LA MIA AVVENTURA CON I FRATI

NOCI E PATATE

Il Bleggio, allora, era un territorio estremamente povero, con un alto tasso di emigrazione, nei paesini, sparsi sul territorio, dai nomi particolari che sembrava di essere nel new mexico, infatti c’ erano paesi che si chiamavano Bivedo, Larido, Duedo, Gallio, Santa Croce, Poia, erano composti da pochissime case, vecchie e malandate, e la gente del posto, coltivava, principalmente patate, poi c’ erano delle enormi e secolari piante di noce e noi , ragazzini del convento, nei momenti di libertà dallo studio, si andava ad aiutare la gente del posto a raccogliere le patate e le noci, poi, il proprietario, come riconoscenza, destinava una piccola parte del raccolto ai frati del convento di Campo. Ed ancora ritorna il principio fondante della filosofia francescana, con una mano si riceve e con l’ altra si dà. Era una gente umile e generosa, quella dei paesini del Bleggio, povera, di quella povertà materiale che però rende la gente cosciente della propria situazione ed aperta ai bisogni del prossimo, specie di chi aveva ancora meno di loro. Gente saggia, riflessiva , io ero solo un ragazzino, ma ho avuto modo di conoscere ed apprezzare quelle persone, umili, e disponibili a spezzare il loro pane con chi ne aveva bisogno in quel momento, altro che i miei co valligiani nonesi, avidi ed egoisti, attaccati , in modo fobico, al denaro ed alla ricchezza ed insensibili all’ altrui bisogno e dolore . Questo stato di cose, mi veniva sempre rimproverato dai miei compagni di collegio e noi nonesi, non eravamo ben visti dagli altri ragazzi. A Fiave’, c’ era una pescicoltura industriale, a volte ci andavamo in passeggiata e ci fermavamo ad osservare il lavoro di allevamento delle trote, era un territorio che voleva crescere e svilupparsi, ed era sulla via giusta per farlo, infatti, pochi anni più tardi, l’ economia di quei luoghi crebbe, anche favorita dal turismo di massa, che allora era agli albori, ma sarebbe cresciuto in seguito. In quei luoghi, infatti, ci sono le terme di Comano che ora danno il nome pure al comune che prima si chiamava Lomaso ed oggi si chiama Comano terme. E’ una gente che tiene molto alla loro tradizione ed alla loro cultura, infatti, quando sono tornato in convento nel 2008, dopo più di 40 anni, nel chiosco austero del convento, era esposta una bella mostra fotografica delle antiche abitazioni del luogo che avevano tutte una struttura architettonica particolare.

I FRATI

La presenza sul nostro territorio dei frati francescani, era costante e ben visibile, avendo , a poca distanza dal mio paese, ben due conventi, uno a Cles ed uno a Terzolas. I frati, secondo la mia opinione, ma per il fatto anche, di averli conosciuti profondamente durante la mia permanenza tra loro, durata tre anni, è stata per i nostri paesi una presenza benedetta, sia dal punto di vista cristiano che dal punto di vista culturale. I frati, erano ,infatti, un valido aiuto per i parroci di tutte le parrocchie della valle, in modo particolare per le confessioni, infatti, tutti, uomini e donne, preferivano raccontare le loro avventure d’ amore, di tradimenti, ed altro, piuttosto ad uno sconosciuto ed anonimo frate, che al proprio Parroco perché segreto del sacramento della confessione a parte, meno sapeva il prete dei loro affari di cuore, meglio era. I frati, passavano di paese in paese, a raccogliere la carità del prossimo, alimenti, come uova, farina patate mele, insomma tutto quello che era frutto della terra, ricordando sempre i principi di S. Francesco, che, altro non erano che quelli del Vangelo di Cristo, incarnati, direi, nel modo più semplice e genuino, perché da sempre i frati tutto quello che hanno ricevuto dalla carità del prossimo, lo ridistribuiscono a quanti ne hanno bisogno, senza chiedersi se ne abbiano o no titolo o diritto. Così come raccoglievano alimenti per il corpo, in eguale misura cercavano anime disposte a condividere il loro messaggio ed il loro cammino e stile di vita, che si traduceva in due parole “ ora et labora “ prega e lavora. Bisogna anche sfatare il mito delle vocazioni facili che allora abbondavano, sembrava, che ai miei tempi, gli unti dal Signore fossero molti di più di oggi, e numeri alla mano, il dato è indiscutibile: allora, un numero elevato di ragazzini, era indirizzato alla vita monastica. Le cause, invece, andavano ricercate nella endemica povertà che allora affliggeva tutto il territorio trentino e tutta la nazione. Una bocca in meno da sfamare e da far studiare, era una manna scesa dal cielo, per le famiglie povere dei villaggi , considerato il fatto che a quei tempi parlare di programmare le nascite, non solo era tecnicamente impossibile, ma anche moralmente proibito da santa Madre chiesa. I profilattici erano quasi sconosciuti alla maggior parte degli uomini e delle donne, e poi, non c’ era il denaro per acquistarli…a tale proposito voglio raccontare un aneddoto, un giorno mio padre, si recò a falciare il fieno in un prato adiacente al bosco, dove la stradina entra proprio nel fitto degli abeti, un posto tranquillo, mia nonna lo aveva seguito per aiutarlo a mettere il fieno al sole per seccarlo. Mentre con il rastrello raccoglieva il fieno ei confini del bosco, qualche cosa di strano ed elastico le si attaccò al rastrello, mio nonna si abbassò e lo raccolse, sembrava un ditale o la buccia di un wurstel, lo esaminò a lungo, ma non riuscendo a capire che cosa potesse essere quello strano aggeggio, lo portò a mio padre chiedendogli che diavolo fosse. Mio padre sorrise glielo tolse di mano e le disse che le avrebbe detto che cosa fosse non appena tornati a casa, ed aggiunse – Lavatevi le mani, che quella è anche una cosa schifosa ! - Era, chiaramente un profilattico lasciato da qualche coppietta che aveva fatto l’ amore nel vicino bosco, la sera prima… mia nonna, non ne aveva mai visto uno e non so neppure se mio padre le avesse dato le informazioni promesse, ma credo di no. Mia nonna, infatti, aveva avuto nove figli e numerosi aborti spontanei, era ovvio che ignorasse l’ esistenza e l’ uso del profilattico. Così, un giorno di estate del 1962, a casa mia si presentò un frate francescano del convento di Campolomaso nelle vallo Giudicarie più precisamente nel Bleggio, mi parlò a lungo del convento, dei frati, della possibilità di studiare a tempo pieno le materie didattiche, anche con l’ ausilio di moderne tecniche audiovisive, ne rimasi affascinato, subito la mia sete di apprendere la mia voglia di avventura, di scoprire cose nuove e di partecipare ad esperienze nuove con compagni diversi, presero il soppravvento sulla nostalgia di casa e del mio paese, che dopo di allora, non sono più riuscito a sentire mio d ad amare, non lo odio, se non una parte, ma non sono riuscito mai più a considerarlo come il mio paese, ma bensì come il luogo in cui sono nato e sono obbligato a vivere.

