LA CASA DI PIETRO MICCA

 
Un giorno senza pane
«Gàute da lì. T’è pi lunch ëd na giurnà sènsa pân! Lassa fé a mi, pènsa a salvéte!». «Allontanati. Sei più lungo di una giornata senza pane! Lascia fare a me, salvati!». Le avrà dette davvero queste parole il giovane soldato minatore Pietro Micca da Sagliano, nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, rivolgendosi al commilitone con cui era di guardia alla scala di collegamento tra i due piani di gallerie della Mezzaluna del Soccorso, prima di fare esplodere la mina anzitempo e saltare in aria salvando però Torino assediata dai Francesi? Pare proprio di sì, a giudicare dalla testimonianza del suo diretto superiore, il Comandante d’Artiglieria conte Giuseppe Maria Solaro della Margherita, che le ha raccolte direttamente dal soldato, compagno d’arme di Pietro, che si è salvato.
Scrive Solaro: «il Minatore, sentendo sfondare la porta a colpi d’ascia, incitava il suo compagno a mettere l’innesco alla salsiccia» e siccome egli era più impaziente di quanto l’altro non fosse pronto lo prende per il braccio e pronuncia la famosa frase, poi «applica la miccia troppo corta all’estremità della salsiccia, l’accende; il fornello scoppia ed il pover’uomo ha meno tempo per allontanarsi di quanto gliene necessiti; sicché lo si ritrova morto a quaranta passi dalla scala che aveva disceso».
Pasapartüt alla guerra
Ma come c’era finito il ventinovenne Pasapartüt – così era soprannominato Pietro Micca per la sua abilità nello sgusciare tra anfratti e cunicoli – nelle gallerie della Cittadella di Torino, impegnato nella guerra di mina contro i Francesi? L’episodio che lo ha reso celebre, il suo sacrificio eroico ma forse non del tutto consapevole, si inserisce nel più ampio quadro della guerra di successione spagnola, conflitto che coinvolge tutta l’Europa agli inizi del diciottesimo secolo.
Alla morte di Carlo Secondo, ultimo Asburgo di Spagna, si apre una disputa dinastica tra le case regnanti europee per il controllo dei vasti possedimenti dell’impero spagnolo, che si estendevano dall’Asia Minore all’Africa, alle Americhe, e comprendevano anche, in Italia, la Sicilia, la Sardegna e parte della Lombardia. I due schieramenti contrapposti sono così suddivisi: da una parte Francesi e Spagnoli (e in un primo tempo anche i Savoiardi), che fanno capo a Filippo d’Angiò, nipote e alleato di Luigi quattordicesimo, il Re Sole, nonché erede al trono designato. A guidare l’altra fazione c’è Leopoldo Primo d’Asburgo, imperatore d’Austria, che rivendica il diritto alla successione per il suo secondogenito, l’arciduca Carlo, in quanto Asburgo. A lui si alleano Inghilterra e Olanda.
Il Duca di Savoia Vittorio Amedeo Secondo, dapprima sta con i franco-spagnoli, poi nel 1703 cambia bandiera e si schiera contro di loro, con un atto di spregiudicato opportunismo politico. Aveva il timore – non infondato - che in caso di una vittoria francese, il piccolo Stato Sabaudo avrebbe totalmente perduta la sua già precaria indipendenza.
Nel 1706 i Francesi, dopo avere conquistato tutte le altre piazzeforti piemontesi, cingono d’assedio la Cittadella di Torino con 44 mila uomini. La difesa della capitale sabauda è affidata a un numero di soldati 4 volte inferiore. I Piemontesi resistono dal 14 maggio al 7 settembre, quando finalmente giungono le tanto attese truppe del Principe Eugenio a dar manforte al Duca, l’astuta “volpe savoiarda” che, uscendo di nascosto, a metà giugno, dalla città assediata, si era fatto inseguire per le strade di tutto il Piemonte da quasi la metà delle forze assedianti. Duca e Principe affrontano e vincono in battaglia i Francesi sotto Torino, costringendoli a ritirarsi disordinatamente e a levare l’assedio.
Con la fine della guerra e il conseguente trattato di Utrecht del 1713, al Ducato di Savoia viene restituito il contado di Nizza, riconosciuta l’annessione di vari territori in Piemonte e Lombardia, ma soprattutto Amedeo Secondo riceve la Sicilia (che scambierà con la Sardegna sette anni dopo, nel 1720) e il titolo di Re per sé e i suoi successori.
