Il ribelle

(dal collegio al laboro)
 

paese, ma bensì come il luogo in cui sono nato e sono obbligato a vivere.

Il collegio

Prima di salire al collegio dei frati francescani di Campolomaso, nel Bleggio, nell’ autunno del 1962, mi ero ammalato di influenza, così, invece di arrivare incollaggio assieme a tutti gli altri ragazzi, vi arrivai quindici giorni più tardi, accompagnato da mia madre, scendemmo a Trento per prendere il pullmann che portava a Sarche e poi a Ponte Arche, dove c’è la diramazione per Fiave’ ed il Bleggio. Arrivammo a Ponte Arche, nella tarda mattinata di un lunedì di ottobre, salimmo a piedi, portando una grossa valigia, per la strada , tortuosa, che porta a Campolomaso, lentamente, per il peso della valigia e per la strada tutta in salita, con una bella pendenza.  Mi ricordo, perfettamente, che ad un tratto apparvero, preceduti da un sibilo, due caccia dell’ aeronautica militare italiano, che in un batter d’ occhio, furono lontani, lasciandosi alle spalle un sordo brontolio.  Ero partito, salutando la mia famiglia, mia nonna, mio fratello, che doveva essere lui destinato al collegio, visto che in estate vi era stato per un mese di “ prova “, ma evidentemente non era il suo destino… Salutai mia nonna e mio padre, del quale ho avuto molta nostalgia, per giorni e settimane, dopo essere giunto al convento. Finalmente arrivammo in vista del convento, verso mezzogiorno, stanchi ed affamati. Il convento mi apparve allora, come era nel 2008, ad oltre 40 anni di distanza, quando, prima dell’ intervento al cuore, decisi, che se avessi dovuto morire, volevo, prima, rivedere il convento di Campo.  Per la stradina bianca, assieme a mia nipote Erika, ci avvicinammo al convento, anche allora, nell’ ala nuova si stava lavorando, un cartello diceva che erano in costruzione le scuole elementari del luogo, quando lo avevo visto, molti anni prima, quando ero un ragazzino, si stava costruendo un ala nuova di pacca, del convento. Qui ritorna il valore ed il senso del motto ora et labora, ed il messaggio, sempre attuale e moderno dei frati, che con una mano chiedono e con l’ altra restituiscono.  All’ ingresso del convento, allora, c’ erano due enormi tigli secolari, proprio davanti all’ ingresso principale ed alla porta della chiesa, che diffondevano una bella ombra e davano un senso di austero e di sacro all’ ambiente. Quando stavamo per entrare, incrociammo un signore, alto, con i baffi, che usciva, quando ci vide, ci salutò e ci disse : - Questo è il ragazzo che stavamo aspettando…- quell’ uomo, sarebbe stato il mio maestro di quinta elementare e s i chiamava Ferrari, però non ricordo il nome.  Entrammo nel convento e ci fecero subito accomodare in refettorio dove, gli altri ragazzi già mangiavano, ci fecero sedere e ci portarono il pranzo.  Ricordo, che mangiai pochissimo, perché, come al solito, mi era venuto il mal d’ auto sul pullmann ed avevo vomitato per tutta la durata del viaggio.  Un frate, poi , ci accompagnò in camerata, ( il posto dove si dorme ) e mi indicò il mio letto ed il mio armadietto, erano tanti lettini, tutti ordinati e puliti, una cosa a cui non avevo mai pensato e che mi ha subito affascinato.  Poi, mia madre, mi lasciò, con un lungo abbraccio, piansi per un poco, ma poi arrivò mio cugino Sandro a rinfrancarmi ed a darmi le prime nozioni della vita in collegio.

