La morte di Erwin

 

PREMESSA

 

 

 

Per loro, la guerra cominciò prima. I centomila soldati trentini e giuliani che indossarono la «montura», la divisa austroungarica, la partenza per il fronte arrivò un anno in anticipo, nell'agosto del 1914. Meta: la Galizia, frontiera orientale tra l'Austria-Ungheria e l'impero dei Romanov, oggi compresa tra Polonia e Ucraina. Lasciarono la casa in terra asburgica, vi tornarono che erano italiani, a guerra finita e, alcuni, dopo anni di prigionia in Siberia. Ma non furono accolti a braccia aperte da un Paese che non intendeva (furono diffuse precise informative) commemorare gesta e caduti di ex nemici.

 

È poco conosciuta la storia degli italiani delle terre irredente (annesse proprio con la prima guerra mondiale), sudditi dell'Austria-Ungheria e arruolati sotto la bandiera giallonera, per i quali la Galizia fu il Carso dei soldati in grigioverde. Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli, 2014) il volume di Paolo Rumiz, editorialista di Repubblica, che stasera sarà a Sommacampagna, muove proprio dai desiderio-dovere di ricordare questa storia non narrata: le vicende degli italiani dell'esercito asburgico che mossero verso il fronte russo quando ancora ci si illudeva che il conflitto sarebbe finito «prima che le foglie cadano». Non fu così. Ma la pandemia belligerante si espanse in tutta Europa consolidando un'epopea su luoghi simbolo dalla Marna a Verdun, per il fronte occidentale, e (dal 1915) dal Carso al Piave, dagli altipiani vicentini alla Vallarsa, sul fronte italiano. Quello orientale, schiacciato dalla gloria di questi nomi e chiuso dallo scoppio della rivoluzione d'ottobre (nel 1917, deposti i Romanov, la Russia si ritirò dal conflitto), scivolò nell'oblio.

Rumiz parte da qui. Dal non voler negare spessore monumentale alla memoria di chi soffrì, come gli altri soldati, il «gelo di inverni senza riparo», col «terrore del galoppo dei cosacchi e delle armate dello zar». «Alla notte di morti manca una cosa», scrive. «Mancano i triestini, gli istriani e gli altri figli delle terre conquistate dall'Italia. Non i Battisti, i Filzi, gli Slataper o i Sauro celebrati con piazze, monumenti, strade, scuole e rifugi alpini. Non loro, gli arditi che hanno scelto di combattere col Tricolore: ma gli altri, cento volte più numerosi, coloro che, prima che essere ribattezzati «italianissimi» sono stati «nemici». I nostri vecchi andati in guerra, "für Kaiser und Vaterland", che non cantano Il testamento del capitano, ma marcette della Stiria.

Apre il volume, e il percorso di rimozione dell'oblio, una foto. È quella del nonno del giornalista triestino: Ferruccio Pitacco, in «montura», a Lublino (oggi in Polonia), nel 1916, dove combatté contro un reggimento di circassi, abili lanciatori di coltello, e dove gli ufficiali tedeschi storpiavano il suo nome in Pittàco: «Ma lui non tentava di correggerli, perché con un fratello irredentista era meglio far finta di niente».

«Solo i trentini e i triestini, con i goriziani, gli istriani e i dalmati, sono morti così lontano da casa. Italiani "sbagliati", nati sotto l'Austria Ungheria». Così Rumiz «va dai centomila». Riesuma la loro storia che va narrata non con discorsi sotto l'alzabandiera, ma andando sui luoghi per percepire là ciò che è stato: «Non ne possono più, i Centomila, di stare schierati sull'attenti. Vogliono dormire. Maledicono i custodi dei sacelli, i ruffiani e imboscati che vengono qui a tenere discorsi (a Redipuglia, ndr), gli stessi arroganti, ruffiani e imboscati che hanno consentito Caporetto e oggi affondano l'Italia. Vorrebbero tornare alla pace della terra, in piccoli cimiteri, simili a quelli dei Vinti, esonerati dall'obbligo della retorica».

E di questo esercito senza lapidi e monumenti (dei quali canta anche l'accorata ballata popolare Monti Scarpazi) recupera la memoria il Trentino. Alle gallerie di Piedicastello è aperta la mostra, a cura di Quinto Antonelli, «I Trentini nella guerra europea 1914- 1920», della fondazione Museo storico del Trentino. Il percorso, tra fotografie, cartoline illustrate, disegni conservati nei diari personali o di pittori, manoscritti, oggetti, dispiega la grande mappa multinazionale e plurilingue dei territori varcati dai trentini: dall'Italia alla Boemia, dalla Galizia alla Siberia, persino la Cina, toccata dai prigionieri sulla via del rientro. Fuorusciti, profughi, internati, combattenti per gli austriaci o volontari nell'esercito italiano, il loro campo di battaglia ebbe un vastissimo scenario, delimitato per molti dalla lunga prigionia in terra «bolscevica», della quale parlano diari e poesie, fotografie e disegni, quadri, cartoline e oggetti che là i prigionieri collezionarono.

