Il serpente goloso

 

di

 

Bruno Agosti

 

 

Nonna, nonna, per favore, raccontami una storia!”.

Ricordo, quando ero bambino, che chiedevo spesso a mia nonna questa cortesia. Lei era una donna d’altri tempi, che portava sempre il suo abito nero, il fazzoletto dello stesso colore e qualche fiorellino giallo, in onore di Francesco Giuseppe d’Austria, che ha sempre considerato il suo imperatore.

Era una contadina del regno, una donna semplice e umile, che aveva messo al mondo nove figli, senza chiedersi il perché. Quando le domandavo delle spiegazioni, mi rispondeva sempre, dall’ alto della sua fede incrollabile, che la donna serviva per mettere al mondo tutti i doni di Dio e mi pronunciava sempre un suo detto, che usava spesso nelle occasioni tristi o felici: “ L’ uomo propone e Dio dispone ! “

Quando ero bambino, io dormivo spesso assieme a lei e, come tutte le nonne del mondo, prima di addormentarmi mi faceva recitare una preghiera e poi mi raccontava una storia.

Lei non aveva avuto il tempo per studiare a lungo. Aveva frequentato le scuole elementari e poi via, giovanissima, in America nell’Ohio, dove c’era il suo amore che lavorava nelle miniere di carbone a Lafferty.

Dunque, tutte le storie che mi raccontava, non erano frutto dei suoi apprendimenti scolastici o della sua fantasia, ma erano racconti di vita vissuta, della sua infanzia o dell’ America.

Quella che ora vado a narrare è una delle storie più incredibili ed affascinanti che mi abbia narrato, che sfata dei luoghi comuni sulla natura dei serpenti e sulla loro presunta pericolosità, astuzia e cattiveria.

Devo anche ammettere che, da allora, ho sempre osservato ogni specie di rettile con fascino, interesse ed ammirazione e senza quella biblica repulsione che da sempre accompagna ed identifica questi animali.

- Era una torrida giornata estiva, quando le famiglie del paese erano tutte impegnate alla mietitura del grano sulla collina di Barbonzana,1 ricoperta dalle spighe dorate punteggiate da migliaia di papaveri rossi e di azzurri fiordalisi. Allora, la mietitura si faceva tutta a mano, con il falcetto. Si costruivano poi dei covoni legati da un mazzo di spighe, che venivano successivamente caricati sul carro agricolo dalle grandi ruote di legno e trasportati sulle aie per essere essiccati al caldo dell’ estate.

Ai tempi in cui mia nonna era giovane, verso la fine del 1800, la famiglia era detta patriarcale, perché in essa convivevano anche i nonni paterni e i figli non ancora maritati. Gli avi, dunque, accudivano i bambini piccoli mentre i genitori si recavano a lavorare nei campi.

Nel tempo della mietitura o della vendemmia, però, tutto il nucleo famigliare si recava nei poderi per tutte le giornate necessarie a finire il raccolto.

Così, anche la famiglia di un vicino di casa di mia nonna, al completo di nonni e bambini, si recò sul dosso di Barbonzana a mietere il grano nel campo di loro proprietà, portando con sé anche la figlioletta di tre anni. Caricarono così sul carro tutto l’ occorrente per il lavoro e per il pranzo, tra cui una vecchia coperta ed una bottiglia di latte fresco appena munto per la piccola, e si avviarono, con il mezzo agricolo trainato dalle mucche, verso il campo.

Arrivati a destinazione parcheggiarono le mucche in un angolo del campo, all’ ombra di una grande pianta di noce che segnava il confine con il vicino bosco e dove cresceva, rigogliosa, una bella erba fresca.

Da casa avevano portato, inoltre, un secchio per abbeverare le vacche, con l’ acqua del vicino “ lec “.

In un altro angolo ombreggiato, tra i fiori e l’ erba, sfasciarono un lenzuolo di campo, distesero a terra la vecchia coperta e posarono la piccola, la bottiglia del latte e un po’ di pane. Misero successivamente in testa alla bimba un fazzoletto rosso a puntini bianchi e le dissero di stare lì buona a giocare con la bambola di stoffa che le aveva cucito la nonna.

Iniziò il lavoro di mietitura. Le donne, chine tra le spighe dorate, tagliavano, rapide, il grano e ne facevano dei covoni di dimensioni uniformi, che, poi, accomodavano eretti come tanti soldatini dalle bionde chiome.

Avrebbero poi pensato i maschi a raccoglierli ed a caricarli sul carro, con le spighe rivolte verso l’ esterno ed incrociati tra di loro.

Alla fine ne risultava un’opera d’ arte, un bellissimo quadro agreste.