Ora et labora

Dopo alcuni giorni che era arrivato dai frati, avevo subito imparato le regole e la disciplina che traspirava da tutti i muri del convento, devo ammettere, che a anche a scapito della mia indole libera e ribelle, l’ armonia, ordinata e silenziosa, che si respirava in collegio, mi ha subito affascinato e preso, anima e corpo, amavo studiare, ma soprattutto, amavo mettermi in discussione ed in competizione con tutti, a partire dai miei compagni di classe, per non dire con la classe “ avversaria “ nella quale militava mio cugino. Ben presto, divenni il pupillo del padre Rettore, che era un “ fascistone “ delle zone del Duce, era un uomo che in latino le si può definire “ vir justus “ , ma mi piace di più usare un espressione tedesca, a me molto cara, per definire padre Quirico Mattioli, “ ein manche in whort ! “ ( un uomo, una parola ). Era un uomo asciutto, alto, con una forte personalità, secondo me , aquisita nei tempi del Duce, era un uomo giusto con se stesso e giusto con gli altri, con una spiccata umanità ed un grande senso della disciplina. Non ho mai pensato, nemmeno per un istante di rimanere tra le mura di un convento e farmi frate, eppure quell’ ambiente, fatto di regole ferree e di una disciplina militare, mi ha subito affascinato e mi è stato subito facile, quasi logico, accettare con entusiasmo tutte le regole e la disciplina della vita monastica, fino a diventare in breve tempo, capo squadra durante le ore di ricreazione e nelle lunghe passeggiate nei vicini boschi ed al torrente Duina. Ho sempre cercato di osservare quel mio ruolo di caposquadra, in modo semplice ed umile, cercando sempre di assolvere le richieste dei miei compagni di classe e di quelli della classe del maestro Calliari, Eravamo ancora dei bambini, dei ragazzini, era anche facile ottenere con poco, con una certa filosofia di pensiero, tutto quello che si voleva, Bisogna anche dire, che tutti quanti eravamo accomunati da una vita di povertà e di indigenza, ora impensabili ed inimmaginabili, per questa ragione, eravamo tutti lì, in mano alla carità cristiana ed all’ umanità dei frati. Nel tempo che sono rimasto con loro, infatti, non ho mai sentito nessuno lamentarsi per il cibo o per altre ragioni, dai frati ho imparato a conoscere cibi nuovi, che non fossero polenta e latte o patate arrostite con le cipolle ed un po’ di latte, i pasti erano abbondanti e completi e da loro, conobbi l’ esistenza della carne, della pasta asciutta, dei risotti e dei dolci come il budino ecc. Anche il riscaldamento era tutta un'altra cosa, c’ erano i termosifoni, allora si chiamavano così i moderni radiatori di calore centralizzati, avevamo il proiettore cinematografico e guardavamo i film di Olio e Stalio, film di guerra, tanto cari al padre Rettore, film di avventura o cartoni animati della Disney. Eravamo due sezioni distaccate della scuola elementare di Campolomaso, con i nostri bravi maestri, solo che a noi era imposto un tempo di studio maggiore, si studiava tutti assieme in un aula comune e c’ era una saggia ed onesta competitività tra le due classi, si faceva a gara a chi aveva i voti migliori o chi faceva le ricerche più approfondite, si sapeva , sempre, riconoscere la supremazia degli avversari ed ammettere la propria inferiorità, insomma,  “ due più due faceva sempre quattro e non cinque, se il Duce lo vuole ! “ 

Il padre Rettore

Si chiamava padre Quirico Mattioli ed era originario della Romagna, quella terra tanto rossa e tanto nera, politicamente, si intende. Era un uomo magro, asciutto, pieno di vita e di fantasia, ma soprattutto, aveva il Duce ne cuore. Era un uomo dalle grandi e prolifiche iniziative, a lui , infatti, si deva l’ ampliamento del convento, con una nuova e moderna ala, che sorgeva ad est del vecchio monastero, ed era in avanzato stato di costruzione nel anno 1962 – 63. consisteva in una moderna sala nel piano semi interrato che aveva funzioni polivalenti, era , infatti, adattabile a palestra, teatro, cinema e sala riunioni. La parte superiore, era adibita a scuola e laboratorio didattico con annessa biblioteca. Venne inaugurata nell’ estate del 1963, con una solenne cerimonia e festa pubblica, alla quale parteciparono le popolazioni del Bleggio e di Fiave’, in quell’ occasione, ebbi modo di ascoltare per la prima volta, il coro Castel campo, diretto da padre Costanzo, un musicista ed insegnante di grande talento musicale. Il padre Rettore, si era premurato di organizzare, in maniera meticolosa ed elegante, la cerimonia di inaugurazione della nuova ala, facendo stampare un libro con la storia del convento di Campolomaso, fin dai primi anni di vita, era stato fondato nel **** ed era passato alla grande storia anche per la nascita, nei tempi delle invasioni Napoleoniche, del grande poeta trentino Giovanni Prati e della costante presenza in luogo della poetessa Ada Negri, che ebbe modo di descriverlo nei suoi versi,  Padre Quirico, era un “ fascista “ convinto, infatti non perdeva mai l’ occasione per narrarci dei fatti che aveva vissuto e, specialmente, di farci ascoltare, dal suo grande registratore a bobine Grundig, le svolazzanti  ed orecchiabili canzoni del regime. Quando, poi, si andava a passeggio nei vicini boschi, e presso il torrente Duina, nelle vicinanze di catel campo, portava sempre con se il suo fucile ad aria compressa, con il quale ci esercitavamo al tiro a segno con un barattolo di latta.  In quei luoghi, nella spianata adiacente il convento, durante l’ occupazione tedesca dopo l’ 8 settembre, fu predisposto un piccolo aeroporto militare tedesco, che naturalmente era preso di mira dai caccia anglo – americani che lo bombardavano e lo mitragliavano quotidianamente, c’ era ancora, a testimonianza dei fatti, una grossa buca provocata dall’ esplosione di una bomba alleata. Un agricoltore del luogo, che aveva un campo di patate vicino all’ insediamento militare tedesco, ci raccontò, in lacrime, che un giorno mentre con sua moglie erano al lavoro nel campo, arrivò velocissimo uno spitfire inglese e si mise a mitragliare dei camion sulla adiacente strada, lui, si buttò a terra in un solco, mentre sua moglie, terrorizzata, scappò verso la strada , venne colpita dalle raffiche del caccia e morì .