 


L’ ARRIVO IN CONVENTO


Prima di salire al collegio dei frati francescani di Campolomaso, nel Bleggio, nell’ autunno del 1962, mi ero ammalato di influenza, così, invece di arrivare in collaggio assieme a tutti gli altri ragazzi, vi arrivai quindici giorni più tardi, accompagnato da mia madre, scendemmo a Trento per prendere il pullmann che portava a Sarche e poi a Ponte Arche, dove c’è la diramazione per Fiave’ ed il Bleggio. Arrivammo a Ponte Arche, nella tarda mattinata di un lunedì di ottobre, salimmo a piedi, portando una grossa valigia, per la strada , tortuosa, che porta a Campolomaso, lentamente, per il peso della valigia e per la strada tutta in salita, con una bella pendenza. Mi ricordo, perfettamente, che ad un tratto apparvero, preceduti da un sibilo, due caccia dell’ aeronautica militare italiana che in un batter d’ occhio, furono lontani, lasciandosi alle spalle un sordo brontolio. Ero partito, salutando la mia famiglia, mia nonna, mio fratello, che doveva essere lui destinato al collegio visto che in estate vi era stato per un mese di “ prova “, ma evidentemente non era il suo destino… Salutai mia nonna e mio padre, del quale ho avuto molta nostalgia, per giorni e settimane, dopo essere giunto al convento. Finalmente arrivammo in vista del convento, verso mezzogiorno, stanchi ed affamati. Il convento mi apparve allora, come era nel 2008, ad oltre 40 anni di distanza, quando, prima dell’ intervento al cuore, decisi, che se avessi dovuto morire, volevo, prima, rivedere il convento di Campo. Per la stradina bianca, assieme a mia nipote Erika, ci avvicinammo al convento, anche allora, nell’ ala nuova si stava lavorando, un cartello diceva che erano in costruzione le scuole elementari del luogo, quando lo avevo visto, molti anni prima, quando ero un ragazzino, si stava costruendo un ala nuova di pacca, del convento. Qui ritorna il valore ed il senso del motto ora et labora, ed il messaggio, sempre attuale e moderno dei frati, che con una mano chiedono e con l’ altra restituiscono. All’ ingresso del convento, allora, c’ erano due enormi tigli secolari, proprio davanti all’ ingresso principale ed alla porta della chiesa, che diffondevano una bella ombra e davano un senso di austero e di sacro all’ ambiente. Quando stavamo per entrare, incrociammo un signore, alto, con i baffi, che usciva, quando ci vide, ci salutò e ci disse : - Questo è il ragazzo che stavamo aspettando…- quell’ uomo, sarebbe stato il mio maestro di quinta elementare e si chiamava Ferrari, però non ricordo il nome. Entrammo nel convento e ci fecero subito accomodare in refettorio dove, gli altri ragazzi già mangiavano, ci fecero sedere e ci portarono il pranzo. Ricordo, che mangiai pochissimo, perché, come al solito, mi era venuto il mal d’ auto sul pullmann ed avevo vomitato per tutta la durata del viaggio. Un frate, poi , ci accompagnò in camerata, ( il posto dove si dorme ) e mi indicò il mio letto ed il mio armadietto, erano tanti lettini, tutti ordinati e puliti, una cosa a cui non avevo mai pensato e che mi ha subito affascinato. Poi, mia madre, mi lasciò, con un lungo abbraccio, piansi per un poco, ma poi arrivò mio cugino Sandro a rinfrancarmi ed a darmi le prime nozioni della vita in collegio.

