Il profumo del fieno

 

-Si va a Pongèl, domani si va a Pongèl !-

Per me il prato nel fondovalle del paese, vicino al torrente, verde punteggiato di fiori dalle policromie diverse e circondato da un vasto bosco di conifere ed un fitto sottobosco di piante di nocciolo, di acacia , acero ed altre specie di flora verdeggiante , era la forma di esistenza che più mi affascinava e mi rendeva felice al sol pensiero di poterci andare.

Mio padre preparava gli attrezzi adatti allo sfalcio del fieno ancora la sera prima, batteva la falce con il martello e la “plantola“, preparava la “preda“ nel “cozzar” e si portava appresso anche una bottiglietta di aceto da aggiungere all’acqua nel “cozzar”, perché la “preda” affilasse meglio la falce.

Il tutto veniva messo nello zaino assieme alla lampada a petrolio con il serbatoio pieno di quel liquido infiammabile e puzzolente. Si preparava anche il carro dalle grandi ruote con i raggi di legno ed un grosso cerchio in ferro che li stringeva come in una morsa; si controllavano i ceppi di legno dei freni, si lubrificavano con la “ songia “ le “sil “, ovvero gli assi portanti del carro, affinché le ruote scorressero meglio. Si preparavano, inoltre, le funi il pelle ben ripiegate sulla “spora“, le grandi lenzuola di iuta ove veniva raccolto il fieno essiccato e si dava un'occhiata a tutto l’ occorrente per

tacjar sot” le mucche.

La notte non riuscivo a prendere sonno per l’ emozione che mi aspettava il giorno dopo, che non era solo quella del fascino che suscitava in me quella località, ma c’era anche altro di molto più interessante...

Si partiva alle tre del mattino con la luna di agosto che ci illuminava la via fino alla stradina che poi scende ripida verso il torrente. Quello che a me è sempre sembrato strano era il fatto che arrivati lì di notte si sentiva il rumore della roggia molto distintamente, mentre di giorno era coperto dei rumori del lavoro della gente dei campi o forse, più semplicemente, non ci si faceva caso presi da altri pensieri o discorsi.

Si scendeva veloci alla luce della lanterna a petrolio, mente lo scrosciare del torrente si faceva più vicino e l’ odore caratteristico della palude, che era molto vicina al mio prato, si insinuava nelle narici come per darci il benvenuto. Si camminava per un tratto di strada ai margini della palude dove crescevano delle piante simili a dei piccoli pini e un' erba che aveva delle foglie enormi, più grandi di un ombrello, sempre piene di lumache.

Arrivati nel prato, stormi di lucciole si alzavano nell’aria frizzante dell’alba che stava per sorgere, come un pullulare di tante lanterne cinesi sospese magicamente nel cielo ancora buio: uno spettacolo unico ed affascinante, una meraviglia della natura che ti obbligava a fermarti per un po’ ad osservare ed a meditare su questo evento.

Mio padre apriva la falce, la fissava stretta con la chiave, si avvicinava al ruscello e riempiva di acqua i “cozzar”; quindi vi versava alcune gocce di aceto che serviva per fare aderire meglio la preda al filo della falce, poi dava un'energica affilata passando rapidamente la “preda” sul filo della falce.

Se rimanevi zitto potevi sentire le voci degli abitanti del bosco vicino e del prato ai tuoi piedi, potevi sentire il cinguettare di decine di uccelli che già scorgevano l’arrivo dell’alba e migliaia di grilli , cicale e cavallette che parevano darti il benvenuto con il loro gracchiare insistente che aumentava di intensità man mano che il rosso dell’alba si faceva più intenso. La falce tagliava l’ erba con un rumore cadenzato e si poteva capire quando tagliava e quando tornava indietro per ripartire con un altro taglio; quel rumore strisciante e leggero della falce di mio padre mi faceva sempre pensare alla morte, quella dipinta sul grande gonfalone che veniva usato nei funerali e sul quale si esaltava indiscusso il trionfo di questa.

Mi venivano i brividi.

A scacciare tutti questi cupi pensieri ci pensava il sole che piano, piano faceva capolino , facendosi largo , tra i monti e le conifere e proiettando una lunga ombra sul prato che assumeva forme geometriche diverse e mutevoli man mano che questo cresceva.

In un attimo era giorno, le cicale cambiavano il tono della voce, meno triste di prima, i grilli continuavano il loro canto alla vita e gli uccellini nel bosco vicino avevano intonato un concerto degno di una grande orchestra filarmonica. Me lo chiedevo e chiedo tuttora: “Ma perché non prendiamo esempio dagli animali di qualsiasi specie, che ad ogni sorgere del sole, tutti i santi giorni, sanno capire il fascino e l’ importanza di questo evento che si ripete da sempre, ma che tutte le volte rappresenta un giorno nuovo?”.