 

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Un anziana signora mia compaesana mi ha raccontato le vicende belliche di suo padre combattente dell’ Impero Austro – Ungarico nella grande guerra. Tra i suoi ricordi spicca la figura coraggiosa del soldato CONTER Daniele ( dei Paoli ) di Scanna di LIVO e la sua eroica morte sul fronte russo.

Da questo episodio ho tratto spunto per questo racconto.

 

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LA MORTE DI ERWIN

 

 

Erwin se ne stava rannicchiato nella trincea fangosa assieme agli altri soldati in attesa dell’ ordine di un nuovo ennesimo attacco alla trincea russa che distava poche centinaia di metri da quella austriaca. Erano ore che le artiglierie pesanti vomitavano fuoco sulle trincee del nemico che a sua volta rispondeva con il fuoco di interdizione nella terra di nessuno e verso la prima linea dove era finito anche Erwin.

Nessuno dei soldati parlava, se ne stavano tutti in silenzio rannicchiati al suolo in attesa degli eventi con il cuore in gola, c’ era chi pregava con un libricino in mano, chi scriveva velocemente una lettera alla mamma, alla moglie o alla fidanzata, parole dolci, struggenti che solo chi è molto vicino alla morte e non ha più nulla da perdere riesce a trovare, pensando che magari poteva essere l’ ultima volta, c’ era chi fumava nervosamente un sigaro aspirando lentamente il fumo denso di nicotina come per lasciarsi inebriare da quella sostanza e prendere coraggio,

c’ era chi beveva dalla fiaschetta della grappa, a piccoli sorsi, per sentirsi alla fine come un leone che non teme nemici e poter morire meglio, magari in una vampata di gloria, come incitava la propaganda bellica.

Erwin aveva tirato fuori dal taschino del giubbotto il fazzolettino bianco con ricamati con il filo rosso i nomi di tutti i suoi famigliari che gli aveva regalato Monika al momento della sua partenza da casa, c’ era pure il nome di Erik il suo futuro cognato, che la sorella non poteva tralasciare.

Lo apri lentamente e se lo mise vicino al cuore pregando in silenzio con gli occhi al cielo.

Era una bella giornata limpida ed alle spalle della trincea il sole stava per sorgere come tutte le mattine ad illuminare un'altra carneficina che la mente diabolica del uomo aveva programmato con tanta dovizia di macabri particolari, Erwin sapeva infatti, che il momento dell’ attacco era quando il sole basso dell’ autunno russo sarebbe arrivato alle trincee nemiche accecando loro gli occhi ed impedendo così al nemico di avere una mira precisa ed efficace.

Come in un rituale mitologico, come in un sogno che finisce in un alba rosseggiante di luce Wagneriana per lasciare libero sfogo agli incubi dei soldati in attesa di passare all’ attacco per avere all’ alba una morte gloriosa, le artiglierie intensificarono il tiro, il fronte si infiammò di luci e frastuoni di ogni genere, il sibilo sordo dei proiettili, le esplosione violentissime con i cirri di fumo multicolore dagli effetti devastanti, aprivano voragini nel terreno e sradicavano i reticolati delle trincee aprendo così il varco agli attaccanti.

Arrivò l’ ordine, quasi liberatorio, di innestare la baionetta alla canna del fucile e prepararsi all’ assalto. L’ intera trincea si animò e si illuminò dei lampi scintillanti delle baionette puntate al cielo quasi a voler sfidare un regno senza esercito dove impera solo la pace eterna.

Erwin ripiegò con delicatezza il fazzolettino, lo baciò come una reliquia e lo ripose nel taschino che richiuse con cura.

Si allacciò il sottogola del pesante elmetto dopo averlo sporcato per bene di fango, si girò per urinare verso le spalle della trincea ed il sole illuminò il suo giovane viso ed i suoi capelli biondi, guardò con infinita malinconia quella monotona distesa pianeggiante, in quel momento il suo pensiero volò per un attimo alle sue amate montagne, ai verdi pascoli del sud Tirolo, alla sua casetta umile ma accogliente, al piccolo gregge di Monika, a Sissi… ed odiò per un istante la guerra e questa Patria che gli aveva tolto il meglio della sua giovinezza e lo aveva mandato a combattere in una terra tanto lontana un nemico che non gli aveva fatto niente di male ed una guerra che non capiva, ma perché tutto questo ?

Gli parve allora di udire la voce del vecchio padre che gli sussurrava le ultime parole dette prima di partire : Giusta o ingiusta questa è la nostra Patria !