 

ORA ET LABORA

Dopo alcuni giorni che era arrivato dai frati, avevo subito imparato le regole e la disciplina che traspirava da tutti i muri del convento, devo ammettere, che a anche a scapito della mia indole libera e ribelle, l’ armonia, ordinata e silenziosa, che si respirava in collegio, mi ha subito affascinato e preso, anima e corpo, amavo studiare, ma soprattutto, amavo mettermi in discussione ed in competizione con tutti, a partire dai miei compagni di classe, per non dire con la classe “ avversaria “ nella quale militava mio cugino. Ben presto, divenni il pupillo del padre Rettore, che era un “ fascistone “ delle zone del Duce, era un uomo che in latino le si può definire “ vir justus “ , ma mi piace di più usare un espressione tedesca, a me molto cara, per definire padre Quirico Mattioli, “ ein manche in whort ! “ ( un uomo, una parola ). Era un uomo asciutto, alto, con una forte personalità, secondo me , aquisita nei tempi del Duce, era un uomo giusto con se stesso e giusto con gli altri, con una spiccata umanità ed un grande senso della disciplina. Non ho mai pensato, nemmeno per un istante di rimanere tra le mura di un convento e farmi frate, eppure quell’ ambiente, fatto di regole ferree e di una disciplina militare, mi ha subito affascinato e mi è stato subito facile, quasi logico, accettare con entusiasmo tutte le regole e la disciplina della vita monastica, fino a diventare in breve tempo, capo squadra durante le ore di ricreazione e nelle lunghe passeggiate nei vicini boschi ed al torrente Duina. Ho sempre cercato di osservare quel mio ruolo di caposquadra, in modo semplice ed umile, cercando sempre di assolvere le richieste dei miei compagni di classe e di quelli della classe del maestro Calliari, Eravamo ancora dei bambini, dei ragazzini, era anche facile ottenere con poco, con una certa filosofia di pensiero, tutto quello che si voleva, Bisogna anche dire, che tutti quanti eravamo accomunati da una vita di povertà e di indigenza, ora impensabili ed inimmaginabili, per questa ragione, eravamo tutti lì, in mano alla carità cristiana ed all’ umanità dei frati. Nel tempo che sono rimasto con loro, infatti, non ho mai sentito nessuno lamentarsi per il cibo o per altre ragioni, dai frati ho imparato a conoscere cibi nuovi, che non fossero polenta e latte o patate arrostite con le cipolle ed un po’ di latte, i pasti erano abbondanti e completi e da loro, conobbi l’ esistenza della carne, della pasta asciutta, dei risotti e dei dolci come il budino ecc. Anche il riscaldamento era tutta un'altra cosa, c’ erano i termosifoni, allora si chiamavano così i moderni radiatori di calore centralizzati, avevamo il proiettore cinematografico e guardavamo i film di Olio e Stalio, film di guerra, tanto cari al padre Rettore, film di avventura o cartoni animati della Disney. Eravamo due sezioni distaccate della scuola elementare di Campolomaso, con i nostri bravi maestri, solo che a noi era imposto un tempo di studio maggiore, si studiava tutti assieme in un aula comune e c’ era una saggia ed onesta competitività tra le due classi, si faceva a gara a chi aveva i voti migliori o chi faceva le ricerche più approfondite, si sapeva , sempre, riconoscere la supremazia degli avversari ed ammettere la propria inferiorità, insomma, “ due più due faceva sempre quattro e non cinque, se il Duce lo vuole ! “

 

 

 

IL CORO

 

