al campanile dalla chiesa parrocchiale di Varollo.

 

 

 

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Il campanile

 

 

Mi piace qui descrivere il nostro bel campanile, che a mio parere , è uno tra i più alti e più maestosi di tutto il trentino. Storia dell’ arte e dell’ ingegno umano, tramandato e conservato fino ad oggi, è un opera del **** alto circa 65 metri, è composto per circa 2/3 da solide mura in pietra locale credo sia pietra proveniente da Port, facile da tagliare in cava e con la caratteristica di saper ben resister agli agenti atmosferici ed al freddo. La parte superiore, tutta in legno di larice, è un intreccio simmetrico di grosse travi che imprimono all’ opera una forma ottagonale che si slancia nel cielo maestosa e snella. In cima c’ una sfera metallica dotata con una croce all’ apice.

Tutte le volte che ci passo vicino, non posso fare a meno di osservarlo con nostalgia, è ancora un giovanotto snello, nonostante i suoi tanti secoli di vita.

Con il consenso dell’ amico Bruno, salivamo le ****rampe di scala di legno, formata da **** scalini, per arrivare alla torre campanaria dove sono poste le *** campane che compongono il suono polifonico che proviene dal nostro bel campanile.

Era sempre una grande emozione salire fino lassù, era come essere molto vicini al cielo, poi da lassù si può godere di uno spettacolo impressionante, si può osservare l’ intero paese con un colpo d’ occhio favoloso e la campagna attorno, con le persone che camminano per le stradine, che ti pare di guardare nella favola di Gulliver nel paese di Lilliput.

Con Bruno, era possibile anche osare di più, ed allora era adrenalina allo stato puro, a volte salivamo con lui lungo il castello di travi di legno del tetto e man mano che si sale, lo spazio si fa più angusto, sempre più stretto, per via della sua forma conica che si assottigliava e si chiudeva sempre più.

Sono certo, che ritornando sul campanile, troverei ancora, incise nelle secolari travi di legno, il segno del nostro passaggio, non è grande storia questa, ma è la storia che più mi piace, perché è quella vera e vissuta da noi ragazzini delle scuole elementari di Varollo, a partire dal 1956.

Un giorno di questi, chiederò il permesso al mio parroco e grande amico don Ruggero Zucal, per salire ancora una volta e fare delle foto da lassù.

Tante volte, aiutavamo il nostro amico Bruno a suonare le campane, tirando di buona lena, nelle grosse funi che arrivavano giù fino all’ ingresso del campanile, era un operazione semplice, ma delicata, bisognava fare oscillare lentamente la campana, tirando e poi rilasciando la fune, fino a quando la campana cominciava a suonare, poi c’ erano tanti modi di suonare per segnalare il tempo di inizio della S. Messa o della funzione religiosa, c’era il suonare che consisteva nel lasciare libero sfogo alla campana, c’ era lo sbottare, che era il far battere il batacchio della campana su un solo lato, naturalmente si sbottava solo con le campane più piccole.

 

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L’ orologio

 

 

Il vecchio orologio meccanico che era montato sulla torre campanaria della chiesa di Varollo, era un vero e proprio gioiello della tecnologia meccanica di precisione. Era un orologio costruito da ***** nel ****, funzionava con un sistema di pesi e contrappesi, si ricaricava ogni quattro o cinque giorni, con una manovella che usciva dall’ interno del meccanismo ed accessibile dalla scala di accesso del campanile.

Il fine carica lo si poteva capire dal tratto di corda che scorreva durante l’ intera operazione di ricarica e che segnalava con un tratto di colore rosso, la fine dell’ operazione. Credo l’ intera struttura della parte meccanica dell’ orologio, sia ancora nel campanile, frema da più di quaranta anni, sostituita da un moderno meccanismo elettronico.

 

 

 

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La “ sgrenjena “

 

Era uno strumento di legno, con una ruota dentata che faceva alzare, al suo passaggio, un assicella di legno sottile ed elastica che ricadeva , sbattendo, sul dente che stava arrivando, la si faceva roteare con una mano, tenendola in aria e produceva un suono come il gracchiare di una rana. Ne esistevano di diverse forme e dimensioni, il principio ero lo stesso, cambiava la tonalità del gracchiare, serve a tutt’ oggi, a segnalare , acusticamente, l’ inizio o il termine di una manifestazione.

Da noi, quando ero ragazzino, quindi in un periodo precedente il Concilio Vaticano ll°, serviva la settimana santa, dal venerdì al sabato, quando la liturgia non consentiva il suono delle campane e nemmeno il suono del tintinnante campanello che segnalava le fasi saliente della S. Messa, allora, in alternativa, si usava la “ sgrenjena “ .

Nel meridione, in dettaglio in Puglia, questo strumento viene chiamato “ tremula “ , infatti, per restare in tema al servizio che questo aggeggio svolgo,a Manduria c’è una Compagnia teatrale che si chiama La tremula.

Così, il buon Severino, durante le funzioni religiose della settimana santa, faceva roteare in aria la “ sgrenjena “ per segnalare ai fedeli che iniziava la S. Mesa e tutti si inginocchiavano, devoti.

 

 

 

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L’ “turibol”

 

 

L’ turibol, era l’ oggetto religioso più ambito da noi chierichetti, era lo strumento che serviva per far bruciare l’ incenso che produceva un fumo dall’ inconfondibile aroma profumato.

Accendere, calcolare i tempi di durata, e tenere accesa la brace nel turibolo, era una vera e propria arte del chierichetto, era , usando il gergo militare, quello che ti faceva diventare caporale di giornata.

Bisognava, innanzitutto, accendere la carbonella, erano dei dischetti della dimensione di un biscotto dello spessore di un centimetro, circa, si accendevano mettendoli a contatto con la fiamma di un cero, li si teneva in mano fino a quando avevano preso fuoco bene, poi si mettevano nel crogiolo del turibolo, penso che questo sistema sia usato anche oggi, è uno dei pochi principi che la Chiesa non ha ancora cambiato, poi per tenere viva la fiamma, si faceva roteare in aria il crogiolo con i carboni ardenti, tenuto da una lunga impugnatura di ferro, per effetto della forza centrifuga il crogiolo stava attaccato all’ impugnatura, prendeva ossigeno forzato e si aveva un effetto ottico come un fuoco pirotecnico, con scintille e scoppi annessi, ogni tanto, da fuori la sacrestia di sentiva un botto, era il crogiolo che si era staccato dall’ impugnatura, per un manovra azzardata o una frenata troppo brusca ed era stato proiettato contro una parete o un mobile, dopo il botto, dalla sacrestia usciva il fumo provocato dall’ “ incidente. Che tempi, ragazzi !!!

 

 

 

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Il campanò

 

 

Era il modo per annunciare a tutti i paesi limitrofi, fin dove fosse arrivato il suono festose delle campane, che la nostra comunità, civile e religiosa, era in festa.

Il campanò era un arte, tramandata nei secoli dai campanari e dai loro figli, così, quando nel paese c’ era una ricorrenza festosa come la sagra del borgo o una S. Messa novella di un giovane sacerdote, lo si annunciava al vicinato, con il campanò.

Per capire il suo funzionamento, bisogna aver visto i preparativi che faceva il padre di Bruno, il signor Severino, naturalmente gli amici di Bruno, potevano assistere ed aiutare. Devo dire, che allora, a differenza di oggi, i giovani erano molto più laboriosi ed ingegnosi, tutti, infatti, erano obbligati ad aiutare i genitori nei lavori nei campi e nelle stalle e si aveva così appreso ed aquisito il senso della misura, del calcolo ad occhio, l’ abilità nei vari ruoli e mansioni, il senso della prevenzione del rischio e del pericolo.

Eravamo tutti dei piccolo agricoltori ed allevatori.

Per preparare le campane per il campanò, bisognava , con le funi, imbragare il battacchio, poi tendere la corda, legandola ad una trave del castello della torre campanaria, fino a portare il battacchio a circa un centimetro dalla campana, in modo tale da poter parla rintoccare spingendoci sopra con le mani o i piedi.

Si formava così una ragnatela di corde, tante quante erano le campane, finita questa operazione, tutto era pronto per fare campanò.

Si poteva fare dei veri e propri concerti per corda e campana, bastava saper comporre dei piccoli brani musicali sfruttando la diversa tonalità di ogni campana, il risultato erano dei veri propri pezzi di musica che si potrebbe classificare come improvvisata e folk.

I concerti di campanò, erano frequenti per via delle numerose ricorrenze sacre di quei tempi, ed ogni paese aveva il suo stile inconfondibile e riconoscibile subito dagli orecchi più esperti, c’ era il campanò di Livo, di Preghena , di Cagnò, ma quello sicuramente più popolare ed inconfondibile, come il suo campanile, era quello di Cis, al quale noi avevamo scritto il testo, con le seguenti parole : “Din don, din don comarole, maturano le perole “.

 

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L’ azione cattolica

 

 

Era un supporto dell’ insegnamento religioso, ai miei tempi molto rigido e coercitivo, infatti, quelli che erano assenti ingiustificati alle funzioni religiose, S’ Messa, vespri, e catechismo, erano additati pubblicamente dal prete, che li richiamava durante la sua omelia.

Su questa fase della storia della chiesa e sul comportamento coercitivo dei preti, ho una mia precisa opinione, che non voglio assolutamente sia presa come giusta o da imitare, io penso che in quella fase della storia della chiesa, in attesa del Concilio rinnovatore ed innovatore, sia stata una fase dove il popolo seguiva la religione in modo tradizionale e vecchio, fatto di regole e codici antichi, incompresi da tutti, perché la lingua ufficiale della chiesa era il latino e perché mai aggiornati ed adeguati al mutare dei tempi e delle idee. Non che ora la situazione sia migliore, ma almeno adesso se uno non sente il bisogno di andare in chiesa, non viene rimproverato da nessuno, io ho delle mie convinzioni personali, in merito alla Fede, io non credo che Cristo, all’ inizio, abbia mai detto che la chiesa si debba dotare di questa assurda e ridicola gerarchia, di tutti i suoi prodotti e derivati, di sedi di culto lussuose, di un patrimonio dal valore inestimabile… Credo che abbia detto che l’ unico comandamento che ti può salvare o condannare è l’ amore verso il prossimo, bene se c’è un posto nell’ aldilà dove uno riceve un premio per come ha saputo interpretare in vita il Suo comandamento, io, in quel posto ci vado !

Torniamo all’ Azione cattolica locale, era composta prevalentemente da donne della borghesia locale, non saprei come erano organizzate tra di loro, so che aiutavano il parroco nell’ insegnamento del catechismo e della religione in generale, specie nei periodi precedenti la cerimonia solenne della prima S. Comunione. E’ una delle cose più penose che ricordo, per il formalismo delle azioni, sterili, senza convinzione e contenuti veri e sentiti, era una tradizione che si tramandava da generazioni, condita con tanto pressapochismo ed ipocrisia. Evito, volutamente, di ricordare i nomi di quelle persone.

 

 

 

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La gelateria alpina di Malè

 

 

Finiti i Vespri, verso le ore 15, tutte le domeniche di estate, arrivava davanti alla chiesa di Varollo, il furgoncino della Gelateria alpina che aveva il laboratorio e la rivendita a Male’ capoluogo della val di Sole ad una decina di chilometri da Livo.

Si metteva in un angolo della piazzetta, apriva il portellone laterale del furgone che era adibito a rivendita ed iniziava la distribuzione dei gelati. Noi, ragazzini e ragazzine, avevamo conservato con cura le cinque o dieci lire per il gelato domenicale e ci si avvicinava a piccoli crocchi, al furgone, esibendo il soldino per avere un cono di gelato al gusto preferito, o a gusti misti, dipendeva da quante palline si era in grado di acquistare. Inizialmente, le dosi venivano distribuite con una paletta di metallo molto simile ed un calza scarpe, che veniva messa nell’ acqua calda perché il gelato si staccasse facilmente, poi , le dosi furono più perfette con l’ avvento dello strumento che produceva le classiche palline.

E poi lì, tutti seduti sui muretti che circondano la chiesa, a leccare di gusto il freddo gelato e fare i nostri bravi commenti sul sapore preferito di ognuno di noi.

A me piaceva e piace tutt’ ora, il gusto di cioccolato, ad altri il limone o il pistacchio o la fragola… Erano dieci lire , spese bene, che ti dissetavano e ti rinfrescavano, si mangiava tutto, fino all’ ultimo pezzetto di cono, poi ci si sciacquava le mani alla fontana e si era pronti per un nuovo gioco.

A volte, c’ era qualche bambino o bambina che non aveva il denaro per il gelato, allora, le donne dell’ Azione cattolica, in modo particolare la Violetta, tirava fuori dalla borsetta il portamonete e pagava lei il gelato, era l’ unica azione che ci piaceva dell’ azione cattolica… Il più delle volte, il furgone dei gelati faceva tappa sul piazzale di casa mia, parcheggiava all’ ombra dei grandi ciliegi, ed era l’ occasione per fare il bis approfittando della bontà di mia nonna che lo comprava per se e ne comprava uno anche a me e mio fratello. Uscivano tutti dalle porte, con un bicchiere di vetro, che veniva riempito di buon gelato con poche lire, c’ era mia madre, la Lisa, la Paola, la Carletta, la Luciana dai grandi seni, il Claudio, mia zia Lina i miei cuginetti Roberto, Sandro e Lino, poi venivano altre persone delle case vicine, veniva la Rita il Ferruccio, il Luciano la Nicolina, la Sabina con Arnaldo e Guido, mia zia Delfina con Alfio e Diego e il piazzale di casa diventava un centro sociale, dove la gente conversava del più e del meno e dei fatti accaduti nella settimana appena scorsa.

 

 

 

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L’ ciaresar

Il ciliegio

 

Sul piazzale di casa mia, crescevano rigogliosi due grandi alberi di ciliegio erano alberi secolari, con un tronco molto grosso e producevano delle ottime ciliegie. Uno era di mia proprietà e l’ altro era del mio vicino di casa Ettore. Negli anni buoni, producevano quintali di ciliegie, una qualità di un rosso scuro, dolci e saporite. Tutto il paese era a conoscenza dell’ esistenza dei due grandi ciliegi, e quando i frutti erano maturi, molte persone, la sera, venivano a chiedere il permesso di salire sulle piante per mangiare le ciliegie mature. Ricordo questo piccola parentesi, per fare una riflessione su come ai miei tempi era molto più sentito e diffuso il principio della condivisione.

Sarà stato perché allora tutti eravamo nella stessa condizione di povertà, che sentivamo più forte il bisogno di condividere quel poco che avevamo, con il resto del nostro piccolo mondo di allora, che finiva lì dove finiscono i confini del nostro paese. Mi sono chiesto, molte volte, come mai, noi che osiamo definirci una specie di animali più intelligente degli altri, come mai abbiamo bisogno della miseria e delle privazioni, per riscoprire e ritrovare il senso ed il valore della condivisione e della solidarietà.

Forse la risposta sta nel troppo valore che noi attribuiamo al denaro, alle cose materiali, che offuscano la mente, tolgono valore al tempo che viviamo, ci rendono schiavi del consumismo più sfrenato, che ci portano a calcolare un essere umano non per quello che è, ma per quello che ha, questa filosofia ci rende avidi ed insensibili ai bisogni degli altri, ci chiude in una botte di ferro che protegge i nostri averi, ma che ci isola, inesorabilmente dai veri valori della vita e ci impedisce di cogliere gli aspetti belli e felici che ci propone.

 

 

 

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Nostalgia di casa.

 

Vittorio Conter, dei “ ciari “, era un ragazzo come me, aveva un anno di più, lui però frequentava la scuola elementare di Livo, per cui non è mai stato un mio compagno di classe ma semplicemente un amico di Livo. All’ inizio di questo racconto, ho riferito che in quelli anni, anche qui da noi, era massiccia l’ emigrazione verso gli USA e verso altre destinazioni.

Qui non c’ era lavoro per tutti ed allora i più giovani cercavano la fortuna in America…

Così fecero i mie amici Vittorio assieme ai suoi fratelli, Luciana la ragazzina della porta accanto dai seni prosperosi con la madre Carla ed i due fratelli Rino e Claudio, i miei tre cuginetti Roberto, Sandro e Lino, assieme ai loro genitori e miei zii Livio e Lina. Quello che voglio ricordare è la grande nostalgia del proprio paese, che tutti avevano al momento della partenza. Ricordo la Luciana che mi salutava , con gli occhi lucidi, che diceva di andare in Canada, una terra ancora poco sfruttata, ma che partiva con lo sguardo che non riusciva a staccarsi dalla porta di casa… Ricordo Vittorio, coetaneo e molto amico di mio cugino Gianfranco, era venuto a salutarlo a casa sua, partiva con il cuore rotto dalla nostalgia… Ricordo i miei cuginetti, che non volevano partire e non si riusciva più a staccarli di dosso, dalla tanta nostalgia che avevano…

Questo paese, sia pure con i tanti problemi che aveva allora e il mal governo degli untimi anni, era comunque il loro paese. Forse questa comunità si è scordata troppo in fretta di questi suoi figli sparsi per i cinque continenti, a volte leggo delle storie struggenti di nostalgia scritte da alcuni di loro, bisognerebbe rilanciare i contatti in modo reale ed intelligente non basta il formalismo del giornalino comunale che arriva loro due volte all’ anno, ora con l’ immediatezza di internet, e le potenzialità della rete Web, con facebook che è un social network gratuito che raggiunge tutto il mondo, si potrebbero riallacciare quei rapporti umani interrotti molti anni fa.

