PADRE TIZIANO DONINI

Riapre una pagina dimenticata dell’ultimo scorcio del XX secolo. Fu costretto a subire un’ingiustizia per aver dato ospitalità nella cappella dell’ospedale di Cles ai senzatetto, immigrati dall’Africa a raccogliere mele. Frate Donini, che già aveva aperto il convento clesiano a tossicodipendenti ed emarginati, sarà sepolto giovedì 31 marzo nel piccolo cimitero sulla collina, sopra il convento dei francescani di via Grazioli a Trento. Dio, quanto è corta la memoria degli uomini. Per quelli di “buona volontà”, talvolta sopperisce la storia. Che è cronaca sedimentata delle sconfitte più che delle vittorie. E se è comprensibile che l’ufficio stampa della Curia arcivescovile di Trento “sorvoli” su taluni episodi che hanno segnato, in negativo, il governo episcopale dell’arcivescovo Giovanni Sartori (1988-1998), meno giustificabile è l’informazione “laica”. La quale, con il pensionamento dei “vecchi cammelli”, ha perduto gli addentellati e, forsanche, i denti. La morte a 74 anni del frate Tiziano Donini è finita tra i necrologi e le rievocazioni da scheda biografica. Citando un confratello di frate Donini, fra Pierluigi Svaldi da Bedollo, il sito web della diocesi scrive che lo scomparso “Era un libero battitore con tante iniziative, soprattutto per i poveri e per le persone emarginate di ogni tipo”. Che vuol dire tutto e non dice niente. Il resto dell’informazione a seguire: un copia-incolla del comunicato “ufficiale”. Non si racconta ai contemporanei che negli anni Novanta del secolo scorso, quando Tiziano Donini era cappellano dell’ospedale di Cles (fu in quel convento per 19 anni, dal 1978 al 1997) gli fu tolto l’incarico per un diktat dell’arcivescovo Sartori. Accusato di aver dato ospitalità per la notte, nella cappella dell’ospedale, agli immigrati di colore che erano arrivati in val di Non per la raccolta delle mele. L’accoglienza del religioso, sia pure in una struttura pubblica, era andata di traverso al decano di Cles, Cornelio Branz. Il quale era corso a Trento per sollecitare l’intervento vescovile. In verità, i frati non dipendono dall’ordinario diocesano ma dal loro ordine religioso. Sennonché frate Donini aveva un mandato pastorale come cappellano dell’ospedale e questo sì dipendeva dall’Ordinario. L’allontanamento del religioso (“soprattutto per le sue liturgie creative“, ricorda chi lo ha conosciuto bene) fu accompagnato da petizioni e firme di solidarietà, con la richiesta all’arcivescovo di rivedere la drastica decisione. Inutilmente. Così come erano risultate vane, in anni precedenti, proteste e manifestazioni pubbliche dopo il defenestramento di Vittorio Cristelli dalla direzione del settimanale della diocesi, “Vita Trentina”; di Marcello Farina privato dell’appuntamento domenicale della messa in Cattedrale; di Giuseppe Grosselli allontanato dalla “Pastorale del lavoro”; dei frati cappuccini costretti a chiudere l’eremo del castello a Piazzo di Segonzano; delle bambine impedite a far le chierichette; e via discorrendo. Quando l’arcivescovo Sartori morì, alla fine di settembre del 1998, in una clinica di Innsbruck, dopo un trapianto di fegato, Silvano Bert sintetizzò così su “Questotrentino” (10 ottobre 1998) quei dieci anni di “pontificato episcopale”: “Giovanni Maria Sartori ha rappresentato qualcosa di tragico, come ogni figura che non riconosce la storia e quindi pensa di poterla frenare, e piegare alla sua verità, con il dito dell’autorità di cui si sente investito dall’alto. […] Si è circondato di consiglieri fidati e ha emarginato quelli che, ancora presenti nella chiesa di Trento, formatisi negli anni del dopoconcilio, si lasciavano interpellare dai problemi dei tempi moderni.” Un epitaffio senza appello. E questo spiega con quanta facilità il decano Branz avesse potuto affondare il coltello nel burro chiedendo l’allontanamento del “frate di strada”, come si definiva Tiziano Donini. Del resto, era il medesimo Branz, il quale, per dimostrare il proprio disgusto alla linea editoriale del settimanale della diocesi, aveva girato l’abbonamento di “Vita Trentina” al suo cane. Un dettaglio che dice più di un trattato sulla “fraternità clericale”. Per tornare all’allontanamento del cappellano dell’ospedale di Cles, nell’autunno del 1997, il suo confratello Pierluigi Svaldi dice che quella decisione consentì a frate Donini di allargare lo sguardo. Chiesto e ottenuto dal suo Ordine un anno sabbatico, il religioso di Molveno andò in India da Madre Teresa di Calcutta; passò un periodo nella Locride dal vescovo noneso Giancarlo Bregantini; volò in Perù nella missione del vescovo francescano fiemmese, Ferruccio Ceol. Si immedesimò nelle sterminate povertà del terzo e quarto mondo, dove avrebbe voluto proseguire la sua missione. Ma Tiziano Donini era “un libero battitore”, come scrivono i necrologi ufficiali. Mica tanto libero, in verità. Perché fu costretto a tornare a Trento dove fu “di famiglia” nel convento francescano di via Grazioli fino al 2016. Gli ultimi anni li ha trascorsi nel convento di Pergine Valsugana, dove ha voluto morire, devastato da un tumore che gli era stato diagnosticato tre anni fa. In quel convento restano adesso 9 frati, tutti sopra gli 80 anni di età, tanto che il 20 marzo scorso (la contabilità dei giorni di vita di ciascuno è un esercizio che solo i frati sanno praticare) la comunità ha “festeggiato” gli 800 anni. Con i suoi 74 anni, Tiziano Donini era l’unico ancora “giovane”. Di 320 frati di origine trentina degli anni Sessanta del secolo scorso, oggi i francescani sono ridotti a una trentina. Di dodici conventi restano aperti quattro: Pergine, Arco, Mezzolombardo e Trento (infermeria e biblioteca).

 

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