Il basilisco di Mezzoborona

 

Nella rupe che sovrasta Mezzocorona si apre una grande caverna. Lì dentro era ospitato, nel Medioevo, un castello detto Corona di San Gottardo. La sua storia si perde nella notte dei tempi, rimane invece, ancor oggi, quella che è forse la più antica leggenda trentina.

Il vecchio maniero era già stato cancellato dal tempo quando, nella grotta che ormai conteneva solo poche rovine, trovò riparo dalle intemperie un basilisco. Simile ad un enorme serpente con il corpo reso invulnerabile da scaglie ossee, poteva anche volare, grazie ad un paio di robuste ali. Atterrando sul pianoro antistante la caverna schiacciò rose selvatiche, caprifoglio, ciclamini ed erica. Il lezzo che emanava fece fuggire dalla caverna persino i pipistrelli. In ogni modo egli vi si sistemò comodamente, addormentandosi subito. Al mattino seguente si svegliò tormentato dai morsi della fame. Fischiando d’impazienza e rabbia si trascinò fuori dalla sua nuova tana, guardandosi attorno. Sotto di lui si stendeva la piana rotaliana con i campi e vitigni, interrotti da linde casette. Scorse anche un contadino sopra un carro trainato da una coppia di buoi. Il basilisco, spiegate le ali possenti, in un batter d’occhio gli fu addosso. Il contadino non fece nemmeno in tempo ad accorgersi del pericolo che già si trovava, con carro e buoi, nella pancia del drago. Dopo un pasto sostanzioso la bestiaccia avrebbe anche potuto ritenersi soddisfatta. Invece, simile in questo a certa gente che più ricchezze accaparra più diventa avida, continuò per molto tempo a sorvolare la piana rotaliana, divorando tutto quello che le capitava a tiro, sbavando veleno e sputando fuoco. Quando, finalmente, il basilisco si decise a rientrare nella sua caverna molte case e fienili stavano bruciando. Intanto, a Mezzocorona, chi era riuscito a sfuggire al mostro, si era rifugiato nelle cantine. Non tutti però avevano capito quel che stava accadendo. Che flagello era mai piombato su di loro? Si trattava di una catastrofe naturale o di una mitica bestia? Ma qualcuno era riuscito a scorgere, fra lingue di fuoco e fumo puzzolente, un enorme, spaventoso, basilisco. E, se non volevano finir tutti prima o poi nella pancia del drago, dovevano trovare il modo di uccidere quella bestiaccia! Ma come? Cessato il pericolo più immediato tutti uscirono all’aperto, discutendo il da farsi. Alte fiamme illuminavano il cielo, al loro bagliore tutti poterono vedere i campi riarsi, i vitigni carbonizzati, le troppe case distrutte. Il terrore s’impadronì di quella povera gente. In quel luogo e in quelle condizioni non si poteva più vivere. Chi piangeva, chi malediva. Le donne gridavano che occorreva fuggire subito. Ad un tratto, alta su tutte, si levò la voce del conte Ugo Firmian: “Calmatevi” gridò “solo i vili si arrendono ancor prima di affrontare il pericolo!”. Gli abitanti di Mezzocorona rimasero allibiti. Il conte stava farneticando, era pazzia pura anche il solo sperare di aver ragione del basilisco. Ma il conte proseguì: “Abbiate fiducia in me. Il basilisco lo affronterò io. O vincerò, e allora tutti noi potremo riprendere la nostra vita laboriosa e serena, o lui mi ucciderà, ma voi sarete sempre in tempo a fuggire. Io vi chiedo solo di rimanere ancora nascosti nelle vostre cantine per qualche ora. Siete d’accordo?” I contadini si guardarono l’un l’altro, dubbiosi. In fondo, anche quel cavaliere era solo un essere umano. Come poteva sperare di aver ragione, da solo, del basilisco? Ma tant’è. A rimanere nascosti non ci rimettevano niente. L’opportunità di scappare si sarebbe senz’altro ripresentata un’altra volta. Ritornato nel suo palazzo il Conte Firmian indossò la corazza, controllò che la fida spada fosse allentata nel suo fodero e si fece portare uno specchio ed un secchio di latte. Presili, ritornò all’aperto avviandosi verso il monte del basilisco. Figuratevi lo sbalordimento dei paesani scorgendo il loro signore andare tranquillamente verso quella che essi ritenevano una morte certa, portando con sé oggetti tanto estemporanei. Essi non sapevano che sovente l’astuzia ha la meglio