Basterebbe avere la volontà di farlo !

 

 

 

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I filmini

 

Le scuole di allora, erano state dotate di apparecchiature visive che servivano ad integrare le lezioni con delle immagini, erano i primi e primordiali proiettori di diapositive slide, non come quelli attuali, che hanno il caricatore con diapositive singole ed avanzano automaticamente, ma la pellicola, dentellata, era tutta intera ed era contenuta negli appositi barattoli cilindrici con il coperchio di protezione. La messa a fuoco era manuale e l’ avanzamento pure. Con questo sistema, si poteva vedere l’ esperimento scientifico, la storia , la geografia, ecc.

Il proiettore era di proprietà della direzione didattica di Revò e veniva dato , in comodato d’ uso, alle scuole della sua giurisdizione, c’ era un solo apparecchio che serviva sia per la scuola di Livo che per quella di Varollo. Quando l’ apparecchio era nella scuola di Livo, qualora il maestro decideva di fare delle proiezioni, lo si doveva andare a prendere alla scuola di Livo.

Nella maggior parte dei casi, il maestro incaricava me ed il mio compagno Dolfo, allora ci si avviava per i sentieri di Gaggià verso la scuola di Livo, dove , ad attenderci c’ erano le maestre “ Crozze “ credo fossero sorelle, ma non ne sono certo, erano, anche loro, provenienti dal paesino di Bresimo, noi le conoscevamo solo di nome, ma a sentire i loro scolari, erano severe. Si portava il proiettore a scuola e poi, il giorno seguente, il maestro ci proiettava le immagini inerenti la lezione che avevamo in programma. Per poter avere delle immagini, però, bisognava prima oscurare l’ aula, si chiudevano allora tutte le tapparelle anche con l’ ausilio di grosse tele di pesante stoffa rossa, per avere un maggior oscuramento.

A quel punto, nella semi oscurità, si scatenavano i giochi più fantasiosi ed i dispetti più subdoli, specie tra i ragazzi più grandi di quarta e quinta, con risate estemporanee o gridolini di gioia, finché il maestro non perdeva “ le staffe “ ed accendeva la luce, all’ improvviso, con il metro di legno in mano, pronto a colpire il malcapitato che si fosse fatto beccare fuori posto.

 

 

 

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Le “ zorle “ ( i maggiolini )

 

Non so, se i giovani d’ oggi, sappiano o meno cosa siano le “ zorle “ , ma credo, da una piccola indagine fatta, che ne ignorino perfino l’ esistenza.

E’ vero che da molti anni ormai, questi coleotteri, sono spariti dalle nostre campagne, probabilmente per i molti trattamenti antiparassitari con fitofarmaci che la moderna agricoltura impone e , forse anche, per il cambiamento di coltura avvenuto negli ultimi 40 anni.

Per ogni buon conto, questo è il maggiolino, che nel nostro dialetto chiamavamo “ ZORLE “

 

Descrizione [modifica]

Adulto [modifica]

Gli adulti dei maggiolini, lunghi 20-30 mm, sono allungati e presentano elitre colore rosso-brunastro e protorace scuro (bruno-nerastro o verdastro).
Talvolta le
elitre di alcuni esemplari sono fittamente ricoperti di scaglie bianche (varietà farinosus).
La parte terminale dell'
addome (pigidio) è tipicamente di forma triangolare, con l'apice appuntito verso la parte distale e ricurvo verso il basso.
Le
antenne sono formate da un funicolo ed un ventaglio con un numero diverso di articoli a secondo del sesso. Nei maschi il funicolo ha 3 articoli ed il ventaglio, molto allungato, ricurvo ed appiattito, 7 articoli. Nella femmina il funicolo ha 4 articoli ed il ventaglio, molto corto e quasi globoso, ha 8 articoli.

Larva [modifica]

Larve di maggiolino

Le larve, lunghe fino a 40 mm, sono a forma di "C" (larve melolontoidi), biancastre, con il capo e le zampe arancioni e la parte terminale dell'addome molto ingrossata. Vivono nella rizosfera nutrendosi di radici.

Ciclo biologico [modifica]

Il maggiolino è un insetto con ciclo poliennale in cui gli adulti sfarfallano in primavera, a maggio (da cui il nome).
Gli adulti si nutrono degli apparati aerei delle piante, specialmente le latifoglie forestali, che infestano iniziando l'attività trofica all'imbrunire.
Dopo circa 15 giorni dallo sfarfallamento si ha l'accoppiamento e l'ovideposizione che avviene nel terreno a circa 20 cm di profondità.
Le larve neonate iniziano la loro attività trofica sulle radici, specialmente quelle più tenere, anche di piante erbacee spontanee. Alla fine del 1º anno, all'avvicinarsi dell'inverno, le larve si approfondiscono nel terreno e svernano; nella primavera successiva riprendono l'attività, trascorrendo tutto il 2º anno allo stadio larvale. Nella primavera del 3º anno le larve possono:

  • riprendere l'attività, come nel secondo anno, e quindi sfarfallare alla primavera del 4º anno;

  • impuparsi e sfarfallare nel maggio del 3º anno.

Il maggiolino, pertanto, completa il suo ciclo biologico in 3 o 4 anni solari (quindi 2-3 anni effettivi).

Importanza agraria [modifica]

Maggiolino

Il maggiolino è un coleottero diffuso quasi ovunque in Italia. Estremamente polifago, in una sacca della terra di Otranto nel Salento, si è adattato a nutrirsi degli aghi più teneri dei pini.
I danni vengono provocati:

  • dagli adulti che si nutrono di foglie e possono provocare forti defogliazioni alle piante colpite nel caso di gravi infestazioni;

  • dalle larve che si nutrono delle radici e sono particolarmente dannose ai vivai o alle coltivazioni erbacee, specialmente se ortive.


 

Questi animaletti, che si nutrivano di foglie, avevano la caratteristica di appiccicarsi, con le loro zampe, ai vestiti di maglia ed ai capelli della gente, specie delle donne, che, notoriamente abbondano .

Era un animaletto innocuo, non mordeva, non graffiava, se ne stava quatto, quatto, tutto il giorno sugli alberi di ogni genere, specie sui ciliegi, quando faceva presto notte, però, si staccava dalle piante e se ne andava a zonzo per l’ aria dolce della sera, emettendo un tipico ed inconfondibile ronzio.

Come si può dedurre dal loro nome, vivevano la loro breve esistenza durante il mese di maggio, mese notoriamente dedicato alla Madonna, che veniva celebrata ed onorata durante tutto quel periodo, con una celebrazione liturgica che avveniva sempre di sera, all’ imbrunire, nelle chiese della parrocchia con l recita del rosario, noi, ragazzini, di Scanna e Varollo, si partecipava, a modo nostro, alla funzione religiosa…

Il nostro divertimento, era quello di catturare le zorle con un assicella, metterle tutte assieme in un grosso barattolo di latta, di quelli della marmellata, e poi chiuderlo in attesa che la gente entrasse in chiesa.

Ricordo il ronzio del barattolo che conteneva decine di zorle, era molto simile a quello della gente che usciva dalla chiesa dopo la funzione religiosa, forse più intenso, era tutta la voglia di libertà delle zorle che volevano uscire da quella prigione.

Era solo questione di tempo , poco tempo , per loro, non dovevano aspettare ne amnistie ne indulti, bastava, semplicemente che il prete iniziasse il S. Rosario.

A quel punto, un” volontario “, prendeva il barattolo ed entrava in chiesa dalla porta grande, che rimaneva sempre socchiusa per via del gran caldo e dei tanti odori che la gente di allora si portava appresso, come l’ odore di stalla, del sudore e le donne di altre cose…

Allora, nessuno aveva il bagno, come lo si intende adesso, i cessi erano all’ aperto, annessi all’ abitazione, ed erano di un metro quadro di dimensione, strettamente a … caduta. Ci si lavava in un catino, con acqua riscaldata solo d’ inverno sul focolare a legna, si usava il sapone fatto in casa con soda caustica ed il grasso del maiale, altro che creme idratanti e tonificanti, come le donne usano adesso ! e , lasciatemi dire una cosa che forse non farà piacere a tante donne contemporanee, ma , allora le donne erano più belle più armoniose, nel corpo, anche se meno profumate di oggi.

Il volontario posava lentamente il grosso barattolo in un angolo oscuro della chiesa, poi toglieva il coperchio e , furtivo come era entrato, usciva.

Decine di zorle, uscivano,inneggiando alla libertà, e si alzavano al cielo , ronzando, allegre, ed andavano ad appiccicarsi sui capelli della gente, sulle magliette, sulle gonne delle donne, quando, non avevano l’ ardire, di infilarsi al di sotto…

Il rosario, a quel punto, si poteva dire concluso, perché tutti cercavano scampo da quelle irritanti bestiole, uscendo all’ aperto. Il prete, concludeva con la solita fatua verso i responsabili di tale gesto, ma quando chiedeva conto a scuola , per sapere i nomi dei responsabili, vigeva sempre la più totale e sicula omertà.

Durante la prima guerra mondiale, le zorle ebbero un importante ruolo nella sopravivenza del genere umano delle valli del Tirolo austriaco, mi raccontava, infatti, mia nonna, che durante gli anni di carestia prima e della grande guerra poi, le zorle venivano prese, essicate nel forno a legna e poi ridotte in farina con la quale si facevano degli impasti alimentari ricchi di proteine. Sembra una cosa d’ altri tempi, ma se ci informiamo bene, troveremo ancora oggi, dei popoli che si nutrono di insetti, formiche, serpenti, e lombrichi, noi che siamo abituati alle bistecche o all’ arrosto, ci sembra una cosa schifosa e repellente, in realtà, è soltanto una questione di abitudine.

 

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I frati

La presenza sul nostro territorio dei frati francescani, era costante e ben visibile, avendo , a poca distanza dal mio paese, ben due conventi, uno a Cles ed uno a Terzolas. I frati, secondo la mia opinione, ma per il fatto anche, ci averli conosciuti profondamente durante la mia permanenza tra loro, durata tre anni, è stata per i nostri paesi una presenza benedetta, sia dal punto di vista cristiano che dal punto di vista culturale. I frati, erano ,infatti, un valido aiuto per i parroci di tutte le parrocchie della valle, in modo particolare per le confessioni, infatti, tutti, uomini e donne, preferivano raccontare le loro avventure d’ amore, di tradimenti, ed altro, piuttosto ad uno sconosciuto ed anonimo frate, che al proprio Parroco, perché, segreto del sacramento della confessione a parte, meno sapeva il prete dei loro affari di cuore, meglio era. I frati, passavano di paese in paese, a raccogliere la carità del prossimo, alimenti, come uova, farina patate mele, insomma tutto quello che era frutto della terra, ricordando sempre i principi di S. Francesco, che, altro non erano che quelli del Vangelo di Cristo, incarnati, direi, nel modo più semplice e genuino, perché da sempre, i frati, tutto quello che hanno ricevuto dalla carità del prossimo, lo ridistribuiscono a quanti ne hanno bisogno, senza chiedersi se ne abbiano o no titolo o diritto. Così come raccoglievano alimenti per il corpo, in eguale misura cercavano anime disposte a condividere il loro messaggio ed il loro cammino e stile di vita, che si traduceva in due parole “ ora et labora “ prega e lavora. Bisogna anche sfatare il mito delle vocazioni facili che allora abbondavano, sembrava, che ai miei tempi, gli unti dal Signore fossero molti di più di oggi, e , numeri alla mano, il dato è indiscutibile: allora, un numero elevato di ragazzini, era indirizzato alla vita monastica. Le cause, invece, andavano ricercate nella endemica povertà che allora affliggeva tutto il territorio trentino e tutta la nazione. Una bocca in meno da sfamare e da far studiare, era una manna scesa dal cielo, per le famiglie povere dei villaggi , considerato il fatto che a quei tempi, parlare di programmare le nascite, non solo era tecnicamente impossibile, ma anche moralmente proibito da santa Madre chiesa. I profilattici erano quasi sconosciuti alla maggior parte degli uomini e delle donne, e poi, non c’ era il denaro per acquistarli…a tale proposito, voglio raccontare un aneddoto, un giorno mio padre, si recò a falciare il fieno in un prato adiacente al bosco, dove la stradina entra proprio nel fitto degli abeti, un posto tranquillo, mia nonna lo aveva seguito per aiutarlo a mettere il fieno al solo per seccarlo. Mentre con il rastrello raccoglieva il fieno ei confini del bosco, qualche cosa di strano ed elastico le si attaccò al rastrello, mio nonna si abbassò e lo raccolse, sembrava un ditale o la buccia di un wurstel, lo esaminò a lungo, ma non riuscendo a capire che cosa potesse essere quello strano aggeggio, lo portò a mio padre chiedendogli che diavolo fosse. Mio padre sorrise glielo tolse di mano e le disse che le avrebbe detto che cosa fosse non appena tornati a casa, ed aggiunse – Lavatevi le mani, che quella è anche una cosa schifosa ! - Era, chiaramente un profilattico, lasciato da qualche coppietta che aveva fatto l’ amore nel vicino bosco, la sera prima… mia nonna, non ne aveva mai visto uno e non so neppure se mio padre le avesse dato le informazioni promesse, ma credo di no. Mia nonna, infatti, aveva avuto nove figli e numerosi aborti spontanei, era ovvio che ignorasse l’ esistenza e l’ uso del profilattico. Così, un giorno di estate del 1962, a casa mia si presentò un frate francescano del convento di Campolomaso nelle vallo Giudicarie più precisamente nel Bleggio, mi parlò a lungo del convento, dei frati, della possibilità di studiare a tempo pieno le materie didattiche, anche con l’ ausilio di moderne tecniche audiovisive, ne rimasi affascinato, subito la mia sete di apprendere la mi voglia di avventura, di scoprire cose nuove e di partecipare ad esperienze nuove con compagni diversi, presero il soppravvento sulla nostalgia di casa e del mio paese, che dopo di allora, non sono più riuscito a sentire mio d ad amare, non lo odio, se non una parte, ma non sono riuscito mai più a considerarlo come il mio paese, ma bensì come il luogo in cui sono nato e sono obbligato a vivere.


 


 


 

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Il collegio

Prima di salire al collegio dei frati francescani di Campolomaso, nel Bleggio, nell’ autunno del 1962, mi ero ammalato di influenza, così, invece di arrivare incollaggio assieme a tutti gli altri ragazzi, vi arrivai quindici giorni più tardi, accompagnato da mia madre, scendemmo a Trento per prendere il pullmann che portava a Sarche e poi a Ponte Arche, dove c’è la diramazione per Fiave’ ed il Bleggio. Arrivammo a Ponte Arche, nella tarda mattinata di un lunedì di ottobre, salimmo a piedi, portando una grossa valigia, per la strada , tortuosa, che porta a Campolomaso, lentamente, per il peso della valigia e per la strada tutta in salita, con una bella pendenza. Mi ricordo, perfettamente, che ad un tratto apparvero, preceduti da un sibilo, due caccia dell’ aeronautica militare italiano, che in un batter d’ occhio, furono lontani, lasciandosi alle spalle un sordo brontolio. Ero partito, salutando la mia famiglia, mia nonna, mio fratello, che doveva essere lui destinato al collegio, visto che in estate vi era stato per un mese di “ prova “, ma evidentemente non era il suo destino… Salutai mia nonna e mio padre, del quale ho avuto molta nostalgia, per giorni e settimane, dopo essere giunto al convento. Finalmente arrivammo in vista del convento, verso mezzogiorno, stanchi ed affamati. Il convento mi apparve allora, come era nel 2008, ad oltre 40 anni di distanza, quando, prima dell’ intervento al cuore, decisi, che se avessi dovuto morire, volevo, prima, rivedere il convento di Campo. Per la stradina bianca, assieme a mia nipote Erika, ci avvicinammo al convento, anche allora, nell’ ala nuova si stava lavorando, un cartello diceva che erano in costruzione le scuole elementari del luogo, quando lo avevo visto, molti anni prima, quando ero un ragazzino, si stava costruendo un ala nuova di pacca, del convento. Qui ritorna il valore ed il senso del motto ora et labora, ed il messaggio, sempre attuale e moderno dei frati, che con una mano chiedono e con l’ altra restituiscono. All’ ingresso del convento, allora, c’ erano due enormi tigli secolari, proprio davanti all’ ingresso principale ed alla porta della chiesa, che diffondevano una bella ombra e davano un senso di austero e di sacro all’ ambiente. Quando stavamo per entrare, incrociammo un signore, alto, con i baffi, che usciva, quando ci vide, ci salutò e ci disse : - Questo è il ragazzo che stavamo aspettando…- quell’ uomo, sarebbe stato il mio maestro di quinta elementare e s i chiamava Ferrari, però non ricordo il nome. Entrammo nel convento e ci fecero subito accomodare in refettorio dove, gli altri ragazzi già mangiavano, ci fecero sedere e ci portarono il pranzo. Ricordo, che mangiai pochissimo, perché, come al solito, mi era venuto il mal d’ auto sul pullmann ed avevo vomitato per tutta la durata del viaggio. Un frate, poi , ci accompagnò in camerata, ( il posto dove si dorme ) e mi indicò il mio letto ed il mio armadietto, erano tanti lettini, tutti ordinati e puliti, una cosa a cui non avevo mai pensato e che mi ha subito affascinato. Poi, mia madre, mi lasciò, con un lungo abbraccio, piansi per un poco, ma poi arrivò mio cugino Sandro a rinfrancarmi ed a darmi le prime nozioni della vita in collegio.