«Torino fu salvo, quel giorno; perché, se non era del generoso Biellese, nissun Eugenio, né nissun Vittorio Amedeo il salvavano, e l’opera loro veniva indarno. Da lui (ovvero da Pietro Micca) la corona ducale fu conservata, e la régia posta in capo sui prìncipi di Savoja» ebbe a scrivere Carlo Botta nella sua Storia d’Italia pubblicata a Parigi nel 1832.
Le difese della Cittadella
Ma Il merito di aver reso praticamente inespugnabile la Cittadella di Torino in occasione dell’assedio va anche a un altro biellese illustre, l’ingegnere Antonio Bertola di Muzzano, che nel l’inverno tra il 1705 e il 1706 aveva fatto rinforzare le opere difensive di superficie con poderose controguardie a protezione dei tre bastioni verso la campagna, e potenziato quelle sotterranee con l’estensione del già fitto reticolo di cunicoli scavati oltre un secolo prima. Le gallerie si sviluppavano su due diversi livelli, a sette e quattordici metri di profondità, collegate da una scala a tre rampe. Quelle più vicine alla superficie erano dette “capitali alte” o di mina, quelle sottostanti “capitali basse” o di contromina. Un’altra galleria chiamata “magistrale”, lunga più di due chilometri, collegava i vari rami delle “capitali alte” correndo sotto il fossato della Cittadella. Vi erano poi i cosiddetti rami di mina, stretti cunicoli che si dipartivano dalle gallerie principali e che servivano, debitamente intasati di polvere nera, a fare esplodere il piano di campagna verso l’alto aprendo crateri che inghiottivano soldati e cannoni nemici.
La nascita del mito
A partire dagli ultimi anni del Settecento la figura di Pietro Micca, prima sottovalutata se non addirittura derisa per il sospetto mai del tutto sopito - nemmeno in tempi recenti – che si fosse fatto saltare in aria più per sbadataggine che per ardore patriottico, comincia a delinearsi sempre più come quella di un eroe popolare. Una vera e propria novità, in quanto fino a quel momento gli “eroi” erano sempre stati Duchi e Principi o comunque capi militari di estrazione aristocratica.
Il primo ritratto in chiave esemplare, significativamente affiancato a quello di un alto ufficiale come il principe Eugenio, risale al 1781 ed è pubblicato a Torino nella collana dei “Piemontesi illustri”. “L’ignobile” saglianese è qui posto nel novero delle personalità di spicco, per la gran parte nobili, che hanno maggiormente dato gloria alla dinastia sabauda.
L’Ottocento avrebbe poi esaltato il martirio di Pietro Micca come atto estremo in difesa della Patria, intesa ormai non più come il solo Piemonte, ma come l’intera penisola in vista dell’unificazione.
L’iconografia creata nei decenni centrali del secolo, a partire dalla storia d’Italia del Botta, alimenta svariate interpretazioni del mito ormai consolidato. Le testimonianze si possono ricavare dalla storiografia, dalla letteratura per l’infanzia, dalla bibliografia scolastica, dai testi teatrali e, agli albori del Novecento, anche dalla cinematografia.
Da umile abituro a crocevia della storia
La casa natale di Pietro Micca, umile abituro del gran minatore, diventa così meta di pellegrinaggi da parte di personalità politiche e della gente comune. Un vero crocevia della storia in cui si incontrano idealmente personaggi più e meno celebri.
La modesta abitazione, composta di due sole stanze sovrapposte collegate da una scala esterna in legno, sorge lungo l’antica via maestra, oggi via Roma, al numero 8, all’interno di un piccolo cortile. Nel muro di fronte, costruito nell’Ottocento e sormontato dai busti in terracotta di Micca e Cavour, nel corso dei decenni sono state poste alcune lapidi a ricordare il passaggio di illustri visitatori.
I primi a lasciare una testimonianza con una lastra in marmo scolpita appositamente, sono alcuni ufficiali della colonna mobile Modenese in “sosta” a Biella nel fatidico 1848 durate la tregua della prima guerra d’indipendenza; Tra di loro spicca il garibaldino fermano Candido Augusto Vecchi, ospite della famiglia di Quintino Sella e probabile ispiratore dell’iniziativa.