Noci e patate

Il Bleggio, allora, era un territorio estremamente povero, con un alto tasso di emigrazione, nei paesini, sparsi sul territorio, dai nomi particolari che sembrava di essere nel new mexico, infatti c’ erano paesi che si chiamavano Bivedo, Larido, Duedo, Gallio, Santa Croce, Poia, erano composti da pochissime case, vecchie e malandate, e la gente del posto, coltivava, principalmente patate, poi c’ erano delle enormi e secolari piante di noce e noi , ragazzini del convento,  nei momenti di libertà dallo studio, si andava ad aiutare la gente del posto a raccogliere le patate e le noci, poi, il proprietario, come riconoscenza, destinava una piccola parte del raccolto ai frati del convento di Campo. Ed ancora ritorna il principio fondante della filosofia francescana, con una mano si riceve e con l’ altra si dà.  Era una gente umile e generosa, quella dei paesini del Bleggio, povera, di quella povertà materiale che però rende la gente cosciente della propria situazione ed aperta ai bisogni del prossimo, specie di chi aveva ancora meno di loro.  Gente saggia, riflessiva , io ero solo un ragazzino, ma ho avuto modo di conoscere ed apprezzare quelle persone, umili, e disponibili a spezzare il loro pane con chi ne aveva bisogno in quel momento, altro che i miei co valligiani nonesi, avidi ed egoisti, attaccati , in modo fobico, al denaro ed alla ricchezza ed insensibili all’ altrui bisogno  e dolore .  Questo stato di cose, mi veniva sempre rimproverato dai miei compagni di collegio e noi nonesi, non eravamo ben visti dagli altri ragazzi.   A Fiave’, c’ era una pescicoltura industriale, a volte ci andavamo in passeggiata e ci fermavamo ad osservare il lavoro di allevamento delle trote, era un territorio che voleva crescere e svilupparsi, ed era sulla via giusta per farlo, infatti, pochi anni più tardi, l’ economia di quei luoghi crebbe, anche favorita dal turismo di massa, che allora era agli albori, ma sarebbe cresciuto in seguito. In quei luoghi, infatti, ci sono le terme di Comano che ora danno il nome pure al comune che prima si chiamava Lomaso ed  oggi si chiama Comano terme. E’ una gente che tiene molto alla loro tradizione  ed alla loro cultura, infatti, quando sono tornato in convento nel 2008, dopo più di  40 anni, nel chiosco austero del convento, era esposta una bella mostra fotografica delle antiche abitazioni del luogo che avevano tutte una struttura architettonica particolare. 

Il Duina

Il Duina è un torrente che scorre a valle del convento di Campo, e va a confluire nel fiume Sarca, quello che alimenta poi il lago di Garda. Da sempre, l’ acqua è stata una grande attrazione per tutti i ragazzi, in ogni parte del mondo, forse, ricordo ancestrale dei nove mesi trascorsi nel liquido amniotico delle madri, ed anche perché l’ acqua è fonte della vita, animale e vegetale ed è, da sempre, un motivo di infiniti giochi e passatempi ed un perenne ristoro dalla calura estiva.