La nonna, toglieva dai covoni le erbe inutili ed i fiori di campo, quali papaveri e fiordalisi in prevalenza, e di tanto in tanto si recava dalla nipotina con dei fiori in mano, le metteva un fiordaliso tra i capelli e abbassava i petali dei papaveri sino a formare la sagoma di tante piccole bambine dalle gonnelline rosse ed i neri capelli.

La bimba guardava divertita e ritornava ai sui giochi.

Quando il campanile di Varollo 2 batté il mezzogiorno e il campanone iniziò i suoi rintocchi, tutti sospesero il lavoro e si accomodarono all’ ombra del grande noce, dove la nonna della bambina aveva preparato il pranzo a base di polenta, formaggio e lucaniche. 3 Non mancava mai un bicchiere di vino per gli uomini e del caffè da orzo per le donne. Per la piccola era stato preparato, invece, del latte con dei pezzetti di pane dentro, che si era ammorbidito e che la piccola mangiava con un piccolo cucchiaio di legno che il nonno le aveva regalato un giorno in cui a casa erano passate le “ Kromere “.4

Dopo una mezz’ora, finito di mangiare un boccone, si riprendeva il lavoro di mietitura, con ritrovata energia, sotto il sole cuocente. La mietitura era per tutti un rito quasi sacro, perché in quelle spighe giallo oro era racchiuso il pane per l’intero anno.

Un buon raccolto, infatti, equivaleva alla sicurezza del fabbisogno alimentare per tutta la famiglia.

Il lavoro procedeva snello, ognuno sapeva fare il suo con la professionalità che nasce dall’esperienza della tradizione millenaria del popolo che si è tramandata sin dagli albori della vita e fa parte dell’istinto di conservazione dell’uomo.

La nonna della bimba faceva il lavoro di selezione tra i covoni, togliendo le erbacce ed i fiori.

Ad un certo punto lei smise di lavorare e, come se un brutto presentimento le fosse balenato in mente, si alzò, si pulì il sudore con una manica, guardò il cielo azzurro, mosse le labbra come per una preghiera improvvisa e, senza dire nulla, si avviò verso la grande pianta di noce dove era stata sistemata la piccola.

Allungò il passo quando le parve di udire la bambina parlare con qualcuno, ma non riusciva a vederla perché era sottratta alla vista dal carro che era ormai carico di covoni di grano.

Quando arrivò, ansimante, al carro, scorse la bimba. Dapprima rimase atterrita e si mise una mano alla bocca per non gridare, poi osservò la scena, degna della grande Walt Disney, che le si proponeva dinanzi. Rimase immobile e in silenzio, tanto affascinata quanto incredula.

Non riusciva infatti a realizzare se fosse sveglia o se stesse sognando: c’ era un grosso serpente verde con striature marroni che beveva il latte dalla ciotola della nipotina che lo osservava divertita, la quale, con il piccolo cucchiaio di legno, gli colpiva piano la testa dicendogli :

 

Magna ancia l’ panin, no sol bever l’ latin, no ! “

 

(Mangia anche il pane, non bere solo il latte!)

 

La nonna si era ricordata del fatto che si diceva che i serpenti andassero ghiotti del latte, ma aveva sempre considerato ciò una diceria popolare, una favola per costringere i bambini a mangiare tutto il latte che veniva loro preparato: “altrimenti te lo mangia il serpente goloso!”, si diceva.

Comunque, dinanzi alla scena appena citata, dovette ricredersi ed ammettere che non era una favola, bensì la realtà.

Quando il serpente fu sazio abbastanza, con la stessa rapidità in cui era arrivato, se ne tornò nel bosco.

La nonna, allora, si avvicinò alla piccola. Non le disse nulla; se la strinse in braccio e se la baciò più volte, con tenerezza.

Pulì poi la ciottola della bambina, le versò dell’ altro latte e rimase con lei sino a quando il lavoro fu ultimato. -

La nonna della piccola confidò a poche e fidate amiche, tra cui mia nonna, quanto aveva visto, per non creare inutili allarmismi, ma soprattutto per timore di non essere creduta, di passare come una visionaria e schizofrenica. Infatti, a quei tempi, per un episodio così inusuale ed incredibile, si poteva anche finire in un manicomio.

 

NOTE

 

  1. E’ una località nel Comune Catastale di Livo, dalla forma collinare.

  2. E’ una frazione del Comune di Livo.

  3. Tradizionale salame trentino.

  4. Erano delle donne che provenivano dalle vallate altoatesine o del bresciano, passavano per le case con in spalla uno zaino a forma fi armadietto con tanti cassettini e vendevano oggetti di uso comune, come aghi, filo, cucchiai in legno, ecc.