Nel 1859 Giuseppe Garibaldi in persona rende omaggio alla casa del soldato saglianese. “Ecco un eroe che viene a visitare un altro eroe”, scriveranno le cronache del tempo. In partenza proprio da Biella con i suoi Cacciatori delle Alpi per le campagne lombarde della seconda guerra di indipendenza, Garibaldi detterà in questa occasione, oltre al più celebre proclama ai Lombardi, anche un breve proclama agli Andornesi e ai Biellesi, nel quale chiede alle “generose popolazioni” di accogliere la sua parola di affetto e gratitudine come «il pegno di indissolubile nodo che presto riunirà gli italiani dalla Patria di Archimede a quella di Pietro Micca». Prefigurando in tal modo la Spedizione dei Mille.
La targa che ricorda questo avvenimento è posta nel 1870 insieme a quella commemorativa della visita di Amedeo Maria di Savoia, Duca d’Aosta, avvenuta nel 1864.
Il comune di Sagliano delibera l’acquisto del piccolo stabile nel maggio del 1876 e sottoscrive il contratto di cessione due anni dopo.
Il re Umberto Primo visita la casa nel 1880, in occasione dell'inaugurazione del monumento a memoria dell'eroe eretto sulla piazza del paese.
La visita della Regina Margherita risale invece al 1906, per le celebrazioni del secondo centenario della morte del “gran minatore”. Nello stesso anno la casa è dichiarata “monumento nazionale”.
Nelle descrizioni dell’Ottocento l’umile abituro appare come una casupola “angusta e annerita dal tempo”. Oggi il sito è stato completamente rinnovato e messo in sicurezza, su iniziativa del Comune di Sagliano e grazie ai fondi di un lascito privato.
Il Museo “casa natale di Pietro Micca”, con i suoi nuovi e accattivanti allestimenti, è stato inaugurato il 27 maggio 2018.LA CASA DI PIETRO MICCA
Un giorno senza pane
«Gàute da lì. T’è pi lunch ëd na giurnà sènsa pân! Lassa fé a mi, pènsa a salvéte!». «Allontanati. Sei più lungo di una giornata senza pane! Lascia fare a me, salvati!». Le avrà dette davvero queste parole il giovane soldato minatore Pietro Micca da Sagliano, nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, rivolgendosi al commilitone con cui era di guardia alla scala di collegamento tra i due piani di gallerie della Mezzaluna del Soccorso, prima di fare esplodere la mina anzitempo e saltare in aria salvando però Torino assediata dai Francesi? Pare proprio di sì, a giudicare dalla testimonianza del suo diretto superiore, il Comandante d’Artiglieria conte Giuseppe Maria Solaro della Margherita, che le ha raccolte direttamente dal soldato, compagno d’arme di Pietro, che si è salvato.
Scrive Solaro: «il Minatore, sentendo sfondare la porta a colpi d’ascia, incitava il suo compagno a mettere l’innesco alla salsiccia» e siccome egli era più impaziente di quanto l’altro non fosse pronto lo prende per il braccio e pronuncia la famosa frase, poi «applica la miccia troppo corta all’estremità della salsiccia, l’accende; il fornello scoppia ed il pover’uomo ha meno tempo per allontanarsi di quanto gliene necessiti; sicché lo si ritrova morto a quaranta passi dalla scala che aveva disceso».
Pasapartüt alla guerra
Ma come c’era finito il ventinovenne Pasapartüt – così era soprannominato Pietro Micca per la sua abilità nello sgusciare tra anfratti e cunicoli – nelle gallerie della Cittadella di Torino, impegnato nella guerra di mina contro i Francesi? L’episodio che lo ha reso celebre, il suo sacrificio eroico ma forse non del tutto consapevole, si inserisce nel più ampio quadro della guerra di successione spagnola, conflitto che coinvolge tutta l’Europa agli inizi del diciottesimo secolo.
Alla morte di Carlo Secondo, ultimo Asburgo di Spagna, si apre una disputa dinastica tra le case regnanti europee per il controllo dei vasti possedimenti dell’impero spagnolo, che si estendevano dall’Asia Minore all’Africa, alle Americhe, e comprendevano anche, in Italia, la Sicilia, la Sardegna e parte della Lombardia. I due schieramenti contrapposti sono così suddivisi: da una parte Francesi e Spagnoli (e in un primo tempo anche i Savoiardi), che fanno capo a Filippo d’Angiò, nipote e alleato di Luigi quattordicesimo, il Re Sole, nonché erede al trono designato. A guidare l’altra fazione c’è Leopoldo Primo d’Asburgo, imperatore d’Austria, che rivendica il diritto alla successione per il suo secondogenito, l’arciduca Carlo, in quanto Asburgo. A lui si alleano Inghilterra e Olanda.