Così era anche per noi, giovani fraticelli, del collegio dei frati, ed appena iniziata la stagione calda, il padre rettore, con la sua inseparabile carabina ad aria compressa, Diana, ci portava a passeggio alla Duina.       Prima della partenza, i frati preparavano degli zaini pieni di panini, la marmellata o la cioccolata erano confezionati a cubetti e  portati a parte in un altro zaino.  Si partiva, cantando delle canzoni scout allegre, qualche volta si cantava anche faccetta nera… così, incolonnati come bravi soldatini, si scendeva al Duina.    Il torrente, scorreva in mezzo ad un bosco di abeti e pini, molto simile al nostri torrenti Pescara o Barnes, nel fondo valle.  Quando si andava alla Duina, era sempre una festa, la fantasia di noi ragazzini, si liberava come un canto e trovava spazio nei giochi d’ acqua più disparati, dal classico bagno nel torrente, alla costruzione di una diga per formare un piccolo laghetto artificiale dove poi fare il bagno e giocare nell’ acqua.      Alla fine della passeggiata, il padre rettore ci lasciava sparare con la carabina verso un bersaglio attaccato ad un abete. A metà serata, si mangiava un abbondante merenda a base di pane marmellata o cioccolata, che i frati sherpa avevano portato con loro e che distribuivano ordinatamente a tutti i fratini.  Alla sera, si faceva ritorno al convento, stanchi da morire, per i giochi e le corse nel bosco, ci si fermava a bere ad ogni fontana che si incontrava, passando nei paesini del Bleggio, alla sera si cenava e poi a nanna, per un lungo sonno ristoratore ed il giorno seguente si riprendeva, con rinnovato slancio, gli studi e la scuola.         Un giorno, mentre si “ esplorava “ la Duina, un gruppetto di miei compagni trovarono, nascosti tra i sassi, un centinaio di proiettili di mitragliatrice contraerea, messi lì da poco da qualcuno che se ne voleva disfare per timore delle leggi molto severe, vigenti in materia di residuati bellici. Il padre rettore informò subito i carabinieri locali i quali vennero e prelevarono i proiettili. Ci spiegarono che erano proiettili incendiari, infatti, avevano la punta di color rosso mattone, come la punta dei fiammiferi da cucina, ci dissero che appena trovato un ostacolo da perforare, come la carlinga di un aereo, subito con l’ attrito si incendiavano appiccando così il fuoco al velivolo. Grande fu per noi l’ emozione di poter toccare con mano la guerra appena conclusa e mi tornarono in mente le lezioni del buon maestro Ernesto Fauri, che ci raccomandava sempre di non toccare e non giocare con i residuati bellici.

Il coro

Padre Costanzo, era il nostro insegnante di musica era una talento della cultura musicale, suonava vari strumenti tra cui l’ organo e il pianoforte. Aveva da poco fondato il coro polifonico maschile Castel Campo che tutt’ ora è attivo e vanta un bel repertorio di musiche popolari e di montagna. In previsione della feste del vicino Natale, con i suoi riti liturgici e la sua atmosfera di festa, per abbellire con il canto le cerimonie religiose, tra i fratini vennero scelte le voci che poi avrebbero formato il coro. Il metodo di selezione era molto semplice, a tutti veniva fatta cantare la scala musicale da un punto basso della tonalità, fino a salire a dove più di arrivava in alto, in case a questo , venivano scelte le voci ed attribuito un loro ruolo all’ interno del coro, bassi, contralti, tenori, soprani. Naturalmente, uno che per natura era stonato, non aveva nessuna possibilità di far parte del coro, le regole erano rigide e non si voleva perdere tempo con delle campane rotte. Ad ogni voce veniva insegnata, in modo autonomo e soprattutto isolato da altre voci, la propria parte musicale, la si doveva imparare bene, senza dubbi o indecisioni, quando dopo una quindicina di giorni tutti sapevano bene la loro parte musicale, ci mettevano insieme ed il coro, come per incanto, era pronto a cantare a quattro voci le melodie natalizie. Alla S. Messa di Natale, la  chiesetta del convento era gremita di gente dei vicini paesi che venivano a messa dei frati, perché era una messa “ diversa “ nell’ atmosfera arcana e sobria del convento, con il suo fascino austero ed il clima di grande semplicità e povertà che si respirava in ogni suo angolo. La gente entrava imbaccuccata dai neri mantelli, da cappotti e giacche che a guardarli ti davano immediatamente il senso della loro appartenenza sociale, c’ erano delle vecchiette che con i loro abiti scuri e lunghi fino alle caviglie e con la veletta ed il fazzoletto sui capelli, sembravano mia nonna.  Allora si era in un periodo “ conciliare “ era infatti in corso il concilio vaticano secondo, che con le sue decisione e scelte doveva ammodernare la Chiesa cattolica ed adeguarla ai tempi che mutavano e che proponevano ed imponevano scelte e soprattutto modi diversi, più moderni e più vicini al popolo e a una società in continua e rapida evoluzione. Credo che allora le messe fossero ancora recitate in latino con il celebrante ancora che dava le spalle al popolo. La S. Messa di Natale era così allietata dai canti del coro a quattro voci dei fratini del collegio del convento dei frati di Campolomaso, alla fine della liturgia del S. Natale, i frati offrivano ai fedeli che vi avevano partecipato, un bicchiere di vino brulè assieme a dei dolci tipici del periodo natalizio.  Direi che era una grande emozione seguire questa liturgia con il bel canto polifonico di un coro di adolescenti, era anche un bel colpo d’ occhio vederci cantare, disposti a semicerchio, tutti vestiti con la tunica da futuri frati e tutti con il libro dei canti in mano, bisogna dire anche, senza falsa modestia, che si cantava in modo che a me pareva addirittura divino… 

