IL SUICIDIO DI MASSA DEGLI XSHUSA

Nel 1856 il popolo xhosa, stanziato in Sud Africa, si trovava in una situazione drammatica: oltre ad aver perso da poco una guerra contro i coloni britannici, era alle prese con la siccità e con una grave epidemia che affliggeva i bovini. Nel mezzo del caos, una ragazza orfana di nome Nongqawuse disse di aver avuto una visione in cui gli spiriti degli antenati le avevano comunicato una profezia: i defunti sarebbero tornati in vita e avrebbero portato cibo e prosperità, ma solo a patto che gli xhosa avessero sterminato il proprio bestiame e abbandonato i campi coltivati. In altre parole, Nongqawuse chiedeva di sacrificare le principali fonti di cibo per ricevere un aiuto dagli spiriti.
Alcuni pensarono che fosse una follia, ma altri le credettero spinti dalla disperazione e dal desiderio di rivalsa. Si crearono così due gruppi in conflitto tra loro: i “non credenti” che si rifiutavano di uccidere gli animali e consideravano Nongqawuse una ciarlatana, e i “credenti” che mandavano avanti l'opera di autodistruzione diffondendola rapidamente tra le varie tribù. Ovviamente, quando i defunti non tornarono in vita, i credenti diedero la colpa ai non credenti e continuarono il massacro del bestiame.
Nel corso di alcuni mesi gli xhosa eliminarono gran parte del proprio bestiame e le conseguenze furono disastrose: circa 40.000 persone morirono di stenti e 30.000 migrarono cercando lavoro presso i coloni europei. Questo tragico episodio favorì il tramonto della potenza xhosa, sempre più sottomessa al dominio britannico.