Con una manata sulla spalla, l’ amico Hans lo distolse da tutti questi pensieri disfattisti e lo riportò alla realtà più tragica e cruda del momento: andiamo Erwin e buona fortuna ! gli sussurrò a denti stretti il camerata, mentre con il fucile stretto in mano si diresse determinato verso il ciglio della trincea pronto a scattare all’ attacco non appena fosse squillata la tromba, Erwin lo seguì senza indugio. Arrivati a ridosso del ciglio i due si rinnovarono il vecchio patto con una energica stretta di mano, e tenendosi le mani strette, al unisono ripeterono il patto a voce alta e puntando il dito verso la terra di nessuno proclamarono : Se rimango lì tu vieni a prendermi ! , poi si abbracciarono stretti.

 

Erwin tolse dalla sacca due bombe a mano e se le infilò nella cintura, mise il colpo in canna al fucile, sorseggiò un dito di grappa dalla fiasca e rimase lì fermo ad aspettare che finalmente squillasse la tromba che ordinava l’ assalto.

Il sole si era già ripreso tutta la terra di nessuno ed avanzava rapido verso la prima linea russa, quanto gira veloce la terra, pensò Erwin, in quell’ istante la tromba iniziò a squillare seguita da un ordine imperioso : Heraus, Heraus ! , ( fuori, fuori ! )

A piccoli gruppi che si susseguivano uno dopo l’ altro, i soldati si lanciarono all’ attacco correndo verso la trincea nemica con il sole alle spalle che proiettava delle lunghe ombre sul terreno e deformando le sagome dei soldati fino a farle apparire dei veri e propri giganti che vanno a schiacciare il nemico, proprio come li raffiguravano i manifesti di propaganda della guerra.

Iniziò subito furioso il fuoco dei russi che sparavano con tutte le loro armi verso gli attaccanti, subito il fronte divenne un girone infernale di esplosioni spari di fucileria e raffiche ininterrotte di mitragliatrice. I soldati avanzavano strisciando per terra per poi alzarsi e correre chini per una decina di metri, qualcuno non si rialzava più e rimaneva immobile sul terreno, i feriti che avevano la forza di alzarsi tentavano di tornare verso la propria linea, ma la maggior parte di loro diveniva un facile bersaglio per i tiratori scelti russi e cadevano definitivamente. Anche tra i soldati russi che difendevano la loro postazione, le cose non andavano meglio, gli “ scrhappnel ” austriaci esplodevano sulle loro teste facendo scempio di giovani vite. Un inferno dantesco per prendere un piccolo lembo di terra al nemico e poi riperderlo il giorno dopo, e così per giorni e giorni con un continuo pesante stillicidio di vite ancora con il sole della primavera sul viso.

Strisciando tra le esplosioni ed il fuoco delle armi automatiche, Erwin era arrivato a pochi metri dal filo spinato, tolse dalla cintola le due bombe a mane e le depose a terra davanti a lui, ne prese una, svitò il coperchio del manico e tolse la sicura, aspettò il momento propizio per lanciarla all’ interno della trincea dove era operante un nido di mitragliatrici che falciavano inesorabilmente i suoi compagni all’ attacco.

Attese che il fumo denso di una granata esplosa a poca distanza gli facesse da cortina fumogena, si alzò in piedi e lanciò la bomba che esplose dentro la trincea, si distese nuovamente a terra tolse la sicura all’ altra bomba e lanciò anche quella, il fuoco della mitraglia cessò di colpo ed i fanti austriaci entrarono nella trincea all’ arma bianca, urlando ed ammazzando a fucilate ed a colpi di baionetta i superstiti della bomba, mentre gli altri militari russi, vistisi circondati si arresero alzando le mani al cielo e lasciando cadere le armi a terra.

Erwin riprese il fucile e si alzò in piedi, fece alcuni passi verso la trincea appena espugnata mentre attorno ferveva cruenta la battaglia, si fermò un momento, tolse il fazzolettino dal taschino e lo baciò girando lo sguardo verso il sole ormai alto nel cielo : anche questa la racconterò a Monik… ta - pum, il cecchino appollaiato su un grande albero poco lontano lo aveva centrato dritto al cuore, Erik cadde all’ indietro come se qualcuno gli avesse dato un violento pugno, si mise le mani sul petto e tentò di rialzarsi senza però riuscirci. Accorse subito l’amico Hans mentre i militi austriaci provvedevano a rendere inoffensivo il cecchino sulla pianta a colpi di fucile, Hans si chinò con la borraccia e tentò di far bere il ferito senza riuscirci, mentre Erwin mormorava : giusta o ingiusta, tu sei la mia Patria.

Venne sepolto nel vicino cimitero militare austriaco con solenni onoranze funebri rese dai camerati della sua compagnia, il capitano gli lesse un encomio solenne e lo propose per la medaglia d’ oro al valore militare alla memoria per il comportamento eroico che aveva consentito di occupare la trincea e di fare prigionieri centinaia di soldati dello Zar.

 

 

Brano tratto dal romanzo Monika

 

 

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