L' uccisione del maiale

 

( Cando i copava l’ porciet )

 

L ‘ alimento proteico di maggior consumo nelle campagne dei nostri paesi, era senza ombra di dubbio, la carne si maiale. Tutte le famiglie , ai miei tempi, ne possedevano almeno uno, veniva allevato per fornire la carne alle famiglie contadine .

Veniva aquistato piccolo, subito dopo lo svezzamento, dai commercianti che passavano con il camion e lo consegnavano ai clienti che lo avevano prenotato, uno di questi, si chiamava Fedrizzi, poi , dopo il consueto barattare per avere uno sconto sul prezzo, il maialino, strillante e roseo, veniva portato nella stalla, dove veniva deposto nel luogo che sarebbe stato la sua dimora per il resto dei suoi giorni, in un angolo della stalla, chiamato “ stalot “ recintato con mattoni o un inferriata, guai mettere tavole di legno perché il maiale se le sarebbe mangiate a poco a poco e sarebbe poi scappato per la stalla a razzolare tra le mucche.

Il maiale è un animale onnivoro, e veniva nutrito con gli avanzi del cibo e con patate, bietole ed altri prodotti dei campi, integrato con del mangime che si comprava a sacchi di 50 chilogrammi l’ uno,famoso era il Raggio di sole, si preparava così il pasto quotidiano facendo un miscuglio dei vari ingredienti, mescolati tra di loro in acqua calda, veniva dato due volte al giorno, la mattina e la sera. Il maialino veniva generalmente aquistato la primavera e veniva fatto ingrassare per tutto l’ anno fino all’ inverno successivo, quando , nei mesi tra novembre e febbraio, mesi invernali e quindi freddi ed adatti alla lavorazione ed alla conservazione della carne che sarebbe servita poi, per l’ intero anno.

Conosco nei dettagli, tutto il procedimento della macellazione e della lavorazione del maiale, in quanto, mio padre, nei mesi invernali si dedicava a questo lavoro per se e per la gente del paese che lo chiamava a macellare e lavorare la carne suina.

Conservo ancora gran parte degli attrezzi che servivano alla macellazione ed alla conseguente lavorazione della carne, come numerosi coltelli di varie dimensioni con il contenitore in cuoio, l’ “ cialin “ un pezze di acciaio magnetico che serviva per affilare i coltelli, la “ macchina da far su le lujangie “ che è un tritacarne con una vite senza fine che spingeva la carne nei budelli che diventavano lucaniche saporite.

La “ panara “ che era una cassa, molto simile ad una barca, con il fondo piatto e le pareti svasate che serviva per l’ uccisione del maiale se veniva utilizzata con il fondo rivolto in alto, o per la successiva pulitura del maiale morto ed allora veniva usata come una vasca da bagno.

Il maialino, intanto, cresceva, nutrito amorevolmente dalle donne di casa, che badavano anche alla sua pulizia ed alla pulizia dello “ stalot “ e del posto fatto in tavole di legno dove dormiva che doveva essere asciutto perché non prendesse i reumatismi.

Passava l’ estate e l’ autunno, ed arrivava l’ inverno, ed il maiale era così diventato bello grasso e paffuto ed arrivava a pesare tra i 90 ed i 120 chili, a seconda se

l’ ova fat ben o no “ , così, si sceglieva una data per la sua uccisione, in base alla luna ed alla disponibilità del macellaio, e la fine del maiale era segnata.

L’ uccisione del maiale era un rito che veniva preparato nei minimi particolari : bisognava chiedere l’ aiuto di almeno quattro o cinque uomini robusti che avevano il compito di tenere fermo il maiale, bisognava preparare una notevole quantità di acqua calda degli stracci puliti, un paiolo o un secchio per il sangue.

Tutti, allora, avevano un locale con due anelli metallici ancorati al soffitto che servivano per appendere il maiale, sventrarlo e togliere le interiora, e per poi lasciarlo frollare per almeno 24 ore.

Tutti gli altri attrezzi venivano portati dal macellaio.

Mi pare che ci sia tutto l’ occorrente e si possa iniziare…

Non vorrei, qui, essere accusato di sadismo o di violenza verso gli animali, se racconto, nei dettagli la morte di un animale, mi limito solo a fare una cronaca dettagliata, ed invito chi è particolarmente sensibile,

 

ad interrompere qui la lettura!

 

L’ uccisione, veniva sempre programmata per il mattino presto, all’ ora di quando la gente aveva terminato i lavori nelle stalle ed aveva portato il latte “ al ciasel” , all’ ora convenuta, gli uomini si radunavano nel luogo stabilito e per prendere coraggio bevevano tutti un grappino anche perché era sempre freddo, facevano qualche considerazione sul maiale da uccidere, ad esempio se fosse con poco lardo e lo si deduceva chiedendo il tipo di alimentazione che gli era stato dato, e stimando ad occhio il peso del suino.

