CANDO I SBARAVA I MORTAI PAR I NOVI SPOSI.

(Quando sparavano i mortai per gli sposi novelli)

 

Era tradizione di questi paesi che il giorno precedente il matrimonio di due sposi novelli ed il giorno stesso delle loro nozze, amici e parenti degli sposi festeggiassero il lieto evento con lo sparo di botti detti anche “mortai” per via dei grossi tubi in acciaio che riempiti di polvere pirica venivano fatti esplodere con un innesco. Quando la polvere da sparo residuato bellico non fu più reperibile anche a causa di Leggi sempre più severe, si fece ricorso ad altre forme di esplosioni con il gas, i fucili da caccia ed il carburo ed altri prodotti e reagenti chimici.

L’artiglieria che aveva come scopo principale quello di festeggiare gli sposi novelli, serviva anche per informare i paesani dell’imminente lieto evento e ricordava ai futuri colombi di lasciar pagato da bere nei locali bar della zona ai clienti fissi ed occasionali, iniziava a notte fonda del giorno prima che di solito era un venerdì per poi proseguire anche il giorno del matrimonio. La tecnica dello scoppio con il mortaio non la saprei descrivere nei dettagli, ma il principio è quello dell’artiglieria dove la polvere da sparo innescata dalla miccia passa dallo stato solido a quello gassoso in 7 millesimi di secondo, provocando una forte esplosione se compressa in un tubo metallico; molto più esperti eravamo noi ragazzini nel manipolare il carburo che era un prodotto chimico a stato solido formato da pezzetti più o meno grossi; lo si acquistava presso l’antico negozio del Manuele (Emanuele Alessandri) di Livo che lo conservava in un locale isolato e ben asciutto in quanto il carburo a contatto con l’acqua libera un gas altamente infiammabile. Il carburo serviva per alimentare le lampade dei minatori in quanto la sua fiamma era molto viva e costante, spinta dalla reazione chimica che avveniva a contatto con l’acqua nella bombola di produzione. Noi ragazzini lo usavamo per fare i botti e la tecnica era molto semplice ed efficace. Serviva un barattolo con il coperchio (ottimi erano quelli della vernice), vicino al fondo del barattolo con un chiodo si praticava un forellino che sarebbe servito per l’innesco ed il “cannone” era pronto. Per caricarlo bastava mettere una scaglia di carburo sul fondo, aggiungere alcune gocce di acqua (o di sputo) poi chiudere ermeticamente il barattolo con il coperchio ed attendere qualche secondo che avvenisse la reazione chimica che la si poteva monitorare ascoltando il fruscio dentro il barattolo che si teneva tra le mani. Poi un “Pietro Micca” avvicinava un fiammifero al forellino ed avveniva l’esplosione: il coperchio del barattolo veniva scagliato a diversi metri di distanza, poi si ricominciava la ricarica del pezzo di artiglieria con tutti gli inservienti indaffarati.

Ora che ho narrato nei dettagli gli strumenti per produrre i botti lascio spazio alla memoria per raccontare gli effetti negativi e devastanti in cui si può incappare nell’uso di tali strumenti pericolosi. A miei tempi, dopo lo sposalizio che avveniva in chiesa, considerata l’endemica povertà che regnava nella maggior parte delle famiglie dei nostri borghi rurali, il pranzo di nozze si teneva nella stube o nel somass della casa degli sposi o in ultima ratio nelle are. Il giorno del matrimonio di una giovane che abitava vicino a casa mia gli invitati stavano allegramente pranzando nella stube di casa mentre alcuni amici nei prati adiacenti festeggiavano a suon di botti i novelli sposi. Ad un certo punto uno dei conviviali ebbe il bisogno di fare pipì e si portò all’esterno dell’abitazione in un vicino frutteto di grossi alberi di pero spadone dove però poco prima gli “artiglieri” avevano collocato un mortaio carico e con la miccia accesa, alla vista dell’intruso gli urlarono da lontano di allontanarsi, di scappare, che sarebbe esploso il mortaio. L’uomo tentò di scappare, ma l’esplosione lo investì procurandogli delle abrasioni e bruciature sul volto: ricordo ancora mia zia e mia mamma che lo medicavano e disinfettavano alla meglio. La cosa finì senza gravi conseguenze e nessuno ne parlò per timore che la notizia andasse all’orecchio dei carabinieri che avrebbero denunciato i responsabili. Il secondo episodio avvenne il giorno del matrimonio di una giovane di Scanna che abitava vicino alla fontana di fronte alla chiesetta del borgo: anche allora il pranzo di nozze si teneva nel somass dell’abitazione della sposa, la cuoca era una paesana come pure le cameriere e come tutti si erano fatte prestare le stoviglie di lusso dal Bepi di Ciatti (Giuseppe Agosti) che era stato proprietari dell’omonima trattoria. Noi ragazzini ci eravamo procurati in anticipo tutto il materiale occorrente per la postazione di artiglieria: carburo, barattoli ed acqua in abbondanza che usciva dalla canna della fontana. Il fuoco iniziò intenso verso l’una del pomeriggio ad intervalli regolari, uno scoppio poi il tempo di ricaricare e seguiva un altro… poi accadde improvviso ed imprevedibile l’incidente, mio fratello che era addetto alle micce avvicinò il fiammifero al forellino del barattolo che invece di esplodere e scagliare lontano il coperchio ebbe un violento ritorno di fiamma dal forellino che investì mio fratello provocandogli delle gravi ustioni alla mano destra. Inizialmente si provò a curarlo a casa con unguenti ed olio, ma il dolore provocato dalla fiamma tossica del gas di carburo diventava sempre più insopportabile, allora mio padre lo portò all’ambulatorio medico di Livo dove il Dottor Tenaglia lo curò con farmaci adatti al caso, che gli lenirono subito il dolore; lo fasciò per bene e lo mandò via dicendogli: “Varda che a Cuba Fidel Castro el cercja terrorirti come ti …” (“Guarda che a Cuba Fidel Castro cerca dei terroristi come te !”)

 

Bruno Agosti