AIl profumo del ricordo

 

di

 

Jonathan Agosti

 

 

Ricordo ancora i baci che la mia “nonna Elena” mi dava sulla fronte e il suo sorriso quasi nascosto tra quelle rughe che sapevo essere il frutto di tantissimo lavoro e di tantissima fatica. Era una delle classiche persone alle quali è impossibile non voler bene e io l'amavo tantissimo, ma solo quando venne a mancare nel 2007, dopo una lunga malattia, capii quanto fosse fondamentale la sua figura nella mia vita e quanto avesse fatto per me.

Ci sono giornate in cui la malinconia mi assale e le paure che cerco sempre di celare con il sorriso si presentano più grandi che mai. In momenti come questi, in cui tutto ciò che mi circonda sembra non capirmi, in cui mi sento un'anima controcorrente incapace di urlare al mondo tutto quello che ha dentro, mia nonna è l'unica persona che vorrei veramente al mio fianco, l'unica che penso sarebbe in grado di comprendermi e di consolarmi, anche con i suoi proverbi, sempre pronti in qualsiasi situazione.

Alcune volte mi sento in gabbia, circondato da queste montagne che sembrano imprigionare i miei sogni spezzandomi le ali, quelle ali che diceva sempre di spiegare per raggiungere la felicità che ognuno di noi si merita; ed è proprio per allontanarmi dai mille pensieri che affollano la mia testa che saltuariamente decido di uscire di casa e di ripercorrere i sentieri di campagna che facevo con lei da bambino.

Mi sembra ancora di sentire il calore della sua mano a contatto con la mia e la sua voce narrare tutti i dettagli della sua infanzia e della sua vita, che ho sempre trovato affascinanti.

Scanna di Livo, ecco il nome del paese in cui abito e dal quale spero di andare via, un giorno. Camminando vedo molte cose cambiate da circa dieci anni fa... Chissà cosa direbbe mia nonna nel vedere ora queste enormi distese di meleti che mi circondano e che sembrano tanto infinite da destabilizzarmi.

Quando facevamo le nostre passeggiate ci fermavamo sempre su una panchina. Decido, così, di raggiungere il luogo in cui si trovava e si trova tuttora, mi siedo e inizio a ricordare.

Qui mi raccontava tutto quello che le tornava in mente, improvvisandosi quasi attrice per rendere più vivace la narrazione. Ho imparato molto grazie a lei sulla dura vita contadina, da come si allevavano le mucche, si tagliava il grano, si faceva essiccare il fieno nelle soffitte delle case, a come si seminavano e raccoglievano le patate e si curavano i bachi da seta.

Parlava spesso degli animali che aveva nella stalla e delle mucche che doveva portare alle malghe, obbligandola così a fare circa due giorni di viaggio a piedi. Mi spiegava come si lavorava la farina e come si allevavano le galline, che mio padre da piccolo si divertiva a rincorrere.

A me piaceva cancellare ogni particolare che vedevo attorno, per sostituirlo con i protagonisti delle sue narrazioni, cercando di immedesimarmi in essi.

Così, all'improvviso, tutte le piante di mele diventavano campi di pere o di grano, di patate, di orzo e di segala e le strade asfaltate si trasformavano in piccoli e diroccati sentieri bianchi di ghiaia.

Le case dei paesi, da villette, diventavano umili e rustiche dimore di contadini, con il gabinetto “a caduta” e con la stufa a ole, senza tutti questi strumenti tecnologici che oggi sono parte integrante della nostra quotidianità.

Immaginavo mia nonna china con uno dei tantissimi foulard colorati in testa e gli abiti lunghi indaffarata nel tagliare e raccogliere le patate col pancione, in dolce attesa prima di mio zio Bruno e poi di mio padre Paolo. Fantasticavo di vedere mio nonno intento a fare la legna a mano e, una volta finita, vedevo la sua fierezza nel portarla a casa con il cavallo di un amico di famiglia.