Padre Costanzo, era il nostro insegnante di musica era una talento della cultura musicale, suonava vari strumenti tra cui l’ organo e il pianoforte.   In previsione della feste del vicino Natale, con i suoi riti liturgici e la sua atmosfera di festa, per abbellire con il canto le cerimonie religiose, tra i fratini vennero scelte le voci che poi avrebbero formato il coro. Il metodo di selezione era molto semplice, a tutti veniva fatta cantare la scala musicale da un punto basso della tonalità, fino a salire a dove più di arrivava in alto, in case a questo , venivano scelte le voci ed attribuito un loro ruolo all’ interno del coro, bassi, contralti, tenori, soprani. Naturalmente, uno che per natura era stonato, non aveva nessuna possibilità di far parte del coro, le regole erano rigide e non si voleva perdere tempo con delle campane rotte. Ad ogni voce veniva insegnata, in modo autonomo e soprattutto isolato da altre voci, la propria parte musicale, la si doveva imparare bene, senza dubbi o indecisioni, quando dopo una quindicina di giorni tutti sapevano bene la loro parte musicale, ci mettevano insieme ed il coro, come per incanto, era pronto a cantare a quattro voci le melodie natalizie. Alla S. Messa di Natale, la chiesetta del convento era gremita di gente dei vicini paesi che venivano a messa dei frati, perché era una messa “ diversa “ nell’ atmosfera arcana e sobria del convento, con il suo fascino austero ed il clima di grande semplicità e povertà che si respirava in ogni suo angolo. La gente entrava imbaccuccata dai neri mantelli, da cappotti e giacche che a guardarli ti davano immediatamente il senso della loro appartenenza sociale, c’ erano delle vecchiette che con i loro abiti scuri e lunghi fino alle caviglie e con la veletta ed il fazzoletto sui capelli, sembravano mia nonna. Allora si era in un periodo “ conciliare “ era infatti in corso il concilio vaticano secondo, che con le sue decisione e scelte doveva ammodernare la Chiesa cattolica ed adeguarla ai tempi che mutavano e che proponevano ed imponevano scelte e soprattutto modi diversi, più moderni e più vicini al popolo e a una società in continua e rapida evoluzione. Credo che allora le messe fossero ancora recitate in latino con il celebrante ancora che dava le spalle al popolo. La S. Messa di Natale era così allietata dai canti del coro a quattro voci dei fratini del collegio del convento dei frati di Campolomaso, alla fine della liturgia del S. Natale, i frati offrivano ai fedeli che vi avevano partecipato, un bicchiere di vino brulè assieme a dei dolci tipici del periodo natalizio. Direi che era una grande emozione seguire questa liturgia con il bel canto polifonico di un coro di adolescenti, era anche un bel colpo d’ occhio vederci cantare, disposti a semicerchio, tutti vestiti con la tunica da futuri frati e tutti con il libro dei canti in mano, bisogna dire anche, senza falsa modestia, che si cantava in modo che a me pareva addirittura divino…

 

IL TORRENTE DUINA

 

Il Duina è un torrente che scorre a valle del convento di Campo, e va a confluire nel fiume Sarca, quello che alimenta poi il lago di Garda. Da sempre, l’ acqua è stata una grande attrazione per tutti i ragazzi, in ogni parte del mondo, forse, ricordo ancestrale dei nove mesi trascorsi nel liquido amniotico delle madri, ed anche perché l’ acqua è fonte della vita, animale e vegetale ed è, da sempre, un motivo di infiniti giochi e passatempi ed un perenne ristoro dalla calura estiva.

Così era anche per noi, giovani fraticelli, del collegio dei frati, ed appena iniziata la stagione calda, il padre rettore, con la sua inseparabile carabina ad aria compressa, Diana, ci portava a passeggio alla Duina. Prima della partenza, i frati preparavano degli zaini pieni di panini, la marmellata o la cioccolata erano confezionati a cubetti e portati a parte in un altro zaino. Si partiva, cantando delle canzoni scout allegre, qualche volta si cantava anche faccetta nera… così, incolonnati come bravi soldatini, si scendeva al Duina. Il torrente, scorreva in mezzo ad un bosco di abeti e pini, molto simile al nostri torrenti Pescara o Barnes, nel fondo valle. Quando si andava alla Duina, era sempre una festa, la fantasia di noi ragazzini, si liberava come un canto e trovava spazio nei giochi d’ acqua più disparati, dal classico bagno nel torrente, alla costruzione di una diga per formare un piccolo laghetto artificiale dove poi fare il bagno e giocare nell’ acqua. Alla fine della passeggiata, il padre rettore ci lasciava sparare con la carabina verso un bersaglio attaccato ad un abete. A metà serata, si mangiava un abbondante merenda a base di pane marmellata o cioccolata, che i frati sherpa avevano portato con loro e che distribuivano ordinatamente a tutti i fratini. Alla sera, si faceva ritorno al convento, stanchi da morire, per i giochi e le corse nel bosco, ci si fermava a bere ad ogni fontana che si incontrava, passando nei paesini del Bleggio, alla sera si cenava e poi a nanna, per un lungo sonno ristoratore ed il giorno seguente si riprendeva, con rinnovato slancio, gli studi e la scuola. Un giorno, mentre si “ esplorava “ la Duina, un gruppetto di miei compagni trovarono, nascosti tra i sassi, un centinaio di proiettili di mitragliatrice contraerea, messi lì da poco da qualcuno che se ne voleva disfare per timore delle leggi molto severe, vigenti in materia di residuati bellici. Il padre rettore informò subito i carabinieri locali i quali vennero e prelevarono i proiettili. Ci spiegarono che erano proiettili incendiari, infatti, avevano la punta di color rosso mattone, come la punta dei fiammiferi da cucina, ci dissero che appena trovato un ostacolo da perforare, come la carlinga di un aereo, subito con l’ attrito si incendiavano appiccando così il fuoco al velivolo. Grande fu per noi l’ emozione di poter toccare con mano la guerra appena conclusa e mi tornarono in mente le lezioni del buon maestro Ernesto Fauri, che ci raccomandava sempre di non toccare e non giocare con i residuati bellici.