I regali di Natale

Più volte, in questo racconto, ho parlato dello spirito dei frati francescani, che credo sia anche una peculiarità di tutti gli ordini monastici della terra, compresi quelli non cristiani,  questi uomini infatti, passano tutto il tempo della loro vita a pregare e lavorare e tutto quello che hanno è il frutto della carità di gente che incrocia volutamente o per la forza del destino, un uomo, con i sandali ai piedi, vestito con un saio stretto da una cordicella a mo’ di cinta e con la parte pensante piena di nodi, quanti sono i voti che hanno pronunciato.  Tutto quello che distribuiscono  a chi ne ha bisogno in quel momento, è frutto del loro lavoro e della carità di molta gente.  Così come i regali che ci vennero donati il giorno di Natale dell’ anno 1963 presso il convento dei frati di Campo… Fu una cerimonia semplice ma molto suggestiva, uno dei più bei ricordi della mia infanzia, fu una sorpresa ben orchestrata , perché nessuno aveva mai fatto menzione dei regali che ci sarebbero stati distribuiti.    Dopo il succulento pranzo di Natale, fatto di tante cose buone e di tante novità culinarie, il padre Rettore ci accompagnò nella grande aula dove si era soliti studiare e lì la grande sorpresa : su ognuno dei banchi dove si studiava, c’ erano tanti regali,  c’ erano materiale didattico, penne, matite, colori, poi ad ognuno era stavo aggiunto un regalo personalizzato, ricordo che il mio era un grande pezzo di stoffa pesante con la quale poi mi vennero fatti dei calzoni per l’ inverno.  Nel pomeriggio, poi, nella camerata adibita a cinema, ci venne proiettato un film di avventura a colori, era il massimo che ci si potesse aspettare.

La befana

Quell’ anno, nella ricorrenza dell’ Epifania, venne nel convento di Campolomaso il vescovo dell’ ordine provinciale dei frati minori, monsignor Recla, e per l’ occasione ci prepararono con una recita che si tenne nella camerata dei fratini, perché la nuova ala era ancora in costruzione e sarebbe stata ultimata per l’ anno venturo. Ricordo che a me venne data la parte di protagonista della breve recita, che era quella del frate che distribuiva i doni ai piccoli fratini addormentati, improvvisandosi nel ruolo della befana con un grande sacco, mentre tutto il silenzio avvolgeva la camerata, distribuivo i regali, commentando il ruolo della befana “ la befana, la dolce immagine… “  Quanto rimpiango quei giorni spensierati o, quando con una folata di vita tutti eravamo felici, quando bastava aver trovato una famigliola di ricci tra le foglie dei grandi castani, per essere felici di poter portare loro del cibo e badare che nessuno potesse far loro del male.  Quando per essere felici bastava avere un pezzo di pane croccante, sottratto alla mensa del refettorio, da poter sgranocchiare in segreto durante le ore di studio o quando ti chiamavano in parlatorio perché era arrivata una visita per te, la mamma, il papà o dei parenti che ti portavano dei regali utili e ti raccontavano le ultime novità del borgo natio quelle che non ti avevano raccontato nell’ ultima lettera da casa…

La morte di J.F. Kennedy

La sera del 22 novembre 1963,  mentre eravamo tutti in fila fuori dalla camerata, in attesa che il padre Rettore ci facesse l’ ultima riflessione quotidiana, arrivò un frate con passo quasi di corsa, si avvicinò al Rettore che ci stava dando le ultime raccomandazioni, lo interruppe e gli parlò un attimo all’ orecchio.  Padre Quirico smise di parlare, respirò profondamente come se volesse prendere forza da Dio guardò il soffitto, mosse le labbra come par mormorare una preghiera e poi con voce rotta da una emozione fortissima, si rivolse a noi e ci informò che era stato ucciso il presidente degli Stati Uniti d’ America John Fitzgerald Kennedy.      Tutti rimanemmo in silenzio, tutti noi, infatti conoscevamo il Presidente in quanto una persona tra le più importanti del mondo, appena uscito dalla crisi militare di Cuba, dove si era sfiorata la terza guerra mondiale, ma soprattutto perché era il primo Presidente USA cattolico.  Subito il padre Rettore, ci fece notare, da fascista ed anticomunista convinto quale era sempre stato, che Kennedy era l’ unico che aveva saputo tenere a bada i “ ROSSI “ della Russia di Kruschiov. Seguì poi una preghiera per il defunto Presidente, poi tutti andammo a letto, ma nessuno di noi riuscì a dormire tranquillo quella notte.  Nonostante fossimo ancora tutti degli adolescenti, in materia di politica estera eravamo tutti ben ferrati e consapevoli degli sviluppi che la storia ci proponeva, eravamo attivi ed interessati a quanto succedeva nel mondo, specialmente in merito ai grandi conflitti tra le due super potenze America e Russia, perché il buon padre Quirico Mattioli ci teneva costantemente informati, aggiornati e documentati, sempre all’ ombra del Duce.   Alcuni giorni dopo il tragico evento, nella chiesa dei frati si svolse una solenne cerimonia funebre in ricordo del defunto Presidente, alla quale partecipammo noi fratini, tutti i padri del convento e molta gente del luogo. Questo è uno dei ricordi più toccanti del periodo che ho trascorso presso il convento dei frati di Campolomaso e che porto ancora dentro il mio cuore  “ fascista “ .Perfino Nikita non riusciva a dormire in quei giorni…