Il Duca di Savoia Vittorio Amedeo Secondo, dapprima sta con i franco-spagnoli, poi nel 1703 cambia bandiera e si schiera contro di loro, con un atto di spregiudicato opportunismo politico. Aveva il timore – non infondato - che in caso di una vittoria francese, il piccolo Stato Sabaudo avrebbe totalmente perduta la sua già precaria indipendenza.
Nel 1706 i Francesi, dopo avere conquistato tutte le altre piazzeforti piemontesi, cingono d’assedio la Cittadella di Torino con 44 mila uomini. La difesa della capitale sabauda è affidata a un numero di soldati 4 volte inferiore. I Piemontesi resistono dal 14 maggio al 7 settembre, quando finalmente giungono le tanto attese truppe del Principe Eugenio a dar manforte al Duca, l’astuta “volpe savoiarda” che, uscendo di nascosto, a metà giugno, dalla città assediata, si era fatto inseguire per le strade di tutto il Piemonte da quasi la metà delle forze assedianti. Duca e Principe affrontano e vincono in battaglia i Francesi sotto Torino, costringendoli a ritirarsi disordinatamente e a levare l’assedio.
Con la fine della guerra e il conseguente trattato di Utrecht del 1713, al Ducato di Savoia viene restituito il contado di Nizza, riconosciuta l’annessione di vari territori in Piemonte e Lombardia, ma soprattutto Amedeo Secondo riceve la Sicilia (che scambierà con la Sardegna sette anni dopo, nel 1720) e il titolo di Re per sé e i suoi successori.
«Torino fu salvo, quel giorno; perché, se non era del generoso Biellese, nissun Eugenio, né nissun Vittorio Amedeo il salvavano, e l’opera loro veniva indarno. Da lui (ovvero da Pietro Micca) la corona ducale fu conservata, e la régia posta in capo sui prìncipi di Savoja» ebbe a scrivere Carlo Botta nella sua Storia d’Italia pubblicata a Parigi nel 1832.
Le difese della Cittadella
Ma Il merito di aver reso praticamente inespugnabile la Cittadella di Torino in occasione dell’assedio va anche a un altro biellese illustre, l’ingegnere Antonio Bertola di Muzzano, che nel l’inverno tra il 1705 e il 1706 aveva fatto rinforzare le opere difensive di superficie con poderose controguardie a protezione dei tre bastioni verso la campagna, e potenziato quelle sotterranee con l’estensione del già fitto reticolo di cunicoli scavati oltre un secolo prima. Le gallerie si sviluppavano su due diversi livelli, a sette e quattordici metri di profondità, collegate da una scala a tre rampe. Quelle più vicine alla superficie erano dette “capitali alte” o di mina, quelle sottostanti “capitali basse” o di contromina. Un’altra galleria chiamata “magistrale”, lunga più di due chilometri, collegava i vari rami delle “capitali alte” correndo sotto il fossato della Cittadella. Vi erano poi i cosiddetti rami di mina, stretti cunicoli che si dipartivano dalle gallerie principali e che servivano, debitamente intasati di polvere nera, a fare esplodere il piano di campagna verso l’alto aprendo crateri che inghiottivano soldati e cannoni nemici.
La nascita del mito
A partire dagli ultimi anni del Settecento la figura di Pietro Micca, prima sottovalutata se non addirittura derisa per il sospetto mai del tutto sopito - nemmeno in tempi recenti – che si fosse fatto saltare in aria più per sbadataggine che per ardore patriottico, comincia a delinearsi sempre più come quella di un eroe popolare. Una vera e propria novità, in quanto fino a quel momento gli “eroi” erano sempre stati Duchi e Principi o comunque capi militari di estrazione aristocratica.
Il primo ritratto in chiave esemplare, significativamente affiancato a quello di un alto ufficiale come il principe Eugenio, risale al 1781 ed è pubblicato a Torino nella collana dei “Piemontesi illustri”. “L’ignobile” saglianese è qui posto nel novero delle personalità di spicco, per la gran parte nobili, che hanno maggiormente dato gloria alla dinastia sabauda.
L’Ottocento avrebbe poi esaltato il martirio di Pietro Micca come atto estremo in difesa della Patria, intesa ormai non più come il solo Piemonte, ma come l’intera penisola in vista dell’unificazione.