Veniva, quindi, preparata la “ panara “ con il fondo rivolto in alto dove poi veniva adagiato il maiale, il macellaio, nel frattempo, preparava i suoi attrezzi, un coltello della lunghezza di circa 20 centimetri, che veniva affilato con alcune passate di “ cialin “ fino a tagliare come un rasoio, un pezzo di cordicella di circa due metri, veniva poi richiesta la presenza di una persona con un paiolo per prendere il sangue, generalmente era un ragazzo o una donna di casa.

Tutto era pronto, veniva allora aperta la porticina dello

stalot “ ed il maiale veniva fatto uscire, con la complicità di una bietola che gli veniva fatta rosicchiare mentre veniva indotto alla “ panara “ con qualche grugnito, lì giunto, ad attenderlo c’ erano gli uomini robusti che lo facevano girare nella direzione del macellaio, spingendolo piano piano,, appena raggiunta la direzione giusta, ad un cenno gli uomini , tutto d’ un colpo afferravano il maiale per le zampe e lo adagiavano di forza sulla “ panara” , allora cominciava a strillare a perdifiato che lo si sentiva per tutto l’ isolato, e la gente commentava : “ i copa l’ porciet “ .

Veniva tenuto giù di forza, mentre il macellaio con una mossa rapida gli girava attorno al muso la cordicella per evitare di essere morso, poi , tirava indietro la testa del maiale per mettere in evidenza la gola, tastava con le dita per cercare il punto giusto dove colpire, appena sopra la punta di petto, invitava con un cenno la donna con il paiolo ad avvicinarsi, poi, con un gesto rapido, piantava il coltello nella gola dell’ animale, facendolo penetrare con un inclinazione diretta verso il cuore, fino al manico, recidendo di netto le arterie giugulari. Appena estratto il coltello, ne seguiva un flotto di sangue violento ed abbondante, che determinava la morte in pochissimo tempo, il sangue veniva raccolto dalla donna, nel paiolo, veniva poi mescolato per non farlo rapprendere, fino a quando era freddo, per poi farne i “ brusti “ o sanguinacci, i francesi li chiamano buden noire.

Questo tipo di macellazione mediante sgozzamento, detta anche macellazione araba, sembra , a prima vista , una forma barbara e crudele per uccidere un animale, ma , secondo me, è invece il modo più rapido ed indolore di uccidere un animale, ho visto dei video sulle moderna macellazione industriale, da far rabbrividire per i metodi barbari adottati, animali storditi con la corrente o con i mortaretti, lasciati appesi per molto tempo, fino a rianimarsi, prima di essere sgozzati in modo sommario lasciati sanguinare, agonizzanti per molto tempo, in barba alle leggi vigenti.

 

C’ era un detto molto in uso tra noi ragazzini, un modo per esprimere e quantificare la gioia di quel giorno, un giorno durante la lezione di religione, il parroco chiese ad un alunno quale fosse stato per lui il giorno più bello della sua vita e il ragazzino rispose : - camdo i copa l’ porciet ! “ – ( quando uccidono il maiale ).

Erano infatti i giorni in cui finalmente si poteva mangiare della carne a sazietà, iniziava allora la lavorazione della carne per la sua stagionatura e conservazione per l’ anno in corso fino al prossimo maiale. Della lavorazione della carne del maiale, io ne posso parlare ampiamente e dettagliatamente in quanto mio padre era un esperto in questa arte.

Dopo essere stato messo a frollare per 24 ore, il maiale veniva sezionato in parti che poi erano destinate a diverse forme di prodotto finito, mio padre era molto abile in questa operazione di selezione iniziale.

Si passava poi al disossamento della carne che veniva messa in grossi pezzi in contenitori o secchi di legno, separata per le varie destinazioni finali.

Così venivano separate le parti che poi sarebbero divenute la coppa, lo speck e la pancetta dal resto che poi veniva macinato per ricavarne delle lucanicha, cotechino e mortandela.

I tagli destinati a diventare pancetta o coppa, venivano posti in salamoia in una cassa di legno con gli aromi , le spezie e la giusta quantità di sale che era il conservante naturale che doveva essere calibrato in modo corretto per avere una giusta gradazione al palato. Il tutto poi veniva lasciato macerare per otto giorni prima di passare alla fase della lavorazione finale e dell’ affumicazione.

Il grasso del maiale veniva anch’ esso separato e poi veniva fuso dalle massaie di casa in grossi pentoloni fino alla sua liquefazione totale, veniva vano aggiunte delle cipolle e dei chiodi di garofano per aromatizzarlo e poi veniva riposto in grossi vasi di terracotta o di vetro dove si raffreddava lentamente poi si chiudevano ermeticamente e così si conservavano per l’ intero anno ed anche di più.