 

I regali di Natale

Più volte, in questo racconto, ho parlato dello spirito dei frati francescani, che credo sia anche una peculiarità di tutti gli ordini monastici della terra, compresi quelli non cristiani, questi uomini infatti, passano tutto il tempo della loro vita a pregare e lavorare e tutto quello che hanno è il frutto della carità di gente che incrocia volutamente o per la forza del destino, un uomo, con i sandali ai piedi, vestito con un saio stretto da una cordicella a mo’ di cinta e con la parte pensante piena di nodi, quanti sono i voti che hanno pronunciato. Tutto quello che distribuiscono a chi ne ha bisogno in quel momento, è frutto del loro lavoro e della carità di molta gente. Così come i regali che ci vennero donati il giorno di Natale dell’ anno 1963 presso il convento dei frati di Campo… Fu una cerimonia semplice ma molto suggestiva, uno dei più bei ricordi della mia infanzia, fu una sorpresa ben orchestrata , perché nessuno aveva mai fatto menzione dei regali che ci sarebbero stati distribuiti. Dopo il succulento pranzo di Natale, fatto di tante cose buone e di tante novità culinarie, il padre Rettore ci accompagnò nella grande aula dove si era soliti studiare e lì la grande sorpresa : su ognuno dei banchi dove si studiava, c’ erano tanti regali, c’ erano materiale didattico, penne, matite, colori, poi ad ognuno era stavo aggiunto un regalo personalizzato, ricordo che il mio era un grande pezzo di stoffa pesante con la quale poi mi vennero fatti dei calzoni per l’ inverno. Nel pomeriggio, poi, nella camerata adibita a cinema, ci venne proiettato un film di avventura a colori, era il massimo che ci si potesse aspettare.

La befana

Quell’ anno, nella ricorrenza dell’ Epifania, venne nel convento di Campolomaso il vescovo dell’ ordine provinciale dei frati minori, monsignor Recla, e per l’ occasione ci prepararono con una recita che si tenne nella camerata dei fratini, perché la nuova ala era ancora in costruzione e sarebbe stata ultimata per l’ anno venturo. Ricordo che a me venne data la parte di protagonista della breve recita, che era quella del frate che distribuiva i doni ai piccoli fratini addormentati, improvvisandosi nel ruolo della befana con un grande sacco, mentre tutto il silenzio avvolgeva la camerata, distribuivo i regali, commentando il ruolo della befana “ la befana, la dolce immagine… “ Quanto rimpiango quei giorni spensierati o, quando con una folata di vita tutti eravamo felici, quando bastava aver trovato una famigliola di ricci tra le foglie dei grandi castani, per essere felici di poter portare loro del cibo e badare che nessuno potesse far loro del male. Quando per essere felici bastava avere un pezzo di pane croccante, sottratto alla mensa del refettorio, da poter sgranocchiare in segreto durante le ore di studio o quando ti chiamavano in parlatorio perché era arrivata una visita per te, la mamma, il papà o dei parenti che ti portavano dei regali utili e ti raccontavano le ultime novità del borgo natio quelle che non ti avevano raccontato nell’ ultima lettera da casa…

 

PADRE MARIO LEVRI FONDATORE DLEL CORO CASTEL CAMPO

 

Ho anche avuto la fortuna ed il grande onore di avere come insegnante di musica Padre Mario Levri che fu il fondatore del coro Castel Campo tutt’ ora esistente che tiene molti concerti in Trentino e fuori. Si esibì la prima volta all’ inaugurazione della nuova ala del convento nel 1964.

 

La morte di J.F. Kennedy

La sera del 22 novembre 1963, mentre eravamo tutti in fila fuori dalla camerata, in attesa che il padre Rettore ci facesse l’ ultima riflessione quotidiana, arrivò un frate con passo quasi di corsa, si avvicinò al Rettore che ci stava dando le ultime raccomandazioni, lo interruppe e gli parlò un attimo all’ orecchio. Padre Quirico smise di parlare, respirò profondamente come se volesse prendere forza da Dio guardò il soffitto, mosse le labbra come par mormorare una preghiera e poi con voce rotta da una emozione fortissima, si rivolse a noi e ci informò che era stato ucciso il presidente degli Stati Uniti d’ America John Fitzgerald Kennedy. Tutti rimanemmo in silenzio, tutti noi, infatti conoscevamo il Presidente in quanto una persona tra le più importanti del mondo, appena uscito dalla crisi militare di Cuba, dove si era sfiorata la terza guerra mondiale, ma soprattutto perché era il primo Presidente USA cattolico. Subito il padre Rettore, ci fece notare, da fascista ed anticomunista convinto quale era sempre stato, che Kennedy era l’ unico che aveva saputo tenere a bada i “ ROSSI “ della Russia di Kruschiov. Seguì poi una preghiera per il defunto Presidente, poi tutti andammo a letto, ma nessuno di noi riuscì a dormire tranquillo quella notte. Nonostante fossimo ancora tutti degli adolescenti, in materia di politica estera eravamo tutti ben ferrati e consapevoli degli sviluppi che la storia ci proponeva, eravamo attivi ed interessati a quanto succedeva nel mondo, specialmente in merito ai grandi conflitti tra le due super potenze America e Russia, perché il buon padre Quirico Mattioli ci teneva costantemente informati, aggiornati e documentati, sempre all’ ombra del Duce. Alcuni giorni dopo il tragico evento, nella chiesa dei frati si svolse una solenne cerimonia funebre in ricordo del defunto Presidente, alla quale partecipammo noi fratini, tutti i padri del convento e molta gente del luogo. Questo è uno dei ricordi più toccanti del periodo che ho trascorso presso il convento dei frati di Campolomaso e che porto ancora dentro il mio cuore “ fascista “ .Perfino Nikita non riusciva a dormire in quei giorni…