L’iconografia creata nei decenni centrali del secolo, a partire dalla storia d’Italia del Botta, alimenta svariate interpretazioni del mito ormai consolidato. Le testimonianze si possono ricavare dalla storiografia, dalla letteratura per l’infanzia, dalla bibliografia scolastica, dai testi teatrali e, agli albori del Novecento, anche dalla cinematografia.
Da umile abituro a crocevia della storia
La casa natale di Pietro Micca, umile abituro del gran minatore, diventa così meta di pellegrinaggi da parte di personalità politiche e della gente comune. Un vero crocevia della storia in cui si incontrano idealmente personaggi più e meno celebri.
La modesta abitazione, composta di due sole stanze sovrapposte collegate da una scala esterna in legno, sorge lungo l’antica via maestra, oggi via Roma, al numero 8, all’interno di un piccolo cortile. Nel muro di fronte, costruito nell’Ottocento e sormontato dai busti in terracotta di Micca e Cavour, nel corso dei decenni sono state poste alcune lapidi a ricordare il passaggio di illustri visitatori.
I primi a lasciare una testimonianza con una lastra in marmo scolpita appositamente, sono alcuni ufficiali della colonna mobile Modenese in “sosta” a Biella nel fatidico 1848 durate la tregua della prima guerra d’indipendenza; Tra di loro spicca il garibaldino fermano Candido Augusto Vecchi, ospite della famiglia di Quintino Sella e probabile ispiratore dell’iniziativa.
Nel 1859 Giuseppe Garibaldi in persona rende omaggio alla casa del soldato saglianese. “Ecco un eroe che viene a visitare un altro eroe”, scriveranno le cronache del tempo. In partenza proprio da Biella con i suoi Cacciatori delle Alpi per le campagne lombarde della seconda guerra di indipendenza, Garibaldi detterà in questa occasione, oltre al più celebre proclama ai Lombardi, anche un breve proclama agli Andornesi e ai Biellesi, nel quale chiede alle “generose popolazioni” di accogliere la sua parola di affetto e gratitudine come «il pegno di indissolubile nodo che presto riunirà gli italiani dalla Patria di Archimede a quella di Pietro Micca». Prefigurando in tal modo la Spedizione dei Mille.
La targa che ricorda questo avvenimento è posta nel 1870 insieme a quella commemorativa della visita di Amedeo Maria di Savoia, Duca d’Aosta, avvenuta nel 1864.
Il comune di Sagliano delibera l’acquisto del piccolo stabile nel maggio del 1876 e sottoscrive il contratto di cessione due anni dopo.
Il re Umberto Primo visita la casa nel 1880, in occasione dell'inaugurazione del monumento a memoria dell'eroe eretto sulla piazza del paese.
La visita della Regina Margherita risale invece al 1906, per le celebrazioni del secondo centenario della morte del “gran minatore”. Nello stesso anno la casa è dichiarata “monumento nazionale”.
Nelle descrizioni dell’Ottocento l’umile abituro appare come una casupola “angusta e annerita dal tempo”. Oggi il sito è stato completamente rinnovato e messo in sicurezza, su iniziativa del Comune di Sagliano e grazie ai fondi di un lascito privato.
Il Museo “casa natale di Pietro Micca”, con i suoi nuovi e accattivanti allestimenti, è stato inaugurato il 27 maggio 2018.LA CASA DI PIETRO MICCA
Un giorno senza pane
«Gàute da lì. T’è pi lunch ëd na giurnà sènsa pân! Lassa fé a mi, pènsa a salvéte!». «Allontanati. Sei più lungo di una giornata senza pane! Lascia fare a me, salvati!». Le avrà dette davvero queste parole il giovane soldato minatore Pietro Micca da Sagliano, nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, rivolgendosi al commilitone con cui era di guardia alla scala di collegamento tra i due piani di gallerie della Mezzaluna del Soccorso, prima di fare esplodere la mina anzitempo e saltare in aria salvando però Torino assediata dai Francesi? Pare proprio di sì, a giudicare dalla testimonianza del suo diretto superiore, il Comandante d’Artiglieria conte Giuseppe Maria Solaro della Margherita, che le ha raccolte direttamente dal soldato, compagno d’arme di Pietro, che si è salvato.
Scrive Solaro: «il Minatore, sentendo sfondare la porta a colpi d’ascia, incitava il suo compagno a mettere l’innesco alla salsiccia» e siccome egli era più impaziente di quanto l’altro non fosse pronto lo prende per il braccio e pronuncia la famosa frase, poi «applica la miccia troppo corta all’estremità della salsiccia, l’accende; il fornello scoppia ed il pover’uomo ha meno tempo per allontanarsi di quanto gliene necessiti; sicché lo si ritrova morto a quaranta passi dalla scala che aveva disceso».