Salgari

A Campolomaso sono ritornato, poi, nell’ estate dell’ anno seguente, quando già frequentavo la classe prima media a Villazzano un sobborgo alle pendici di Trento, dove c’ era il convento dei fratini di S. Francesco e dove erano ubicate le scuole superiori destinate a chi poi avrebbe indossato il saio francescano.    Si tornava a Campo per  rilassarsi e per studiare e ripassare le materie ma soprattutto a me piaceva un mondo leggere ogni tipo di lettura ma in modo particolare Salgari, con le sue avventure esotiche, e la fantasia lavorava a costruire le facce dei personaggi che poi avrei rivisto nella famosa serie televisiva con Kabir Bedi e gli altri protagonisti, Janes de Gomera, Kammamuri, Tremal naik e la bella Lady Marianna della quale mi ero innamorato… Occhi non più del tutto inibiti, occhi che cercavano delle risposte a domande che la vita ti poneva e la ragazzina che fino a ieri aveva giocato con te nei prati e dentro al fienile, in modo innocente, rotolandosi insieme a te nel fieno profumato, ora ti appare diversa, ora certe differenze le puoi notare, sono cresciute e se ti azzardi a toccare il tuo cuore batte più rapido, che ti sembra di impazzire, è una sensazione nuova che provi, è la natura che ti viene incontro e ti insegna che la vita ha bisogno del tuo contributo per perpetuarsi… ed allora il ricordo vola lontano, a quando la curiosità ci aveva indotto a guardare sotto le mutandine di una bambina per capire certe diversità ed ora si riusciva a capire anche la lezione sulla procreazione che con molta semplicità un frate ci aveva insegnato e che l’ anno successivo, quando in collegio vennero gli insegnati esterni, il professor Zucchelli durante le lezioni di scienze naturali ci aveva riproposto .  E’ un gioco che regola il tempo e la vita di tutti, un gioco al quale è impossibile sottrarsi, perché è la vita stessa che ha bisogno di giocare in quel modo per continuare ad esistere.  