Oppure immaginavo mio padre giocare con le sue biglie di coccio o di ceramica e, divenuto grande, potare le vigne spioventi sul lago di Santa Giustina.

Non sentivo più l'odore dei molteplici veleni che i contadini oggigiorno sono soliti usare per proteggere i meleti, ma quello del letame, o meglio, il suo profumo, come lo chiamava lei.

Intorno a me non passavano più i trattori con bilico e atomizzatore, ma carri con ruote in legno cerchiate di ferro e trainati dalle mucche. Le poche macchine che raggiungono tutt'oggi i campi si sostituivano a gruppi di contadini a piedi che speravano nella pioggia per irrigare i loro campi (non c'erano, infatti, le girandole), mentre le donne si raccontavano delle marachelle dei propri figli o della messa del giorno prima, mentre lavavano i capi nella fontana del paese.

I racconti più belli, però, erano quelli legati all'inverno e all'arrivo della neve. Mi narrava che da piccola partiva con i suoi amici del cuore dal paese di Preghena con la slitta sulla strada battuta, per poi attraversare Livo, Varollo ed arrivare alla fine di Scanna. Non contenti, risalivano tutti a Preghena e riscendevano.

Quando adesso vado a fare alcuni giri con gli amici nel bosco o nei prati e vedo dell'immondizia a terra, rammento l'importanza che dava alla pulizia e l'attenzione con la quale osservava il bosco, “un dono di Dio e di Madre Natura, che obbliga ognuno di noi a rispettarla”.

Nel citare questi fatti, riuscivo a leggere nei suoi occhi tanta felicità, velata da un leggero rimpianto per quei tempi passati.

Mi pareva sempre di vivere una vita in un altro mondo grazie ai suoi racconti, anche perché curava molto le sue storie e cercava di darmi quanti più dettagli le tornassero alla mente, accompagnandoli a date ben precise. Le piaceva sempre narrare tutto quello che sapeva, ci teneva molto alla cultura di noi nipoti. Mi diceva sempre: “Se prima di addormentarti puoi dire – Oggi ho imparato una cosa – caro Jonathan, potrai affermare di aver vissuto una giornata onorevole”.

Le cose che sapeva non le aveva imparate dai libri o da studi scolastici. Aveva frequentato solamente le elementari, ma era bravissima a far di conto, forse meglio di molti ragionieri d'oggi. Tutto il resto, dal ricamare le bambole di pezza con le quali far giocare i figli, al fare a maglia i calzettoni per l'inverno, al pulire le stalle e le mucche sempre con fierezza e orgoglio, lo imparò dalla vita.

Quella dura vita con la quale dovette sempre fare a pugni e che la fece soffrire a lungo. Perse, infatti, la madre da piccola, un fratello in guerra in Albania ed un altro venne imprigionato per molto tempo.

Anche quando trovò l'amore conoscendo mio nonno Arturo, dovette lottare a lungo contro la malattia che lo colpì durante la guerra in Africa e che lo costrinse a stare per gli otto mesi che precedettero la sua morte, in ospedale.

La malattia di tuo nonno, il mio Grande Uomo, mi fece passare dei momenti in cui temevo di aver toccato il fondo. Poi guardavo i sorrisi di tuo padre e di tuo zio, rivedevo in loro il nonno e ritrovavo la serenità”.

Quando dalla panchina riprendevamo le nostre passeggiate, molte volte incontravamo delle sue “amiche di avventura”, come le definiva lei stessa, e con loro si fermava a parlare di “ 'sti ani1 ”, ricordando i sentimenti provati da bambine: dalla paura per i bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale, al ricordo dell'occupazione delle loro case da parte dei tedeschi in ritirata e della gioia alla fine della guerra accompagnata alla speranza per la ripresa, seppur molto lenta, della vita normale.

Quando ero piccolo, si iniziava già a parlare di “rivoluzione tecnologica” con i primi computer etc.