Pasapartüt alla guerra
Ma come c’era finito il ventinovenne Pasapartüt – così era soprannominato Pietro Micca per la sua abilità nello sgusciare tra anfratti e cunicoli – nelle gallerie della Cittadella di Torino, impegnato nella guerra di mina contro i Francesi? L’episodio che lo ha reso celebre, il suo sacrificio eroico ma forse non del tutto consapevole, si inserisce nel più ampio quadro della guerra di successione spagnola, conflitto che coinvolge tutta l’Europa agli inizi del diciottesimo secolo.
Alla morte di Carlo Secondo, ultimo Asburgo di Spagna, si apre una disputa dinastica tra le case regnanti europee per il controllo dei vasti possedimenti dell’impero spagnolo, che si estendevano dall’Asia Minore all’Africa, alle Americhe, e comprendevano anche, in Italia, la Sicilia, la Sardegna e parte della Lombardia. I due schieramenti contrapposti sono così suddivisi: da una parte Francesi e Spagnoli (e in un primo tempo anche i Savoiardi), che fanno capo a Filippo d’Angiò, nipote e alleato di Luigi quattordicesimo, il Re Sole, nonché erede al trono designato. A guidare l’altra fazione c’è Leopoldo Primo d’Asburgo, imperatore d’Austria, che rivendica il diritto alla successione per il suo secondogenito, l’arciduca Carlo, in quanto Asburgo. A lui si alleano Inghilterra e Olanda.
Il Duca di Savoia Vittorio Amedeo Secondo, dapprima sta con i franco-spagnoli, poi nel 1703 cambia bandiera e si schiera contro di loro, con un atto di spregiudicato opportunismo politico. Aveva il timore – non infondato - che in caso di una vittoria francese, il piccolo Stato Sabaudo avrebbe totalmente perduta la sua già precaria indipendenza.
Nel 1706 i Francesi, dopo avere conquistato tutte le altre piazzeforti piemontesi, cingono d’assedio la Cittadella di Torino con 44 mila uomini. La difesa della capitale sabauda è affidata a un numero di soldati 4 volte inferiore. I Piemontesi resistono dal 14 maggio al 7 settembre, quando finalmente giungono le tanto attese truppe del Principe Eugenio a dar manforte al Duca, l’astuta “volpe savoiarda” che, uscendo di nascosto, a metà giugno, dalla città assediata, si era fatto inseguire per le strade di tutto il Piemonte da quasi la metà delle forze assedianti. Duca e Principe affrontano e vincono in battaglia i Francesi sotto Torino, costringendoli a ritirarsi disordinatamente e a levare l’assedio.
Con la fine della guerra e il conseguente trattato di Utrecht del 1713, al Ducato di Savoia viene restituito il contado di Nizza, riconosciuta l’annessione di vari territori in Piemonte e Lombardia, ma soprattutto Amedeo Secondo riceve la Sicilia (che scambierà con la Sardegna sette anni dopo, nel 1720) e il titolo di Re per sé e i suoi successori.
«Torino fu salvo, quel giorno; perché, se non era del generoso Biellese, nissun Eugenio, né nissun Vittorio Amedeo il salvavano, e l’opera loro veniva indarno. Da lui (ovvero da Pietro Micca) la corona ducale fu conservata, e la régia posta in capo sui prìncipi di Savoja» ebbe a scrivere Carlo Botta nella sua Storia d’Italia pubblicata a Parigi nel 1832.
Le difese della Cittadella
Ma Il merito di aver reso praticamente inespugnabile la Cittadella di Torino in occasione dell’assedio va anche a un altro biellese illustre, l’ingegnere Antonio Bertola di Muzzano, che nel l’inverno tra il 1705 e il 1706 aveva fatto rinforzare le opere difensive di superficie con poderose controguardie a protezione dei tre bastioni verso la campagna, e potenziato quelle sotterranee con l’estensione del già fitto reticolo di cunicoli scavati oltre un secolo prima. Le gallerie si sviluppavano su due diversi livelli, a sette e quattordici metri di profondità, collegate da una scala a tre rampe. Quelle più vicine alla superficie erano dette “capitali alte” o di mina, quelle sottostanti “capitali basse” o di contromina. Un’altra galleria chiamata “magistrale”, lunga più di due chilometri, collegava i vari rami delle “capitali alte” correndo sotto il fossato della Cittadella. Vi erano poi i cosiddetti rami di mina, stretti cunicoli che si dipartivano dalle gallerie principali e che servivano, debitamente intasati di polvere nera, a fare esplodere il piano di campagna verso l’alto aprendo crateri che inghiottivano soldati e cannoni nemici.