Eppure noi ci vantiamo di essere in possesso di un'intelligenza superiore a tutte le altre specie animali che vivono sulla terra, senza riuscire ad essere umili e saggi come loro. Dio ci ha mandato perfino suo Figlio per tentare di farci capire l’ importanza di questi valori universali che ci permetterebbero una vita degna di essere vissuta , con la pace interiore e la carità verso il prossimo.

Vicino alle due grandi piante di noce c’era un masso dalle dimensioni notevoli alla cui base sgorgava, come dal nulla, un piccolo ruscello di acqua limpida e pura che si poteva bere. Il rivoletto scendeva verso il torrente come un piccolo affluente, passando sul retro del “bait”, una piccola casetta fatta tutta di tavole di legno che aveva costruito mio padre per ripararsi dalle improvvise intemperie estive o per riposarsi dopo aver pranzato ed in attesa che il sole facesse essiccare il fieno.

A fianco della piccola costruzione cresceva rigoglioso un grande abete rosso che ombreggiava tutta la zona del bait.

Sul retro della piccola casetta di legno, c’ era il posto dove venivano lasciate riposare le mucche all’ombra dell’abete vicino al ruscello dove cresceva un'erba verde e rigogliosa e si potevano dissetare nella grande pozza che avevamo predisposto affinché il rivolo d’ acqua formasse un piccolo stagno dove le bestie potessero bere. Io consideravo quel luogo come il paradiso terrestre: infatti c’ era tutto l’ occorrente per poter vivere con la quiete e la pace della natura intorno, un piccolo “eden” al quale ero molto affezionato.

Lo sfalcio dell’erba procedeva velocemente, mio padre era un lavoratore instancabile, si fermava solo per affilare la falce ed allo stesso tempo ne approfittava per dissetarsi con un bicchiere di “acarol” che altro non era che la seconda bollitura dell’uva; poi riprendeva con slancio il lavoro.

Il prato lentamente cambiava di aspetto ed i fiori e l’ erba verde che prima guardavano dritti verso il sole sul passare della grande falce cadevano al suolo inerti, tutta questa scena mi ricordava tanto le parole del Vangelo che avevo studiato con i frati e che riguardavano il mistero della morte, ma non ci volevo pensare, anzi avevo altro da fare e da pensare: il mio compito era quello di sparpagliare l’ erba in modo uniforme affinché il sole la facesse seccare in fretta. Nel lato più in alto del prato dove confinava con il fitto bosco c’ era un sentiero accanto al piccolo fosso di irrigazione che mio padre aveva scavato , partendo dal mulino di proprietà dei suoi cugini; un lavoro abusivo per poter irrigare il prato nei periodi di grande siccità.

Ed era a quel sentiero che io tenevo fisso lo sguardo e stavo attento ad ogni più piccolo rumore o al movimento improvviso della boscaglia, perché lei prima o poi doveva pur arrivare…

A metà mattina, infatti, si udiva provenire dal sentiero nel bosco le voci di due donne che chiacchieravano. Il vociare si faceva sempre più vicino, allora osservavo attento l’ uscita del sentiero fino a quando non le vedevo sbucare dal fitto dei rami. Erano Carmela una lontana parente di mio padre che veniva sempre a controllare che non si sconfinasse nella sua proprietà ed assieme portava sempre con sé la nipotina Mariapia, una ragazzina di dodici anni e quindi della mia stessa età .

Un angelo biondo che scendeva lentamente tra i fiori del prato a piedi nudi evitando di calpestare i fiori o i “ talpinari “ , con una corta gonnellina color rosso a grandi cerchi bianchi ed una maglietta di cotone bianco aderente che lasciava libere le forme di due seni ancora acerbi.

Veniva a salutarmi dopo parecchio tempo che non ci si vedeva, allora smettevo di lavorare e le davo un bacio sulle guance poi la invitavo a sedersi vicino al ruscello all’ombra delle piante di noce.

Era tutta arrossata dal torrido sole di agosto, allora la invitavo a bagnarsi prima il viso con l’ acqua fresca e poi a berne alcuni sorsi senza esagerare perché non le facesse mal di pancia.