 


 

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Ora et labora

Dopo alcuni giorni che era arrivato dai frati, avevo subito imparato le regole e la disciplina che traspirava da tutti i muri del convento, devo ammettere, che a anche a scapito della mia indole libera e ribelle, l’ armonia, ordinata e silenziosa, che si respirava in collegio, mi ha subito affascinato e preso, anima e corpo, amavo studiare, ma soprattutto, amavo mettermi in discussione ed in competizione con tutti, a partire dai miei compagni di classe, per non dire con la classe “ avversaria “ nella quale militava mio cugino. Ben presto, divenni il pupillo del padre Rettore, che era un “ fascistone “ delle zone del Duce, era un uomo che in latino le si può definire “ vir justus “ , ma mi piace di più usare un espressione tedesca, a me molto cara, per definire padre Quirico Mattioli, “ ein manche in whort ! “ ( un uomo, una parola ). Era un uomo asciutto, alto, con una forte personalità, secondo me , aquisita nei tempi del Duce, era un uomo giusto con se stesso e giusto con gli altri, con una spiccata umanità ed un grande senso della disciplina. Non ho mai pensato, nemmeno per un istante di rimanere tra le mura di un convento e farmi frate, eppure quell’ ambiente, fatto di regole ferree e di una disciplina militare, mi ha subito affascinato e mi è stato subito facile, quasi logico, accettare con entusiasmo tutte le regole e la disciplina della vita monastica, fino a diventare in breve tempo, capo squadra durante le ore di ricreazione e nelle lunghe passeggiate nei vicini boschi ed al torrente Duina. Ho sempre cercato di osservare quel mio ruolo di caposquadra, in modo semplice ed umile, cercando sempre di assolvere le richieste dei miei compagni di classe e di quelli della classe del maestro Calliari, Eravamo ancora dei bambini, dei ragazzini, era anche facile ottenere con poco, con una certa filosofia di pensiero, tutto quello che si voleva, Bisogna anche dire, che tutti quanti eravamo accomunati da una vita di povertà e di indigenza, ora impensabili ed inimmaginabili, per questa ragione, eravamo tutti lì, in mano alla carità cristiana ed all’ umanità dei frati. Nel tempo che sono rimasto con loro, infatti, non ho mai sentito nessuno lamentarsi per il cibo o per altre ragioni, dai frati ho imparato a conoscere cibi nuovi, che non fossero polenta e latte o patate arrostite con le cipolle ed un po’ di latte, i pasti erano abbondanti e completi e da loro, conobbi l’ esistenza della carne, della pasta asciutta, dei risotti e dei dolci come il budino ecc. Anche il riscaldamento era tutta un'altra cosa, c’ erano i termosifoni, allora si chiamavano così i moderni radiatori di calore centralizzati, avevamo il proiettore cinematografico e guardavamo i film di Olio e Stalio, film di guerra, tanto cari al padre Rettore, film di avventura o cartoni animati della Disney. Eravamo due sezioni distaccate della scuola elementare di Campolomaso, con i nostri bravi maestri, solo che a noi era imposto un tempo di studio maggiore, si studiava tutti assieme in un aula comune e c’ era una saggia ed onesta competitività tra le due classi, si faceva a gara a chi aveva i voti migliori o chi faceva le ricerche più approfondite, si sapeva , sempre, riconoscere la supremazia degli avversari ed ammettere la propria inferiorità, insomma, “ due più due faceva sempre quattro e non cinque, se il Duce lo vuole ! “


 

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Il padre Rettore

Si chiamava padre Quirico Mattioli ed era originario della Romagna, quella terra tanto rossa e tanto nera, politicamente, si intende. Era un uomo magro, asciutto, pieno di vita e di fantasia, ma soprattutto, aveva il Duce ne cuore. Era un uomo dalle grandi e prolifiche iniziative, a lui , infatti, si deva l’ ampliamento del convento, con una nuova e moderna ala, che sorgeva ad est del vecchio monastero, ed era in avanzato stato di costruzione nel anno 1962 – 63. consisteva in una moderna sala nel piano semi interrato che aveva funzioni polivalenti, era , infatti, adattabile a palestra, teatro, cinema e sala riunioni. La parte superiore, era adibita a scuola e laboratorio didattico con annessa biblioteca. Venne inaugurata nell’ estate del 1963, con una solenne cerimonia e festa pubblica, alla quale parteciparono le popolazioni del Bleggio e di Fiave’, in quell’ occasione, ebbi modo di ascoltare per la prima volta, il coro Castel campo, diretto da padre Costanzo, un musicista ed insegnante di grande talento musicale. Il padre Rettore, si era premurato di organizzare, in maniera meticolosa ed elegante, la cerimonia di inaugurazione della nuova ala, facendo stampare un libro con la storia del convento di Campolomaso, fin dai primi anni di vita, era stato fondato nel **** ed era passato alla grande storia anche per la nascita, nei tempi delle invasioni Napoleoniche, del grande poeta trentino Giovanni Prati e della costante presenza in luogo della poetessa Ada Negri, che ebbe modo di descriverlo nei suoi versi, Padre Quirico, era un “ fascista “ convinto, infatti non perdeva mai l’ occasione per narrarci dei fatti che aveva vissuto e, specialmente, di farci ascoltare, dal suo grande registratore a bobine Grundig, le svolazzanti ed orecchiabili canzoni del regime. Quando, poi, si andava a passeggio nei vicini boschi, e presso il torrente Duina, nelle vicinanze di catel campo, portava sempre con se il suo fucile ad aria compressa, con il quale ci esercitavamo al tiro a segno con un barattolo di latta. In quei luoghi, nella spianata adiacente il convento, durante l’ occupazione tedesca dopo l’ 8 settembre, fu predisposto un piccolo aeroporto militare tedesco, che naturalmente era preso di mira dai caccia anglo – americani che lo bombardavano e lo mitragliavano quotidianamente, c’ era ancora, a testimonianza dei fatti, una grossa buca provocata dall’ esplosione di una bomba alleata. Un agricoltore del luogo, che aveva un campo di patate vicino all’ insediamento militare tedesco, ci raccontò, in lacrime, che un giorno mentre con sua moglie erano al lavoro nel campo, arrivò velocissimo uno spitfire inglese e si mise a mitragliare dei camion sulla adiacente strada, lui, si buttò a terra in un solco, mentre sua moglie, terrorizzata, scappò verso la strada , venne colpita dalle raffiche del caccia e morì .


 

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Noci e patate

Il Bleggio, allora, era un territorio estremamente povero, con un alto tasso di emigrazione, nei paesini, sparsi sul territorio, dai nomi particolari che sembrava di essere nel new mexico, infatti c’ erano paesi che si chiamavano Bivedo, Larido, Duedo, Gallio, Santa Croce, Poia, erano composti da pochissime case, vecchie e malandate, e la gente del posto, coltivava, principalmente patate, poi c’ erano delle enormi e secolari piante di noce e noi , ragazzini del convento, nei momenti di libertà dallo studio, si andava ad aiutare la gente del posto a raccogliere le patate e le noci, poi, il proprietario, come riconoscenza, destinava una piccola parte del raccolto ai frati del convento di Campo. Ed ancora ritorna il principio fondante della filosofia francescana, con una mano si riceve e con l’ altra si dà. Era una gente umile e generosa, quella dei paesini del Bleggio, povera, di quella povertà materiale che però rende la gente cosciente della propria situazione ed aperta ai bisogni del prossimo, specie di chi aveva ancora meno di loro. Gente saggia, riflessiva , io ero solo un ragazzino, ma ho avuto modo di conoscere ed apprezzare quelle persone, umili, e disponibili a spezzare il loro pane con chi ne aveva bisogno in quel momento, altro che i miei co valligiani nonesi, avidi ed egoisti, attaccati , in modo fobico, al denaro ed alla ricchezza ed insensibili all’ altrui bisogno e dolore . Questo stato di cose, mi veniva sempre rimproverato dai miei compagni di collegio e noi nonesi, non eravamo ben visti dagli altri ragazzi. A Fiave’, c’ era una pescicoltura industriale, a volte ci andavamo in passeggiata e ci fermavamo ad osservare il lavoro di allevamento delle trote, era un territorio che voleva crescere e svilupparsi, ed era sulla via giusta per farlo, infatti, pochi anni più tardi, l’ economia di quei luoghi crebbe, anche favorita dal turismo di massa, che allora era agli albori, ma sarebbe cresciuto in seguito. In quei luoghi, infatti, ci sono le terme di Comano che ora danno il nome pure al comune che prima si chiamava Lomaso ed oggi si chiama Comano terme. E’ una gente che tiene molto alla loro tradizione ed alla loro cultura, infatti, quando sono tornato in convento nel 2008, dopo più di 40 anni, nel chiosco austero del convento, era esposta una bella mostra fotografica delle antiche abitazioni del luogo che avevano tutte una struttura architettonica particolare.


 

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Il Duina

Il Duina è un torrente che scorre a valle del convento di Campo, e va a confluire nel fiume Sarca, quello che alimenta poi il lago di Garda. Da sempre, l’ acqua è stata una grande attrazione per tutti i ragazzi, in ogni parte del mondo, forse, ricordo ancestrale dei nove mesi trascorsi nel liquido amniotico delle madri, ed anche perché l’ acqua è fonte della vita, animale e vegetale ed è, da sempre, un motivo di infiniti giochi e passatempi ed un perenne ristoro dalla calura estiva.

Così era anche per noi, giovani fraticelli, del collegio dei frati, ed appena iniziata la stagione calda, il padre rettore, con la sua inseparabile carabina ad aria compressa, Diana, ci portava a passeggio alla Duina. Prima della partenza, i frati preparavano degli zaini pieni di panini, la marmellata o la cioccolata erano confezionati a cubetti e portati a parte in un altro zaino. Si partiva, cantando delle canzoni scout allegre, qualche volta si cantava anche faccetta nera… così, incolonnati come bravi soldatini, si scendeva al Duina. Il torrente, scorreva in mezzo ad un bosco di abeti e pini, molto simile al nostri torrenti Pescara o Barnes, nel fondo valle. Quando si andava alla Duina, era sempre una festa, la fantasia di noi ragazzini, si liberava come un canto e trovava spazio nei giochi d’ acqua più disparati, dal classico bagno nel torrente, alla costruzione di una diga per formare un piccolo laghetto artificiale dove poi fare il bagno e giocare nell’ acqua. Alla fine della passeggiata, il padre rettore ci lasciava sparare con la carabina verso un bersaglio attaccato ad un abete. A metà serata, si mangiava un abbondante merenda a base di pane marmellata o cioccolata, che i frati sherpa avevano portato con loro e che distribuivano ordinatamente a tutti i fratini. Alla sera, si faceva ritorno al convento, stanchi da morire, per i giochi e le corse nel bosco, ci si fermava a bere ad ogni fontana che si incontrava, passando nei paesini del Bleggio, alla sera si cenava e poi a nanna, per un lungo sonno ristoratore ed il giorno seguente si riprendeva, con rinnovato slancio, gli studi e la scuola. Un giorno, mentre si “ esplorava “ la Duina, un gruppetto di miei compagni trovarono, nascosti tra i sassi, un centinaio di proiettili di mitragliatrice contraerea, messi lì da poco da qualcuno che se ne voleva disfare per timore delle leggi molto severe, vigenti in materia di residuati bellici. Il padre rettore informò subito i carabinieri locali i quali vennero e prelevarono i proiettili. Ci spiegarono che erano proiettili incendiari, infatti, avevano la punta di color rosso mattone, come la punta dei fiammiferi da cucina, ci dissero che appena trovato un ostacolo da perforare, come la carlinga di un aereo, subito con l’ attrito si incendiavano appiccando così il fuoco al velivolo. Grande fu per noi l’ emozione di poter toccare con mano la guerra appena conclusa e mi tornarono in mente le lezioni del buon maestro Ernesto Fauri, che ci raccomandava sempre di non toccare e non giocare con i residuati bellici.


 

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Il coro

Padre Costanzo, era il nostro insegnante di musica era una talento della cultura musicale, suonava vari strumenti tra cui l’ organo e il pianoforte. Aveva da poco fondato il coro polifonico maschile Castel Campo che tutt’ ora è attivo e vanta un bel repertorio di musiche popolari e di montagna. In previsione della feste del vicino Natale, con i suoi riti liturgici e la sua atmosfera di festa, per abbellire con il canto le cerimonie religiose, tra i fratini vennero scelte le voci che poi avrebbero formato il coro. Il metodo di selezione era molto semplice, a tutti veniva fatta cantare la scala musicale da un punto basso della tonalità, fino a salire a dove più di arrivava in alto, in case a questo , venivano scelte le voci ed attribuito un loro ruolo all’ interno del coro, bassi, contralti, tenori, soprani. Naturalmente, uno che per natura era stonato, non aveva nessuna possibilità di far parte del coro, le regole erano rigide e non si voleva perdere tempo con delle campane rotte. Ad ogni voce veniva insegnata, in modo autonomo e soprattutto isolato da altre voci, la propria parte musicale, la si doveva imparare bene, senza dubbi o indecisioni, quando dopo una quindicina di giorni tutti sapevano bene la loro parte musicale, ci mettevano insieme ed il coro, come per incanto, era pronto a cantare a quattro voci le melodie natalizie. Alla S. Messa di Natale, la chiesetta del convento era gremita di gente dei vicini paesi che venivano a messa dei frati, perché era una messa “ diversa “ nell’ atmosfera arcana e sobria del convento, con il suo fascino austero ed il clima di grande semplicità e povertà che si respirava in ogni suo angolo. La gente entrava imbaccuccata dai neri mantelli, da cappotti e giacche che a guardarli ti davano immediatamente il senso della loro appartenenza sociale, c’ erano delle vecchiette che con i loro abiti scuri e lunghi fino alle caviglie e con la veletta ed il fazzoletto sui capelli, sembravano mia nonna. Allora si era in un periodo “ conciliare “ era infatti in corso il concilio vaticano secondo, che con le sue decisione e scelte doveva ammodernare la Chiesa cattolica ed adeguarla ai tempi che mutavano e che proponevano ed imponevano scelte e soprattutto modi diversi, più moderni e più vicini al popolo e a una società in continua e rapida evoluzione. Credo che allora le messe fossero ancora recitate in latino con il celebrante ancora che dava le spalle al popolo. La S. Messa di Natale era così allietata dai canti del coro a quattro voci dei fratini del collegio del convento dei frati di Campolomaso, alla fine della liturgia del S. Natale, i frati offrivano ai fedeli che vi avevano partecipato, un bicchiere di vino brulè assieme a dei dolci tipici del periodo natalizio. Direi che era una grande emozione seguire questa liturgia con il bel canto polifonico di un coro di adolescenti, era anche un bel colpo d’ occhio vederci cantare, disposti a semicerchio, tutti vestiti con la tunica da futuri frati e tutti con il libro dei canti in mano, bisogna dire anche, senza falsa modestia, che si cantava in modo che a me pareva addirittura divino…


 

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I regali di Natale

Più volte, in questo racconto, ho parlato dello spirito dei frati francescani, che credo sia anche una peculiarità di tutti gli ordini monastici della terra, compresi quelli non cristiani, questi uomini infatti, passano tutto il tempo della loro vita a pregare e lavorare e tutto quello che hanno è il frutto della carità di gente che incrocia volutamente o per la forza del destino, un uomo, con i sandali ai piedi, vestito con un saio stretto da una cordicella a mo’ di cinta e con la parte pensante piena di nodi, quanti sono i voti che hanno pronunciato. Tutto quello che distribuiscono a chi ne ha bisogno in quel momento, è frutto del loro lavoro e della carità di molta gente. Così come i regali che ci vennero donati il giorno di Natale dell’ anno 1963 presso il convento dei frati di Campo… Fu una cerimonia semplice ma molto suggestiva, uno dei più bei ricordi della mia infanzia, fu una sorpresa ben orchestrata , perché nessuno aveva mai fatto menzione dei regali che ci sarebbero stati distribuiti. Dopo il succulento pranzo di Natale, fatto di tante cose buone e di tante novità culinarie, il padre Rettore ci accompagnò nella grande aula dove si era soliti studiare e lì la grande sorpresa : su ognuno dei banchi dove si studiava, c’ erano tanti regali, c’ erano materiale didattico, penne, matite, colori, poi ad ognuno era stavo aggiunto un regalo personalizzato, ricordo che il mio era un grande pezzo di stoffa pesante con la quale poi mi vennero fatti dei calzoni per l’ inverno. Nel pomeriggio, poi, nella camerata adibita a cinema, ci venne proiettato un film di avventura a colori, era il massimo che ci si potesse aspettare.