La nascita del mito
A partire dagli ultimi anni del Settecento la figura di Pietro Micca, prima sottovalutata se non addirittura derisa per il sospetto mai del tutto sopito - nemmeno in tempi recenti – che si fosse fatto saltare in aria più per sbadataggine che per ardore patriottico, comincia a delinearsi sempre più come quella di un eroe popolare. Una vera e propria novità, in quanto fino a quel momento gli “eroi” erano sempre stati Duchi e Principi o comunque capi militari di estrazione aristocratica.
Il primo ritratto in chiave esemplare, significativamente affiancato a quello di un alto ufficiale come il principe Eugenio, risale al 1781 ed è pubblicato a Torino nella collana dei “Piemontesi illustri”. “L’ignobile” saglianese è qui posto nel novero delle personalità di spicco, per la gran parte nobili, che hanno maggiormente dato gloria alla dinastia sabauda.
L’Ottocento avrebbe poi esaltato il martirio di Pietro Micca come atto estremo in difesa della Patria, intesa ormai non più come il solo Piemonte, ma come l’intera penisola in vista dell’unificazione.
L’iconografia creata nei decenni centrali del secolo, a partire dalla storia d’Italia del Botta, alimenta svariate interpretazioni del mito ormai consolidato. Le testimonianze si possono ricavare dalla storiografia, dalla letteratura per l’infanzia, dalla bibliografia scolastica, dai testi teatrali e, agli albori del Novecento, anche dalla cinematografia.
Da umile abituro a crocevia della storia
La casa natale di Pietro Micca, umile abituro del gran minatore, diventa così meta di pellegrinaggi da parte di personalità politiche e della gente comune. Un vero crocevia della storia in cui si incontrano idealmente personaggi più e meno celebri.
La modesta abitazione, composta di due sole stanze sovrapposte collegate da una scala esterna in legno, sorge lungo l’antica via maestra, oggi via Roma, al numero 8, all’interno di un piccolo cortile. Nel muro di fronte, costruito nell’Ottocento e sormontato dai busti in terracotta di Micca e Cavour, nel corso dei decenni sono state poste alcune lapidi a ricordare il passaggio di illustri visitatori.
I primi a lasciare una testimonianza con una lastra in marmo scolpita appositamente, sono alcuni ufficiali della colonna mobile Modenese in “sosta” a Biella nel fatidico 1848 durate la tregua della prima guerra d’indipendenza; Tra di loro spicca il garibaldino fermano Candido Augusto Vecchi, ospite della famiglia di Quintino Sella e probabile ispiratore dell’iniziativa.
Nel 1859 Giuseppe Garibaldi in persona rende omaggio alla casa del soldato saglianese. “Ecco un eroe che viene a visitare un altro eroe”, scriveranno le cronache del tempo. In partenza proprio da Biella con i suoi Cacciatori delle Alpi per le campagne lombarde della seconda guerra di indipendenza, Garibaldi detterà in questa occasione, oltre al più celebre proclama ai Lombardi, anche un breve proclama agli Andornesi e ai Biellesi, nel quale chiede alle “generose popolazioni” di accogliere la sua parola di affetto e gratitudine come «il pegno di indissolubile nodo che presto riunirà gli italiani dalla Patria di Archimede a quella di Pietro Micca». Prefigurando in tal modo la Spedizione dei Mille.
La targa che ricorda questo avvenimento è posta nel 1870 insieme a quella commemorativa della visita di Amedeo Maria di Savoia, Duca d’Aosta, avvenuta nel 1864.
Il comune di Sagliano delibera l’acquisto del piccolo stabile nel maggio del 1876 e sottoscrive il contratto di cessione due anni dopo.
Il re Umberto Primo visita la casa nel 1880, in occasione dell'inaugurazione del monumento a memoria dell'eroe eretto sulla piazza del paese.
La visita della Regina Margherita risale invece al 1906, per le celebrazioni del secondo centenario della morte del “gran minatore”. Nello stesso anno la casa è dichiarata “monumento nazionale”.