Padre Ugo

Era un frate minuto, gracile di costituzione, ma con una fede da gigante, incrollabile.  Ora et labora, ritorna nella descrizione di questo uomo di Dio tutto il messaggio francescano, ma soprattutto, mi ritornano i miei dubbi su una fede che da anni ho perduto e tante volte mi chiedo . – Ma se avesse ragione lui ? - .  Due episodi, voglio narrare, della sua fede, uno mi è stato raccontato ed uno l’ ho vissuto di persona.  Padre Ugo era solito lavorare nei campi e nella vigna del convento, un giorno di primavera, dopo aver potato le vigne i frati facevano grandi mucchi con i residui delle potature per poi bruciarli un po’ per volta. Un giorno Padre Ugo appiccò il fuoco ad uno dei mucchi che iniziò a bruciare, di lì a poco, però, si alzò un forte vento che alimentò e propagò l’ incendio pericolosamente verso il vicino bosco e la montagna.      Il frate provò inutilmente a spegnere le fiamme con un forcone, vista l’ impossibilità di arginare il rogo, si inginocchiò a terra e si mise a pregare, il vento cessò e le fiamme si spensero da sole.  Verso la fine dell’ anno scolastico, si era soliti fare una gita in pullman in qualche località lontana, ci andava però solo quelli indenni dal mal d’ auto, quelli invece che a salire su un atutobus vomitavano, una piccola minoranza, tra i quali anche il sottoscritto, si andava a piedi alla Madonna di Pinè e poi al lago Serraia.  Ci avviammo così di buon mattino, a piedi, verso l’ altopiano di Pinè che dista circa una decina di chilometri.  Ad accompagnare i riformati naturalmente c’ era padre Ugo, con uno zaino di panini e bibite. Percorsi a piedi poche centinaia di metri, sotto il sole e nella strada deserta, ad certo punto ci raggiunse un furgone Volkswagen di quelli adibiti al trasporto del personale di una ditta edile, il conducente si fermò e chiese al frate dove fosse diretto. Padre Ugo disse che stavamo andando a Pinè per una scampagnata, il conducente disse che anche lui era diretto in quel posto aprì il portellone e ci fece salire tutti dietro mentre padre Ugo salì al fianco del guidatore.   Fatte alcune centinaia di metri, dopo lo scambio di saluti, il guidatore si rivolse al frate con tono più serio e deciso e gli disse: -  Senta, padre, io tempo fa ho trovato un portafoglio con dentro un ingente quantità di denaro, non c’ erano documenti di riconoscimento o nessun altra carta che potesse ricondurre al legittimo proprietario. Allora ho pensato di farlo rendere pubblico dal parroco al termine dell’ omelia della messa domenicale, se non che si sono presentati dal parroco due diverse persone che vantavano la proprietà del denaro. Allora ho detto al parroco che avrei dato ai frati il contenuto del portamonete. -  Erano centocinquantamila lire di allora, era l’ anno 1964, capimmo tutti che era una grossa cifra, molti stipendi di un operaio di quel tempo.  Il signore pretese che padre Ugo gli facesse una ricevuta da esibire ad eventuali creditori e poi consegnò il denaro al frate. Arrivati a Pinè, il frate chiese al proprietario di un ristorante vicino al lago, il permesso di sederci su una panchina di sua proprietà per poter mangiare un panino e bere una bibita. L’ albergatore si rifiutò categoricamente di farci sedere sulla panchina, e ci invitò ad entrare nel suo locale e passando vicino alla porta della cucina disse a cuoco di preparare il pranzo anche per noi… ha pagato tutto la fede incrollabile di padre Ugo.

Il ribelle

Faceva ormai capolino nella mia mente, quello spirito ribelle, anticonformista, libero ed un pochino fascista, che mi avrebbe poi accompagnato per tutta la mia vita, determinando, nel bene e nel male, tutte le mie scelte.   L’ aria del convento, con i suoi profumi di incenso e le sue ferree regole, cominciava , per me, ad essere irrespirabile, il profumo della libertà entrava in ogni fessura e mi spingeva verso un mondo esterno ancora tutto da esplorare e da conoscere.  Come il tam tam dei tamburi indiani, si avvicinava sempre più il richiamo della natura che ci ha creati maschio e femmina, e che con un richiamo atavico ti invita a scoprire il fascino nascosto della donna, con tutti i suoi segreti, la sua dolcezza, la sua femminilità. Ti rendi conto solo allora, che il mondo è più grande delle mura di un convento, che, pur avendoti dato molto in sapienza, educazione e regole, ti preclude, però di fatto una vita normale con una compagna femmina, con tutte le sue gioie ed i suoi dolori.  Ho riflettuto molto sul reale valore della vita monastica che è una scelta contro corrente, quasi suicida per certi versi, ma io che ci ho vissuto dentro per alcuni anni, la trovo affascinante pari ad una vita vissuta in maniera convenzionale, è una scelta che è soprattutto dettata da una grande fede e la fede è un dono, come la vita, si può avere come ti viene negata, è un salto nel buio, è un fidarsi ciecamente di un Essere superiore al quale si affidano tutti i nostri desideri ed il nostro pensiero, per Lui si sa vivere e si sa morire e se è fede vera e vissuta è gioia nel vivere e conforto nel morire.  Ero abbastanza grande e consapevole delle scelte che avrebbero poi determinato la mia vita, non sono altresì , mai stato ipocrita da accettare, magari per convenienza, delle scelte che non condividevo. Così l’ anno 1965 lasciai il convento dei frati francescani di Villazzano per riprendere la vita civile , forse più anonima, di un comune studente di terza media alle scuole di Cles.  Dei frati mi era rimasta la grande cultura che mi avevano insegnato nei tre anni di convento, la buona conoscenza della lingua latina che ora mi permette di scrivere in questa maniera ed il ricordo di anni felici e spensierati della mia adolescenza, trascorsi dietro le mura del convento.        Ricordo che al momento della partenza, il rettore padre Marco Vanzetta, disse a quanti lasciavano definitivamente il convento . – meglio un buon uomo fuori, che un mediocre frate in convento . –