 


 


 

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La befana

Quell’ anno, nella ricorrenza dell’ Epifania, venne nel convento di Campolomaso il vescovo dell’ ordine provinciale dei frati minori, monsignor Recla, e per l’ occasione ci prepararono con una recita che si tenne nella camerata dei fratini, perché la nuova ala era ancora in costruzione e sarebbe stata ultimata per l’ anno venturo. Ricordo che a me venne data la parte di protagonista della breve recita, che era quella del frate che distribuiva i doni ai piccoli fratini addormentati, improvvisandosi nel ruolo della befana con un grande sacco, mentre tutto il silenzio avvolgeva la camerata, distribuivo i regali, commentando il ruolo della befana “ la befana, la dolce immagine… “ Quanto rimpiango quei giorni spensierati o, quando con una folata di vita tutti eravamo felici, quando bastava aver trovato una famigliola di ricci tra le foglie dei grandi castani, per essere felici di poter portare loro del cibo e badare che nessuno potesse far loro del male. Quando per essere felici bastava avere un pezzo di pane croccante, sottratto alla mensa del refettorio, da poter sgranocchiare in segreto durante le ore di studio o quando ti chiamavano in parlatorio perché era arrivata una visita per te, la mamma, il papà o dei parenti che ti portavano dei regali utili e ti raccontavano le ultime novità del borgo natio quelle che non ti avevano raccontato nell’ ultima lettera da casa…


 

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La morte di J.F. Kennedy

La sera del 22 novembre 1963, mentre eravamo tutti in fila fuori dalla camerata, in attesa che il padre Rettore ci facesse l’ ultima riflessione quotidiana, arrivò un frate con passo quasi di corsa, si avvicinò al Rettore che ci stava dando le ultime raccomandazioni, lo interruppe e gli parlò un attimo all’ orecchio. Padre Quirico smise di parlare, respirò profondamente come se volesse prendere forza da Dio guardò il soffitto, mosse le labbra come par mormorare una preghiera e poi con voce rotta da una emozione fortissima, si rivolse a noi e ci informò che era stato ucciso il presidente degli Stati Uniti d’ America John Fitzgerald Kennedy. Tutti rimanemmo in silenzio, tutti noi, infatti conoscevamo il Presidente in quanto una persona tra le più importanti del mondo, appena uscito dalla crisi militare di Cuba, dove si era sfiorata la terza guerra mondiale, ma soprattutto perché era il primo Presidente USA cattolico. Subito il padre Rettore, ci fece notare, da fascista ed anticomunista convinto quale era sempre stato, che Kennedy era l’ unico che aveva saputo tenere a bada i “ ROSSI “ della Russia di Kruschiov. Seguì poi una preghiera per il defunto Presidente, poi tutti andammo a letto, ma nessuno di noi riuscì a dormire tranquillo quella notte. Nonostante fossimo ancora tutti degli adolescenti, in materia di politica estera eravamo tutti ben ferrati e consapevoli degli sviluppi che la storia ci proponeva, eravamo attivi ed interessati a quanto succedeva nel mondo, specialmente in merito ai grandi conflitti tra le due super potenze America e Russia, perché il buon padre Quirico Mattioli ci teneva costantemente informati, aggiornati e documentati, sempre all’ ombra del Duce. Alcuni giorni dopo il tragico evento, nella chiesa dei frati si svolse una solenne cerimonia funebre in ricordo del defunto Presidente, alla quale partecipammo noi fratini, tutti i padri del convento e molta gente del luogo. Questo è uno dei ricordi più toccanti del periodo che ho trascorso presso il convento dei frati di Campolomaso e che porto ancora dentro il mio cuore “ fascista “ .Perfino Nikita non riusciva a dormire in quei giorni…


 

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Salgari

A Campolomaso sono ritornato, poi, nell’ estate dell’ anno seguente, quando già frequentavo la classe prima media a Villazzano un sobborgo alle pendici di Trento, dove c’ era il convento dei fratini di S. Francesco e dove erano ubicate le scuole superiori destinate a chi poi avrebbe indossato il saio francescano. Si tornava a Campo per rilassarsi e per studiare e ripassare le materie ma soprattutto a me piaceva un mondo leggere ogni tipo di lettura ma in modo particolare Salgari, con le sue avventure esotiche, e la fantasia lavorava a costruire le facce dei personaggi che poi avrei rivisto nella famosa serie televisiva con Kabir Bedi e gli altri protagonisti, Janes de Gomera, Kammamuri, Tremal naik e la bella Lady Marianna della quale mi ero innamorato… Occhi non più del tutto inibiti, occhi che cercavano delle risposte a domande che la vita ti poneva e la ragazzina che fino a ieri aveva giocato con te nei prati e dentro al fienile, in modo innocente, rotolandosi insieme a te nel fieno profumato, ora ti appare diversa, ora certe differenze le puoi notare, sono cresciute e se ti azzardi a toccare il tuo cuore batte più rapido, che ti sembra di impazzire, è una sensazione nuova che provi, è la natura che ti viene incontro e ti insegna che la vita ha bisogno del tuo contributo per perpetuarsi… ed allora il ricordo vola lontano, a quando la curiosità ci aveva indotto a guardare sotto le mutandine di una bambina per capire certe diversità ed ora si riusciva a capire anche la lezione sulla procreazione che con molta semplicità un frate ci aveva insegnato e che l’ anno successivo, quando in collegio vennero gli insegnati esterni, il professor Zucchelli durante le lezioni di scienze naturali ci aveva riproposto . E’ un gioco che regola il tempo e la vita di tutti, un gioco al quale è impossibile sottrarsi, perché è la vita stessa che ha bisogno di giocare in quel modo per continuare ad esistere.


 

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Padre Ugo

Era un frate minuto, gracile di costituzione, ma con una fede da gigante, incrollabile. Ora et labora, ritorna nella descrizione di questo uomo di Dio tutto il messaggio francescano, ma soprattutto, mi ritornano i miei dubbi su una fede che da anni ho perduto e tante volte mi chiedo . – Ma se avesse ragione lui ? - . Due episodi, voglio narrare, della sua fede, uno mi è stato raccontato ed uno l’ ho vissuto di persona. Padre Ugo era solito lavorare nei campi e nella vigna del convento, un giorno di primavera, dopo aver potato le vigne i frati facevano grandi mucchi con i residui delle potature per poi bruciarli un po’ per volta. Un giorno Padre Ugo appiccò il fuoco ad uno dei mucchi che iniziò a bruciare, di lì a poco, però, si alzò un forte vento che alimentò e propagò l’ incendio pericolosamente verso il vicino bosco e la montagna. Il frate provò inutilmente a spegnere le fiamme con un forcone, vista l’ impossibilità di arginare il rogo, si inginocchiò a terra e si mise a pregare, il vento cessò e le fiamme si spensero da sole. Verso la fine dell’ anno scolastico, si era soliti fare una gita in pullman in qualche località lontana, ci andava però solo quelli indenni dal mal d’ auto, quelli invece che a salire su un atutobus vomitavano, una piccola minoranza, tra i quali anche il sottoscritto, si andava a piedi alla Madonna di Pinè e poi al lago Serraia. Ci avviammo così di buon mattino, a piedi, verso l’ altopiano di Pinè che dista circa una decina di chilometri. Ad accompagnare i riformati naturalmente c’ era padre Ugo, con uno zaino di panini e bibite. Percorsi a piedi poche centinaia di metri, sotto il sole e nella strada deserta, ad certo punto ci raggiunse un furgone Volkswagen di quelli adibiti al trasporto del personale di una ditta edile, il conducente si fermò e chiese al frate dove fosse diretto. Padre Ugo disse che stavamo andando a Pinè per una scampagnata, il conducente disse che anche lui era diretto in quel posto aprì il portellone e ci fece salire tutti dietro mentre padre Ugo salì al fianco del guidatore. Fatte alcune centinaia di metri, dopo lo scambio di saluti, il guidatore si rivolse al frate con tono più serio e deciso e gli disse: - Senta, padre, io tempo fa ho trovato un portafoglio con dentro un ingente quantità di denaro, non c’ erano documenti di riconoscimento o nessun altra carta che potesse ricondurre al legittimo proprietario. Allora ho pensato di farlo rendere pubblico dal parroco al termine dell’ omelia della messa domenicale, se non che si sono presentati dal parroco due diverse persone che vantavano la proprietà del denaro. Allora ho detto al parroco che avrei dato ai frati il contenuto del portamonete. - Erano centocinquantamila lire di allora, era l’ anno 1964, capimmo tutti che era una grossa cifra, molti stipendi di un operaio di quel tempo. Il signore pretese che padre Ugo gli facesse una ricevuta da esibire ad eventuali creditori e poi consegnò il denaro al frate. Arrivati a Pinè, il frate chiese al proprietario di un ristorante vicino al lago, il permesso di sederci su una panchina di sua proprietà per poter mangiare un panino e bere una bibita. L’ albergatore si rifiutò categoricamente di farci sedere sulla panchina, e ci invitò ad entrare nel suo locale e passando vicino alla porta della cucina disse a cuoco di preparare il pranzo anche per noi… ha pagato tutto la fede incrollabile di padre Ugo.


 


 


 

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Il ribelle

Faceva ormai capolino nella mia mente, quello spirito ribelle, anticonformista, libero ed un pochino fascista, che mi avrebbe poi accompagnato per tutta la mia vita, determinando, nel bene e nel male, tutte le mie scelte. L’ aria del convento, con i suoi profumi di incenso e le sue ferree regole, cominciava , per me, ad essere irrespirabile, il profumo della libertà entrava in ogni fessura e mi spingeva verso un mondo esterno ancora tutto da esplorare e da conoscere. Come il tam tam dei tamburi indiani, si avvicinava sempre più il richiamo della natura che ci ha creati maschio e femmina, e che con un richiamo atavico ti invita a scoprire il fascino nascosto della donna, con tutti i suoi segreti, la sua dolcezza, la sua femminilità. Ti rendi conto solo allora, che il mondo è più grande delle mura di un convento, che, pur avendoti dato molto in sapienza, educazione e regole, ti preclude, però di fatto una vita normale con una compagna femmina, con tutte le sue gioie ed i suoi dolori. Ho riflettuto molto sul reale valore della vita monastica che è una scelta contro corrente, quasi suicida per certi versi, ma io che ci ho vissuto dentro per alcuni anni, la trovo affascinante pari ad una vita vissuta in maniera convenzionale, è una scelta che è soprattutto dettata da una grande fede e la fede è un dono, come la vita, si può avere come ti viene negata, è un salto nel buio, è un fidarsi ciecamente di un Essere superiore al quale si affidano tutti i nostri desideri ed il nostro pensiero, per Lui si sa vivere e si sa morire e se è fede vera e vissuta è gioia nel vivere e conforto nel morire. Ero abbastanza grande e consapevole delle scelte che avrebbero poi determinato la mia vita, non sono altresì , mai stato ipocrita da accettare, magari per convenienza, delle scelte che non condividevo. Così l’ anno 1965 lasciai il convento dei frati francescani di Villazzano per riprendere la vita civile , forse più anonima, di un comune studente di terza media alle scuole di Cles. Dei frati mi era rimasta la grande cultura che mi avevano insegnato nei tre anni di convento, la buona conoscenza della lingua latina che ora mi permette di scrivere in questa maniera ed il ricordo di anni felici e spensierati della mia adolescenza, trascorsi dietro le mura del convento. Ricordo che al momento della partenza, il rettore padre Marco Vanzetta, disse a quanti lasciavano definitivamente il convento . – meglio un buon uomo fuori, che un mediocre frate in convento . –

Finita l’ avventura con i frati, mi ritrovai rovesciato nel mondo che avevo lasciato da ragazzino e che era tonto cambiato ai miei occhi che erano stati abituati alle quattro mura del convento, inibiti ad ogni forma di vita esterna, compresa la vita sociale e politica. Non mi pareva neppure vero poter godere di tanta libertà e tanto spazio nella società. Era il 1966 quando frequentavo il terzo anno delle scuole medie all’ istituto Inama di Cles, erano gli anni precedenti i moti studenteschi, se ne poteva già respirare l’ odore acre dei lacrimogeni della polizia. Era anche l’ anno della grande alluvione in Italia che aveva messo in ginocchio l’ economia ed il patrimonio artistico. Si era vista , però , anche la grande solidarietà di molti popoli verso il nostro paese, in modo speciale ed encomiabile la presenza sul territorio di numerosi studenti stranieri che accorsero in massa a prestare il loro tempo ed il loro lavoro al salvataggio ed al restauro delle opere d’ arte danneggiate dall’ alluvione. Una simile convergenza di intenti non si sarebbe più vista dopo di allora, ci avrebbe poi pensato il ’68 a demolire sistematicamente, in modo capillare e scientifico, tutto quel mondo fatto di tanta ingenuità e tanto romanticismo ma capace di grandi atti di solidarietà nella giustizia, per dare il posto ad un mondo di egoismo, di trasgressione, come la droga, il libero amore ecc. , che ha poi portato lentamente al degrado sociale ed alla corruzione galoppante che si perpetua anche nel nostro tempo attuale. Fu’ anche il periodo della guerra dei sei giorni tra lo stato di Israele ed il mondo arabo, che ho vissuto con passione, stando dalla parte israeliana. Per me, frequentare la terza media a Cles non fu altro che un ripasso generale di tutte le materie che avevo studiato in collegio con l handicap della matematica, ma alla fine fui promosso con buoni voti, avrei potuto fare di più, ma il mio spirito ribelle ebbe il sopravvento…Finiti gli esami, dopo aver fatto tanti aeroplanini con le pagine del libro di matematica, potevo dare libero sfogo a tutto il mio spirito ribelle ed a tutte le forme di trasgressione che mi erano state impedite in convento, le prime sigarette vere, le prime puntate al bar a giocare a carte e bere un bicchiere di spuma, le prime occhiate maliziose al culo di qualche ragazza…


 

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Il mio primo lavoro

 

 

Finiti gli studi a 14 anni, era giunto il momento di contribuire al buon andamento della famiglia cercando di non essere una bocca parassita a carico di mio padre che aveva urgente bisogno di denaro per tentare di uscire dall’ endemica povertà che regnava sovrana da anni in casa Agosti.

Decisi allora di chiedere lavoro presso una segheria tra le tante in loco, quella del signor Orestino Bonani, che è situata appena dopo il ponte del Toflin sul torrente Barnes. Si iniziava alle 7 del mattino si faceva una pausa di un ora a mezzogiorno per il pranzo e poi si proseguiva fino alle 6 o a volte anche le 7 del pomeriggio. Il pranzo me lo preparava mia madre dentro una thermos e lo consumavo in estate all’ aperto vicino al torrente seduto su un grosso sasso piatto, mentre d’ inverno stavo all’ interno del laboratorio della segheria.

Ero giovane ed avevo tanta fame, tutto era così buono e saporito non avanzava mai niente.

Il mio lavoro consisteva nel preparare le varie componenti che servivano per costruire delle cassette per la frutta, di vari tipi e misure.

In un primo tempo il lavoro si faceva con il martello ed i chiodi, quante martellate sulle dita mi sono dato prima di imparare bene a colpire i chiodi !

Passato un periodo di tempo, il mio datore di lavoro mi insegnò ad usare le macchine che inchiodavano con dei grossi punti metallici le varie parti delle cassette. Sembrava di essere in guerra al fronte per via del rumore secco e cadenzato delle varie macchine, ta tan, ta tan.

La paga era una miseria di lire, tutto rigorosamente in nero, mi fanno ridere le attuali leggi sullo sfruttamento minorile e lo stato di taluni studenti universitari fuori corso che hanno trenta o più anni. Se l’ Italia ha avuto il grande boom economico degli anni sessanta, è stato anche per merito di tanto lavoro e privazioni di molti ragazzini ancora minorenni che hanno lavorato, sempre in nero, sempre sfruttati con delle condizioni di lavoro da schiavi, per costruire un economia forte ed un Paese prospero ed importante e ci eravamo riusciti pure fino a quando è sopraggiunta la disonestà e la corruzione di un sistema di amministratori sempre più avidi di denaro a costo zero, ed è iniziato un periodo di ruberie e di tangenti impressionante che non trova eguali in tutto il mondo per quantità di denaro rubato e numero di amministratori coinvolti e che dura a tutt’ oggi. In questo modo il paese si è indebitato per circa 2000 miliardi di euro, una cifra da capogiro che non riusciamo più a restituire.