Salgari

A Campolomaso sono ritornato, poi, nell’ estate dell’ anno seguente, quando già frequentavo la classe prima media a Villazzano un sobborgo alle pendici di Trento, dove c’ era il convento dei fratini di S. Francesco e dove erano ubicate le scuole superiori destinate a chi poi avrebbe indossato il saio francescano. Si tornava a Campo per rilassarsi e per studiare e ripassare le materie ma soprattutto a me piaceva un mondo leggere ogni tipo di lettura ma in modo particolare Salgari, con le sue avventure esotiche, e la fantasia lavorava a costruire le facce dei personaggi che poi avrei rivisto nella famosa serie televisiva con Kabir Bedi e gli altri protagonisti, Janes de Gomera, Kammamuri, Tremal naik e la bella Lady Marianna della quale mi ero innamorato… Occhi non più del tutto inibiti, occhi che cercavano delle risposte a domande che la vita ti poneva e la ragazzina che fino a ieri aveva giocato con te nei prati e dentro al fienile, in modo innocente, rotolandosi insieme a te nel fieno profumato, ora ti appare diversa, ora certe differenze le puoi notare, sono cresciute e se ti azzardi a toccare il tuo cuore batte più rapido, che ti sembra di impazzire, è una sensazione nuova che provi, è la natura che ti viene incontro e ti insegna che la vita ha bisogno del tuo contributo per perpetuarsi… ed allora il ricordo vola lontano, a quando la curiosità ci aveva indotto a guardare sotto le mutandine di una bambina per capire certe diversità ed ora si riusciva a capire anche la lezione sulla procreazione che con molta semplicità un frate ci aveva insegnato e che l’ anno successivo, quando in collegio vennero gli insegnati esterni, il professor Zucchelli durante le lezioni di scienze naturali ci aveva riproposto . E’ un gioco che regola il tempo e la vita di tutti, un gioco al quale è impossibile sottrarsi, perché è la vita stessa che ha bisogno di giocare in quel modo per continuare ad esistere.

Padre Ugo

Era un frate minuto, gracile di costituzione, ma con una fede da gigante, incrollabile. Ora et labora, ritorna nella descrizione di questo uomo di Dio tutto il messaggio francescano, ma soprattutto, mi ritornano i miei dubbi su una fede che da anni ho perduto e tante volte mi chiedo . – Ma se avesse ragione lui ? - . Due episodi, voglio narrare, della sua fede, uno mi è stato raccontato ed uno l’ ho vissuto di persona. Padre Ugo era solito lavorare nei campi e nella vigna del convento, un giorno di primavera, dopo aver potato le vigne i frati facevano grandi mucchi con i residui delle potature per poi bruciarli un po’ per volta. Un giorno Padre Ugo appiccò il fuoco ad uno dei mucchi che iniziò a bruciare, di lì a poco, però, si alzò un forte vento che alimentò e propagò l’ incendio pericolosamente verso il vicino bosco e la montagna. Il frate provò inutilmente a spegnere le fiamme con un forcone, vista l’ impossibilità di arginare il rogo, si inginocchiò a terra e si mise a pregare, il vento cessò e le fiamme si spensero da sole. Verso la fine dell’ anno scolastico, si era soliti fare una gita in pullman in qualche località lontana, ci andava però solo quelli indenni dal mal d’ auto, quelli invece che a salire su un atutobus vomitavano, una piccola minoranza, tra i quali anche il sottoscritto, si andava a piedi alla Madonna di Pinè e poi al lago Serraia. Ci avviammo così di buon mattino, a piedi, verso l’ altopiano di Pinè che dista circa una decina di chilometri. Ad accompagnare i riformati naturalmente c’ era padre Ugo, con uno zaino di panini e bibite. Percorsi a piedi poche centinaia di metri, sotto il sole e nella strada deserta, ad certo punto ci raggiunse un furgone Volkswagen di quelli adibiti al trasporto del personale di una ditta edile, il conducente si fermò e chiese al frate dove fosse diretto. Padre Ugo disse che stavamo andando a Pinè per una scampagnata, il conducente disse che anche lui era diretto in quel posto aprì il portellone e ci fece salire tutti dietro mentre padre Ugo salì al fianco del guidatore. Fatte alcune centinaia di metri, dopo lo scambio di saluti, il guidatore si rivolse al frate con tono più serio e deciso e gli disse: - Senta, padre, io tempo fa ho trovato un portafoglio con dentro un ingente quantità di denaro, non c’ erano documenti di riconoscimento o nessun altra carta che potesse ricondurre al legittimo proprietario. Allora ho pensato di farlo rendere pubblico dal parroco al termine dell’ omelia della messa domenicale, se non che si sono presentati dal parroco due diverse persone che vantavano la proprietà del denaro. Allora ho detto al parroco che avrei dato ai frati il contenuto del portamonete. - Erano centocinquantamila lire di allora, era l’ anno 1964, capimmo tutti che era una grossa cifra, molti stipendi di un operaio di quel tempo. Il signore pretese che padre Ugo gli facesse una ricevuta da esibire ad eventuali creditori e poi consegnò il denaro al frate. Arrivati a Pinè, il frate chiese al proprietario di un ristorante vicino al lago, il permesso di sederci su una panchina di sua proprietà per poter mangiare un panino e bere una bibita. L’ albergatore si rifiutò categoricamente di farci sedere sulla panchina, e ci invitò ad entrare nel suo locale e passando vicino alla porta della cucina disse a cuoco di preparare il pranzo anche per noi… ha pagato tutto la fede incrollabile di padre Ugo.