Finita l’ avventura con i frati, mi ritrovai rovesciato nel mondo che avevo lasciato da ragazzino e che era tonto cambiato ai miei occhi che erano stati abituati alle quattro mura del convento, inibiti ad ogni forma di vita esterna, compresa la vita sociale e politica. Non mi pareva neppure vero poter godere di tanta libertà e tanto spazio nella società.  Era il 1966 quando frequentavo il terzo anno delle scuole medie all’ istituto Inama di Cles, erano gli anni precedenti i moti studenteschi, se ne poteva già respirare l’ odore acre dei lacrimogeni della polizia.  Era anche l’ anno della grande alluvione in Italia che aveva messo in ginocchio l’ economia ed il patrimonio artistico.  Si era vista , però , anche la grande solidarietà di molti popoli verso il nostro paese, in modo speciale ed encomiabile la presenza sul territorio di numerosi studenti stranieri che accorsero in massa a prestare il loro tempo ed il loro lavoro al salvataggio ed al restauro delle opere d’ arte danneggiate dall’ alluvione. Una simile convergenza di intenti non si sarebbe più vista dopo di allora, ci avrebbe poi pensato il ’68 a demolire sistematicamente, in modo capillare e scientifico, tutto quel mondo fatto di tanta ingenuità e tanto romanticismo ma capace di grandi atti di solidarietà nella giustizia, per dare il posto ad un mondo di egoismo, di trasgressione, come la droga, il libero amore ecc. , che ha poi portato lentamente al degrado sociale ed alla corruzione galoppante che si perpetua anche nel nostro tempo attuale.  Fu’ anche il periodo della guerra dei sei giorni tra lo stato di Israele ed il mondo arabo, che ho vissuto con passione, stando dalla parte israeliana.   Per me, frequentare la terza media a Cles non fu altro che un ripasso generale di tutte le materie che avevo studiato in collegio con l handicap della matematica, ma alla fine fui promosso con buoni voti, avrei potuto fare di più, ma il mio spirito ribelle ebbe il sopravvento…Finiti gli esami, dopo aver fatto tanti aeroplanini con le pagine del libro di matematica, potevo dare libero sfogo a tutto il mio spirito ribelle ed a tutte le forme di trasgressione che mi erano state impedite in convento, le prime sigarette vere, le prime puntate al bar a giocare a carte e bere un bicchiere di spuma, le prime occhiate maliziose al culo di qualche ragazza…

Il mio primo lavoro

 

Finiti gli studi a 14 anni, era giunto il momento di contribuire al buon andamento della famiglia cercando di non essere una bocca parassita a carico di mio padre che aveva urgente bisogno di denaro per tentare di uscire dall’ endemica povertà che regnava sovrana da anni in casa Agosti.

Decisi allora di chiedere lavoro presso una segheria tra le tante in loco, quella del signor Orestino Bonani, che è situata appena dopo il ponte del Toflin sul torrente Barnes. Si iniziava alle 7 del mattino si faceva una pausa di un ora a mezzogiorno per il pranzo e poi si proseguiva fino alle 6 o a volte anche le 7 del pomeriggio. Il pranzo me lo preparava mia madre dentro una thermos e lo consumavo in estate all’ aperto vicino al torrente seduto su un grosso sasso piatto, mentre d’ inverno stavo all’ interno del laboratorio della segheria.

Ero giovane ed avevo tanta fame, tutto era così buono e saporito non avanzava mai niente.

Il mio lavoro consisteva nel preparare le varie componenti  che servivano per costruire delle cassette per la frutta, di vari tipi e misure.

In un primo tempo il lavoro si faceva con il martello ed i chiodi, quante martellate sulle dita mi sono dato prima di imparare bene a colpire i chiodi !

Passato un periodo di tempo, il mio datore di lavoro mi insegnò ad usare le macchine che inchiodavano con dei grossi punti metallici le varie parti delle cassette. Sembrava di essere in guerra al fronte per via del rumore secco e cadenzato delle varie macchine, ta tan, ta tan.

La paga era una miseria di lire, tutto rigorosamente in nero, mi fanno ridere le attuali leggi sullo sfruttamento minorile e lo stato di taluni studenti universitari fuori corso che hanno trenta o più anni. Se l’ Italia ha avuto il grande boom economico degli anni sessanta, è stato anche per merito di tanto lavoro e privazioni di molti ragazzini ancora minorenni che hanno lavorato, sempre in nero, sempre sfruttati con delle condizioni di lavoro da schiavi, per costruire un economia forte ed un Paese prospero ed importante e ci eravamo riusciti pure fino a quando è sopraggiunta la disonestà e la corruzione di un sistema di amministratori sempre più avidi di denaro a costo zero, ed è iniziato un periodo di ruberie e di tangenti impressionante che non trova eguali in tutto il mondo per quantità di denaro rubato e numero di amministratori coinvolti e che dura a tutt’ oggi. In questo modo il paese si è indebitato per circa 2000 miliardi di euro, una cifra da capogiro che non riusciamo più a restituire.