 

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IL JUKE BOX

 

Quando si trattava di ascoltare la musica a livello collettivo, in modo particolarmente anelato, con le ragazzine che erano state le nostre piccole compagne di classe alla scuola elementare, che ora erano divenute il desiderio comune di tutti i “ muli “ così venivamo definiti allora dai grandi, … era madre natura che faceva il suo eterno corso fin dal inizio della vita nella notte dei tempi imponendo di fatto a tutte le forme di vita sulla terra: quello di riprodursi e moltiplicarsi, come per confermarlo dicono tutti i testi sacri di tutte le religioni dalla Biibia al Corano con sfumature diverse ma con la stessa sostanza. La bambina irrilevante che un giorno era la tua compagna di banco, a volte una seccatura vera e propria che non si riusciva a capire il perché della sua esistenza, ad un tratto era diventataa l’ oggetto del desiderio per noi maschietti che venivamo chiamati al ruolo che ci competeva in questo progetto di madre natura. Era il tempo delle mele, era il tempo della ricerca delle differenze che ci facevano diversi dalla ragazzina e ti spingevano verso lei con una forza misteriosa che si chiama vita. L’ antica TRATTORIA AGOSTI che da tempo aveva cambiato diversi proprietari ma era rimasta sempre una locanda e un Bar, il gestorre del bar di quel tempo ebbe la felice idea di ricavare nel locale una piccola tavernetta, allora tanto apprezzata dalla gioventù, ed attrezzò il locale con un apparecchio elettronico allora tanto di moda e tanto richiesto dalla gioventù di quei tempi: un JUKE BOX. Il j.b. era in parole povere un enorme giradischi con preselezione automatica , aveva al suo interno circa 50 dischi a selezione manuale a mezzo di una tastiera disposta sul lato anteriore dell’ apparecchio proprio sopra i grandi altoparlanti che diffondevano la bella musica di quel tempo. Per selezionare una canzone bastava INSERT COIN una moneta da 50 lire per una canzone e 100 lire per tre canzoni, digitare il codice che era visibile sull’ elenco es. OH LADY MARY – D – 4 ed il sistema meccanico andava a prendere con infallibile precisione il disco richiesto e lo metteva delicatamente sul piatto dove il pik up procedeva a leggere la musica e la diffondeva tramite i grossi altoparlanti. Per tutta la settimana si erano risparmiati i soldi del duro lavoro per poter far funzionare il juke box e poter pagare da bere alla ragazzina che ti faceva battere il cuore, poi finalmente arrivava il sabato sera e ci si presentava al bar coni pantaloni a zampa di elefante, la camicia a fiori e il giubotto di jeans i capelli lucidi di brillantina Linetti dal classico profumo che ti annunciava ancora prima dell’ ingresso nel bar. Nella cappa di fumo che come una nebbia fitta aleggiava nel locale distinguevi a stento le facce degli adulti che ti squadravano da capo a piedi con un aria mesta di rimpianto ( ora li capisco ) che ti accompagnavano come demoni affamati fino all’ ingresso della tavernetta che aveva una porta ad arco fatta di mattoni a vista rossio terra di siena ed una doppia tenda di grosso panno per evitare che la musica uscisse dalla tavernetta. Quando eri entrato ti sembrava di essere in paradiso, tanti amici, bella musica ma sopratutto la ragazzina che ti piaceva che andavi subito a salutare e a chiedere se volesse bere qualcosa sperando che non dicesse “ niente “ che era un liquore costoso, ma tutti eravamo comsapevoli delle nostre disponibilità finanziarie e ci si limitava a consumare bibita di poco costo. A me piaceva il ballo lento perché potevi tenere la tua bella stretta al tuo corpo facendola ballare lentamente sopra una sola mattonella ...

c’ erano tante musiche lente che venivano fatte girare sul piatto del juke box ma quella che mi piaceva di più era una dal titolo MONIA un valzer lento e sensuale che ti faceva impazzire accanto ad un fiore che potevi stringere a te … Così ci si divertiva ai miei tempi, così era il nostro sabato sera, un juke box che suonava, una ragazzina tra le braccia ed in mano una spuma ed una nazionale ed a mezzanotte tutti a casa perché il bar chiudeva … e arrivederci al sabato successivo. Di questi splendidi tempi trascorsi serbo un ricordo bello ed una struggente nostalgia di quel tempo di quamdo si apprezzava il sapore delle mele sensa conoscerne il contenuto, di quando stare assieme ai tuoi amici ti faceva sentire di essere qualcuno, ti appagava e ti faceva crescere assieme a loro in un amicizia spontanea , disinteressata e sincera che dura tutt’ ora. La domenica poi dopo aver partecipato alla S. Messa ed aver pranzato ci si ritrovava di nuovo per fare una passegiata tutti assieme nel bosco di Somargen per prendere un po di aria buona e fresca e restare nuovamente in compagnia. Qualcuno aveva un mangiadischi o un registratore a bobine “ castelli “ per ascoltare ancora la musica che avrebbe prolungato il sabato sera, altri appassionati sportivi del calcio si portavano la radiolina con l’ auricolare ed ascoltavano le partite e li vedevi delirare in silenzio per un fallo, per un rigore e per il goal. Molte volte le batterie si scaricavano ed allora si iniziava a chiacchierare dei problemi del paese, dei fatti di cronaca e dei sogni ad occhi aperti che ognuno di noi aveva nel cuore. E’ la gioventù che poi ha aderito al Gruppo Giovanile di Padre Alex Zanotelli, che ha fondato l’ Unione Sportiva Livo, la Pro Loco di Livo che ha dato a questo paese numerosi Amministratori nel Comune, nel Consorzio cooperativo agricolo e alimentare, nella Cassa Rurale nell’ Uso Civico, nel Consorzio Miglioramento Fondiario, nei VV FF di Livoed in altre istituzioni ed Associazioni ai quali và il mio sincero plauso e ringraziamento.

 

 

 

 

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Oh lady Mary

 

 

Con i soldi guadagnati nei miei primi lavori presso la segheria Bonani, dopo aver dato una parte cospicua alla famiglia, decisi di farmi il primo regalo della mia vita, una radiolina portatile a batterie.

Quella della radio era una grande passione della mia vita, seconda solo alla scrittura, che negli anni successivi trovò ampia forma nel mio hobby di radioamatore ed SWL. Mi ricordo che era una piccola radiolina della sony, tutta nera, con il suo bel fodero in pelle, non ricordo quante lire l’ avessi pagata, ma ricordo che ci vollero alcuni mesi di risparmio del denaro che mi veniva lasciato in gestione.

C’è da aggiungere che quelli erano tempi che le radio portatili erano di moda, quasi come i cellulari oggi, venivano propagandate sulle riviste per giovani ed esposte in bella mostra nelle vetrine dei negozi di materiale elettrico, allora l’ elettronica era agli albori. La comprai in un negozio di Trento, era una radio che aveva solo la gamma AM ampiezza modulata, quelle in FM c’erano ma erano molto costose, di giorno si poteva ascoltare solo il primo programma RAI , invece la notte, con la propagazione si potevano ascoltare delle Brodcasting di tutto il mondo, con un po di fortuna. Allora imperversava ed esempio radio Tirana dall’ Albania rossa e filo cinese, quante fregnacce raccontavano sul potere del popolo, sul marxismo, contro il capitalismo, cose che no stavano ne in cielo ne in terra, lo si capiva allora e lo si è constatato negli anni successivi con la crisi di quei regimi. C’ era poi la radio Vaticana, che sparava i suoi Kilowatt su tutte le frequenze a disposizione, con la S.Messa, il rosario e poi le continue prediche sulla morale sulla carità, le dure critiche al comunismo, l’ asservimento spudorato allo scudo crociato, gli anatemi contro il sesso libero e tutto quello che sapeva odore di donna… Anche questa loro ostinata concezione radicale ed a volte ipocrita, della società, và lentamente a sparire assieme ai predicatori di fumo, infatti, ora che più nessuno li ascolta, strizzano l’ occhio verso quel mondo di sinistra che hanno tanto combattuto, e che , per i valori del socialismo e del marxismo, sono quelli che meglio interpretano la solidarietà operaia e sociale, non c’ era bisogno di tanti kilowatt di potenza per insegnarlo…

Poi c’ era la radio spagnola, con quella bella lingua che assomiglia tanto al nostro dialetto, e lì mi fermavo ad ascoltare, tentando di capire il senso compiuto del discorso, poi c’ erano le radio tedesche, e con quelle mi arrangiavo a capire il senso di quello ce veniva detto, perché lo avevo studiato a scuola. Preferivo, però, ascoltare musica, come tutti i giovani di allora,erano i tempi di Morandi, Battisti, De Andre’ dei Beatles ecc. musica dolce, romantica, che ti faceva sognare le ragazzine, che a volte si ascoltava assieme, in religioso silenzio, perché l’ altoparlante era grande come una moneta da cento lire. Non era mica la musica del Pub che ho vicino a casa, che misurata è risultata par a 18, 5 decibel, roba da rincoglionire un sordo e poi quella musica che era solo rumore che pareva venire dall’ oltretomba.

Una sera, mentre a letto ascoltavo la mia radiolina con l’ auricolare, girando piano, piano la manopolina della sintonia, su una emittente straniera, mi pare fosse inglese, ascoltai una bella canzone romantica e parecchio orecchiabile, si intitolava OH LADY MARY, mi è subito entrata in mente, è stata poi ripresa, tradotto in italiano il testo, da Dalidà il titolo era rimasto uguale, ed a tutt’ oggi la riascolto con dolcezza e tanta nostalgia di quei bei tempi, dove per essere felici bastava una piccola radiolina sony.

 

Era iniziata la vita dei grandi, mi sentivo importante ed acculturato, riuscivo ad incantare per il modo elegante dei miei discorsi e per le cose che avevo imparato ed altri ignoravano, cominciavo ad esigere il mio posto nella società, cercando di dare , naturalmente, anche il mio contributo culturale, fu tempo perso perché la società civile del mio paese non volle e non seppe mai valorizzare la cultura, ne la mia, ne quella di altri, ha preferito dare in mano le sorti della popolazione a persone che erano solo ricche ed arroganti, con risultati a dir poco disastrosi.

Ma questa è un'altra storia.

 

 

 

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Le cose fatte

 

Ho raggiunto ora un’ età dove l’ esperienza maturata durante la vita che è una maestra inesauribile di idee, di esperienze vissute di sogni realizzati o bruscamente interrotti dal destino, ma che per tutto quello che mi ha dato è valsa la pena di vivere e per questo ringrazio il destino che mi ha concesso buona salute, un lavoro onesto , una donna che se pur per un tempo limitato mi ha voluto bene. E’ giunto il tempo dei bilanci di una vita, da fare mentre si è ancora relativamente giovani e con la mente ancora lucida ed attiva, con questi presupposti si riesce a fare un bilancio reale, puro, privo da quella forme di esagerato protagonismi giovanile o da quella forma di rassegnazione che volge alla pietà tipica della vecchiaia quando si tende all’ apatia del non ricordo a volte solo perché il ricordare diventa più doloroso e preludio della fine imminente.

Preferisco faro oggi un bilancio di quello che è stata la mia vita, con molta onestà ed in assoluta libertà.

Ho raccontato le fasi salienti della mia infanzia e della mia adolescenza, raccontando passo, passo tutti gli episodi importanti che la memoria mi restituiva poco alla volta, guardando una foto, un oggetto, tornando in una località o incontrando una persona.

Lo scorrere della vita non segue mai la nostra logica o i nostri desideri, ma è invece come un mazzo di carte che racchiude in se un gioco finito al suo interno, ma se mescolate il gioco rimane lo stesso ma viene spezzettato e distribuito in piccoli episodi che io chiamo destino e forse questo è il fascino del vivere, che rende la vita un avventura sempre nuova ed imprevedibile e questo io lo definisco: Gioia di vivere.

La vita infatti và presa e vissuta in tutti i suoi aspetti, in modo particolare la giovinezza. Perché è un dono bello e grande, è il dono che viene dato a tutti coloro ch la forza dell’ amore ha saputo generare, ma è un dono che si riceve una sola volta, quindi và custodito, amato e rispettato perché è un dono a termine on un codice a barre della scadenza che tutti noi abbiamo scritto in fondo al cuore dove nessuno a accesso per verificarne la lettura in anticipo, solo Lui sé la nostra scadenza.

Per fare un bilancio che rispecchi il più possibile la mia realtà, devo tener conto dei gravi limiti che madre natura mi ha attribuito, per primo e più importante tra tutti il mio handicap al braccio destro con ripercussioni negative anche al sinistro. Vista dall’ esterno sembrerebbe una cosa di poco conto, ma si un mancino, come mi diceva sempre mia madre…

Vi assicuro che visto dalla parte dell’ interessato non à da considerarsi affatto un difetto di poco conto, ma bensì un grave limite alle potenzialità di un uomo.

Per capire quanto disagio abbia comportato tutto questo nella mia vita, devo far ricorso alla teoria dell’ evoluzione della specie di Darwin che sostiene che tra le parti del corpo sviluppate in modi e formo diversi nelle migliaia di specie animali esistenti e che poi ne hanno determinato un grado superiore di intelligenza e di capacita creativa, sono le mani, le nostre mani con le dieci dita con il pollice che permette alla mano di chiudersi a pugno, perciò di impugnare la zappa, l’ ascia, l’ arco, la spada , il bisturi il fucile… forse non ci abbiamo mai pensato perché ci pareva tanto ovvio e naturale, solo chi ha problemi ad impugnare una penna, o alzare un bicchiere o stringere un laccio delle scarpe o tenere strette la mani ad una donna, lo può capire e può capire quanto aveva ragione Darwin con la sua teoria dell’ evoluzione della specie:

noi siamo stati capaci di essere animali superiori a tutti gli altri perché abbiamo potuto osservare il movimento delle nostre mani e capire quante infinite potenzialità ci derivavano da esse.

Con tanta fatica, tante umiliazioni ma con altrettanto ingegno, coraggio ed una ferrea determinazione, sono riuscito a superare tutti gli ostacoli derivanti dal mio stato di “ disgraziato “ come allora venivano definiti i casi come il mio.

C’ è poi da aggiungere la mio grave e progressivo deficit visivo che ora mi ha reso un semicieco, che ha pesato negativamente sul mio stato generale di salute e mi ha pesantemente condizionato sul mio lavoro, tanto da doverlo lasciare con alcuni anni in anticipo.

Nonostante tutti questi fattori pesantemente negativi, nonostante la perdita di mio padre quando ero ancora in giovane età, nonostante la grave crisi finanziaria che ci attanagliava nel periodo della mia adolescenza, nonostante la mia scelta radicale e controcorrente di aderire giovanissimo al Movimento Sociale Italiano DN nonostante tutto questo sono riuscito comunque ad avere una mia vita autonoma ed indipendente da tutti .

Avrei potuto scegliere la comoda e più redditizia strada dei compromessi politici con i grossi e grassi partiti di allora e starmene buono, buono come un loro pulcino sotto la grande chioccia democristiana, non mi sarebbe costato nulla ed avrei avuto tutti quei privilegi ed agevolazioni per le quali ora tanti sono inquisiti o in galera, io ero convinto allora, lo sono tutt’ ora e lo sarò anche domani, che uno Stato è grande e giusto solo ed esclusivamente se esso è e si dimostra nei confronti dei propri cittadini uno Stato di diritto, dove prevalgono sempre i diritti ed i meriti e non la corruzione e la clientela.

La ragione di cui legittimamente vado fiero nella mia vita è la ragione dell’ onestà e della coerenza, è il poter sputare in faccia a tutti coloro che ora si lamentano del malgoverno, della corruzione delle ingiustizie sociali, dopo averlo per anni determinate, avvallate e tollerate perché a differenza di loro io non ho mai appoggiato in nessun momento e per nessuna ragione quella filosofia italica del compromesso, della clientela e del mangia tu che mangio anch’ io.

Potevo anche senza scrupoli di coscienza , starmene a guardare l’ acqua scorrere sotto i ponti in attesa che passi il cadavere del nemico, invece per anni ho scelto di essere parte attiva tra qesta gente cercando di dare il mio modesto contributo alle Associazioni, ai giovani ed agli anziani.

Mi resta l’ amaro in bocca, l’ amaro di non essere stato capito da questa gente e di non essere mai stato proposto per un ruolo di amministratore pubblico in nessuna istituzione comunale, fatta eccezione l’ ECA che aveva in gestione i sussidi per i poveri del paese.

Inutile dire che non amo affatto questa gente e non solo per le ragioni appena esposte, ma anche e soprattutto per le gravi angherie perpretate alla signora Adelia Facini mia compagna di vita per 9 anni e per la furbesca e truffaldina gestione del Pub Gatto nero da parte del sindaco che ha concesso licenze che poi la Magistratura gli ha fatto revocare.

Good night, Livo !

