I soldatini

 

Nella vecchia cucina annerita dal fumo e dal forte odore di caligine a causa del focolare che fumava sempre e molte volte mia nonna lasciava i cerchi aperti e la fiamma usciva libera e scoppiettante portandosi dietro una buona dose di fumo, perché mia nonna era convinta che così facendo il fuoco scaldasse di più l’ ambiente.

Il focolare era appoggiato alla finestra della cucina che guardava nella “ cort “ sottostante dove erano ubicate le “ buse de la grassa “ che altro non era che il deposito del letame delle stalle nostra e del signor Luigi nostro condomino.

In inverno con le finestre chiuse e con il freddo fuori, l’ odore del letame era appena percettibile, ma in estate con la finestra aperta protetta solo dalla reticella anti mosche, vi assicuro che l’ olezzo caratteristico del letame che fermentava faceva compagnia a tutto il nucleo famigliare, i numerosi gatti erano più furbi di noi, mangiavano a sazietà dopo la loro bella e sonora litigata per guadagnarsi a forza di artigli il boccone più grosso, metterselo bene tra i denti e poi sparivano fino a nuova fame e si rifugiavano sul fieno morbido, profumato e caldo per la fermentazione in corso.

Ritornavano quatti, quatti la sera per pretendere la loro razione di cibo e per dimostrare tutte le loro capacità di felini predatori ed il loro impegno civico di guardie fedeli e ligie ai propri obblighi, molte volte portavano tra i denti un topolino ancora vivo, terrorizzato per la fine che lo aspettava. Entravano in cucina e subito liberavano il topolino che per pochi attimi poteva assaporare il profumo della libertà, ma la cosa durava poco, quando la povera bestia si credeva al sicuro sotto la vetrina, ecco che uno sguardo sadico e feroce, il gatto gli piombava addosso ed una zampa munita di bianche ed affilatissime unghie lo riagguantava e lo tirava fuori da sotto per poi rilasciarlo ancora libero per alcuni attimi, fingendo ostentatamente di non accorgersi della nuova direzione presa dal topolino.

I gatti debbono aver imparato i metodi più atroci e sadici della tortura dalle SS o dalla Sacra inquisizione, il più delle volte era mio padre a porre fine alle inutili e gratuite sofferenze del topo schiacciandolo con un pestone dei suoi scarponi. Di solito allora mia nonna cacciava via tutti i gatti che dopo un attimo si ripresentavano fuori dalla finestra dopo essere scesi dalle “ spleuze “ fino al poggiolo per la struttura di legno, allora mia nonna davo loro degli avanzi di cibo e ricominciava una lotta furiosa per il boccone preferito.

Secondo me i gatti hanno un loro linguaggio sonoro per capirsi con annesse una sequela di parolacce ed il ripasso quotidiano delle litanie di tutti i loro santi saliti in cielo al termine della loro settima vita…

Verso le 10.30 mia nonna si preparava per fare l’ immancabile polenta gialla di farina di mais, prima di tutto apriva il portellone del focolare e con “ l’ fer del foglar “ un ferro con all’ estremità una curva che a me è sempre sembrato il simbolo della lira, faceva scendere la cenere spenta nel cassetto sottostante lasciando soltanto le braci ardenti, poi riempiva il crogiolo di legna buona “ de foja “ cone acacia, e faggio, poi richiudeva il portellone.

Preparava poi l’ acqua nel grande paiolo di rame lucidato con sabbia di mare ed aceto, che sembrava uno specchio, ci metteva una “ chjaspa “ di sale grosso e nel frattempo il fuoco aveva preso ad ardere bene , crepitando di gusto con qualche schiocco più forte.

Allora nonna toglieva i “ cercli “ del focolare fino a quando nel buco ci passava il culo del paiolo fino al punto dove era nero delle cotture precedenti.

Ci metteva sopra un grosso coperchio ed aspettava paziente che fratello fuoco facesse la sua opera miracolosa di far sfregare l’ idrogeno con l’ ossigeno fino al punto di bollitura dell’ acqua. Allora toglieva il coperchio ed iniziava una fase delicate e determinante affinché la polenta risultasse cotta giusta ma soprattutto senza “ gropi “.

Mia nonna era molto abile ed aveva una grande esperienza nel fare la polenta, prendeva una “ minela “ di farina gialla oro, era uno spettacolo da ammirare, un quadro di colori con tinte forti attenuate dal vapore che saliva allegro, prendeva la “ glava “ e cominciava a versare piano il contenuto della minela nell’ acqua bollente mentre con la glava mescolava velocemente la farina per impedire che si formassero dei grumi ( gropi ), era l’ operazione più veloce e più delicata che si doveva eseguire in modo impeccabile per avere un risultato finale ottimo.