sulla forza, né che il coraggio può vincere la malasorte! Avanzando con prudenza, evitando le zone illuminate dagli incendi, dove sarebbe stato facilmente scoperto dal basilisco, il Conte giunse finalmente ai piedi del monte. Cominciò ad inerpicarsi verso la caverna del San Gottardo. La pesante corazza rendeva difficoltosi i suoi movimenti, il secchio minacciava di rovesciarsi ad ogni piè sospinto. Finalmente giunse alla spianata antistante la caverna del San Gottardo. Dentro, il drago dormiva saporitamente. Lo si capiva dal sonoro russare che faceva stormire le fronde degli alberi circostanti. La notte stava invecchiando. Piano, piano, tentando di non far rumore, il Conte Ugo di Castel Firmian si avvicinò all’entrata della grotta, deponendovi il secchio del latte e, a poca distanza, lo specchio. Poi andò a nascondersi fra i cespugli. Le ore, gravide di incertezza e paura, continuarono a trascorrere fino a che la luce di una serena alba rosata cominciò a rischiarare il cielo. Ad un tratto il basilisco, grugnendo e sibilando, si svegliò. Aveva fame. In fondo cos’erano per lui alcuni uomini e qualche paio di buoi? Per non parlare dei carri. Ploc, ploc, ploc. All’improvviso il Conte scorse il riluttante muso della bestiaccia affacciarsi dalla tana. La pelle, a grosse scaglie, era giallo-verde, l’enorme bocca bavosa e i due occhietti feroci e mobilissimi. Si sentì morire dalla paura. Dalle nari del drago usciva una nube di vapore e fumo. Aveva fame, sì, decisamente aveva fame. Guardandosi attorno in cerca di cibo il basilisco scorse, ad un tratto, il secchio ricolmo di latte. Soffiando rumorosamente estrasse dalla caverna l’enorme corpaccio e avvicinatosi, cominciò a leccare golosamente il latte. Era veramente buono. Come lo ebbe terminato rialzò tutto contento l’orribile testa. E chi mai scorse? Proprio davanti a lui, identico a lui, stava un altro drago che, come lui, aveva appena finito di bersi un secchio di latte! Ma che felice combinazione! Il basilisco emise un fischio di richiamo. Fra parenti si fa presto ad intendersi! Il nuovo arrivato però non emise nessun suono. Forse, poverino, era muto. Il nostro drago scosse amichevolmente la testa. E l’altro pure. Divertito il basilisco accennò a un passo di fianco, poi si spostò dall’altra parte, fece una giravolta. E l’altro pure. Simpaticissimo! Quel suo fratello ritrovato così, in modo inspiegabile, in un’alba radiosa, era proprio intelligente. Sapeva imitare alla perfezione ogni sua mossa! Assieme si sarebbero fatti delle gustose scorpacciate in quella valle! E giocato allegramente, come stavano facendo adesso! Un saltello di qua, uno di là, bravo! Adesso alzati sulla coda e mostra il bel pancino. Il conte Ugo Firmian non attese altro. Balzato dal cespuglio, dove da ore se ne stava nascosto, affondò la spada nel ventre, solo punto vulnerabile, del mostro. Colta di sorpresa, la terribile bestiaccia, con un ultimo, rabbioso grugnito, si afflosciò a terra. Morto. L’astuzia ed il coraggio di quel cavaliere solitario avevano avuto ragione della forza bruta del basilisco. Erano bastati un secchio di latte ed uno specchio per vincerlo. Esultante il Conte si portò sull’orlo del piccolo pianoro urlando con tutta la forza dei suoi polmoni: “Venite! E’ morto! Siamo salvi!”. I contadini di Mezzocorona se ne stavano nascosti molto lontano ma, finalmente, qualcuno lo udì. Passò parola. Increduli, ma pronti a scatenarsi in una corale manifestazione d’entusiasmo, tutti corsero verso il monte che aveva ospitato il castello, detto “Corona di san Gottardo”. Giubilanti cominciarono ad inerpicarsi lungo la rapida costa. Sopra di loro, il Conte Ugo Firmian, fatta leva sulla spada che aveva trapassato il corpaccio del basilisco, lo sollevò alto sopra la propria testa, per mostrarlo ai suoi sudditi. Una goccia di potente veleno cadde attraverso una fessura della corazza, scivolò dentro lungo il baraccio del Cavaliere, che si trasformò, di colpo, in una torcia umana. I primi abitanti di Mezzocorona che giunsero su quella spianata trovarono solo un basilisco morto ed un’armatura contenente un mucchietto di cenere.