Mio padre nel frattempo aveva smesso di lavorare e parlottava con Carmela che era una sua cugina , una donna minuscola magra con un lungo naso aquilino, un abito nero lungo fino alle caviglie ed un fazzoletto colorato alla testa. Carmela era una donna verso la quale madre natura non era stata generosa nell’attribuire il dono della conoscenza, mio padre mi diceva che era analfabeta, ma di questo non sono certo; sono invece sicuro che negli affari si sapeva destreggiare bene.

Ad essere sincero della Carmela a me interessava quasi niente, quello che mi interessava e che mi rendeva euforico a dismisura era la nipote Mariapia.

Stavamo seduti io e lei, uno accanto all’altra in silenzio come per non violentare quei momenti di grande ed innocente dolcezza. Quando stavo vicino a lei mi sentivo felice come se tutto il resto del mondo non contasse niente e non esistesse nemmeno; il solo guardarla mi dava una sensazione strana che non avevo mai provato prima con altre persone e ragazzine, una sensazione nuova di infinita tenerezza. Tentai di intavolare un discorso, ma mi sembrava di dire delle cose banali, o forse... erano davvero banali perché lei rise di gusto ed il suo viso mi sembrò ancora più bello e naturale con i lunghi capelli biondi fluenti sulle spalle: sembrava l’ immagine della primavera, della prima stagione della vita ancora tutta da crescere e maturare, ma aveva in sé quella particolare bellezza e delicatezza nei lineamenti che solo a quell’età le femmine hanno e che ti danno la sensazione che siano come un'esile statuetta di cristallo talmente bella ma tanto fragile e delicata da dover fare di tutto per proteggerla, senza mai toccarla.

La portai allora vicino allo stagno dove si abbeveravano le mucche e dove l’ acqua era limpida e ferma e nel quale lei si poteva specchiare tra i cerchi d’acqua, mentre un raggio di sole le illuminava il visetto grazioso. Rimanevo in silenzio ed osservavo affascinato quella dolce e minuta figura bionda, che si specchiava nell’acqua, poi lei con un sassolino buttato nello stagno rompeva quel momento incantato fatto di fiabe e di sogni.

Metteva poi i piedini nudi nello stagno e li teneva nell’acqua fresca per qualche minuto per ristorarli dal calore, poi li toglieva e si sdraiava al sole per asciugarli. Mi sdraiai anche io vicino a lei e piano, piano iniziammo a parlare della scuola che era appena finita, dei risultati che avevamo ottenuto nelle varie discipline e di quello che si voleva fare da grandi…

Le offrii noci e more raccolte nel bosco e la bibita di lampone che aveva preparato mia nonna e che lei gradì e tutto quello che non riusciva a mangiare lo metteva nella tasca della gonna e diceva che se lo sarebbe mangiato a casa.

Dopo poco smise di parlare e mi girai verso di lei: dormiva beata come un angioletto; allora presi un lenzuolo di iuta che serviva per metterci il fieno, lo piegai in quattro e ne ricavai una specie di materasso, lo misi bene all’ombra del grande abete, sollevai con delicatezza la ragazzina e la deposi sul letto improvvisato coprendola con un lembo del lenzuolo. Non si svegliò, ma il suo viso ebbe come un'espressione di piacere e di gratitudine.Mentre la ragazzina dormiva, mi sdraiai a fianco a lei sotto il grande abete, mi tirai giù il berretto sopra gli occhi fino a quando il cielo divenne uno spicchio e ruotando lo sguardo vedevo le cime maestose degli abeti svettare verso il cielo azzurro e più avanti le acace ed i larici e cominciai a fantasticare ripensando ai libri di avventure letti in collegio. Rivedevo i personaggi dei miei autori preferiti, Salgari., Twain, Dumas e con gli occhi ancora ingenui di fanciullo mi riconoscevo nelle loro avventure di spada e di amore. Per farle una sorpresa. ritornai nella parte di prato ancora da falciare e raccolsi dei fiori di diverso colore e forma, ritornai da lei ad intrecciai una piccola corona multicolore e profumata e la posi tra i suoi capelli in modo tale da farla sembrare proprio la principessa dei miei sogni.

Quello che più mi colpiva e mi affascinava era quel senso di attrazione che quella ragazzina esercitava su di me, non capivo cosa fosse e da cosa derivasse questo sentimento diverso che provavo nei suoi confronti, un sentimento che mi obbligava ad assecondare senza la minima discussione tutto quello che lei mi chiedeva, che se me lo avesse chiesto mio fratello o i miei cuginetti li avrei mandati tutti a quel paese… era diverso con lei, era come se lei sapesse riempire un vuoto che c’ era nella mia anima e che nessun'altra persona al mondo avrebbe saputo colmare.

