L' chjasel

 

 

( il caseificio )

 

 

A fronte di un economia agricola e zootecnica che era il sostentamento diretto della quasi totalità delle famiglie, non solo di questo paese, ma dell’ intera nazione, fatte salve le zone industriali che piano, piano crescevano ed avrebbero poi preso il sopravvento negli anni del cosi detto boom economico italiano .

Allora in paese tutti avevano una stalla con una media di due o tre mucche, poi c’ era il maiale tanti allevavano conigli e tutti avevano il pollaio con le galline ovaiole. Uno degli alimenti base della cucina di allora, era il latte nelle sue più svariate forme e derivati. La produzione di latte era complessivamente di parecchi quintali giornalieri e si imponeva quindi il problema della sua lavorazione e conservazione.Naquero allora i caseifici dove i contadino due volte al giorno conferivano il prodotto che poi veniva lavorato.Il caseificio era detto “ turnario “ perché gli agricoltori caseravano il latte a turno in base alla quantità conferita, ogni giorno il casaro pesava il latte ed annotava su un libretto giallo ocra le quantità conferite, quando si era raggiunta la quantità sufficiente per una caserata lo comunicava al destinatario ed il giorno seguente si procedeva alla caserata.

Era un giorno di festa per noi bambini che se non si andava a scuola ci veniva consentito di partecipare alle operazioni di lavorazione del latte.

Tutte le sere il latte conferito veniva messo in grandi bacini di rame in un locale freddo del caseificio ed ulteriormente raffreddati con acqua corrente, questa operazione serviva per favorire la formazione della panna che saliva in superficie ed il mattino dopo avveniva l’ operazione di telatura, ossia la panna veniva asportata dal restante latte e messa nella zangola che era lo strumento che serviva per tramutare la panna in burro. Mi ricordo che i primi tempi la zangola veniva mossa a forza di braccia , ci si dava il cambio a turno fino alla formazione del burro che avveniva dopo circa un ora di lavorazione.

Il prodotto finito veniva poi confezionato in degli appositi stampi di legno di varie misure che contenevano pezzi da un kg. Mezzo kg. e 250 grammi, veniva poi messo in una vasca di acqua fredda per la sua conservazione e poi la parte richiesta veniva data all’ agricoltore titolare della caserata ed il restante veniva messo in vendita.

Il latte parzialmente scremato veniva poi messo nel “ pai “ che era un enorme paiolo in rame posto sopra un fuoco di legna accesa, veniva scaldato alla temperatura di 37 gradi celsius, raggiunta questa temperatura veniva calliato e piano piano si aveva la formazione del formaggio che saliva in superficie come una grande lastra di colore bianco.

Veniva poi tagliato a pezzetti con la lira che era uno strumento fatto con delle sottili corde metalliche assomigliante appunto allo strumento musicale.

Veniva poi raccolto con grandi teli di juta, compresso nelle forme rotonde e messo in salamoia per la stagionatura. Quando era ancora fresco gli veniva stampigliato a bassorilievo il codice del produttore proprietario poi veniva messe sulle apposite assi e tutti i giorni veniva girato e pulito fino alla raggiunta stagionatura. Durante le operazioni di pulizia e sagomatura alle forme venivano appostati gli orli con un grosso coltello ed il casaro li distribuiva a noi bambini, costantemente presenti e sempre affamati.

All’ esterno del fabbricato c’ era una vasca in cemento che comunicava mediante un tubo con l’ inerno del caseificio, era la vasca del “ LAT COT “ che altro non era che il siero

, il liquido che rimaneva dopo la lavorazione del formaggio , un liquido giallo che conteneva ancora una residua parte di grassi, il quale veniva pompato nella vasca esterna mediante una pompa azionata a mano ed era poi impiegato per la nutrizione dei maiali. Ricordo le donne con il “ BAGILON “ che portavano a casa due “ ciazudrei de lat cot “ in spalla tenendo un passo dal ritmo cadenzato lento per non fare uscire il liquido dai secchi.