Mia nonna non amava tutto ciò, diceva di esser troppo legata al profumo delle lettere e al contatto con la gente. Ogni volta che vedeva qualche bimbo con un game boy, rimaneva senza parole.

Aveva nostalgia verso quei periodi in cui tutte le famiglie, di ritorno dal lavoro nei campi, si incontravano a parlare di qualsiasi cosa: a fare il cosiddetto “filò”. Ognuno aveva la propria panca davanti a casa e le persone, passeggiando, si fermavano a discutere dei figli, del raccolto, di vari pettegolezzi... I bambini, invece, stavano a sentire i più anziani del paese narrare leggende e storie.

Arrivavamo quasi sempre fino a “Port”, un posto tra i meleti ed il bosco, dove c'era un enorme prato d'erba sul quale stendevamo una coperta rossa e verde, che ho ancora nel mio armadio. Una volta sistemati a mo' di picnic, dopo la rigorosa merenda con pane e Nutella, arrivava il momento della storia.

Apposta per me, che ero il suo ultimo nipote, il “picena”, come mi chiamava, aveva pensato una fiaba che sin dal primo ascolto divenne la mia preferita. Le era venuta in mente osservando il mese di luglio del magnifico ciclo di Torre Aquila, emblema dello stile gotico internazionale, presente nel Castello del Buon Consiglio di Trento, che aveva visitato durante una Gita con il Gruppo Anziani.

La storia narrava...

“ C'era una volta, tanti anni fa, un povero padre fabbro che, rimasto vedovo da poco, doveva crescere nella sua umile casetta dal tetto di paglia sei figli: tre maschi e tre femmine. Tutti dovevano lavorare intensamente i campi, che erano la loro unica fonte di sostentamento. Nessuno di loro, però, era triste o scoraggiato: sopra il loro paesino e nel loro cuore c'era il sole, indiscusso simbolo di speranza e calore.

Questa serenità durò, tuttavia, per poco: i fratelli furono costretti ad andare in guerra, mentre due delle sorelle presero servizio a Milano. La più piccola, Elena, dovette stare a casa col padre ad aiutarlo. Non fu per lei un bel periodo. Voleva scappare dal paesino in cui viveva, andare dalle sorelle in quella città che immaginava stupenda. Non perse, comunque, la speranza di una vita migliore, di poter vivere un giorno come i nobili del castello vicino a casa, di trovare l'uomo della sua vita e di ricevere da questo un “falco”, simbolo di generosità e di amore eterno.

Elena era profondamente religiosa ed andava molte volte in chiesa per pregare. Fu proprio durante una messa che, voltato lo sguardo, vide lui... Bello, alto, con i capelli neri. Si chiamava Arturo, un giovine contadino con la passione per la pesca e per la caccia.

Tra i due fu amore a prima vista, un colpo di fulmine vero e proprio. Desideravano poter gridare al mondo il loro amore, salire sul Monte Pin e urlarlo a squarciagola.

Entrambi, però, avevano paura del parere dei loro parenti e non sapevano come rivelare quel sentimento. Non era semplice farlo, le preoccupazioni di entrambe le famiglie erano altre, vista la guerra alle porte.

Decisero così di incontrarsi per discutere sul da fare. Elena non voleva provocare un ulteriore dispiacere al padre, scosso dalla recente notizia del figlio morto in Albania ed allora lasciò Arturo. Nel momento in cui stava uscendo dalla chiesa, il loro punto di incontro, comparve magicamente una fata: la “fata Amorina”.

I due rimasero sbigottiti alla sua apparizione, ma questa li fece calmare e diede loro la possibilità di vedersi in una casetta in mezzo al bosco, per discutere meglio sul loro amore.

Elena era titubante. Nonostante il suo fortissimo sentimento verso Arturo, si sentiva molto vulnerabile e scossa.

Le capacità retoriche della fata riuscirono comunque a convincerla; i due tornarono a casa ed attesero l'ottavo scocco del campanile della chiesa di Scanna.