 

 

 

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IL CAI – SAT DI LIVO

 

 

Di questa Associazione, posso parlare in prima persona, in quanto sono stato il fondatore ed il primo socio. Alla fine degli anni ’80, per dare libero sfogo alla mia passione per la montagna, mi sono tesserato ala Sezione SAT di Rumo, dove ho avuto modo di conoscere ed apprezzare il Presidente della Sezione, il signor Paolo Torresani, con il quale ho stretto una solida e proficua amicizia. Per alcuni anni ho seguito il programma della SAT di Rumo, partecipando alle loro escursioni in montagna e a tutte le altre iniziative che venivano promosse dall’ Associazione.

Durante le tante escursioni in montagna assieme all’ amico Paolo, si parlava tante volte dell’ importanza di questo sodalizio nella società, per il suo potere aggregante dato dal fatto che il CAI – SAT è un associazione apolitica, apartitica ed areligiosa, e che ha come scopo fondante il comune amore per la natura e per la montagna in modo speciale, che raggruppa ed omologa soci di età, sesso, religione, stato sociale e cultura diverse e li accomuna nella passione per la montagna, luogo dove la gente si sente più libera e forse anche migliore.

Fu l’ amico Paolo e i tanti amici di Rumo, a propormi l’ idea di formare un Gruppo CAI – SAT autonomo a Livo, ad incoraggiarmi con la promessa del loro incondizionato appoggio con tutta la loro decennale esperienza, allora accettai e mi misi a lavorare per la costituzione del Gruppo, l’ inverno tra il 1991 e il 1992, proprio 20 anni fa’.

Andavo alle riunioni del Direttivo di Rumo, per capire ed imparare la gestione dell’ Associazione, non disponendo dell’ automobile, mi recavo a Rumo con il mio Malagutti Trial, la sera andando piano per paura di incidenti in quanto la mia vista era già allora pesantemente compromessa. Predisposi ,così, quell’ inverno, tutta la parte burocratica per la costituzione del nuovo Gruppo di Livo, con un assemblea costitutiva, la campagna per il tesseramento dei nuovi soci e l’ elezione delle cariche sociali che determinarono a me la Presidenza del signor Agosti Marco la vice presidenza, alla signora Aliprandini Valeria il compito della segreteria ed alla signorina Zanotelli Marcella il ruolo di cassiera del nuovo Gruppo, non ricordo chi furono i primi consiglieri, ne quanti fossero.

Per raccontare questa storia, devo comunque fare ricorso solo alla mia memoria storica, in quanto non possiedo dei verbali scritti del Gruppo, pur avendo aquistato a suo tempo un bel libro verbali, e consegnato alla segretaria, ad una mia esplicita richiesta di informazioni e dati fatta lo scorso anno alla signora Aliprandini Valeria, mi è stato risposto che non era stato aggiunto nulla nel tempo, a quello che avevo scritto io all’ inizio dell’ attività. La cosa non mi meraviglia, anzi è solo la conferma di quanto ho sempre pensato, e di quanto aveva ragione il nostro illustre compaesano, don Luigi Conter, nel suo libro FATTI STORICI DI LIVO, quando lamenta e denuncia l’ incapacità di questa gente di conservare delle memorie storiche scritte, con le quali, poi, si possono ricostruire fedelmente tutti i passaggi delle attività svolte e dei mutamenti sociali e politici della nostra società, un peccato, perché è un pezzo di storia che è andato perduto. Della piccola cerimonia della consegna delle tessere ai nuovi Soci del neo costituito Gruppo di Livo, conservo, gelosamente, il video che ho masterizzato passandolo dal VHS al DVD, allora erano presenti anche il presidente la SAT di Rumo, signora Franca Bertolla che era da poco succeduta all’ amico Paolo Torresani che la affiancava come vice, ci avevano dato come sede sociale, una sala a piano terra della casa ITEA di Varollo, che condividevamo con la Polisportiva Tre comuni, era stata una bella cerimonia, semplice e sobria, in quell’occasione si era anche ufficializzato il calendario delle prime escursioni in montagna del nuovo Gruppo. (conservo ancora il manifesto originale)

Così,la primavera del 1992, iniziarono le escursioni in montagna dalla SAT di Livo, dapprima timidamente, in luoghi abbastanza vicini e privi di rischi, in quanto , allora, erano presenti molti bambini e giovani, figli o parenti di Soci, uno dei tanti scopi dell’ Associazione, era infatti la promozione della passione per la montagna ai giovani, come simbolo di sano divertimento per il corpo e per lo spirito. Alla fine delle attività, nel tardo autunno, veniva infatti organizzatala castagnata sociale, alla quale erano invitati tutti i Soci e vi partecipavano anche delegazioni di sezioni SAT dei paesi limitrofi come lo stesso Rumo,dal quale dipendeva il Gruppo autonomo di Livo, Bresimo ed altre, era il modo per scambiarsi impressioni, idee e fare un bilancio delle attività svolte. Nel 1993, oltre alla classica attività escursionistica, il Gruppo di Livo si è reso promotore assieme alla sezione di Bresimo e con l’ appoggio di Rumo, di una bella iniziativa, la ricostruzione del capitello al lago Trenta ( alplaner see) dedicato alla Madonna. Il primo , e ben più imponente capitello, era stato edificato nel 1973 , su iniziativa del missionario Padre Alessandro Zanotelli di Livo, venne però realizzato in un posto troppo esposto alle valanghe e l’ inverno successivo una di queste se lo portò via… rimase solo un mozzicone di altare e la madonnina che venne fortunosamente recuperata da don Pio Dallavo l’ allora parroco di Bresimo che la conservò e venne poi riutilizzata nel nuovo capitello, molto più modesto del precedente, ma inespugnabile dalle valanghe. Tutto il lavoro di costruzione del capitello, venne ripreso dalle telecamere di Ezio Silvestri e Danilo Datres, quelle belle immagini sono poi servite per il montaggio di un bel video dal titolo LA MADONNINA DEL LAGO TRENTA, che venne presentato al pubblico in una serata organizzata dal Gruppo SAT di Livo,il 26 agosto 1993 .

Altra bella ed interessante iniziativa che mi piace ricordare, è la proiezione di filmati della montagna del compianto amico cineamatore Gilberto Daprai di Bolzano, innamorato delle nostre montagne e di una donna di Scanna, la signora Sandra Antonioni. Organizzata dal Gruppo di Livo e dalla Sezione di Bresimo, venne proposta nella sala consiliare del comune di Bresimo, fu una manifestazione apprezzata dalla gente, in quanto le riprese erano state fatte sui nostri monti e gli attori erano la nostra gente montanara e semplice. Voglio sottolineare un piccolo particolare, che la dice lunga sul difficile rapporto che corre tra la frazione di Preghena ed il resto del mondo, la proiezione dei filmati era prevista nella piazza principale di Livo, si dovette ripiegare su Bresimo, per il fatto che a Preghenac’ era la sagra di S. Anna, patrona di quella parrocchia e la manifestazione di Livo sarebbe stata vista come un boicottaggio a Preghena, era così prima di allora, e stato così allora ed è così anche adesso.

Il piccolo gruppo di Livo, cominciò ad essere conosciuto nel circondario ed anche fuori, per la sua attività semplice ed umile ma efficace e mirata e cominciò a crescere il numero dei Soci anche provenienti da fuori paese. Decidemmo, allora, di chiedere alla locale Cassa Rurale un contributo, ci venne pagata la carta intestata e ci venne dato un contributo per l’ aquisto di materiali vennero aquistati dei bastoni da montagna e mi pare delle magliette per i più giovani, era un incentivo alla partecipazione alle nostre attività, voglio ricordare che il CAI – SAT, vive con il finanziamento che proviene dal tesseramento sociale, del quale una parte và alla sede centrale, non ricordo la percentuale, ed un'altra resta alle sezioni per la normale amministrazione.

Avevamo iniziato anche ad organizzare delle gite in pullman, ricordo la prima in Svizzera nel cantone dei Grigioni, molto partecipata e ben organizzata. Potevo contare su validi collaboratori e collaboratrici, una in particolare voglio ricordare, per la sua grande affidabilità, la sua competenza e la sua dedizione, la signora Marcella Zanotelli, che era la cassiera del gruppo, ma che fu quella che più aveva capito la filosofia che esso rappresentava e proponeva.

L’ ultimo evento che ho organizzato, come responsabile del Gruppo di Livo, è stata la castagnata sociale del i993 , venne preparate nella sala parrocchiale a fianco la vecchia sede della Cassa rurale a Varollo, come al solito mandai l’ invito ai Soci, alle Sezioni limitrofe ed invitai, per riconoscenza, il Presidente il CDA della Cassa rurale, signor Maninfior Benito ed il Direttore la medesima signor Agosti Gianantonio, il quale, alcuni giorni prima, mi chiamò presso la banca e mi disse che se per noi non era un problema, alla castagnata sarebbe venuto tutto il CDA, che era convocato proprio per quella sera, una decina di persone in tutto, e che se avessimo avuto delle spese in più le avrebbe sopportate la banca, mi disse che darebbero arrivati abbastanza tardi, verso la mezzanotte, per bere un bicchiere di vin brulè e mangiare alcune castagne, ma soprattutto per concludere in allegria ed armonia l’ anno,

Naturalmente io accettai la richiesta, anche per il fatto che ci avevano dato un cospicuo finanziamento di recente, ma soprattutto per lo spirito di filantropia e di amicizia che animava la SAT, dissi la cosa alla direzione del gruppo, non a tutti, e mi sembrò tutto a posto. Non avevo però fatto i conti con i vecchi dissapori e le vecchie piccole e meschine lotte di potere e di competenze che da sempre hanno rovinato la vita sociale e politica di questo paese, infatti arrivato il momento di attendere l’ arrivo del CDA della Cassa rurale, cominciò a serpeggiare un clima fatto di piccole battute, di ironia, si disse che non sarebbe venuto nessuno, che ormai era tardi … insomma non c’era la volontà di attendere che i consiglieri della Cassa rurale arrivassero come avevano chiesto, ed alla spicciolata tutti se ne andarono lasciandomi solo, forse avrei dovuto comportarmi da “ fascista “ ed imporre la mia volontà, ma ho preferito lasciare andare le cose come dovevano andare. Il CDA della Cassa rurale arrivò circa venti minuti dopo che eravamo andati via noi, trovarono la sala chiusa e furono costretti a tornarsene a casa col becco asciutto. L’ indomani, ricordo, che trovai il Direttore a Livo, visibilmente scocciato mi chiese delle spiegazioni, gli raccontai come si erano svolti i fatti e, devo dire, che lui capì subito il problema perché conosceva bene questo modo ci comportarsi delle persone senza spina dorsale…

Il Giorno 14 dicembre 1993, scrissi due lettere: una di scuse al CDA della cassa rurale di Livo, che consegnai personalmente al Direttore, il quale si preoccupò che questa vicenda non mi provocasse dei problemi con l’ Associazione, lo tranquillizzai dicendogli che non ci sarebbero più stati problemi o malintesi, avevo , infatti, in tasca la lettera di dimissioni irrevocabili di responsabile del Gruppo SAT di Livo che consegnai alla segretaria signora Aliprandini Valeria, non mi fu mai risposto nulla in merito, nessuno si scusò mai del fatto che vennero messi alla porta dei benefattori del gruppo, ancora una volta la logica assurda e perdente delle piccole ripicche personali, dei piccoli rancori per un prestito negato o per un presunto torto amministrativo , avevano avuto la meglio sul ragionamento, sul buon senso, sul dovere di essere riconoscenti nei confronti di tutti coloro che ci hanno fatto, in qualsiasi modo, del bene.

 

Qui si apre un vuoto di informazione e di cronaca che è proseguito nel tempo, fino ai giorni nostri e che, credo, prosegue tutt’ ora, è stato un vero peccato che la Segretaria del gruppo non abbia trovato il tempo, o non abbia ritenuto opportuno, riportare, anche per sintesi, di anno in anno l’ attività svolta, le idee, i pensieri dei soci le decisioni prese o non prese…

Conservo ancora molto materiale dei primi anni della SAT, come avvisi, programmi ed in modo particolare tutti i video delle escursioni ed il video integrale della realizzazione del capitello al lago Trenta, video storici che ormai hanno venti anni bello sarebbe stato avere un archivio di documenti ed immagini da poter ora consultare o rivedere, e non mi stupisce che con il passare del tempo, anche i toponimi cari ai nostri padri ed ai nostri nonni e tanto contesi dai cacciatori, cambino di dizione, come ad esempio, la malga Binaggia che è diventato Binasia.

 

Dopo un vuoto di venti anni, durante i quali ho perso il contatto con la SAT e non solo, per la mia libera scelta di isolarmi da questo mondo che non mi ha mai capito e che mi ha profondamente deluso, quest’ anno, 2011, ho accettato l’ invito della SAT a partecipare alla cerimonia di inaugurazione del bivacco Binagia, ho partecipato volentieri e la mia collaborazione è stata il servizio fotografico ed il comunicato stampa ai quotidiani locali, al Bollettino Sat, al periodico NOS magazine ed al giornalino del Comune di Livo Mezalon. Riporto qui sotto, l’ articolo che racconta la cronaca di quella giornata in montagna, dell’ inaugurazione del bivacco, della festa che ne è seguita, dei discorsi delle Autorità, del fatto che l’ attuale Presidente Marco Agosti, mi abbia voluto vicino, e per me è stata una gradita sorpresa, al momento del taglio del nastro del manufatto, un’ opera bella e necessaria, realizzata con tanto lavoro volontario donato dai satini e da simpatizzanti il Gruppo SAT di Livo, ora divenuto adulto, quella creatura che vent’ anni or sono avevo contribuito, con tanto sacrificio, a far nascere.

 

Altra nota stonata, che denota un endemica e strisciante ignoranza che imperversa, incontrastata, in questo paese, la si può racchiudere e stigmatizzare in questo piccolo episodio, al momento dell’ invito a partecipare alla cerimonia di inaugurazione del bivacco, con relativo spuntino, mi sono premurato di consegnare al capogruppo Marco Agosti, un piccolo simbolo della mia partecipazione, da esporre nel bivacco. Ho pensato ad un quadretto con una pergamena dentro con una breve riflessione sulla montagna, che è stato appeso ad una parete del bivacco. Un altro simbolo, che è presente in tutti i rifugi ed i bivacchi d’ Italia, è la bandiera nazionale.

Avevo in casa una piccola bandiera, di quelle in nylon, che non sbiadiscono e non si deteriorano con il tempo, sulla banda centrale, bianca, si poteva leggera una scritta in lingua russa, inneggiante alla pace, l’ aveva scritte la mia amica Polina che avevo ospitato con i bambini di Chernobyl nel 1998. Sarebbe bastato una piccola asticella , anche di legno, da porre all’ ingresso, come avevo suggerito…

Non de ne fatto poi niente, perché un componente il Direttivo sat ha preso la cosa come un fatto politico, così mi è stato riferito del capo gruppo Marco Agosti, de questo non è ignoranza, ragazzi… anche se mi sorge , legittimo, un sospetto, che oltre alla marcata e grave ignoranza che si evince in questo episodio, non ci sia stato anche un altrettanto grave pregiudizio nei miei riguardi, considerato il mio passato di militante in un partito di estrema destra, al quale ho aderito sin da giovane e di cui vado fiero ed orgoglioso.

 

 

 

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FESTA DI INAUGURAZIONE DEL BIVACCO

 

BINAGGIA

 

Domenica 31 luglio, allietata da una splendida giornata di sole, da un cielo limpido ed azzurro, tipico dei nostri monti, presso la malga Binagia di Livo ,ha avuto luogo l’ apertura e la presentazione ufficiale al pubblico , dell’ omonimo bivacco.

Ricavato nel lato ovest della malga, dato in gestione dall’ ASUC di Livo al locale Gruppo S.A.T. che ha provveduto ad arredarlo in modo essenziale e piacevole .

Dopo la S. Messa celebrata dal parroco montanaro, don Ruggero Zuccal ed accompagnata dal coro parrocchiale di Tassullo, è seguito l’ intervento del Presidente il Gruppo SAT di Livo, Marco Agosti, che ha fatto una breve retrospettiva storica del manufatto: da una malga d’ alta quota, grazie all’ aiuto di tanti volontari che hanno prestato la loro opera, si è potuto ricavare un luogo di ristoro e di riposo per tutti gli amanti delle lunghe escursioni in montagna.

Realizzato su proposta dell’ ASUC di Livo, ed auspicato dalla SAT centrale di Trento, il bivacco Binagia risolve definitivamente i problemi di transito sul sentiero più lungo del Trentino, il numero 133 Aldo Bonacossa, garantendo un sicuro riparo a chi lo percorre, ed un comodo rifugio per la notte.

Quando entri nel bivacco, guarda in alto, vedrai una Croce, con un Cristo, ricavato da una radice di Ginepro, che madre natura ha forgiato con le caratteristiche di un Crocifisso.

Nella travatura sottostante, puoi leggere una frase che dice :

Questo bivacco per oggi è casa tua, trattalo come tale. Grazie “

Rispettali !

 

Unanime ed incondizionato il plauso delle Autorità presenti, il Sindaco di Livo Franco Carotta ha evidenziato il feeling tra l’ ASUC e la SAT, che ha permesso la costruzione del bivacco e l’ impegno profuso da Marco Agosti e dei Satini nella realizzazione dell’ opera, congratulandosi, poi, per l’eccellente organizzazione e le numerose persone presenti, fatto per nulla scontato, ma dovuto al grande amore per le montagne.