Nel paiolo la farina scendeva veloce e poi prendeva a girare come in un vortice dal colore giallo sembrava la caldera di un vulcano dove tutto ribolle , schizza e scoppietta, finito di mettere la farina la nonna rimetteva il coperchio al paiolo per lasciare riposare l’ impasto e dava una ravvivata al fuoco.

Dopo poco toglieva definitivamente il coperchio ed iniziava a “ mesdar la polenta “ con la glava facendo attenzione di alternare il senso del movimento un po’ a desta ed un po’ a sinistra e lentamente la polenta prendeva forma, consistenza, profumo e sapore.

E tra il fumo profumato di polenta, come le vecchie immagini sfuocate di quei vecchi film in bianco e nero, ritornano il ricordi di quei bei tempi, e sono ricordi autentici che si portano appresso anche l’ odore inconfondibile della polenta che cuoce lentamente al fuoco dei grossi ceppi di acacia, che piano, piano sui bordi alti del paiolo si formavano le “ groste “ di un colore giallo intenso e quando cominciavano a staccarsi dal recipiente si desumeva dall’ esperienza secolare della civiltà contadina, che la polenta era cotta al punto giusto.

Era il momento solenne ed importante nel quale ci voleva tutta l’ abilità di mia nonna, il momento di scodellare la polente sul “ tavel “, allora prendeva due canovacci per non scottarsi le mani, afferrava il paiolo con la mano sinistra per il manico lo toglieva dal fuoco e lo appoggiava in un angolo del focolare, richiudeva in fretta i cerchi e lasciava aperto solo il tappo cieco, poi prendeva il paiolo e si avvicinava al tavel e con un movimento deciso e rapido scodellava la polenta sul cerchio di legno che stava in mezzo al tavolo, poi ricopriva la polenta fumante con una panno di cotone per evitare che evaporasse troppo in fretta e facesse la crosta sopra. La polenta era cotta !!!

Rimanevano sul fondo annerito e rovente del paiolo di rame delle piccole scintille di un rosso vivo che spiccavano in un modo particolare sulla nera fuliggine del fondo del recipiente, la particolarità di queste piccole scintille era che continuavano a muoversi come a cercare nuovi spazi vitali, nuovi posti da esplorare.

A me sembravano tutto quello che restava di una vita lontana alla quale veniva tolto lo spazio per esistere ancora, eppure il fondo del paiolo era molto ampio, ci sarebbe stato spazio a sufficienza per tutte e ne sarebbe pure avanzato, ma niente, tutte si ostinavano a voler restare strette in quei pochi centimetri di fuliggine nera. E rimanevo attento ed affascinato ad osservare questi soldatini, così li chiamava mia nonna, che si urtavano, si spingevano via, poi chi rimaneva isolato piano, piano si spegneva… non avevano divise diverse, erano tutti uguali rossi come il fuoco e rimanevo ad osservarli fino a quando l’ ultimo non moriva. Non c’ erano stati ne vinti ne vincitori, il culo del paiolo mi sembrava un mappamondo in lutto, tutto nero senza più segno di vita, senza che nessuno più rivendicasse uno spazio vitale, un territorio, un cortile, un “ heimat. “

Forse aveva proprio ragione mia nonna a chiamarli soldatini, che avevano combattuto per un ideale, per una bandiera, che avevano cercato un territorio grande come un impero ed erano morti tutti in un angolo di terra bruciata dal fuoco.

La radio trasmetteva allora le “ voci “ della guerra che iniziava in medio oriente tra Arabi ed Israeliani, un conflitto breve che durò solo sei giorni ma che avrebbe poi creato una grande e grave crisi tra le nazioni arabe e lo stato ebraico e che a tutt’ oggi a distanza di 50 anni non se ne intravvede una fine ne diplomatica ne militare. E i soldatini sul fondo del paiolo continuano a morire allora come ora per una striscia di terra bruciata dal sole e da tanta indifferenza ed ipocrisia.

Allora per consolarmi cominciavo a togliere dall’ interno del paiolo le croste saporite ed ancora calde della polenta e me le mangiavo adagio, ripensando sempre a quei poveri soldatini che erano morti pure prima di ricevere il rancio…

 

Bruno Agosti

 

Brano tratto dal romanzo autobiografico Il tempo delle bacche acerse.

 

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