Nelle descrizioni dell’Ottocento l’umile abituro appare come una casupola “angusta e annerita dal tempo”. Oggi il sito è stato completamente rinnovato e messo in sicurezza, su iniziativa del Comune di Sagliano e grazie ai fondi di un lascito privato.
Il Museo “casa natale di Pietro Micca”, con i suoi nuovi e accattivanti allestimenti, è stato inaugurato il 27 maggio 2018.
 
115 giorni!
Tanto durò, nell’estate del 1706, l'assedio posto dalle truppe del re di Francia Luigi XIV alla Cittadella di Torino, nel quadro di quella che fu l’appendice italiana della cosiddetta Guerra di Successione spagnola.
Il Re Sole se l'era molto presa col suo lontano cugino, il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, quando quest'ultimo aveva deciso di schierarsi contro di lui, al fianco degli Austriaci, perché l'imperatore Leopoldo I d'Asburgo gli aveva promesso, in cambio di quell'alleanza, la concessione dell'ambitissimo Marchesato del Monferrato.
Così il 14 maggio di quell'anno oltre 40.000 uomini al comando dei duchi Filippo II d'Orleans e De la Feuillade cinsero d'assedio Torino e la sua cittadella, una fortezza eretta circa 150 anni prima dal duca Emanuele Filiberto (uno che di armi s’intendeva!) con grande acume ed accorgimenti ingegneristici d'avanguardia, tali da renderla fra le più inespugnabili d’Europa.
Infatti il suo cisternone centrale, attingendo direttamente dalla falda freatica, assicurava riserve idriche illimitate; i viveri provenivano direttamente dai numerosi orti interni oppure via fiume, da Porta Po; la costruzione di un ampio spalto attorno alla roccaforte permetteva ai fucilieri di tirare quasi indisturbati; ma soprattutto un esteso ed intricato sistema di gallerie e cunicoli sotterranei di contromina consentiva agli assediati rapide e micidiali incursioni esterne, oltre che il piazzamento di mine sotto i piedi degli ignari Francesi.
Tutto questo però forse non sarebbe bastato, se non ci fosse stato l’eroico sacrificio dell'artificiere torinese Pietro Micca, che nella notte fra il 29 ed il 30 agosto perse la vita nell’esplosione generata dallo scoppio di alcuni barilotti di polvere da sparo, da lui stesso provocato con l’accensione di una corta miccia, per bloccare un'incursione nemica nei cunicoli presso i quali si trovava di guardia.
Prima di mettere in atto il suo gesto però fece allontanare, salvandogli la vita, il suo compagno di guardia dicendogli in dialetto torinese: “Alzati tu, che sei più lungo di una giornata senza pane”.
Col suo coraggio, Pietro Micca ottenne un doppio risultato: quello di rincuorare gli assediati, ma soprattutto far guadagnare loro tempo prezioso, permettendo ai "nostri" di venire in soccorso.
Si attendeva infatti con impazienza l’arrivo dell'esercito sabaudo, comandato dal duca Vittorio Amedeo II in persona, col decisivo supporto però di un folto contingente di soldati asburgici agli ordini del mitico “Prinz Eugen”, cioè Eugenio di Savoia-Carignano, cugino di Vittorio Amedeo ed uno dei migliori condottieri militari di tutti i tempi.
In una sorta di replica del famoso "Veni, vidi, vici" di cesarea memoria, dall'alto della collina di Superga l'infallibile “occhio” del Principe individuò il lato debole dello schieramento avversario, sentenziando: “Ces gens là, sont dejà à demi battus" ("Quei tizi laggiù sono già mezzi sconfitti!”).
E così fu, perché il 7 settembre successivo, al termine d’una battaglia eroicamente combattuta, gli alleati austro-piemontesi infersero una cocente sconfitta ai Francesi, costretti a rimpatriare alla spicciolata con perdite ingentissime di uomini e mezzi.
Grazie dunque al sacrificio di un valoroso artificiere e al talento militare di due aristocratici cugini, si poté udire quello che fu forse il primo vagito del nostro Risorgimento.
Accompagna questo scritto il “Monumento a Pietro Micca”, statua bronzea di Pietro Couturier, 1863, Torino.
(Testo di Anselmo Pagani, che consiglia una visita del torinese “Museo Civico Pietro Micca e dell’Assedio del 1706”, che consente fra l’altro ai non claustrofobici di avventurarsi in una passeggiata fra i cunicoli di contromina di quegli anni).