 

Da poeta e scrittore dilettante non posso non ricordare il grande poeta trentino GIOVANNI PRATI che naque nel convento dei frati francescani di Campo Lomaso durante il periodo storico della dominazione napoleonica.

Nacque il 27 gennaio 1814 a Campo Lomaso nelle Giudicarie da Carlo Prati, di Dasindo, e Francesca Manfroni, originaria di Caldes in Val di Sole. Frequentò il Liceo Ginnasio di Trento, il quale fu intitolato alla sua persona il 6 marzo 1919.[4] Successivamente intraprese gli studi di legge a Padova che, ben presto, abbandonò per dedicarsi alla poesia. Si sposò nel 1834 con Luigia Bassi (l'Elisa delle sue poesie[5]), dalla quale ebbe tre figli: Riccardo, Rita ed Ersilia (i primi due morirono infanti). La moglie venne a mancare nel 1840. I temi della morte della moglie e dell'affetto per la figlia ritorneranno frequentemente nelle sue liriche. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l'Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica.

A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della monarchia sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo-Veneto mentre il governo di Firenze del Granducato di Toscana (sotto la dinastia Asburgo-Lorena) gli rifiutò l'asilo politico.

Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Tornato a Torino, la sua fedeltà fu premiata con la nomina del re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1851 sposò in seconde nozze l'attrice drammatica Lucia Arnaudon. Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d'Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta capitale del Regno d'Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D'Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il governo unitario a Firenze divenuta capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall'Ongaro, Terenzio Mamiani e altri.

Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta capitale d'Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d'Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica istruzione. Nel 1878 il Ministro dell'istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l'Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel '64), degli oltre 500 sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884.[6] Nello stesso anno fu fondata a Bologna la Società Giovanni Prati, nata con l'obiettivo di difendere la lingua e le idee italiane nelle terre irredente di Trento, Trieste, Gorizia, Istria e Dalmazia.[7][8]

Sepolto a Torino, le sue ceneri furono in seguito trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Dal 1923 le sue spoglie risiedono nella chiesa dell'Assunta di Dasindo.

Pensiero e poetica

Giovanni Prati è il poeta più fortunato della sua età, è quello che meglio esprime, in una poesia che sviluppa con varietà di forme la tendenza melodica e musicale della lirica romantica, stati d'animo e atteggiamenti ideologici e sentimentali di vasti settori della borghesia e della piccola borghesia moderata; un patriottismo enfatico, ma moderato nei contenuti; un interesse per la storia tradotto in vagheggiamento evasivo del passato.[9]

Giovanni Prati, dedicando una poesia d'occasione alle regali nozze (22 aprile 1868) traUmberto I di Savoia e Margherita di Savoia, dichiara senza mezzi termini: "Margherita, una grande speranza per l'Italia comincia da te".

Nei suoi versi si celebrano la patria, l'amore e gli umili. La lirica del Prati è pervasa dal desiderio di una vita interiore colma di affetti nobili. In particolare, egli identificò il mondo superiore dello spirito con la poesia. La sua arte è pervasa di un'intensa musicalità. Nella sua ultima produzione, in particolare ‘Nei canti di Iside’, si chiude in un mondo di delicate immagini, di fate, di sogni e di incantesimi. Memoria

In un articolo del 1887, il padre fondatore della cooperazione trentina don Lorenzo Guetti, ricordava in questo modo il poeta di Dasindo: «Dasindo è il paese natio di Prati, e come non correre a salutare la sua culla? Ma ahi! Che una lagrima ci cade tosto dal ciglio in segno di mestizia pel cantore della morte del Tasso! Una modesta iscrizione, di recente messa nella facciata a mezzogiorno, porta:

CASA . PATERNA .

DI . GIOVANNI . PRATI .

POETA .

EBBERO . DA . LUI . GLORIA .

DASINDO . TRENTO . ITALIA .