Sono intervenuti, inoltre, il Presidente dell’ ASUC di Livo e Consigliere della Cassa rurale Tuenno val di Non, Flavio Conter, che ha ricordato l’ impegno del Comitato frazionale e della CRA. Il Consigliere Regionale Zanon Gianfranco, ha portato il saluto del Presidente la Provincia di Trento Lorenzo Dellai.

Sandro Magnoni che ha portato il saluto della S. A. T centrale di Trento, ha sottolineato il ruolo attivo del Gruppo SAT di Livo, sempre presente dove e quando serve, e il sindaco di Cis, Mengoni Fabio.

Al taglio del nastro, il Presidente Marco Agosti ha voluto vicino a se il fondatore del locale Gruppo, Bruno Agosti.

La serata, è poi proseguita con uno spuntino offerto dalla SAT di Livo ed allietata da tanta musica ed allegria.

 

Per la SAT di Livo

Bruno Agosti

 

 

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IL BIVACCO

 

 

Bivacco: sinonimo di precarietà nella vita, della necessità di riposare , dopo una lunga marcia. Si bivaccava la notte, in tempo di guerra, dopo una marcia estenuante di ore, sotto il peso dello zaino, del fucile,del munizionamento, e si passava la notte nei bivacchi di fortuna, spesso una tenda, in attesa dell’ alba, dove ad attenderti c’era solo il destino, ed un nemico che aveva le tue stesse paure e le tue stesse preoccupazioni, era diverso solo nel colore della divisa…

 

Bivaccare, era anche quando i nostri nonni, salivano le nostre montagne per falciare il fieno, si portavano la falce , il martello la plantola e la preda, la moglie, fedele, lo seguiva portando la farina per fare la polenta, una lucanica e del formaggio, il latte e l’ acqua veniva regalati dai pastori delle malghe. Dopo una giornata di duro lavoro, calava la sera e si faceva notte e si trovava rifugio nel bivacco più vicino, ed il giorno successivo si riprendeva il lavoro della fienagione, e tante volte salivano in due, e ritornavano a valle in tre…

 

Bivacco, un luogo sacro, da onorare con il rispetto dovuto ad un grande vecchio amico che ti sa dare ristoro, che ti ospita per una notte, tu con la tua morosa, e custodisce i segreti più intimi con un cuore grande e puro come quello di un bambino, che ascolta i tuoi pensieri più profondi e ti invita ad uscire e guardarti attorno, per trovare quelle risposte che solo qui puoi trovare, perché sei tanto vicino al Cielo.

 

Ultima nota triste che propongo all’ attenzione dei lettori, che racchiude in se ed è emblematica del clima di sospetti, invidie e veleni, che hanno da tempo impregnato le vita sociale ed amministrativa di questa comunità, è il traumatico cambio ai vertici dell’ Associazione. Infatti, il capogruppo, Marco Agosti, che per ben 18 anni ha retto, con lodevole ed unanimemente riconosciuto impegno, l’ Associazione, è stato quasi cacciato dal suo ruolo,con pesanti accuse, con il solito clima di sospetti e di maldicenze, ordito, per lo più, da coloro che prima avevano solo saputo criticare il suo operato e che ora, preso il suo posto, non riescono a fare neppure quello che aveva fatto Lui.

In questo paese chi ha la buona volontà di prestare il suo tempo, il suo sapere e la sua esperienza a favore del sociale, viene quasi sempre alla fine accusato di averci >” mangiato sopra “, e questo ha generato un clima di sospetti che mai nessuno ha saputo o voluto stroncare sul nascere, alimentando ed avallando in questo modo le dicerie e le fregnacce popolari.

Nulla invece si è mai eccepito sul fatto che il Sindaco ( 1500 euro al mese ) di turno la sua Giunta ed i consiglieri comunali, vengano ben retribuiti con soldi pubblici, molte volte per gestire una politica sociale completamente assente e realizzare delle opere pubbliche di dubbio valore architettonico e funzionale ed invise alla maggioranza della popolazione che quando è chiamata a scegliere con il voto riconferma le stesse persone che proseguiranno poi così, indisturbate, gli stessi errori e le stesse scelte sbagliate delle legislature precedenti.

 

Con cinica ipocrisia, si è pensato , poi, di sanare il tutto, donandogli una targa come simbolo di riconoscenza, in una manifestazione pubblica, indetta dalla SAT. Ho dato io , al signor Claudio Agosti, le foto del bivacco, con le quali è stato ricavato il quadro. C’ è da dire , per onore della verità, che tutta questa operazione, si è tenuta in aperto ed evidente contrasto con la moglie di Marco, la signora Ferrari Annamaria, la quale , per protesta, il giorno della consegna del riconoscimento, era assente, impegnata altrove…

Come da copione, c’è da rilevare, che in questo paese i problemi, da sempre, si tenta di risolverli prendendo il toro per la coda, anziché per le corna.

Auguri !!!

 

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LA TRAGICA FINE DI MARIA DEPEDER

 

(Racconto biografico)

 

 

La storia che ora vado a narrare, me l’ha raccontata mio padre, quando io ero ancora ragazzino, e devo dire che mi ha colpito nel profondo dei sentimenti di un uomo sensibile al dolore ed ai drammi umani, come si può classificare questo episodio.

Maria Depeder, era una ragazza di Bresimo, aveva 22 anni, era nata nel 1931, una bella ragazza, che però ebbe la sfortuna di incappare in una di quelle storie, frequenti in quei tempi, dei matrimoni cosiddetti combinati. In altre parole, era il risultato di un compromesso tra i parenti della sposa e quelli dello sposo, per arrivare ad un matrimonio di convenienza tra due persone di sesso diverso, che non si amavano di amore proprio, ma gli veniva imposto da terze persone, per la maggior parte dei casi, per conto del marito, che non riusciva a trovare moglie, ma che aveva abbastanza ascendente e potere per potersene procurare una, anche contro la volontà della ragazza interessata. Il vero dramma di questa vicenda sta proprio nel fatto che Maria Depeder non amava per nulla il marito, ma era stata costretta a sposarlo per il gioco ignobili e medioevali dei suoi parenti.

Nei piccoli paesini di montagna, specie in quelli dove la strada termina per lasciare il transito a mulattiere che portano alle malghe, dove la gente deve convivere ed ha rari rapporti con il resto del mondo, in queste comunità nascono e prosperano i fiori del pettegolezzo, dell’invidia, della maldicenza e dell’infedeltà coniugale.

Così un certo Dallatorre Serafino si divertiva a raccontare strane storie sentimentali che sarebbero intercorse tra lui e la signora Maria moglie dello Zogmeister, contribuendo così ad accrescere la gelosia fortemente presente nell’uomo dal carattere instabile ed insicuro e questo pettegolezzo ben presto circolò tra le comari del paesino con effetto devastante sulla psiche tormentata dell’uomo.

 

Per ricostruire questo episodio tragico, mi sono avvalso di un giornale dell’epoca che ricostruisce fedelmente l’intero episodio, mi sia consentito anche fare un breve cenno sui giornalisti di allora, che sapevano descrivere gli avvenimenti in maniera semplice ed esaustiva, senza lasciare spazi ad alcuna altra interpretazione o speculazione, raccogliendo le notizie alla fonte e di prima mano, per poi raccontarle con precisione e dovizia di particolari al pubblico, verso il quale si sentivano legati da un patto, mai scritto, di reciproca fiducia, in nome della libertà di stampa e della veridicità delle notizie, come allora fece l’ inviato dell’ “ALTO ADIGE”, Massimo Infante.

 

Ad imporre una breve tregua al tormentato rapporto dei coniugi Zogmeister, forse, ci pensò la piccola Carla, nata nel 1953, ma fu una tregua breve, poi ripresero, naturalmente, le incomprensioni, le diffidenze, di una coppia costretta a convivere senza quell’amore e quella passione che da vita nuova, giorno dopo giorno, alla coppia e permette che l’unione tra due sessi diversi si concretizzi e trovi le giuste dimensioni dettate dall’desiderio e dall’amore reciproco. Il giorno 15 gennaio 1954 Maria assieme al marito Dario decidono di recarsi al mercato di Cles per fare degli acquisti e dei regali per la piccola Carla.

Scendono a piedi fino a Preghena, dove salgono sulla corriera della linea privata di Vender Livio, che copre la tratta da Rumo a Cles, ma che non transita per Bresimo per via della strada che passa nell’abitato di Preghena e che, a causa dei “ponti” che sovrastano la strada, rende impossibile il transito a camion e autobus. Durante il tragitto a piedi da Bresimo a Preghena il signor Zogmeister incontrò un abitante di Bresimo il signor Fauri Angelo con il quale si mise a chiacchierare del più e del meno, ad un certo punto allo Zogmeister venne sete ed allora aprì lo zaino per prendere una bottiglietta di vino e dissetarsi, fu allora che il signor Angelo notò che nello zaino assieme alle poche cose c’era una grossa lima senza il consueto manico in legno che serve da impugnatura e gli sorse spontanea una nella mente una domanda : - Ma che se ne n’ faral po dre de na lima se l’ bà al marcjà ? – (cosa gli servirà la lima se va al mercato?) e rimase con questo interrogativo senza chiedere spiegazioni all’uomo. (Questo particolare riguardante la lima l’ho scoperto per caso molti anni dopo parlando con il figlio del signor Angelo Fauri, per questo il giornale riporta una versione diversa: quella del ritrovamento casuale dell’utensile.)

Arrivati a Cles, fanno gli acquisti che avevano previsto, poi si recano presso il ristorante “Centrale” dove consumano un pasto caldo prima di riprendere la corriera che porta verso Preghena e la strada per Bresimo. Nulla fa pensare che tra poco una tragedia si sarebbe abbattuta sulla coppia di giovani sposi.

Scesi dal pullman, alla fermata di Preghena, i due sposi si fermano, nuovamente, in una locanda del luogo, dove consumano ancora un pasto prima di intraprendere la strada per Bresimo.

Passando davanti alla bottega del calzolaio Augusto Corazza, la cui moglie è compaesana di Dario Zogmeister, l’ uomo si ferma per un saluto, intanto si erano fatte le 2 del pomeriggio, quando l’uomo lasciò il calzolaio per dirigersi verso un trattore adibito al trasporto di legname, che portava , casualmente, i viandanti verso Bresimo, Dario fece cenno al conducente di fermasi, ma il trattore era già carico di gente a sufficienza ed i due coniugi non poterono salire; sul mezzo era salito pure il parroco di Bresimo don Bruno Marini.

- Non importa, disse Dario - con un’alzata di spalle “

I coniugi Zogmeister, si avviarono così, a piedi, verso Bresimo che dista da Preghena circa 5 chilometri, ma la tragedia che si sarebbe compiuta di lì a poco, era molto più vicina, poco più di un chilometro di strada, durante questo tragitto, ii due sposi, probabilmente si sono messi a discutere di qualche cosa di molto importante e personale, Maria era incinta da poco di un secondo figlio, stato confermato poi nell’autopsia eseguita dal prf. Rigon, sembra che l’uomo fosse una persona dal carattere instabile, che molto spesso si allontanava da casa per parecchi giorni senza dare spiegazioni, il giornalista dell’“Alto Adige” lo definisce un tipo “ozioso”, ma, a mio parere, tutto quello che doveva essere e che mancava in modo assoluto, in quella coppia di sposini, lo si può riassumere in una sola parola: tra i due, mancava l’AMORE.

Arrivati all’altezza della attuale cava di sabbia, dove la strada aveva una serie di strette curve e passava sopra un piccolo ponte di pietra e sul lato sinistro c’era una piccola radure con delle conifere, la discussione tra i due, degenerò in lite e l’ uomo preso dall’ira, forse per la gravidanza non voluta, forse per delle altre accuse che gli venivano contestate dalla moglie, in merito al suo comportamento e altro ancora, tirò furi una lima che aveva portato con sé da casa, e con la parte appuntita, dove viene inserita l’impugnatura in legno, inizio a colpire la povera Maria, in modo selvaggio e violento, con un ira furibonda e cieca. La donna venne colpita in più parti del corpo, al petto alla schiena, ma il colpo che risultò essere stato mortale fu quello alla gola che le recise la carotide. L’uomo trascinò poi la moglie agonizzante nel bosco sottostante, abbandonandola al suo destino di una morte per dissanguamento, e si diede alla fuga.

Scese verso valle, attraverso il bosco, fino a raggiungere il torrente Barnes, seguì il corso del torrente, verso valle, fino a raggiungere la segheria del signor Oreste Bonani, dove venne morso dal cane da guardia mentre scappava in direzione di Mostizzolo.

Incontrò un suo conoscente di Bresimo che si chiamava Arnoldi Ezio, al quale chiese un passaggio sulla sua motoretta fino a Cles, arrivato nel capoluogo Anaune, si recò presso l’autofficina Calai dove noleggiò un’automobile con la quale si diresse verso il passo della Mendola dove si trova il suo paese natale.

Il maresciallo Filetti, comandante della stazione dei carabinieri di Rumo, avvertì telefonicamente la tenenza di Cles che istituì dei controlli: ormai tutte le strade della zona erano pattugliate da decine di carabinieri e poliziotti ed il cerchio attorno allo Zogmeister si faceva sempre più stretto. Dopo una notte passata all’addiaccio nei boschi della Mendola ancora innevati, i carabinieri del tenente Russo, lo arrestarono mentre tentava di avvicinarsi alla sua casa natale.

Finiva così la fuga di Dario Zogmeister, che venne rinchiuso nel carcere mandamentale di Cles, per poi essere processato per omicidio volontario.

Qui finisce il racconto, dettagliato e preciso del giornalista dell’Alto Adige, e finisce anche la storia di un amore mai nato, imposto da una logica assurda e barbara che niente ha a che vedere con il vero amore. Che nasce, spontaneo, tra un maschio ed una femmina, ch non ha una logica ed una misura che noi possiamo capire, che non ha età e non ha distanze, che non ha un colore della pelle, un’etnia o una politica, che nasce perché la natura ha bisogno di questo amore per poter proseguire nel tempo e portarsi dietro tutti gli esseri viventi.

 

 

Alla fine di questo dramma, vorrei fare una personale considerazione riguardo allo stato sociale ed umano della donna nei secoli scorsi fino all’avvento del benessere economico negli anni ’70 – ’80.

Allora esistevano le famiglie così dette patriarcali, tutte numerosissime di componenti, dove ci si faceva carico di tutti i componenti fino alla loro morte o fino a quando le figlie non trovavano merito e lasciavano definitivamente ed in modo irreversibile la casa materna per doversi adattare alla casa del marito e di tutti i componenti di un'altra famiglia patriarcale che diventava di fatto anche la sua nuova famiglia con pari diritti e doveri, ma talvolta non con pari dignità. Nella maggior parte dei casi la donna lasciava la casa paterna per seguire il grande amore della vita, sogno di tutte le femmine, ma c’erano poi dei casi in cui la donna era costretta ad andarsene dalla casa paterna per varie ragioni come la mancanza di spazio o di cibo per tutti o per dissidi tra famigliari allora le alternative erano due: - o ti sposi o vai suora -. Nella maggior parte dei casi la donna andava in sposa ad un uomo che non era proprio il suo principe azzurro, ma faceva buon viso a cattiva sorte e col tempo le cose si aggiustavano con una convivenza tranquilla. I casi peggiori e più odiosi erano quelli dei matrimoni combinati a tavolino da parenti e amici e poi imposti alla donna con minacce e ricatti come nel caso che qui ho narrato. Quando si parla di violenza sulla donna fino al femminicidio bisogna distinguere tra i comportamenti di oggi dove la donna è più emancipata ed auto indipendente e la scelta di sposarsi o di convivere non è più una scelta definitiva per Legge e neppure per etica, ecco che allora ogni piccolo screzio o incomprensione diventa motivo di liti, di separazioni e nei casi peggiori di femminicidio. Nei secoli scorsi la donna che lasciava volontariamente o sotto pressioni di altri la casa paterna era consapevole di una scelta definitiva ed irreversibile, non poteva dire: - Torno da mia madre – perché sapeva di non essere più accolta in quella casa, ed allora faceva di tutto per adattarsi alla nuova situazione famigliare. Non mancavano neppure allora le violenze dei mariti verso la moglie, ma per la maggior parte dei casi erano dovute alla miseria economica e sociale per la quale tanti maschi cercavano rimedio passeggero nell’alcool e quando tornavano a casa ubriachi se la prendevano pure con la donna e dopo aver magari rotto piatti e stoviglie il giorno dopo a mente serena andavano al negozio e li ricompravano facendo altri debiti… I casi di femminicidio erano rarissimi, tutto si aggiustava, non si buttava nulla e si continuava la solita vita con la donna che partoriva un figlio all’anno, che doveva lavare i “pangei” alla fontana, che doveva cuocere la polenta, che doveva governare le mucche nella stalla e la sera a letto doveva pure accondiscendere alle richieste sessuali del marito, allora la vita era così, grama e dura, ma forse più umana e serena con una frotta di bambini da sfamare e da accudire,

le scuole materne ed i nidi vennero molto più tardi seguiti poi dalle “Leggi di civiltà” del divorzio e la Legge 194. Difficile in tragedie come questa cercare delle attenuanti, dei se e dei ma, sembra un pozzo nero senza soluzione di continuità, eppure a guardare con attenzione in tanto buio si può scorgere una tenue fiammella di vita, il martirio di Maria non è stato inutile, lei ha lasciato che la sua vita continuasse con la piccola Carla che si è fatta una bella famiglia ed è il segno che la vita, nonostante tutto, continua ancora e continuerà per sempre…

 

Fonte delle informazioni: giornale ALTO ADIGE – Cittadini del luogo.