Elena, in orario, uscì furtivamente di casa, onde evitare di esser scoperta dal padre, e raggiunse la casetta dove avrebbe trovato Arturo..., ma lui quella sera non si presentò.

Conoscendo bene l'innamorato, sapeva che non si sarebbe mai mancato all'appuntamento. Iniziò, quindi, a cercalo disperata, capendo di non poter vivere senza di lui, di amarlo alla follia.

Era ignara del fatto che Arturo fosse stato rapito dalla maga, la quale lo imprigionò in un piccolo castello rosso sopra un monte. L'amore verso la giovine, la sua forza, il suo coraggio e il desiderio di riabbracciare l'amata permisero al contadino di superare ogni tranello ed ogni prova escogitate dalla maga e riuscì a scappare.

Il ragazzo vagò tutta la notte per raggiungere Elena, mentre nel paesino si erano già mobilitate diverse famiglie per cercarlo.

Si diresse immediatamente verso casa della ragazza, portando con sé un falco che aveva acquistato da un falconiere incontrato nel tragitto. Arturo arrivò da Elena, che nel vederlo sostituì subito le lacrime di sconforto con quelle di gioia. I due si baciarono e si abbracciarono amorevolmente davanti agli occhi delle due famiglie, accorse a vedere quanto stesse succedendo. Fu proprio grazie a questo che entrambe capirono quanto fosse bello e puro l'amore dei due e quanto fosse importante rispettarlo.

In quel mentre apparve la fata Amorina e disse: “Non era assolutamente mia intenzione farvi penare, ma questo è stato l'unico modo per mettere alla prova il vostro amore e per capire quanto l'uno sarebbe disposto a fare per l'altro. Per scusarmi, dono a te Elena questo abito bianco e questa ghirlanda di fiori e a te Arturo questo bel vestito rosso e nero. Tali doni, assieme al falco, faranno di vuoi dei veri e propri nobili. Non nobili per i denari, possedimenti o poteri politici, ma per i vostri valori, per la forza del vostro coraggio e del vostro amore”.

La fata scomparve improvvisamente, Arturo prese il falco, simbolo di generosità e amore, e lo donò a Elena, ancora incredula dell'accaduto.

La luce della luna si sostituì al calore del sole; i due pochi giorni dopo si sposarono.... e vissero per sempre felici e contenti.

Amavo alla follia questa fiaba. Amavo mia nonna che, nel raccontarla, si divertiva a trasformarsi nella “fata Amorina” prendendo ramoscelli e fiori. Riusciva sempre a farti tornare il buon umore, a colorare, come una leggiadra pittrice, le tue giornate in bianco e nero.

Solo pochi anni dopo capii che c'era del vero in quella vicenda; che i nomi dei protagonisti non erano solamente quelli dei miei nonni, ma che anche la loro storia era per molti aspetti analoga: le famiglie, i fratelli e le sorelle distanti, il padre vedovo.

Eccomi qua, con il ricordo di tutti questi fatti che mi hanno condotto dalla panchina al “prato delle storie” e ora non mi resta che tornare a casa.

Camminando scorgo tantissimi fiori, tra primule e denti di leone; subito mi sovviene la frase che la mia nonna ripeteva sempre: “Quando non ci sarà più la nonna, Jonathan, perché sarà andata a trovare il nonno, per ricordarti di lei ti basterà annusare dei Non ti scordar di me, chiudere gli occhi e rammentare la cosa più importante: che sarà sempre ne tuo cuore”.

Inizio, così, a cercar con lo sguardo il tipo di fiori del quale mi parlava. Li vedo, ne prendo alcuni e li annuso.

Vedete? Questo è IL PROFUMO DEL RICORDO.

 

Jonathan Agosti

 

 

 

Mia nonna Elena con mio padre Paolo e mio zio Bruno.

 

 

 

 

 

 

Mia nonna e mio nonno Arturo nel giorno del loro matrimonio.

 

Il lavoro nei campi.

 

Io e mia nonna.

1 “ 'sti ani ”: gli anni passati, in dialetto noneso.