Semplice dettato, ma tutto verità che rende onore alla nobile mano che la scrisse e a tutte sue spese ve la pose. Ma lagrima il ciglio a vedere la modesta casa in via di evidente deperimento, da far temere, che ove non siano cuori generosi che concorrano a ripararla prontamente, non vada in sfacelo. Ma no; ciò non avverrà, perché Dasindo, Trento ed Italia sentono viva gratitudine pel lustro ch'ebbero dal nostro poeta, e la modesta casa sua paterna starà a monumento de' posteri»[10].

La città di Torino ha dedicato al poeta una corta via in centro, tra piazza Solferino e il vecchio Arsenale Militare (oggi Scuola di Applicazione per i giovani Ufficiali dell'Esercito Italiano). Altre vie dedicate alla sua memoria si trovano a Milano, a Brescia, a Solferino e a Giarre nella frazione di San Giovanni Montebello.

A lui è dedicato uno dei 229 busti di italiani illustri che ornano la passeggiata del Pincio a Roma.

Le Opere

ed. Real Circolo Bellini 1878, versi di Giovanni Prati, Musica di Francesco Paolo Frontini.

Poesie (1836)

La Marescialla D'Ancre (1839)

Edmenegarda (1841)

Canti lirici, canti per il popolo e ballate (1843)

Memoria e lacrime (1844)

Passeggiate solitarie (1846)

Storia e fantasia (1847)

Jelone di siracusa o la battaglia di Imera (1852)

Rodolfo (1853)

Satana e le Grazie (1855)

Ariberto (1860)

Armando (1868)

Opere varie, 5 voll. (1875)

Psiche (1876)

Iside (1878)

 

PATRIA

 

 

1

Sin che al mio verde Tirolo è tolto

veder l’arrivo delle tue squadre,

e con letizia di figlio in volto,

mia dolce Italia, baciar la madre;

sin ch’io non odo le mute squille

suonare a gloria per le mie ville,

né la tua spada, né il tuo palvese

protegge i varchi del mio paese;

2

no, non son pago. Chiedo e richiedo

da mane a vespro la patria mia:

e il suo bel giorno sin ch’io non vedo

clamor di feste non so che sia.

Cantai di gloria, cantai di guerra,

cantar credendo per la mia terra,

quanta ne corre da Sparavento

all’ardue Chiuse di lá da Trento.

 

3

L’han pur veduta la testa loro

l’altre del Lazio cittá reine!

e tu, gran Madre, del proprio alloro

tu ne hai vestito l’augusto crine.

Ma la mia terra negletta e sola

geme nell’ombra: chi la consola?

dai ceppi amari chi la disgrava?

chi l’aura e il lume rende alla schiava?

4

Eppur, quand’era peccato e scorno

stringer la mano degli stranieri,

coi prodi figli d’Italia, un giorno

sorsero i figli de’miei manieri;

e ai patrii greppi gentil lavacro

diedero il sangue piú puro e sacro.

E il sa Rezzecca, sulle cui glebe

fiori di sangue brucan le zebe.

5

Umile è certo la terra nostra:

archi, colonne, templi non vanta.

Ma con orgoglio c’è chi la mostra,

ma con orgoglio c’è chi la canta.

Terra d’onesti, terra di prodi,

cerca giustizie, non cerca lodi.

Ti chiede, o Italia, se madre sei,

che il cor ti morda, pensando a lei.

6

Ella il tuo sangue" dagli avi assume,

ella negli occhi porta il tuo raggio:

ella s’informa del tuo costume,

pensa e favella col tuo linguaggio.

Arde di sdegno, piange d’amore,

parte divina del tuo gran core!

Qual colpa è dunque se non si noma

Milan, Fiorenza, Napoli o Roma?

 

7

Pia rondinella, che appender suoli

a’ miei nativi frassini il nido,

da cielo in cielo stendi i tuoi voli

sin del Danubio sul verde lido;

e al cor pensoso di due potenti

bisbiglia un’eco de’ miei lamenti,

cader lasciando dal picciol rostro

un fior bagnato del pianto nostro.

8

E, se Belguardo si fa una gloria

d’accór la dolce sabauda stella,

col fiore azzurro della memoria

parla ai due prenci, pia rondinella.

Per me ad Absburgo, per me a Savoia

chiedi una patria prima ch’io muoia.

Morire io possa libero e grato

nei verdi boschi dove son nato.

9

Per quelle nude mie dolci lande

possa la sorte farmi indovino!

Che plauso allora, che osanna al grande

fratello e amico del re latino!

Allor da vero chiusi i gagliardi

saran nell’ombra de’due stendardi:

in cima all’Alpi, giá vecchio danno,

le nuove stirpi s’abbracceranno!

10

Sovra ogni torre, sovra ogni foce,

di sé rendendo l’acre giocondo,

l’aquila bruna, la bianca croce

saran due segni di pace al mondo.

Fervor di genti, silenzio d’armi,

fronde d’ulivo, festa di carmi,

l’animo in alto, questa è l’aurora

che nel mio sogno balena ancora!

 

Giovanni Prati