 

Bruno Agosti

 

 

 

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TILT – GAME OVER

 

tra i numerosi simboli della riaquistata libertà importati dagli Stati Uniti nel dopo guerra c’ erano i giochi dapprima eleettrici e poi elettronici che avevano invaso i bar ed i locali riservati ai ragazzi della scuola media e superiore. Tra quelli che ebbero maggior diffusione e maggior successo di pubblico c’ era il FLIPPER che ora vado a descrivere. Il flipper era un apparecchio elettrico a contatti dalla forma di una sedia allungata sulle gambe dallo schienale dritto a 90 ° a dal sedile allungato e leggermente inclinato di poche gradi in avanti era montato ad un altezza di circa un metro su quattro gambe in acciaio che lo alzavano da terra, avevano tutti in comune due pulsanti alla base che azionavano due leve poste in basso in un passaggio obbligato e servivano per mantenere in gioco una pallina di acciaio che veniva respinta verso l’ alto dalle due leve, insomma come un portiere nel gioco del calcio o dell’ hokei. Il gioco consisteva nel mantenere la palla dentro un labirinto di vie e viuzze costellato di funghi e corridoi con deigli ostacoli che si aprivano al passaggio della pallina e determinavano il punteggio finale del gioco. Il tema dei giochi dei flipper era il più svariato e fantasioso ma si svolgeva sempre alla stessa maniera: prima operazione indispensabile che ti indicava il display era “ insert coin “ e bisognava mettere una moneta da cento lire poi il gioco iniziava e la infernale macchinetta ti metteva a disposizione cinque palline sul lato destro in una canaletta e per metterle in gioco bisognava tirare mediante un grosso bottone una molla che spingeva di brutto la pallina verso l’ alto ed iniziava a scendere urtando nei vari ostacoli e dandoti dei punteggi, quando si avvicinava al canale di uscita bisognava essere pronti ed abili con i pulsanti a far scattare le leve che la rimettevano in gioco che proseguiva fino all’ esaurimento di tutte le palline luccicanti. La bravura e l’ esperienza del giocatore consistevano anche e sopratutto nel muovere la macchinetta per direzionare la pallina senza che questa andasse in “ tilt “ che era la parola maledetta che ti appariva quando muovevi troppo il flipper e la partita si interrompeva di brutto togliendoti i punti e le cento lire ed appariva la grande scritta sullo schermo “ game over “ avevi perso, il gioco era finito. Bisogna ammettere e dare lode al flipper perché era un gioco che non ha mai creato ludopatia nei giocatori e che in caso di vittoria guadagnavi una nuova partita da giocare ed in caso di tilt ti si interrompeva il gioco ma in entrambe i casi spendevi sempre cento lire. Oggi ci sono dei giochi diabolici che ti obbligano ad investire tanto denaro con l’ illusione di grandi vincite che possono cambiarti la vita, ed infatti te la cambiano perché nel 99 per cento dei casi perdi il denaro che hai investito e ti interstardisci nel continuare a giocare finché il gioco non diventa una vera e propria ossessione che degenera in una patologia detta ludopatia che è ormai divenutta una piaga sociale dai costi umani e finanziari notevoli, che hanno costretto la sanità pubblica ad aprire dei Centri di assistenza e disintossicazione da gioco. In molte famiglie dove è presente in uno dei componenti detta patologia si possono verificare degli episodi di violenza per la mancanza di denaro che il giocatore pretende sempre più insistentemente per poter soddisfare la sua fobia del gioco, con la pandemia di COVID 19 il problema si è ulteriormente aggravato fino a divenire una vera e propria emergenza sociale. Noi non siamo un popolo abituato a questi cambiamenti repentini nella società, non siamo in grado di sostenere questo tipo di società all’ americana che dopo averci propinato la gomma, il fast food ed altre diavolerie ci vende l’ illusione di un rapido e facile arricchimento tramite il gioco d’azzardo che ora imperversa anche on line. Benedetto il caro e vecchio flipper. Del flipper ora è rimasto in uso comune nel lessico italiano il termine “ tilt “ usato per descrivere una forma di interruzione improvvisa della normalità di una persona, di una macchina o di un sistema sociale, ed è un termine usato con sempre più frequenza. Segno dei tempi che cambiano velocemente …

 

 

 

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LA CHIESA PARROCCHIALE DI VAROLLO

 

Chiesa della Natività di Maria (Livo, Trentino-Alto Adige)
Storia
Edifici preesistenti
Forse già dal I secolo, o più probabilmente dal IV, sul sito della chiesa medievale esisteva una torre di avvistamento romana. Indagini archeologiche localizzate all'esterno di una cappella hanno individuato resti di un altro edificio, databile entro il VI secolo. Ulteriori ricerche hanno poi permesso di ricostruire la presenza, entro il X secolo, di una primitiva chiesa con orientamento verso est e con un'area adibita a camposanto nella sua parte posteriore.
Edificio medievale
La prima struttura riferibile alla chiesa in seguito documentata in modo specifico venne edificata probabilmente tra l'XI e il XIII secolo, e si trattò di una chiesa di maggiori dimensioni con orientamento verso sud. Sembra verosimile che tale edificio inglobasse la preesistente piccola cappella. La prima documentazione di questo edificio venne riportata implicitamente dal plebano di Varollo nel 1214 (forse anche nel 1208[2]) anche se la documentazione che cita in modo specifico la chiesa arrivò solo nel 1309.[1]
All'inizio del XIV secolo la chiesa fu oggetto di un ampliamento che portò ad una sala di dimensioni paragonabili a quelle che ci sono pervenute e ad una nuova zona absidale che comprese l'antica costruzione. Dopo l'ampliamento iniziò una fase di arricchimento decorativo. Vennero così realizzati affreschi sulla facciata e negli interni: Madonna con Bambino, Santa Maddalena, San Giorgio e la principessa, San Cristoforo, Deposizione e Sant'Antonio. I primi eseguiti attorno al XV secolo e alcuni riferibili a maestri bergamaschi legati ai Baschenis. La campana più antica venne fusa nel 1463.[1] Edificio moderno
Tra il 1516 ed il 1570 venne edificata la cappella laterale della confraternita di San Fabiano e San Sebastiano. Poi parte dell'edificio venne demolito per essere riedificato di maggiori dimensioni anche in altezza. Nuovi ampliamenti vennero realizzati nel XVII secolo, come la nuova grande sacrestia. Una nuova e più grande campana venne fusa nel 1630 e nello stesso anno si iniziò a rifare la pavimentazione della sala.[1]
Affresco nella loggia della chiesa della Natività di Maria.
Durante la prima metà del XVIII secolo venne rivista l'area presbiteriale che venne dotata di una nuova pavimentazione e venne restaurata in varie parti poi, nella seconda metà, venne completata la torre campanaria con una nuova cuspide in legno e fu costruito il pulpito nella sala.[1]
Col nuovo secolo venne rifatta la pavimentazione della sala poi, nel 1824, dal punto di vista della giurisdizione ecclesiastica Varollo venne legato alla Val di Non. Negli anni quaranta parte delle grandi vetrate fu sostituita e il perimetro interno della sala venne rivestito con marmo rosso trentino.[1]
Negli anni cinquanta fu rivista la pavimentazione della sacrestia e si iniziò un restauro ultimato nel decennio seguente che ripristinò l'aspetto della sala, togliendo le lastre di marmo, e curò le parti esterne attorno all'edificio, oltre al rifacimento delle tinteggiature. A partire dal 1971 i tetti della chiesa e della torre vennero rifatti utilizzando scandole in larice, furono elettrificate le campane e l'intera struttura venne consolidata. Vennero anche riportati alla luce gli affreschi della facciata. Gli ultimi lavori si sono conclusi nel 2008. La facciata venne dotata di una tettoia con copertura in piombo e acciaio. La pavimentazione della sala venne rinnovata e vennero risanate le intonacature con interventi per la protezione contro la risalita dell'umidità.[1]
Descrizione
La navata è in stile gotico-rinascimentale. I tre altari lignei sono barocchi, dorati e finemente intagliati. Sull'altare di sinistra tela di Gabriel Kosler. L'altar maggiore monumentale è opera di Domenico Bezzi (padre di Bartolomeo) mentre la pala è attribuita a Carlo Pozzi.

 

LA MACABRA SCOMMESSA

 

durante le lunghe ed afose sere d’ estate i giovani del luogo usavano riunirsi nella piazza principale del villaggio per socializzare tra loro, scambiarsi le impressioni ed i commenti sul lavoro svolto quel giorno e su quanto avrebbero dovuto fare il giorno seguente. Ognuno raccontava, vantandosi , del lavoro svolto e della grande fatica ed impegno che gli erano costati, ma nessuno mai si lagnava e prometteva solennemente che il giorno dopo avrebbe fatto di meglio … perché ad ascoltarli erano arrivate le fanciulle del paese tutte ben pettinate, con le lunghe gonne scure ricamate con grandi fiori multicolori, ben strette alla cinta onde mettere bene in evidenza i seni prosperosi che attiravano lo sguardo ed il desiderio dei giovanotti tanto da renderli più baldanzosi ed audaci. Era stato così da sempre prima per i loro avi ed ora per loro, era l’ eterno miracolo della continuazione della specie che iniziava il suo corso per finire in certi casi in uno “ stabel “ colmo di fieno profumato e caldo per la fermentazione in corso. Era la vita che continuava, imperiosa, e chiedeva la collaborazione dei due sessi per poter continuare ad essere. I maschi facevano a gara per dimostrare alle femmine il proprio coraggio e la propria forza esibendosi in prove collettive di abilità, di forza ed astuzia per impresssionare le ragazze ed attirare la loro simpatia e qualche altra loro concessione che non andava mai oltre il classico bacio sulla guancia. Piano piano i ragazzi tra le chiacchiere intervallate da fragorose risate si avvicinarono alla chiesa e si sedettero sui muretti e sulla gradinata vicina all’ ingresso principale detto anche “ la porta granda “. mentre proseguivano le schiacchiere e le risate un gruppetto di ragazzi si allontanò dirigendosi verso il lato opposto della chiesa dove c’ era il cimitero con le croci di ferro battuto nere e poche lapidi monumentali appartenenti alle classi più benestanti del luogo, il cimitero

era disposto a semicerchio su tutto il lato sud dell’ edificio sacro che lo oscurava quasi per intero alla luce della luna piena di quella sera afosa di luglio rendendo il luogo ancora più spettrale, percorsero velocemente la stretta stradina di ciottolato a fianco alle tombe e si fermarono un attimo davanti ad una a cui mancava la croce ed l’ alto tumulo di terra fresca indicava una recente sepoltura. Uno di loro disse che lì era stata sepolta qualche giorno prima una povera donna del villaggio che viveva da sola e che era malata da tempo. Il gruppetto di ragazzi riprese la strada a ben presto sbucò nuovamente presso la gradinata dove gli altri giovani stavano tranquillamente conversando e ridendo di gusto e riferirono loro quanto avevano notato nel cimitero la sepoltura recente e l’ assenza della croce, per un momento si fece un silenzio quasi religioso tra i presenti, poi prevalse la spensieratezza e la vitalità giovanile e tutti ripresro i propri discorsi . Il giorno seguente i giovani come d’ abitudine ormai consolidata, si ritrovarono nuovamente nella piazza del paese per raccontarsi la giornata di lavoro trascorsa nei campi sotto il sole torrido di quella estate, la maggior parte di loro era stato impegnato nella trebbiatura del grano che a quei tempi si faceva a mano con il falcetto detto in dialetto nostro “ sesla “ , sul dosso di Barbonzana che a quel tempo era tutto coltivato a grano e patate, forma di coltura che durò fino al 1970 poi con l’ avvento dell’ irrigazione a pioggia tutti riconvertirono la produzione in mele molto più redditizia… ma ora siamo ancora nel 1800 e l’ agricoltura era finalizzata al sostentamento alimentare delle famiglie ed alto era il numero dei paesani emigrati nelle Americhe del nord e del sud in cerca di un lavoro e di migliore e fortunata vita e direi che molti ci riuscironoe fecero anche fortuna. Intanto i “ muli “come scherzosamente erano definiti dai grandi i più giovani, proseguivano a piccoli crocchi il loro passatempo serale con risate, canti da osteria e piccoli innocenti scherzi nei confronti delle ragazzine. Dopo alcuni minuti da una stradina laterale sbucò un ragazzo biondo che portava in spalla qualcosa di strano simie ed un piccone visto da lontano, ma man mano che si avvicininava la cosa apparve più chiara e ben visibile a tutti : era il figlio del falegname che portava una piccola croce in legno con scritto il nome della povera donna morta da poco; a quel punto il silenzio scese sulla piazza e tutti si radunarono in cerchio al giovane figlio dell’ artigiano il quale rivelò loro che ne aveva parlato con suo padre del fatto che la tomba della poveretta era senza il simbolo religioso della croce mentre tutte le altre ne erano provviste e nessuno avrebbe provveduto a fargline una in quanto non aveva nessun parente in vita . Tutti apprezzarono il gesto di grande umanità e generosità del falegname e così decisero di recarsi tutti in gruppo al cimitero per piantare la piccola croce di larice alla tomba della signora morta in povertà. Si avviarono per la stradina che portava alla chiesa ed al cimitero mentre già imbruniva , tutti in silenzio come in una processione liturgica, le ragazze avevano rubato dagli orti dei fiori per posare sulla sepoltura. Ad un tratto da una delle corti sbucò una vecchietta dal lungo abito scuro e la veletta calata sul volto nella quale si intravvedevano a stento i lineamenti ma si vedevano bene solo i suoi occhi pieni di curiosità. Chiese ai giovani dove fossero diretti e che cosa intendevano fare con quella croce, allora il figlio del falegname informò la vecchietta su quanto stavano facendo. La donna allora alzò il velo e affermò che tutto ciò era cosa buona e meritevole di grazia di Dio e sorrise al gruppo in segno di consenso ma poi improvvisamente cambiò espressione ed il suo volto divenne scuro come se fosse preoccupata da qualche cosa di terribile, richiamò a gran voce i giovani e ordinò loro di seguirla nella corte dove la luna poteva illuminare la zona e raccontò loro questo fatto : “ mia nonna mi ha narrato che quando lei era giovane come loro ed anche al suo tempo i “ muli “ si divertivano in piazza come oggi, una sera per dimostrare chi di loro fosse stato il più coraggioso proposero una scommessa : sarebbe stato il più coraggioso colui o colei che fossero andati al cimitero a piantare su una tomba una piccola croce di legno che avevano in precedenza costruito con due assicelle inchiodate tra loro ed appuntita dal lato che doveva essere piantata. Si recarono sulla scalinata della chiesa e lì chiesero se qualcuno era disposto a mostrarsi coraggioso ed andare nel vicino cimitero a piantare la croce. Vado io esclamò una ragazza , così quello l’ non potrà più dire che sono una fifona che ha paura di tutto, esclamò rivolta ad un ragazzo… prese la croce nelle mani e si avviò decisa verso l’ angolo della chiesa nella stradina buia che affianca le tombe e sparì alla vista. Passarono pochi minuti e poi si sentì la giovane urlare di terrore e chiedere aiuto in un pianto disperato che niente aveva più di umano. I giovani corsero verso di lei a vedere che cosa le fosse successo, la trovarono ormai impazzita dal terrore che si dimenava sopra la tomba senza riuscire ad alzarsi da terra. Era successo che per piantare la piccola croce si era inginocchiata sula tomba e complice l’ oscurità, aveva infilato la punta del legno nella lunga gonna inavvertitamente, quando fece per rialzarsi si sentì trattenere al suolo come se qualcuno la stesse tirando a se e venne presa dal terrore. A nulla valsero i tentativi degli amici di calmarla e riportarla alla ragione ed alla logica, morì dopo alcuni giorni senza più riprendere conoscenza “. i ragazzi rimasero molto colpiti da questa storia ma la vecchietta disse loro di andare tutti assieme a piantare la croce e posare i fiori alla povera morta “ e diseje su na rechia ancja par mi !

 

(Questo racconto è un episodio realmente accaduto in questo paese che ho potuto riportare grazie alla testimonianza della signora Zanotelli Nicolina del casato dei “ Tripoi “ )

 

Bruno Agosti

 

 

 

 

 

 

Bruno Agosti

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FINE