 

Non capivo e nemmeno mi importava più di tanto approfondire l’ argomento, a me bastava starle bene vicino e nessuno sembrava accorgersi delle nostre attenzioni, dei nostri giochi; eravamo un mondo a parte io e lei a giocare e sognare a sognare e giocare… però quando si era allontanata nel vicino bosco mi era sembrata diversa anche perché, per fare pipì, si era abbassata nel boschetto, cosa che io non facevo mai. Avevo anche notato che sotto la maglietta di cotone bianco, aderente al corpo, spuntavano i piccoli seni ancora acerbi che lei faceva di tutto per mettere in evidenza affinché io li notassi e mi autorizzò con un gesto della mano a toccarli piano suscitando in me tanta emozione. Poi quando mi diede un bacio sulle guance... !

Si era fatto mezzogiorno quando Mariapia si svegliò, si stupì del fatto di aver potuto dormire quasi come nel letto di casa sua, ma soprattutto rimase piacevolmente sorpresa quando si specchiò nel laghetto e vide la corona di fiori che le avevo messo in testa; mi guardò e mi sorrise come per ringraziarmi, mi sentivo quasi un eroe. Nel frattempo era arrivata mia madre con il pranzo in una grande borsa di tela nera, invitammo Carmela e Mariapia a restare a pranzare con noi. Accettarono volentieri così mia madre preparò sul tavolo della baita il pranzo che era come sempre a base di polenta, ma questa volta assieme, al posto della solita poina, c’era dello spezzatino di maiale con il relativo pocio.

Mariapia mangiava avidamente mentre io continuavo ad osservarla e mangiavo svogliato, tutti se ne accorsero e non dissero nulla, ma la Carmela con la sua ingenua franchezza mi disse: – Magnes no, o ses innamorato ? - ( Mangi, o sei innamorato ? )

Dopo pranzo portai Mariapia a pescare con me sul grande sasso nel torrente dove l’ acqua forma un piccolo laghetto che noi chiamiamo “boion”, stavamo seduti uno vicino all’altro mentre io le insegnavo i primi rudimenti della pesca, da come mettere il verme nell’amo a come lasciar correre la lenza nell’acqua. La lasciai pescare fino a quando una grossa trota marmorata non abboccò all’amo, allora la aiutai a tirare su il grosso pesce guizzante che deponemmo nella cesta di vimini. La ragazzina non stava più nella pelle dalla gioia ed anche io ormai le parlavo senza inibizioni. Rimanemmo lì a pescare ancora per un bel po’ di tempo fino a quando mio padre non mi chiamò per aiutarlo ad ammucchiare il fieno ormai essiccato al caldo sole estivo; dissi a Mariapia che poteva portarsi a casa il pesce che aveva pescato e lei mi ringraziò sprizzando scintille di gioia tanto da farmi sentire quasi un uomo.

Forse il vero amore nasce così nella semplicità, dove tu devi andare a scoprire tutte le diversità, tutte quelle cose che rendono la tua amata diversa da te, un po’ alla volta, senza fretta, senza che la passione prenda il sopravvento sulla ragione e sulla dolcezza di quei momenti , senza che il tuo cercare di vedere certe differenze ti porti a scoprire anzitempo il sesso ed a fare l’ amore come una formalità , invece che un reciproco donarsi di due ragazzi innamorati che coronano in questo modo il loro sogno d’ amore.

Nel tardo pomeriggio è arrivata mia madre con il carro trainato dalle mucche per caricare il fieno ormai seccato dal torrido sole di agosto: si è fatta sera, addio Mariapia dolce fiorellino che il destino mi ha messo vicino per un attimo e che ora è un ricordo struggente che dura una vita, acerbo come il mio pensiero fanciullo, precursore ed esempio di momenti intensi e dolci che avrei provato più avanti negli anni.

 

Addio stellina bionda dalla vita breve e tormentata sei stata un sogno che è svanito all' alba come la rugiada che evapora al sole, se ci sarà uno spazio in cielo anche per me, allora ti verrò a trovare e parleremo ancora d’ amore, come allora, per sempre…

Il carro dalle grandi ruote, carico di foraggio, trainato dalle mucche ansimanti per il gran caldo, si inerpica lento per la stradina che porta al paese, ed io dietro lo seguivo adagio a piedi scalzi, con il cuore triste, mentre nell’aria stantia della sera si diffondeva , dolce, l’ odore del fieno.

 

 

 

 

Dal romanzo autobiografico I GIORNI DELLE BACCHE ACERBE

 

© Bruno Agosti