Ai miei tempi non c’ erano i frigoriferi ed i congelatori e tutto si doveva conservare in modo naturale o con l’ ausilio del cloruro di sodio.

Era arrivato il momento degli insaccati, “ le lujangie “ per dirla in italiano le lucaniche, il compito di macinare la carne era affidata alla vecchia macchina per il macinato “ Alexanderwer “ fatta funzionare a forza di braccia, la macchina veniva fissata al bancone da lavoro con dei morsetti in metallo e noi ragazzini si faceva a turno ad azionare la manovella che faceva funzionare una vite senza fine che spingeva i pezzi di carne verso le lame che la tritavano e la facevano uscire dai forellini al termine dell’ apparecchio.

Si formavano delle piccole montagne di preziosa carne che aveva man mano depositata in una piccola “ panara “ di legno in attesa di venire poi speziata ed aromatizzata. Alla fine veniva pesata per poter calcolare la giusta percentuale di aromi ma soprattutto di sale che veniva aggiunto al macinato, seguiva poi l’ operazione di impasto che durava una mezzoretta affinché il sale e gli aromi penetrassero nella carne.

Man mano che questa operazione proseguiva, il locale si riempiva di un intenso profumo che proveniva dalla carne che assorbiva gli aromi, un profumo che solo quelle persone che hanno assistito o ci hanno lavorato riesce a riconoscere e ricordare per sempre.

Era un profumo intenso e ricco di quei sapori d’ oriente che riempiva il cuore e la mente di rinnovata fiducia in un nuovo anno di prosperità ed abbondanza, che ti dava un senso di sicurezza e di orgoglio per il tanto lavoro svolto per arrivare fino qui, con un doveroso e grato pensiero al povero maiale che era stato sacrificato per sfamare la famiglia che lo aveva allevato con tanta dedizione ed amore.

A volte mi chiedo : ma è giusto tutto questo ? -

Non lo so, e forse è meglio non approfondire troppo questo dilemma…

Alla fine dell’ opera di impasto si passava all’ insacco della carne miscelata che era divenuta un impasto omogeneo ed appiccicoso, alla macchina venivano tolte le lame e veniva applicato un imbuto dal lungo becco nel quale veniva infilato un budello ( un intestino di bue ) l’ unica cosa che si aquistava unitamente allo spago sottile e resistente che serviva per legare le lucaniche. Il budello lo si comprava alla cooperativa ed era venduto a metro, era già pulito e sotto sale per la conservazione, le donne lo mettevano in ammollo la sera prima in acqua tiepida ed in giorno dopo era pronto per l’ uso.

Una volta applicato nel becco del imbuto, mi sia consentito un paragone che rende bene l’ idea, come un lunghissimo profilattico, veniva poi legato all’ estremità ed iniziava l’ operazione lucaniche fresche.

Il budello si riempiva lentamente dell’ impasto di carne che veniva spinto dalla vite senza fine della macchina ed il budello si gonfiava e si ingrossava e si allungava arrotolandosi sul grande tavolo.

Inutile dire quali e quanti erano i commenti erotici e le allusioni ad un certo organo maschile, tante, piccanti e sibilline… ma era un momento di grande gioia ed allegria e tutto per un attimo era consentito, alla fine quando finiva il corruscare dei coltelli ed il pericolo di ferirsi era finito, era un continuo riempire di bicchieri, mentre mio padre legava le lucaniche con lo spago dando a tutte la stessa lunghezza, ne dava poi alcune a mia madre che le faceva cuocere nell’ acqua ed al termine la portava tagliate a grandi pezzi su un vassoio ed era il primo assaggio delle lucaniche fresche di quell’ anno, tutti mangiavamo avidamente ed i bicchieri di groppello non si contavano più…

Si finiva sempre con un coro improvvisato di qualche canto di montagna, mio padre era un ottimo cantore.

A questa festa si rendevano partecipi anche i parenti più stretti ed a loro erano riservate dell’ lucaniche di formato ridotto, così dette “ DEI PARENTI…”

Del maiale non andava buttato nulla, solo le ossa, i denti e le unghie, tutto il resto veniva usato per lì alimentazione o per altri usi, ad esempio il grasso scarto e non commestibile “ la songia “ veniva usata per ungere il cuoio delle scarpe, le setole del dorso venivano date ai calzolai che le usavano come ottimo spago per cucire le scarpe, con il sangue si facevano i “brusti “ o sanguinaccio che era un salame fatto con il sangue e vari tipi di frutta secca ed aromi naturali di erbe, molto buono, in Belgio lo si produce ancora ed è veramente una squisitezza.