LA BATTAGLIA DI LEPANTO

“Spuntati le unghie Signore, e combatti, perché ce n'è bisogno!".
Alla vigilia del 7 ottobre del 1571, così disse al duca Marcantonio Colonna, comandante delle navi pontificie, il marinaio appena tornato dalla ricognizione del braccio di mare antistante il porto di Lepanto, da dove la flotta ottomana era appena uscita in formazione da battaglia.
Anche gli altri comandanti della grande flotta della Lega Santa stavano ricevendo le stesse informazioni, a partire da don Giovanni d'Austria, figlio naturale dell’Imperatore Carlo V e fratellastro di re Filippo II di Spagna, che comandava le navi dell'Impero Spagnolo.
Delle oltre duecento galee, supportate da sei galeazze (le corazzate del tempo) che avevano appena imboccato il Golfo di Patrasso, la maggior parte battevano però bandiera veneziana o genovese, oltre ad una presenza poco più che simbolica di legni provenienti dai Ducati di Savoia, Urbino, Toscana e dai Cavalieri di Malta.
Quella flotta imponente era partita da Messina alla volta della Grecia, allora in mano turca, dopo essere stata riunita dall'intervento dell'energico papa Pio V che, con un misto di blandizie e minacce di scomuniche, aveva convinto i riottosi Principi della Cristianità a mettere da parte le loro diffidenze reciproche e far fronte unitario contro il comune nemico ottomano.
Dopo la caduta di Cipro non c'era più tempo da perdere, se si voleva evitare la definitiva capitolazione della civiltà occidentale. A confrontarsi in quello stretto braccio di mare c'erano le due flotte al completo, forti di circa 40.000 uomini ciascuna, cui si aggiungevano altrettanti rematori. Fra gli Spagnoli partecipò al combattimento anche il famoso scrittore Miguel de Cervantes, che rimase ferito ad una mano tanto da guadagnarsi il soprannome del “manco”, di cui andò sempre orgoglioso.
Gli Ottomani, agli ordini dell'ammiraglio Muezzinzade Alì Pascià, disposero la loro flotta nella classica formazione a mezzaluna, con al centro le navi dell'ammiraglio, alla destra quelle di Maometto Scirocco ed alla sinistra, verso il mare aperto, quelle del corsaro Uccialì, cioè il rinnegato calabrese Giovan Dionigi Galeni.
Davanti a loro presero posizione al centro le navi imperiali di don Giovanni d'Austria insieme ad un buon numero di legni veneziani al comando del Doge Sebastiano Venier; verso la costa, il resto delle navi veneziane agli ordini dell'ammiraglio Agostino Barbarigo e infine, verso il mare aperto, i genovesi comandati da Gianandrea Doria.
Una volta giunto a distanza di tiro, don Giovanni pronunziò la frase: "Senores, ya no es hora de deliberar, sino de combatir" ("Signori, ora non è il tempo delle chiacchiere, ma di combattere"), con ciò ordinando di sparare la prima cannonata.
Peccato però che l'ala sinistra dello schieramento cristiano, quella cioè di Gianandrea Doria, si allargò subito verso il mare aperto, dando l'impressione di fuggire, in ciò inseguito dal suo dirimpettaio Uccialì che con le sue navi, con la scusa d’inseguire quelle genovesi, si levò dalla mischia. Nessuno ha mai potuto spiegare con certezza la ragione di un simile comportamento, che fece sospettare che i due si fossero accordati per salvaguardare le rispettive navi.
Così, le prime imbarcazioni raggiunte dagli Ottomani furono le pesanti galeazze, fino ad allora ignorate perché ritenute semplici navi da trasporto, senza sapere che esse costituivano l'"arma segreta" della flotta cristiana, munite com'erano di 20 cannoni per lato che, al passaggio dei legni nemici, aprirono contemporaneamente il fuoco con un effetto tanto più devastante, quanto imprevisto.
Da quelle muraglie di fumo e fiamme partì una micidiale raffica di palle di ferro e pignatte incendiarie che colò a picco o danneggiò circa un terzo delle imbarcazioni nemiche, con perdite umane considerevoli, quando la battaglia non era nemmeno iniziata.
A peggiorare le cose per i Turchi ci si mise anche il vento che iniziò a soffiare contro di loro, rendendone più difficile l'avanzata e accecandoli col fumo delle cannonate avversarie.
Il primo contatto delle flotte nemiche avvenne sul lato verso la costa, dove l'eroico sacrificio dell'ammiraglio Barbarigo, ucciso da una freccia penetrata proprio nella fessura della sua visiera corazzata, riuscì ad evitare che i nemici oltrepassassero la linea delle navi cristiane, così prendendole fra due fuochi.
I rematori (quasi tutti schiavi cristiani) presenti sulla nave del suo avversario Maometto Scirocco, approfittando della confusione, riuscirono a spezzare le catene e liberarsi, non prima però di aver ammazzato i loro aguzzini, dando così una mano decisiva ai Veneziani.
Stesso copione al centro dello schieramento, dove, in un inestricabile groviglio di navi ormai avvinghiate le une con le altre da corde ed arpioni d'arrembaggio, si combatteva all'arma bianca. L'anziano Doge Venier si batté come un leone, nonostante una ferita riportata al tallone che aveva dovuto lasciare scoperto a causa dell'artrosi che gli attanagliava i piedi.
Dopo due ore di massacro partì l'assalto definitivo alla "Sultana", nave ammiraglia ottomana, ma soltanto quando i Turchi videro la testa mozzata del loro ammiraglio infilzata su una picca capirono che tutto era perso per loro, mentre sul lato opposto da ogni dove si udiva il grido di "vittoria".
Ancora una volta in terra greca si era consumata una battaglia importante per le sorti dell’Occidente, anche se non decisiva perché, come disse il Sultano Selim II: “gli infedeli mi hanno bruciato la barba, ma ricrescerà”.
Accompagna questo scritto il dipinto “La battaglia di Lepanto”, di Paolo veronese, 1572-1573, Gallerie dell’Accademia, Venezia.
(Testo di Anselmo Pagani)
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